ARTE

“Dove le liane s’intrecciano”, al “PAV” di Torino

La natura per raccontare … nella mostra personale di Binta Diaw 

Fino all’8 marzo 2026

Le liane. Il riferimento alle piante rampicanti, caratteristiche in particolare delle regioni tropicali, “capaci di adattarsi e resistere, simbolo di alleanze vitali e resilienze collettive”, è da subito focus illuminante di quanto l’artista italo-senegalese Binta Diaw voglia proporci, attraverso opere installative e multimateriche, nella personale presentata, fino a domenica 8 marzo 2026, al “PAV– Parco Arte Vivente” di via Giordano Bruno a Torino. Ma ancor più elemento chiarificatore è il “sottotitolo” dato alla rassegna: “Resistenze, alleanze, terre”. Curata da Marco Scotini (direttore di “FM – Centro per l’Arte Contemporanea” di Milano e responsabile del programma espositivo del “PAV”), dopo le personali dell’artista indiana Navjot Altaf, dell’indonesiana Arahmaiani e della guatemalteca Regina José Galindo, la mostra di Binta Diaw (nata a Milano nel 1995) ma cresciuta fra Italia e Senegal, rappresenta un nuovo importante capitolo nell’indagine da tempo percorsa dal “PAV” sui “legami tra natura, corpo femminile e pensiero decoloniale”. Attraverso installazioni ambientali, che diventano “forma estetica” attraverso i più vari “materiali organici e simbolici” (come terra, gesso e corde fino ai capelli sintetici e alle bandiere arrotolate) l’artista affronta tematiche di stretta e strettissima attualità, ma anche di forte impronta storica come la “memoria diasporica afrodiscendente”, in un lungo cammino che arriva ai nostri giorni, agli ingorghi della contemporaneità, come la “sopravvivenza ecologica” e la “resistenza o resilienza femminile”.

In tal senso sono due le opere chiave, al centro della rassegna. La prima, quella “Dïà s p o ra” (2021), installazione già presentata alla “Biennale di Berlino 2022”, composta da una struttura sospesa simile a una ragnatela, realizzata con trecce di capelli ed evocante la resistenza silenziosa delle donne senegalesi schiavizzate, che nascondevano semi e mappe nei capelli, trasformando la materia in archivio vivente e luogo di sopravvivenza clandestina; la seconda “Chorus of Soil” (2019), riproduzione della “pianta” della nave negriera “Brooks”, realizzata con terra e semi. Qui, le sagome degli schiavi, simbolo di oppressione, diventano anche germinazioni vegetali, trasformando la nave in un “giardino di memoria e rinascita”.

La serie “Paysage Corporel” “Nature” (2023) ha come protagonista il corpo dell’artista, trasformato in una sorta di sfumate “dune desertiche” e reinterpretato (stampa a getto di inchiostro su carta di cotone montata su dibond – pannello composito di alluminio) come “paesaggio”.

Completa il percorso l’opera video “Essere corpo”, che sintetizza, in un unico “dove”, le connessioni tra memoria, corpo e natura, trasformando lo spazio espositivo in un luogo di passaggio corporale e mentale, in cui far rinascere una costruttiva relazione fra esseri viventi.

“La mostra si configura – si legge in nota – come un paesaggio corale in cui dimensione estetica e politica si intrecciano, offrendo nuove immagini di comunità e appartenenza. E dunque, con questa mostra il ‘PAV’ conferma il proprio impegno nella costruzione di una nuova ecologia politica, capace di ripensare i rapporti tra arte, natura e società globale”.

Da segnalare:

Nell’ambito della personale di Binta Diaw, mercoledì 10 dicembre, le “AEF/PAV – Attività Educazione Formazione” propongono “Wunderkammer d’Altrove”, corso di formazione ideato nell’ambito della Rassegna “aulArte”, sostenuta dalla “Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT”, per favorire l’accesso ai luoghi di cultura dei docenti delle scuole piemontesi ad attività di formazione basate sulle pratiche dell’arte contemporanea. Per le scuole e i gruppi che visiteranno la mostra “Dove le liane s’intrecciano. Resistenze, alleanze, terre” e le installazioni presenti nel Parco (23.500 mq) viene proposto “Radici volanti”, laboratorio in movimento che si situerà nello spazio interno al Museo o nel vasto Parco, dove i partecipanti “produrranno, punto dopo punto, una catena tessile per legarsi gli uni agli altri in un’azione ludica e collettiva”.

Gianni Milani

“Dove le liane s’intrecciano. Resistenze, alleanze, terre”

PAV – Parco Arte Vivente, via Giordano Bruno 31, Torino; tel. 011/3182235 o www.parcovivente.it

Fino all’8 marzo 2026

Orari: ven. 15/18; sab. e dom. 12/19

 

Nelle foto: Binta Diaw; “Chorus of Soil” (2019); “Paysage Corporel – Nature I” (2023)

“Domani il sole sorgerà comunque”

Con una mostra dedicata al giovane pittore ligure Gioele Sasha Staltari, la biellese Galleria d’Arte “BI-BOx Art Space” festeggia i suoi 14 anni di attività

Dal 15 novembre 2025 al 31 gennaio 2026

Biella

Il titolo è un invito speranzoso all’attesa di giorni migliori che comunque arriveranno. Ma sottende anche e rinvia a spazi di dolore e di più o meno pesante malinconia che, comunque, la vita riserva, di quando in quando, a tutti noi. Del resto, in un’intervista di qualche anno fa, ad ammetterlo era proprio lo stesso pittore: “L’emozione – sue parole – che credo di poter nominare maggiormente mentre lavoro è il dolore: la pittura per me è quell’arma con cui tirar fuori dal mio corpo tutte quelle emozioni negative che tento di inglobare dentro di me … Ogni volta che dipingo mi libero, tiro fuori ogni sofferenza … Dipingere è il mio modo per mostrare il mio lato più debole”. A parlare è Gioele Sasha Staltari, savonese (classe 2002), oggi residente fra Torino e Celle Ligure, studi all’“Accademia di Belle Arti di Brera” (dove si diploma, con lode e menzione, nel 2024) e formazione alla “Scuola di Grafica d’Arte” all’“Accademia Albertina” di Torino. Giovanissimo, ancora fresco di studi, ma già in grado di esprimere doti tecniche e narrative di singolare portata espressiva, a lui, da venerdì 15 novembre a sabato 31 gennaio 2026, la “BI-BOx Art Space” di Biella dedica una personale, “racconto intimo, che attraversa la fragilità e la speranza”, per festeggiare i 14 anni di attività della  Galleria, trascorsi sempre nel segno della curiosità e della scoperta del “contemporaneo”.

