“Il giardino reciso / The severed garden”
In mostra alla “galleria metroquadro” di Torino
Fino al 12 novembre
Se si dovesse accompagnare la personale di Gianluca Capozzi – allestita alla torinese “metroquadro” di Marco Sassone, fino al 12 novembre – con una specifica colonna sonora capace di interpretare ad hoc le immaginifiche realtà narrate e poste in parete dall’artista avellinese, penso si potrebbe scegliere qualche pagina (fra le più famose, misteriche e mistiche e sensuali) del “rock psichedelico” di Jim Morrison, “profeta della libertà” per antonomasia, fra le figure “di maggior potere seduttivo” nella storia della musica e una delle massime icone, nel mondo dello spettacolo, dell’inquietudine giovanile. Perché questa mia affermazione? Per due ragioni.

La prima è che lo stesso Capozzi ci porta su questa strada, fin da subito e volutamente (ritengo) attraverso il titolo della stessa rassegna, quel “The severed garden” letteralmente “rubato” al titolo di una tarda poesia del cantautore e “poeta maledetto” di Melbourne, suo “addio annunciato” a una vita quotidianamente e brutalmente sfidata e che tristemente si spegnerà il 3 luglio del 1971 a Parigi, quando Jim aveva solo 27 anni. “Sai quanto pallida e sfrenatamente eccitante – scriveva Jim Morrison – viene la morte a una strana ora / inattesa, imprevista / come uno spaventoso ospite più che amichevole che ti / sei portato a letto”: parole dure, profetiche. Fortemente visionarie.

Scritte in una sorta di nirvana psichedelico in cui s’agitano forme, memorie, pensieri, squarci di vita srotolati in una discesa senza fine e senz’ombre di paura. Un intreccio di emozioni, parvenze tattili o impalpabili apparentemente fra loro inconciliabili, che abitano anche i lavori di Capozzi. E questa è allora la seconda ragione. Anche se indubbiamente s’ha da credere ad Andris Brinkmanis (critico d’arte di origine lettone) curatore della mostra, quando asserisce che “se per Morrison il giardino con i fiori recisi era quello simile a un cimitero, per Capozzi forse significa esattamente l’opposto, poiché resta pregno di una possibile rifioritura. Anche se attualmente reciso seguendo i canoni estetici, sociali e politici dominanti, questo Giardino può rifiorire selvaggiamente, appena lasciato intatto o incondizionato per un certo periodo di tempo”.

Sono d’accordo. Ma, sia chiaro, non è facile entrare e appropriarsi degli stranissimi universi dell’artista di Avellino. Puoi trovarci di tutto. Girotondi di figure libere e in pieno volo circondate – in una sorta di decomposizione del reale – da “coriandoli” o informi pianeti di colore, stanze (quasi sempre la stessa) dove al soffitto o appese a testa in giù sbucano sagome figurali – fantasmi, memorie, un lontano passato? – entrate a curiosare chissà chi chissà da dove, forse la giovane “addivanata” con il telefono alla mano sinistra e la sigaretta alla destra o ancora, in un sussulto di piena astrazione, girandole di colore, gialli, bianchi, verdi o turchesi o grigi, come frammenti meteoritici inarrestabili nel loro confuso orbitare. “L’arte – afferma lo stesso Capozzi – è la possibilità di rendere visibile agli occhi tutto quello che non è visibile”. Affermazione che uno come lui può tranquillamente permettersi di fare, senza destare sospetti. Dietro a queste sue personalissime opere, ci sta infatti un mestiere indubitabile. Inizialmente artista iper-iper-realista, Capozzi è sempre, ancora oggi, grande maestro di segno e colore. I colori lo esaltano, diventano grumo e materia capace di dare corpo ed espressionistico spessore al racconto. Tanto più a un racconto di straordinaria spaesante surreale e onirica visionarietà. E allora puoi permettergli di tutto. “Luce e colore– dice –sono l’anima dell’arte e della vita”. Sono strumenti di pura magia nelle mani, negli occhi e nel cuore di un artista che, negli ultimi anni, è anche particolarmente attratto – ricorda ancora il curatore della mostra, Brinkmanis – da temi e teorie di singolare impronta filosofica: dalla psichedelia, al pensiero magico sudamericano e a quello orientale. “Lo sgretolarsi della percezione del reale, che vediamo in alcune opere esposte – afferma Brinkmanis – deriva quindi non soltanto dalle sue riflessioni teoriche, ma anche da stati di coscienza espansa attraverso profonda meditazione e altre pratiche, seguendo le quali è possibile accedere a più sottili piani della realtà, per vedere come la nostra vita quotidiana in fondo non è altro che una sorta di teatro d’ombre cinesi”.