Curata da Irene Finiguerra, l’esposizione presenta poche ma suggestive opere, 14 in tutto (tante quanti gli anni della Galleria), dove il giovane Staltari dà prova di un eclettismo tecnico e di una capacità inventiva davvero sorprendenti, sia per quanto riguarda il materiale compositivo da lui prescelto che spazia dall’arte grafica al pastello al carboncino all’olio al mordente e al … caffè (sic!), sia per quanto concerne i supporti materici che vanno dalla tela alla ceramica all’argilla fino ad ampi … lenzuoli di recupero. Il tutto, attraverso una preferenziale scelta cromatica sulla “scala dei grigi”, più o meno accesi più o meno intrappolati in griglie chiaroscurali, dov’è spesso il giallo – un giallo fin troppo pacato – ad aprire spiragli di luce appena appena accennati. Quelle che Staltari ci invita a riconoscere anche nell’inquietudine prevalente dell’ombra. “Ancora un passo” nasce, in tal senso, una sua opera progettata su lenzuolo; “Ancora un passo” per toccare con mano quella luce di una buia stanza con un misero tavolo e una sedia che pare stare in piedi per miracolo, quasi cella carceraria separata dal mondo da quelle vecchie grate che chiudono la finestra al mondo esterno. Alla vita e alla voglia di vivere. Pochi metri, però, “ancora un passo” e la salvezza è vicina. “Staltari – si legge in nota – invita lo spettatore a rallentare, a riconoscere la luce che sopravvive anche nell’ombra … ‘Domani il sole sorgerà comunque’ è quindi più di un titolo: è una ‘dichiarazione poetica’, un invito a credere nella continuità del tempo e nella forza della luce che ritorna. Nel bianco e nero delle sue opere si percepisce una tensione sottile tra perdita e rinascita, tra silenzio e presenza. Il nero non è segno di tristezza, ma spazio dell’invisibile, grembo che accoglie e protegge; il bianco, suo contrappunto, è la soglia della rinascita, la promessa del giorno che verrà”.

In tal senso, il giovane pittore ci invita anche a riflettere sulle parole idealmente espresse da uno scrittore certamente a lui caro, il grande eternamente langarolo Cesare Pavese, che ne “Il mestiere di vivere” e in altre indimenticate pagine voleva ricordarci quanto “Ciò che è stato, non è mai perduto, se lo si conserva nel cuore”. Ecco allora quel garbato piacevolissimo “Memoria” – carboncino, mordente, pastello e olio su tela del 2025 – in cui Staltari, dalla grafia di un quasi “nulla”, fa emergere la sagoma seduta di un vecchina che ha perso il conto del tempo, ma che pare sorridere al faticoso continuo sopraggiungere di remoti pensieri che per lei sono oggi “vita” e quotidiana serenità. “Come Pavese, anche Staltari riconosce nella memoria un luogo vivo, non un archivio di nostalgia ma una sorgente da cui ripartire. Le sue opere abitano quella soglia fragile in cui il passato non è peso ma radice, sostegno silenzioso da cui può rinascere un domani. Domani il sole sorgerà comunque’ è dunque più di un titolo: è un approdo, una presa di coscienza. Nasce da un periodo di crisi personale, ma si trasforma in una dichiarazione universale di speranza”.

Gianni Milani

“Domani il sole sorgerà comunque”

BI-BOx Art Space, via Italia 38, Biella: tel. 349/7252121 o www.bi-boxartspace.com

Dal 15 novembre al 31 gennaio 2026

Orari: giov. e ven. 15/19,30; sab. 10/12,30 e 15/19,30

Nelle foto: Gioele Sasha Staltari “Ancora un passo”, china carboncino argilla, tempera caffè pastello e olio su lenzuolo; “Chiamate (distanze)”; “Memoria”

Soprattutto “Raccontare” tra geometrie e denunce, macchie di colore e riuso di materiale

Sino al 19 novembre, negli spazi della galleria “Malinpensa by La Telaccia”

C’è una colomba bianca tra le opere esposte sino a mercoledì 19 negli spazi della Galleria Malinpensa by La Telaccia di corso Inghilterra 51. Una colomba con rafforzate pennellate grigiastre (pennellate che vedono l’uso delle stesse mani), uno spruzzo di rosso che sono le zampe ma anche una ferita aperta ben visibile – il tutto, quasi una crocifissione -, l’occhio è umano a innalzare il tratto animalesco. È un’opera di Rosalba Mangione, anche designer d’oggetti d’arredo e ceramista (come dimostrano i colorati piatti in vetro fusione) di origini siciliane, inquietante nella propria rappresentazione essenziale, nel messaggio di morte, un grumo pittorico in negativo del mondo d’oggi e (ormai) della nostra quotidianità, il grido di dolore di un essere umile, un tema che la pittrice sta approfondendo per simbologie nell’ultimo periodo d’attività.

Questa, come altre opere presentate, sono stati d’animo, sincerità espresse, amare riflessioni, partecipazione e presa di coscienza agli sconvolgimento che l’uomo ha prodotto e continua a produrre. Sono messaggi, immersi altresì nel colore, a voler identificare la debolezza e la forza che vivono nel mondo, le disequità e i soprusi, le violenze, a voler esprimere il gran carico di sensibilità, di emozioni, di denuncia: colpisce “La linea sottile tra Bene e Male” (acrilico, 2022), un rosso e un blu che non avranno mai modo d’incontrarsi e di fondersi, due separazioni nette e invalicabili, manichee, colpisce la “Rabbia” (un acrilico del 2019) dove forse un sole, fisso in un cielo opaco, riesce a illuminare una natura e un mare che è ancora attraversato da onde alte e minacciose, colpisce “Divisione”, un misto di acrilico e stucco del 2022, dove prevalgono le tinte chiare, forse la ripresa aerea di un mare di sghembo e di una spiaggia che è deserto, dove la presenza umana non è concepita. Mentre l’uomo, la donna, potevano apparire in opere precedenti, oggi l’essere umano non è concepito, tutto diventa umanamente brullo, ogni forma di vita cancellata, la distruzione è dietro l’angolo della vita di ognuno. Anche i colori (se pur Monia Malinpensa, che ha curato la mostra “Raccontare e raccontarsi”, parla di “consistenza, che si diffonde nell’opera con una gestualità molto personale e con una vibrante atmosfera rarefatta”, di “notevole stesura”) si sono quasi del tutto affievoliti, rimangono dei bluastri, s’affaccia qualche rosso, ma le espressioni di un precedente mondo surrealista non trovano più spazio.

La natura ce la rende Ernesto Belvisi, e i colori quasi gettati violentemente sulla tela, un simbolo per il tutto, guardando ad esempio ai “gigli” trasfigurati in lucenti lamelle di fuoco vivo, frutto di una gestualità potente ed estremamente libera, di una massiccia manualità, nella piena variazione degli elementi cromatici, posti su di un compatto fondo blu o lasciati liberi di cercarsi un proprio spazio nell’appoggio di pennellate alle loro spalle che paiono impazzite, vere e proprie sferzate di frusta colorata, quasi portatrici di una accogliente sensualità. Il colore come desiderio di vita e di bellezza, di luminosità, di sentimenti urlati, come apporto irrinunciabile di contrasti e di varietà cromatiche che s’impongono con grande forza nel loro dinamismo. Da disegni a mano sviluppati in digitale con l’aiuto del computer (è troppo azzardato dire che ci troviamo già dalle parti dell’AI, a chi stende queste note ancora di difficoltosa comprensione?) si sviluppano le opere del giovane Dario Frascone, dove si riconoscono appieno una concreta personalità che spinge a una ricerca che sarà in futuro capace di percorrere parecchie strade, una ricerca di simboli, una parcellizzazione delle superfici e gli incastri di soggetti, laddove pur nella presenza innegabile di una forte geometria e di una vena modernista si fa largo, con l’uso di legni antichi (intelligente manifestazione di riuso), di vecchia provenienza familiare – porte, cassetti, pareti d’armadi, quindi l’uso di materiali diversissimi -, un riscoperto sentimento, una filiazione fatta di affetti autentici, di ricordi e di riscoperte, una poetica cui è necessario da parte di chi guarda prestare una puntuale attenzione.

Legato a una figurazione di notevole elaborazione espressiva e a una fantasia costante, le composizioni tecniche dell’artista Mario D’Altilia regalano al fruitore molteplici sensazioni e riflessioni, che sono il risultato del suo fare arte”, sottolinea ancora Monia Malinpensa. Ci aggiriamo tra alcuni oli che sono corpi picassiani, tra donne “in poltrona” (2020) che, all’interno di più o meno elaborate scenografie (“anche per quanto riguarda il colore ho eseguito numerosi studi su carta e altre tipologie di supporto che mi hanno permesso di spaziare su tutte le tecniche pittoriche”, avvertiva l’artista in occasione di una precedente mostra), anch’esse intimamente simboliche, nelle loro uniformi blu e con acconciature simili a pennacchi vivono dentro a un mondo che colloca le proprie radici nella geometria e nelle formule matematiche, tra radici quadrate e numeri e linee, tra il trionfo dei cubi e dei parallelepipedi, una sorta adulta di Lego, tra moltiplicazioni e schemi e costruzioni che sono sculture e in qualche esempio guardano alla ”Grande Mela”, tra quello sguardo originalissimo che l’autore continua a definire “paesaggio tecnico”. Una fantasia a tavolino che non conosce limiti.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Rosalba Mangione, “La colomba della pace”, acrilico su tela, cm 70 x 100, 2025; Ernesto Belvisi, “Giglio bianco”, acrilico su tela, cm 100 x 70, 2022; Dario Frascone, “No signal no party”, disegno a mano sviluppato in digitale, cm 50 x 50, 2023;Mario D’Altilia, “Paesaggio tecnico”, olio su tela, cm 70 x 50, 2020.

Il fuso di Kronos

In esposizione al “Museo del Tessile” di Chieri il Progetto artistico – interdisciplinare del kazako, d’origine, Lev Nikitin

Dal 13 novembre al 13 dicembre

Raccontare la propria vita, impresa tutt’altro che facile, attraverso gli strumenti, i più vari, dell’agire artistico. E, attraverso l’arte, cercare e , forse, trovare una via di fuga da quel terribile “fuso di Kronos” ( Kronos, ricordate? Il più giovane dei Titani, padre di Zeus, che nell’antica mitologia greca mangiava i suoi figli per paura di esserne spodestato) che imbriglia nella fitta rete della crudeltà l’esistenza di chi è altro da noi, del più debole, dei reietti, degli invisibili e degli espulsi dal comune vivere sociale. In un pensoso, toccante “Autoritratto” ad olio, con la pelle tormentata da simboliche presenze volatili che gli mortificano il viso, Lev Nikitin racconta proprio questa condizione dell’esistere “che è metafora – racconta – della violenza che si ripete”. E ancora: “ Kronos che divora i suoi figli non è solo un mito antico: è la logica attuale dei sistemi educativi, sociali, giuridici, artistici. E noi, per non essere divorati, gettiamo ogni giorno nella sua bocca simulacri filati con il nostro stesso’ fuso’ dell’essere”.

Non è mostra di facile intesa, ma gradevolissima e di alta qualità, “Il fuso di Kronos” (titolo emblematico di quanto sopraddetto) che, da giovedì 13 novembre a sabato 13 dicembre, la “Fondazione Chierese per il Tessile e per il Museo del Tessile” di Chieri dedica (con il sostegno della “Città di Chieri” e della “Regione Piemonte” e con il patrocinio dell’Associazione Culturale “Russkii” di Torino e della “Fondazione “Osten” di Skopje) al giovane Lev Nikitin. Nel complesso, sono 20 (un’installazione “site specific”, oli su tela e costumi teatrali) le opere dell’artista e attivista russo (ormai chierese d’adozione) accolto in residenza dal 2024.

Nato nell’ ’85 in Kazakistan, Nikitin si trasferisce in Russia nel 1993. Lascia Mosca nel 2022, in seguito al conflitto Russo-Ucraino e alle crescenti politiche discriminatorie nei confronti della comunità LGBTQ+. Nel 2023 ottiene asilo politico in Italia., aprendo un nuovo capitolo nella sua vita e nel suo lavoro. Dopo essersi sentito ignorato nel suo Paese d’origine, dove ha affrontato marginalizzazione e omofobia, l’artista trova in Piemonte e a Chieri l’opportunità di ricostruire il proprio senso di identità. E proprio questa nuova situazione aprirà un importante processo di “rinascita e ricostruzione della materia e dello spirito” attraverso la pittura, la scultura, la performance e il medium tessile.