Gianni Milani
“Il giardino reciso / The severed garden”
Galleria “metro quadro”, corso San Maurizio 73/F, Torino; tel. 328/4820897 o www.metroquadroarte.com
Fino al 12 novembre
Orari: dal giov. al sab. ore 16/19
Nelle foto:
– “Sky”, acrilici su lino, 2021
– “Interior”, acrilici su lino, 2021
– “Untitled”, acrily on canvas, 2021
– “Mushroom”
Ad aprire il percorso é espositivo un imponente elefante bianco compostamente seduto davanti a un giovane monaco in preghiera con gli occhi fissi su un libro aperto, tenuto fra le mani. E’ l’“Omaggio a Colbert”, in polistirolo e resina, realizzato dallo scultore bresciano Stefano Bombardieri, al quale si deve l’onore e l’onere di fare da apripista – con un’opera simbolo di buon augurio e capacità di rimuovere eventuali ostacoli – alla rassegna di stupefacente godibilità sotto l’aspetto estetico, ma anche sotto quello di creativa e pervasiva (oltre ogni limite) narrazione, ospitata con il titolo di “Animali a corte” nei “Musei Reali” di Torino, con la curatela di Stefania Dassì e Carla Testore, fino al prossimo 16 ottobre. Venticinque le installazioni presentate a firma di sedici artisti italiani, in parte torinesi, sapientemente allocate fra il “Palazzo” e i “Giardini Reali”, la “Galleria Sabauda” e l’“Armeria”. Inserita all’interno del più ampio progetto “Vite sulla Terra”, iniziato a dicembre 2021 con l’esposizione “Animali dalla A alla Z. Una mostra dedicata ai bambini”, l’intento è quello di portare l’attenzione del pubblico di ogni età sulle molteplici forme di vita che abitano il Pianeta. E in particolare sugli animali. Il tutto a briglia sciolte. Con piena libertà di volo concessa ad abilità tecniche e a sfoghi d’immaginazione creativa da parte di artisti (di alto e altissimo livello) che, in tal senso, hanno sempre fatto ruotare i congegni e le più singolari “trovate” del loro lavoro. “La mostra intende premiare – spiega Enrica Pagella, direttrice dei “Musei Reali” – la creatività degli artisti che si sono formati e hanno iniziato la propria carriera in Italia, per arrivare fino alla fama internazionale, dando loro l’opportunità di mostrare il proprio lavoro in un contesto di prestigio e a una platea vasta e variegata, per avvicinare nuove fasce di pubblico all’ambito della creatività contemporanea, rimasta molto isolata negli ultimi due anni di pandemia”. Attenzione, dunque. Superato l’innocuo ostacolo del grande elefante bianco (già presentato da Bombardieri alla 52^ Biennale di Venezia) il percorso, una sorta di plastico bizzarro divertissement, vi proporrà, nella “Sala dei Corazzieri”, la scenetta degli “Struzzi” che ballano fra loro. A grandezza naturale e realizzati dal saluzzese Nicola Bolla, nientepopodimenoche con carte da gioco, cartapesta e metallo.