L’abilità nel percorrere il gesto e il senso estremamente misurato e delicato (a tratti misteriosamente “sbiadito”) del colore gli derivano, in particolare nella pittura a olio, dalle “avanguardie” della grande Scuola della pittura russa post-espressionistica, corrente che molto, nelle sue varie articolazioni, ha influito sulla sua capacità di trasformare – sottolinea Melanie Zefferino, presidente della ‘Fondazione chierese per il Tessile e Museo del Tessile’ – passamanerie chieresi un poco ‘fané’ in scintillanti corpetti che possiamo immaginare indossati da ‘performer’ memori della Compagnia dei ‘Ballet Russes’ fondata da Sergej Pavlovič Djagilev e dei meravigliosi costumi di Léon Bakst”. Approdato qui viaggiando sul filo dell’arte – prosegue la presidente Zefferino – Lev Nikitin ha portato a Chieri la sua personale visione del mondo espressa creativamente con una tecnica tesa alla perfezione, facendo onore alle tradizioni culturali e artistiche di cui reca il prezioso bagaglio … E così abbiamo fatto noi perseguendo valori di inclusione e sviluppo dei talenti, così da poter oggi assecondare la ‘danza’ di Nikitin a Chieri e al suo Museo, ‘theatrum’ delle arti tessili con protagonisti internazionali in dialogo con le identità di una comunità plurale.

“Comunità plurale” che è obiettivo principe del Nikitin uomo ed artista. Arduo percorso, per la cui uscita “io artista – racconta Nikitin – come Penelope al telaio, lavoro segretamente disfacendo le trame di una tela ordita dal Titano più crudele”. Un processo che lo impegna nel campo multiforme di una tecnica ineccepibile, ma soprattutto sul piano dell’emotività e di antiche dolorose memorie difficili da mettere a parte; “un progetto artistico che si estrinseca – conclude Nikitin – anche come struttura teatrale  traendo ispirazione dal ‘Teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud: un teatro che colpisce il corpo dello spettatore, che lacera il linguaggio, che rompe il ritmo e nega il conforto. In questo senso, il mio ‘teatro della crudeltà’ è precursore di un’etica di resistenza al vuoto. Rifiuta la narrazione, la mimica, l’illusione. Non spiega, ma costringe a vivere”. Dipanando, senza sosta, quella terribile infinita matassa del “fuso di Kronos”.

Gianni Milani

“Il fuso di Kronos”

Museo del Tessile”, via Santa Clara 6, Chieri (Torino); tel. 329/4780542 o www.fmtessilchieri.org

Dal 13 novembre al 13 dicembre. Orari: mart. 9/13; merc. 15/18 e sab. 14/18

Nelle foto: Lev Nikitin: “Autoritratto”, olio su tela; Parte dell’allestimento e “Costume teatrale”

Astrattismo Inverso: il primo concorso artistico della Città di Rivoli

 

Sabato 8 novembre Rivoli ha vissuto un momento significativo con la premiazione di “Astrattismo Inverso”, il primo concorso artistico promosso dalla Città di Rivoli nell’ambito del progetto “Rivoli Città d’Arte” con il contributo di TurismOvest.
L’iniziativa, realizzata in stretta collaborazione con i laboratori artistici cittadini — E20 d’Arte al Castello di Fulvio Bresciani, Galleria Belle Epoque di Diego Sestero, Imparalarte di Amelia Argenziano e Atelier di Pittura Lud Chamorro Art di Luisa Maria Diaz Chamorro — ha registrato un’ampia partecipazione e un pubblico numeroso, segno di una città sempre più coinvolta nella vita culturale e creativa.

Il concorso ha stimolato la creatività di molti artisti, che hanno saputo instaurare, attraverso le loro opere, un dialogo originale con l’arte astratta e con il Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea. L’atmosfera di entusiasmo e condivisione che ha accompagnato la premiazione ha confermato la vitalità di un tessuto artistico in costante fermento.

«Investire nell’arte e nei laboratori creativi – ha dichiarato il Sindaco Alessandro Errigo – significa costruire un’identità più forte per Rivoli. La partecipazione registrata è un segnale di come la cultura, quando è condivisa, diventi un linguaggio capace di unire le persone e dare nuova vitalità alla città».

Si sono distinti Margherita Garetti, vincitrice del primo premio, seguita da Nunzia Lastella e Michela Fischetti, mentre a Monica Falchero è andato il quarto posto. Le menzioni di merito sono state attribuite a Sara ForlaniRosanna Costanzo e Roberto Trucco per l’originalità, la tecnica e la sensibilità artistica. Riconoscimenti speciali sono andati ai giovani talenti Emma Farfariello e Giorgio Cusanza, premiati con la menzione “Bambini” della Giuria.

Il percorso avviato con “Astrattismo Inverso” proseguirà nel 2026 con una mostra collettiva presso la Casa del Conte Verde, che offrirà nuova visibilità a tutte le opere partecipanti e confermerà Rivoli come luogo di incontro tra arte, comunità e innovazione culturale.

“Raccontare e raccontarsi”, alla galleria Malinpensa by La Telaccia 

Informazione promozionale

Quattro artisti protagonisti della mostra alla galleria d’arte Malinpensa by La Telaccia, dal 6 al 19 novembre 2025, nella mostra dal titolo “Raccontare e raccontarsi”, curata dall’art director Monia Malinpensa. Gli artisti coinvolti sono Ernesto Belvisi, Mario D’Altilia, Dario Frascone e Rosalba Mangione.

L’artista Ernesto Belvisi, con una ricerca assolutamente personale, conduce una linea espressiva di evidente carattere pittorico, sia dal punto di vista estetico che da quello contenutistico, capace di offrire al fruitore un fascino unico. L’evoluzione continua del colore, la stesura delle forme e l’effetto della luce mettono in risalto un aspetto scenografico e un impianto compositivo altamente suggestivo, che gli consentono di acquisire una tecnica originale. In una spazialità infinita di segni e frammenti sospesi in un’atmosfera fantasiosa, prendono vita elementi cromatici e simbolici molto suggestivi e immediati. Sono opere che esplodono di luce in un complesso unico e dinamico.

Si tratta di uno spazio dell’anima, quello dell’artista Ernesto Belvisi, che fissa nell’opera emozioni e sentimenti ricorrenti, in cui la superficie della tela, di forte contemporaneità, evidenzia ampiamente una tecnica ad acrilico sicura. I soggetti, di chiara matrice astratta che dimostrano una evidente abilità dei mezzi, acquisiscono vibrazioni materiche di viva sostanza pittorica. Armonie del colore, contrasti chiaroscurali e composizione dinamica del segno, attraversano le opere di Belvisi con un equilibrio formale ben riconoscibile. Il rapporto tra pieni e vuoti si sviluppa, nel suo iter, con un ritmo di volumi originale e con una gestualità ricca di un aspetto visivo e tecnico personale. Si tratta di un racconto in continua evoluzione, dove l’interpretazione rivela uno scenario ricco di molteplici sensazioni e di un’energia espressiva profonda.