Intendasi ciò che si vuole. Il gioco è totalmente libero. Siete stanchi? Niente di meglio della “Panchina Alveare” in bronzo della romana Jessica Carroll, collocata nel “Boschetto del Giardino del Duca”. Nessuna paura. Le api di Jessica non pungono. A completare il tour per questo strano “zoo silenzioso e statico”, il varano di Michele Guaschino, bestiaccia che simbolicamente dilania “La verità che esce dal suo pozzo” quadro del francese fervente anti-impressionista Jean-Léon Gérome (1896), e il “Passo delle balene”” di Paolo Albertelli e Marigrazia Abbaldo, insieme ai “Bachi di Setola”di Pino Pascali e alle “ombre” della volpe e della lepre di Fabrizio Cornelli, accompagnate alla “Kimera” del torinese Diego Dutto e al “Cavalluccio marino” di Nazareno Biondo. Vedere per credere!
Ad Antonio Barbato, Pio Carlo Barola e Gianpaolo Cavalli legati da un lungo percorso contrassegnato da sincera amicizia e solidale condivisione di intenti, iniziato negli anni 80 con la creazione del “Gruppo Arte Casale”, si è aggiunta Roberta Omodei Zorini, poliedrica pittrice, scultrice, disegnatrice di gioielli che si avvale di suggestivi rimandi al Liberty, al Surrealismo e alla Pop Art attraverso composizione in resina polimerica e plexigas.
Antonio Barbato con le sue essenziali e raffinatissime scritture figurate, frutto di una libera appropriazione di moduli segnici, sollecitazioni alchemiche visionarie e simboli primordiali di estrema purezza, annulla la distinzione tra figurativo e astrazione in un percorso sottilmente intellettuale da cui traspare il prestigioso trascorso di paleografo e archivista.
Le opere di Pio Carlo Barola, instancabile organizzatore della biennale internazionale “Grafica ed ex libris” insieme a Cavalli e Barbato, sono di forte impatto visivo grazie al prorompente colorismo e alle pennellate svettanti come lingue infuocate che danno forma ad un gioco tra il serio e l’ironico dove si intrecciano allegorie di facile comprensione e simbolismi più oscuri ed enigmatici.
Sabato 15 ottobre alle ore 16,00 sarà inaugurata nelle prestigiose sale di Palazzo Falletti di Barolo, in Via Corte d’Appello 20/C, la mostra personale di
Rabarama, alias Paola Epifani, nasce a Roma nel 1969 e lavora a Padova. È figlia d’arte perché il padre è pittore e scultore e la madre ceramista e lei, fin da piccola, ha mostrato un naturale talento per la scultura. La sua formazione è avvenuta presso la Scuola d’Arte di Treviso e, in seguito, l’Accademia di Belle Arti di Venezia.
La Cina è stata da lei visitata più volte e rappresenta un Paese in cui tradizioni, paesaggi e contraddizioni le sono rimaste impresse nel cuore e nella mente.
tecnica che, nel tempo, si è acuita. In seguito li priva della profondità dello sguardo che rappresenta il primo strumento di introspezione, coprendolo con oggetti in genere in bilico tra iconografia pop, straniamento surreale e un’ironia tautologia che è tutta riferita all’atto del vedere. Ne emergono animo, psiche e tensione emotiva, dettate dalle piccole alterazioni dell’espressione, quali labbra e solchi che corrugano la pelle.



Recita, da sempre, il claim: la Fiera “dove l’arte è tutta contemporanea”, sia essa appartenente al passato più passato, sia essa immersa nelle sperimentali bizzarrie del contemporaneo più contemporaneo. Manifestazione che lega cultura e mercato, è stata presentata nei giorni scorsi la X edizione di “Flashback Art Fair”. Un decimo compleanno festeggiato alla grande, con l’apertura (dopo le precedenti ospitate al “Pala Alpitour” e alla “Caserma” di via Asti) della nuova sede in corso Giovanni Lanza 75 (Borgo Crimea) a Torino. In quella che nell’Ottocento fu la villa del noto banchiere Luigi Marsaglia, utilizzata, in seguito ad un consistente ampliamento, come orfanotrofio per essere poi occupata dagli uffici della Provincia, e che, finalmente, dal 3 al 6 novembre prossimi, accoglierà l’attesa “Fiera d’Arte” ideata da Ginevra Pucci e Stefania Poddighe: location ideale – “Flashback Habitat”– grande hub culturale, aperto tutto l’anno (e questo conta!), rinato grazie allo strumento urbanistico dell’uso temporaneo deliberato dal Comune di Torino e all’accordo dell’“Associazione Flashback” con il “Gruppo Cassa Deposito e Prestiti” cui appartengono i 20mila metri quadri dell’area. Dieci anni e un titolo ch’è tutto un programma: “he.art”, con l’immagine guida realizzata da Alessandro Bulgini, direttore artistico della Fiera, e termine che nasce dall’elaborazione di “heart/cuore” e che contiene magicamente al suo interno la parola “arte”. Arte, dunque, come “cuore pulsante”. Che ben “rappresenta – sottolineano i responsabili – la complessità del ‘mondo Flashback’ che individua proprio nell’arte il motore del cambiamento, ponendo l’accento anche sulla necessità di ripensare la relazione centri/periferie”. Una trentina abbondante gli espositori (gallerie fra le più significative sul piano internazionale), tutti selezionati sulla base di un impegno
comune nella ricerca e volontà di riscoprire tecniche, opere, artisti e provenienze sempre attuali. Nove quelli torinesi. Protagoniste assolute saranno le opere, che vanno a coprire circa duemila anni di storia dell’arte. Opere che pulsano e navigano tra sacro e profano: dalla luminosa “Fanciulchiara” di Giacomo Balla, ritratto della figlia Elica, presentata da “Aleandri Arte Moderna” di Roma alla cinquecentesca “Predella” (raffigurante “L’Adorazione del Bambino”, “Adorazione dei Magi” e “Fuga in Egitto”) di Bernardino Lanino (1523 – 1583) di “Flavio Pozzallo” di Oulx Torino); dal “Senza Titolo” ( “Il sogno” ) del 1950 di Carol Rama, presentata dalla “Galleria Del Ponte” di Torino, “dove l’artista è ancora giovane eppure già matura, morbosa e anomala”, fino all’emblematico “Habitat” di Stefano Di Stasio (“Galleria Alessandro Bagnai”, Foiano della Chiana – Arezzo), fra i protagonisti indiscussi del ritorno alla pittura d’immagine che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni del secolo scorso. E l’iter prosegue senza soluzione di continuità. E di forti emozioni. Sotto l’intesa (principio di base, sempre) che “l’arte è tutta contemporanea”. Interessante è anche ricordare che per il suo decennale, “Flashback Art Fair” ha in agenda (con il titolo di “Flashback exhibition”) un’articolata proposta di mostre, video, talk e laboratori didattici. Tre, soprattutto, le mostre da segnalare, all’insegna dell’internazionalità. La prima, “Opera viva Barriera di Milano, il Manifesto”, progetto ideato da Alessandro Bulgini, raccoglie le immagini di sette artisti islandesi selezionati dal curatore Jón Gnarr. La seconda, “Cuba introspettiva”, è un progetto espositivo ideato e curato da Giacomo Zaza con venti artisti contemporanei, attivi dalla metà degli anni Settanta all’ultimo ventennio, protagonisti delle più recenti ricerche “intermediali” dentro e fuori dell’isola. La terza, con la curatela di Michela Casavola, vede il coinvolgimento dell’ONG indipendente “WeWorld”, impegnata a garantire i diritti di donne e bambini in 27 Paesi del mondo, e raccoglie, in un percorso immersivo, le fotografie di Davide Bertuccio e Camilla Milani realizzate in Benin e Mozambico, con le immagini di un’umanità ritratta nelle sue estreme condizioni di precarietà, in luoghi spesso soggiogati dagli inarrestabili disastri del terrifico cambiamento climatico.