Il secondo artista presente in mostra è Mario D’Altilia. Legato a una figurazione di notevole elaborazione espressiva e una fantasia costante, l’artista realizza composizioni tecniche che regalano al fruitore molteplici sensazioni e riflessioni, che sono il risultato del suo fare arte. Luci, ombre e segni danno vita a una spazialità scenografica sorprendente, ricca di estro, di minuziosa grafia e un lungo studio del colore nella sua resa formale. Si tratta di un racconto fortemente intimistico, in grado di interpretare un costruttivismo ricco di sfaccettature psicologiche, all’insegna di una dimensione artistica unica che cattura l’attenzione.

La tecnica dell’olio su tela, di sicura ed elaborata stesura, si esprime nei suoi elementi simbolici e aspetti riconducibili a una ricerca personale. Le combinazioni ricorrenti di formule matematiche e di rimandi alla geometria creano nelle sue figure e nei suoi paesaggi tecnici un gioco di valenza senica che traccia sempre nuove atmosfere suggestive. Si tratta di una pittura altamente significativa, ricca di un’elaborazione incentrata sulla figura umana, capace di comunicare con il suo mondo interiore e i suoi stati d’animo. Cadenze formali, combinazioni cromatiche, linee geometriche, strutture architettoniche e infiniti numeri attraversano l’opera in perfetto equilibrio all’interno di una vera funzione rappresentativa. La cromia, sempre ben modulata, e il disegno tecnico ritmato da una vena creativa costante, si incontrano nei dipinti dell’artista in una linea di ideazione, progettualità di evidente consapevolezza pittorica.

Terzo artista presente in mostra è Dario Frascone. Nelle sue opere emergono l’inseguirsi di geometrismi, l’originale costruttore grafico e la costante resa simbolica, con precisa valenza espressiva e dinamica interpretativa. La forza cromatica, spinta dal puro sentimento, offre al fruitore una continua ricerca visiva-contenutistica, in cui emozioni e sensazioni si susseguono nel loro iter. Quello di Frascone è un percorso operativo altamente personale, sorretto dalla capacità tecnica e da una costante ricerca.

Egli realizza i suoi soggetti con una notevole abilità esecutiva: prima vengono disegnati a mano, poi sviluppati in digitale con l’ausilio del computer. Ogni opera è un racconto, una propria emozione che ci conduce al recupero dei valori, all’insegna di un’arte vista e sentita. L’artista descrive con poesia, fantasia e realtà visioni evocative non di immediata lettura, perché chiedono di essere osservate attentamente con gli occhi e l’anima, affinché possano rivelare il loro pieno significato. È un percorso continuo di personalissima interpretazione e di tecnica innovativa, dal quale nascono soggetti di forte carica creativa, impostati su un valore simbolico che rivela molteplici espressioni. Si tratta di opere dal fascino onirico, che trasformano ogni dettaglio in una compattezza espressiva, il cui messaggio finale reca un chiaro e preciso significato. In una sinfonia armonica di equilibrio formale, convergono luci intense e cromie vivaci, derivanti da studio e lavoro intenso, che evidenziano uno stile unico e un’abilità naturale incentrata su aspetti meditativi.

L’artista Rosalba Mangione colloca la sua linea di ricerca nel campo della pittura e nella ceramica di vetrofusione, in elementi di chiara valenza simbolica e concettuale nati da una riflessione continua, dove l’immagine, emotiva e meditativa, non passa inosservata. Gli effetti chiaroscurali, la presenza rilevante della materia e la spazialità senica evidenziano una propria capacità artistica, lasciando al fruitore una costante immersione e un dialogo con l’opera.

Quella di Rosalba Mangione è una ricerca astratta, dinamica ed emotiva, in cui la consistenza del colore, filtrato da una sicura composizione pittorica, si diffonde nell’opera con una gestualità personale e una vibrante atmosfera rarefatta. L’intervento dell’acrilico, dello stucco e della resina affiora con notevole stesura, creando molteplici sensazioni tecniche ed estetiche. L’umanità che emerge dalle sue opere è rappresentativa di un animo estremamente sensibile, che la contraddistingue. I temi sulla donna mettono in rilievo una sensibilità di forte impeto interiore, rispettoso verso l’animo umano. La sostanza strutturale, la luce intensa e le larghe stesure tonali rispondono a una validità pittorica con sicurezza dei mezzi. Quella di Rosalba Mangione è una pittura che offre una vasta gamma di valori espressivi e aspetti umani in continua trasformazione, dove la riflessione si fa sempre più profonda nella sua arte e assume una forte valenza simbolica. Il progetto pittorico di Rosalba Mangione è di chiara aderenza astratta e di slancio emotivo, e innesca nel fruitore un meccanismo creativo sempre diverso, vibrante di energia, ricco di vitalità e sintesi formale.

Galleria Malinpensa by La Telaccia – corso Inghilterra 51, Torino

Orari: 10.30 – 12.30 / 16 – 19 / chiuso lunedì e festivi  – telefono: 011 5628220

Mara Martellotta

La straordinaria “anima pittorica” di Paolo Conte. “Original”

Nella sua città natale la più ampia mostra mai dedicata al grande Maestro astigiano

Fino al 1° marzo 2026

Asti

“Il disegno è uno dei miei due vizi capitali, più antico di quello per la musica e le canzoni”. A confessarlo, rivolgendosi a quanti ancora non lo conoscessero sotto questa veste artistica, è proprio lui. Icona indiscussa della storia della canzone d’autore, pianista di singolare formazione jazz e compositore dalle straordinarie risorse acclamato dai più prestigiosi palcoscenici mondiali, dall’“Olympia” di Parigi alla “Scala” di Milano nel 2023 (primo e unico artistica della scena cantautorale internazionale a calcare il palco del “Tempio” assoluto della Lirica), Paolo Conte (classe ’37) – dopo la breve parentesi dedicata all’“avvocatura” – dal ’74 decide di dedicarsi esclusivamente al “mestiere d’artista”, esercitato in quei due campi di passione e infinita visionarietà che sono per l’appunto la “musica” e la “pittura”. La “sua” musica e la “sua” pittura. Ancora Conte: “La composizione musicale manovra su di me in forma di eccitazione, mentre pittura e disegno mi danno calma e leggerezza”.

Dunque, passioni antiche, perseguite su strade parallele che spesso non hanno reticenza alcuna (anzi!) ad intrecciarsi fra segni, note, libertà di parola, di gesto e colore (quanta forza, in tal senso, in quell’uomo-scoiattolo “Squirrel – Uomo Circo” del ’74 e in quei “Fiori in un vento novecentista del 2000”) che, insieme, configurano “tanta, tanta roba”, ma soprattutto quella “malandrina originalità” d’espressione che subito ti fa capire da chi proviene il tutto. “Originalità” …  e di qui il titolo perfetto – “Original” – dato alla mostra, la più ampia (dopo quelle dedicategli nel 2000 dal “Barbican Hall” di Londra fino al 2023, quando Conte è invitato ad esporre addirittura agli “Uffizi” di Firenze) mai dedicata in Italia e all’estero  dalla sua Asti ed ospitata, fino al 1° marzo 2026, al barocco “Palazzo Mazzetti”, sede della “Pinacoteca Civica” astigiana. Qui hanno trovato posto, a firma del grande Maestro, e in una cornice che parla allo spettatore di una poetica “elegante, malinconica, jazzata e ironica”, ben 143 lavori su carta, realizzati con tecniche diverse e in un arco temporale durato quasi settant’anni. Curata da Manuela Furnari– saggista e autrice dei più importanti testi critici dedicati all’ opera di Paolo Conte – e organizzata, fra le varie Istituzioni, dalla “Fondazione Asti Musei”“Fondazione Cassa di Risparmio di Asti”“Regione Piemonte” e “Città di Asti” (con il contributo del “Ministero della Cultura”), l’esposizione dà anche ai visitatori la possibilità di accostarsi ad opere mai prima d’ora esposte, tra cui “Higginbotham del 1957, tempera e inchiostro, dedicata a uno dei primi “swinganti” trombonisti jazz americani.

Altro nucleo importante della mostra è costituito dalla selezione di tavole tratte dalle oltre 1800 di “Razmataz, l’undicesimo album registrato in studio e interamente scritto, musicato e disegnato da Paolo Conte. Ambientata in una Parigi anni ‘20, l’opera celebra – dietro la misteriosa scomparsa di una ballerina – l’attesa e l’arrivo in Europa della giovane musica americana, il jazz, interpretato nelle sue forme e figure più esotiche – spesso contorte, strette strette e alte alte – in una libertà formale che richiama le “Avanguardie del primo Novecento”, dai movimenti “futuristici” all’“espressionismo” più convulso e ribelle, “un periodo – afferma l’artista – carico per me di sensualità e di una immediata danzabilità che lo contraddistingue”.

Infine una terza sezione di opere (29) su “cartoncino nero” in cui Paolo Conte si affida alla suggestione delle linee e dei colori “in un omaggio garbato, talvolta venato di ironia, alla musica classica, al jazz, alla letteratura, all’arte”. Racconta Conte: “In un fornito negozio di belle arti, mi sono imbattuto in alcuni album di cartoncino nero che mi hanno immediatamente attratto. Quando li ho riguardati a casa non ho provato la ‘sindrome della pagina bianca’ come capita sovente agli scrittori, ma la curiosità del ‘foglio nero’ su cui ho fatto danzare i pastelli colorati. Tra curiosità e divertimento ho difeso questo mio esercizio di stile cercando la complicità nella cultura (musica classica, jazz, teatro, letteratura, arte)”“Esercizio di stile”: così definisce l’artista questa nuova “pensata”. Ma anche in quei “cartoncini” c’è molto di più. C’è soprattutto quello che si chiama “il ritmo della composizione: linee, piani colorati, forme irregolari che si intersecano o si susseguono in un omaggio cordiale e divertito”. Da sottolineare ancora, fra le specificità della mostra, il singolare “percorso espositivo”. Le opere viaggiano affiancate secondo una scelta che non poteva che essere determinata, in maniera “original”, dallo stesso Maestro, con una sola avvertenza: “Lasciare al pubblico – sue parole  la possibilità di immaginare con libertà massima”.

Gianni Milani

Paoli Conte. “Original”

Palazzo Mazzetti, Corso Vittorio Alfieri 357, Asti; tel. 0141/530403 o www.museidiasti.com

Fino al 1° Marzo 2026 – Orari: dal lun. alla dom. 10/19

Nelle foto: Paolo Conte “Squirrel – Uomo Circo”, 1974; “Danza cinese vestita”, 2000; “Red Hot Mama, da Ramataz”, 1996; “Valigetta creola”, 1988

Le Grottesche, i mascheroni satirici che guardano Torino

Dalle forme plastiche suggestive, narrano di una città inquieta e fantastica.

i muri della città parlano” diceva il barone de La Brède e di Montesquieu che giunse a Torino nel 1728. Effettivamente è così, ma oltre a raccontare una parte della storia della città queste sculture in pietra, che rivestono perlopiù gli edifici storici di Torino, osservano cose e persone con sguardi talvolta caustici ed altri minacciosi. Queste opere d’arte che si fanno notare per la loro plasticità, i loro particolari e la ricchezza che conferiscono ai palazzi che li ospitano, sono le Grottesche, anche conosciute come Mascheroni. Possono essere entità fantastiche o mostruose, mitologiche, animali, facce deformi o altre sagome e rimandano al quello straordinario periodo artistico che è stato Barocco europeo, ma anche a epoche seguenti come il Liberty. Nella nostra città sono molte e conturbanti e non furono scolpite unicamente come ricco ornamento, ma anche come veicolo potente di un linguaggio simbolico e satirico, un mezzo per raccontare ciò che non si poteva dire apertamente: l’instabilità del potere, la vanità della ricchezza, le paure del mondo e i desideri inconfessabili, il tutto scolpito su una base monocolore in pietra e di stucchi o simili a quelle di epoca romana, caratterizzate da una pittura multi-cromata, trovate nei resti sotterranei della Domus di Nerone (le “grotte” appunto)

A Torino le Grottesche non sono urlate come nella Capitale o a Firenze, sono più nascoste, meno protagoniste e per un occhio che le cerca e guarda con attenzione e curiosità, ma nonostante questa loro personalità sobria, in linea con il carattere culturale territoriale, riescono a farsi notare, risultano eloquenti ed affascinanti.

Qualche esempio più noto? A Palazzo Chiablese, affacciato su piazza San Giovanni, ospita uno dei cicli più importanti di grottesche della città, con affreschi che ornano volte e stanze laterali. Qui si incontrano tritoni, chimere, teste giganti con occhi vuoti, tra decori vegetali e medaglioni enigmatici. Palazzo Carignano, tra le meraviglie barocche del Guarini, conserva motivi grotteschi sia all’interno sia all’esterno, tra mascheroni scolpiti nei timpani delle finestre. I volti deformati sembrano rimproverare severamente chi guarda, belli ma inflessibili.

Passeggiando, inoltre, per via della Rocca, via Giolitti, via Bogino, via San Francesco da Paola, ma anche per le strade di Cit Turin, come corso Francia dove si trova il Palazzo delle Vittoria, si possono osservare mascheroni sui portoni in legno o sulle chiavi di volta degli archi. Spesso sono volti demoniaci, nasi adunchi, oppure caricature dalla forma animale posizionati come elementi apotropaici, protettivi, per allontanare il male.

Anche in alcune chiese della città si possono trovare elementi grotteschi di interesse artistico, come nei dettagli in stucco della Chiesa della Misericordia o nelle cappelle laterali di San Lorenzo, si tratta di putti deformi o di volti che sembrano fondersi con il fogliame.

Le Grottesche sono, dunque, una forma d’arte in conflitto con qualsiasi canone, non mirano alla perfezione o alla armonia, ma all’inquietudine.
Guardarle e ammirarle significa comprendere che l’arte, nei secoli si è occupata anche di incubi, di paure e sogni deformati. Torino, con la sua personalità solenne e lineare, nasconde, ma neanche tanto, un’anima caustica e magicamente teatrale, un lato sarcastico in contrasto con la geometria a e il rigore sabaudo, i mascheroni sono un esempio di questo carattere anticonformista che fa di questa città un luogo eccezionale e complesso.

Maria La Barbera

Stefano Unterthiner. “Una finestra sull’Artico”

L’ottocentesco “Forte di Bard” dedica una suggestiva personale all’imponente lavoro realizzato dal fotografo valdostano nell’arcipelago delle Svalbard

Fino al 3 maggio 2026

Bard (Aosta)

Se già solo a trovartele di fronte in solitarie immagini fotografiche di acque e ghiacci (un tempo perenni!) ti ribaltano e ti bloccano occhi e cuore – per l’inimmaginabile abbagliante surrealtà tanto lontana dal nostro vivere comune – figurarsi pensare di viverle in una concreta, pur se solo momentanea, quotidianità! “E’ un mondo talmente estremo che una volta che lo provi fai fatica a dimenticarlo e sogni di tornarci”; così commentava in una recente intervista a “Vanity Fair Italia”, Stefano Unterthiner, fotografo valdostano (classe ’70 e da vent’anni collaboratore del “National Geographic”) il complesso lavoro da lui realizzato, fra il 2018 e il 2025, nell’arcipelago delle Svalbard, le terre abitate più a nord del Pianeta, oggi – e fino a domenica 3 maggio 2026, ospitato nelle “Sale degli Alloggiamenti del Museo delle Alpi” al “Forte di Bard”. Sessanta, di un ben più ampio nucleo di scatti, articolati sotto il titolo “Una finestra sull’Artico”, sono le opere esposte nella Fortezza sabauda, suddivise in “nove sezioni” e frutto di un lavoro iniziato da Unterthiner in un momento storico particolare per la vita del Pianeta. E di tutti noi. “Quando è finita la notte artica – ancora parole del fotografo – tre mesi di buio totale, ed è tornata la luce, è arrivato il Covid e, improvvisamente, non c’era più nessuno. Mi sono ritrovato a vivere le Svalbard di 50 anni fa”. Non quelle dei tempi del leggendario esploratore norvegese Roald Amundsen (che con il suo equipaggio compì in tre anni l’intero viaggio dalla Groenlandia all’Alaska), ma quasi. E, con Unterthiner, alle Svalbard c’erano anche la moglie, la divulgatrice scientifica Stéphanie Françoise, e i due figli.  Ancora il fotografo: “Tutto si è bloccato … Ma in quel periodo, senza l’ombra di un turista, ho potuto trovare la connessione con la natura che cerco sempre per me e per le mie fotografie. Andavo in motoslitta per chilometri senza vedere mai nessuno. Si sono create anche le condizioni per vedere l’orso polare che va cercato con cautela e con imbarcazioni particolari. La mostra al ‘Forte di Bard’ racconta tutto quello che ho realizzato in questi anni, 60 immagini da un archivio di circa 25mila scrupolosamente selezionate”. E, negli occhi e nella memoria “la bellezza nascosta dell’Artico che, se non la si vede, non si riesce a capire”. Ma raccontata in maniera davvero eccezionale in quei 60 scatti (comprendenti anche la produzione inedita realizzata in quattro successive spedizioni) esposti nella rassegna di Bard, parte dovutamente limitata del Progetto “Una famiglia nell’Artico” e raccolti in uno dei suoi dieci volumi fotografici (pubblicati dal 2000 ad oggi) dal titolo “Un mondo diverso” (Ylaios, 2022).

Al “Forte di Bard”, Unterthiner racconta tutta la sua passione per quella straordinaria area situata a nord del Circolo Polare Artico (non un continente unico, ma ricco di enormi giacimenti di petrolio, gas naturale e minerali, dal nichel al rame a rare pietre preziose) e per la sua umanità non meno che per la sua fauna, colta (anche dopo ore di appostamenti) nelle diverse stagioni: dagli orsi polari alle renne alle sterne e ai fulmari (uccelli d’alto mare, particolarmente diffusi nell’Oceano Atlantico).

“Un affresco intenso ed emozionante, originale e potente – si è scritto – di un mondo purtroppo fragile, in rapido mutamento e sempre più condizionato dall’impatto dei cambiamenti climatici”. Una iattura cui non si sottraggono purtroppo neppure le Svalbard, che sono il luogo – è stato appurato – dove il cambiamento climatico si manifesta più rapidamente che in qualunque altra regione del mondo. Per centoundici mesi consecutivi è stata, infatti, registrata una temperatura media mensile al di sopra del normale (marzo 2020 ha interrotto la sequenza negativa, tornando sotto la media di 0,5° C). In generale, tutto l’Artico – dicono gli esperti – si sta riscaldando più del doppio rispetto al resto del pianeta.

A completare la mostra diciotto ritratti in bianco e nero realizzati da Unterthiner tra i residenti della piccola comunità di Longyearbyen (Svalbard), accompagnati da testimonianze sulla percezione dei mutamenti climatici e un pannello in grande formato dedicato alle “climate stripes”. Lungo il percorso espositivo è disponibile anche un documentario realizzato da “Raitre” (della durata di 20’), che racconta il Progetto “Una famiglia nell’Artico”.

Gianni Milani

Stefano Unterthiner. “Una finestra sull’Artico”

Forte di Bard, via Vittorio Emanuele, Bard (Aosta); tel. 0125/833824 o www.fortedibard.it

Fino al 3 maggio 2026

Orari: dal mart. al ven. 10/18; sab. dom. e festivi 10/19. Lun. chiuso

Nelle foto: Stefano Unterthiner “Fulmari fotografati dalla finestra della M/S Mälmo, Tempelfjorden; “Combattimento tra maschi di renna durante la stagione riproduttiva”, 2018; Volpe artica in abito invernale e permafrost”, 2018

Torino, la settimana delle arti chiude in crescita: boom di visitatori tra fiere e mostre

Artissima 2025 chiude nel segno della vitalità e della visione internazionale: la fiera mette alla prova la nuova IVA al 5% e si conferma laboratorio del contemporaneo

 Si è conclusa la trentaduesima edizione di Artissima, la principale fiera italiana dedicata all’arte contemporanea e la più internazionale del Paese.

Con 34.000 presenze complessive, 176 gallerie provenienti da 36 Paesi e 5 continenti, 26 nuovi espositori, 63 progetti monografici, 13 premi e 1 fondo di acquisizione, Artissima conferma la propria vitalità di mercato e la sua centralità come osservatorio internazionale.

Quest’anno, la fiera ha anche rappresentato il primo banco di prova concreto per la nuova aliquota IVA al 5% sulle opere d’arte, una misura strategica per la competitività del sistema italiano, osservata per la prima volta nel contesto di un mercato internazionale e in confronto con i regimi fiscali europei.

«Artissima è stata il primo momento di verifica per l’IVA al 5%, ma soprattutto la sua cartina di tornasole – sottolinea Luigi Fassi, direttore della fiera dal 2022 –. Questa misura non è solo un provvedimento fiscale, ma un fatto culturale, che ridefinisce la posizione dell’Italia nel sistema dell’arte. Restituisce al nostro Paese la possibilità di competere ad armi pari, ma anche di proporre un modello fondato su qualità, consapevolezza e responsabilità. Artissima ha avuto il privilegio e la responsabilità di metterlo alla prova, dimostrando come una fiera possa essere anche un luogo di diplomazia culturale, capace di far dialogare politica, economia e visione».

The Others Art Fair 2025 chiude la XIV edizione nel segno della qualità, dell’inclusione e della sperimentazione

Si è conclusa con successo anche la XIV edizione di The Others Art Fair, che ha confermato la fiera torinese come uno dei principali osservatori internazionali sulla ricerca artistica emergente e la sperimentazione dei linguaggi contemporanei.

«È stata un’edizione caratterizzata da una straordinaria qualità nella ricerca e nella sperimentazione dei progetti presentati dalle gallerie ospiti – commenta Roberto Casiraghi, fondatore e ideatore della Fiera insieme a Paola Rampini – Un obiettivo che ci eravamo posti due anni fa e che riteniamo pienamente raggiunto in questa XIV edizione, mentre già guardiamo alla nuova sede che ci accoglierà il prossimo anno».

I flussi di pubblico sono rimasti in linea con lo scorso anno, con un incremento nelle giornate di sabato e domenica, confermando l’interesse costante di pubblico e addetti ai lavori. «Per noi – aggiunge Casiraghi – resta prioritario rafforzare la qualità e la solidità delle proposte delle gallerie nei prossimi anni».

Flashback Art Fair 2025: “Senza Titolo”, ma con un’anima profonda. Oltre 26 mila visitatori per la fiera che trasforma l’arte in relazione

Si è chiusa infine la tredicesima edizione di Flashback Art Fair, la manifestazione torinese che ogni anno trasforma Flashback Habitat (Corso Giovanni Lanza 75, Torino) in un organismo vitale, capace di unire arte e vita, mercato e pensiero, memoria e trasformazione.

Dal 30 ottobre al 2 novembre 2025, con 48 progetti espositivi e 26.230 visitatori (dato aggiornato alle ore 18.15 di domenica 2 novembre), Flashback ha confermato la propria natura di fiera d’arte unica nel panorama nazionale: un luogo dove l’esperienza non è solo visione, ma incontro, dialogo e condivisione.

Un’edizione “Senza Titolo”, eppure fortemente identitaria. Le sale dell’IPI – Istituto Provinciale per l’Infanzia si sono animate di voci, sguardi e riflessioni: galleristi e artisti italiani e internazionali, collezionisti, curatori e visitatori hanno riconosciuto in Flashback una casa dell’arte aperta e consapevole, dove ogni stanza diventa un laboratorio curatoriale e ogni incontro un gesto di fiducia reciproca.

“Chi sceglie di partecipare a Flashback – spiegano le direttrici Ginevra Pucci e Stefania Poddighe e il direttore artistico Alessandro Bulgini – sceglie una dimensione diversa, in cui la fiera è prima di tutto un gesto di accoglienza. Qui il mercato entra nella vita reale, l’arte si avvicina alle persone e il collezionismo diventa pratica quotidiana, concreta, emotiva.”

Tra le opere esposte, nomi che attraversano i secoli – Dürer, Ribera, Genovesino, Modigliani, Morandi, Ontani, Mondino, Marini, Von Stuck – accanto all’immagine guida affidata, con affetto, alle opere di Antonello Bulgini, fratello del direttore artistico.
Il Circolino si è trasformato in un luogo di parola e immaginazione, grazie alla scrittura di Alexander Mostafa Fazari e alla mostra “Gaza, Opera Viva”, che ha ricordato il ruolo dell’arte come spazio di responsabilità e testimonianza.

La riflessione contemporanea ha attraversato anche il Public Program, con talk e incontri tra arte e attualità (Monica Biancardi, Alessandro Bulgini, Christian Caliandro), presentazioni su Carol Rama e sul Legnanino ritrovato, laboratori creativi dedicati al mito di Ulisse e momenti musicali di jazz dal vivo.

“Flashback è una fiera che vive nella relazione – conclude la direzione –. È un ecosistema in cui il valore non si misura solo in termini economici, ma nel tempo e nella qualità dell’incontro. In un mondo complesso, crediamo nel potere dell’arte di costruire empatia, generare consapevolezza, offrire rifugio e prospettiva.”

Spente le luci della Fiera, l’Habitat continua a vivere: la mostra “Compassione” rimarrà visitabile fino a marzo 2026, mentre dal 21 al 23 novembre gli spazi di Corso Giovanni Lanza 75 ospiteranno la prima edizione del MAF – Mater Film Festival, rassegna dedicata al cortometraggio d’autore.