ARTE

Tendenze da tenere sott’occhio, arrivano da una nuova cultura cinese

Fino al 10 gennaio, nel “Cortile Lagrange” (Palazzo Cavour)

Presentando una mostra – “Cina. La nuova frontiera dell’arte” – da lui curata negli spazi della Fabbrica del Vapore a Milano un paio di anni fa, Vincenzo Sanfo usava il termine “repentina” a indicare la “comparsa dell’arte cinese contemporanea”, interessante fenomeno artistico posto tra il trascorso e l’attuale secolo. Parlava di “sconvolgimento”, di un sovvertimento da parte della cultura e di un paese, “remoto, distante, misterioso”, nei confronti di linee da sempre consolidate, nei luoghi della storia, del sociale, dell’economia: un movimento tellurico che dai primi anni Ottanta veniva, chiaramente, a coinvolgere altrettanto il mondo artistico e culturale. “Improvvisamente tutto ciò che accade in Cina riguarda anche noi, direttamente o indirettamente. Piaccia o non piaccia, questa è la realtà di un futuro che ci riguarda sempre più da vicino e che non si può ignorare.” Il mondo dell’arte offriva su un nuovo palcoscenico, tra gli altri, i nomi nuovi di Xiao Lu, approdato al Guggenheim di New York o di Song Yon Ping, le cui opere sono oggi ospitate al Moma e al Paul Getty Museum. Interessi visti sotto una nuova luce, approfondimenti sino a quei momenti sconosciuti, la volontà (unita a una qualche dose di furbizia) di guardare al mondo Pop che, in loco, non si negava una certa “critica verso la classe politica dell’epoca, oltre a irridere la degenerazione dei comportamenti di una nascente società consumistica.”

Dietro queste premesse, sarà interessante visitare questo recente panorama, ospitante altresì nomi della più recente generazione, che Sanfo ha allestito nel Cortile Lagrange – Galleria delle Arti (a palazzo Cavour, via Lagrange 27, orari dal martedì al sabato dalle 10,30 alle 18,30, sino al 10 gennaio) per la mostra “Cina. Capolavori per un nuovo collezionismo”. Non so se l’occhio (antico) europeo li vorrà già definire capolavori, certo linguaggi diversi, innovativi e colmi di creatività, tendenze a molti fino a oggi sconosciute, ormai imperiose, anche investimenti in considerazione delle quotazioni eccellenti acquistate nelle aste internazionali. Una mostra che può rivelarsi di diritto un’occasione unica nel panorama artistico delle festività natalizie torinesi, un momento di confronto ragguardevole e da apprezzare, la scoperta di un territorio inesplorato ma di certo affascinante.

Quattro principali artisti, accomunati per lo meno dalla curiosità che coinvolge chi guarda, Xing Junqin, un ex militare che porta sfacciatamente e al colmo dell’ironia Duchamp tra due soldati in tuta mimetica intenti in un puro bisogno fisiologico (“The romance of Duchamp story”, 2006) o che sa costruire con estrema precisione, nel fitto degli alberi ricchi di fogliame, tra tinte verdi e marroni che riprendono l’abbigliamento militare, il suo “Paesaggio camouflage” (2006), elementi coraggiosi di grande impatto visivo. Zhang Hong Mei mette in campo preziosi “mental landscape” (2016), tessuti incollati su tela, accenni, stralci di paesaggi, macchie rivisitate brillantemente a creare scogli, angoli di mare, vele, miscelatura di materiali dove il colore s’impone, vivissimo, vissuto in piena libertà, tra pieni e improvvisi vuoti, come quello del 2017, un territorio che si frantuma, poco a poco, forse quello nordamericano, una deriva e una sparizione a due passi da noi. Soltanto nella mente? Per l’artista la pittura è anche capace di un ulteriore gioco, irreale, che si manifesta in un minuscolo “albero della fortuna” (2025), usando multicolori, giallo rosso verde, tessuti su fili d’acciaio. Come simili tessuti possono anche essere incollati sul bronzo e dare vita a curiose figure di dei o eroi, che non conosciamo. Xu De Qi realizza coloratissime e moderne figure di ragazze, selvagge e rampanti, pronte a imporsi, padrone di sé, vuoi che affrontino il mondo protette da una nera pantera, anch’esse aggressive (“Beauty and the beast”, 2019) o in discesa da un battello, fasciata da hotpants e canottierona a righe verdi e nere, questa volta avendo alle spalle la presenza di un non certo meno pericoloso felide (stesso titolo, 2024). Ancora l’iperrealismo di Luo Zhiyi, intenso e prezioso di tecnica, nella continua ricerca di particolari che certo affascinano. Senza contare le operazioni di autori quali l’ormai acclamato Ai Weiwei, tra tappezzerie e ceramiche dipinte a mano, o di Wu Dewu con la sua “Butterfly”, luminescente tra angosciosi omini in nero, o Ma Fengyun che regala tre ritratti in stampa digitale su tela di altrettante bizzarre ma impagabili vegliarde che valgono da sole una visita.

Elio Rabbione

Nelle immagini, alcune opere degli artisti cinesi esposti in mostra.

Dopo tre secoli il Legnanino torna negli Appartamenti dei Principi di Palazzo Carignano 

20 dicembre 2025 – 6 gennaio 2026

 

Dal 20 dicembre al 6 gennaio, gli Appartamenti dei Principi di Palazzo Carignano accolgono nuovamente, dopo più di tre secoli di assenza, il dipinto Belisario chiede l’elemosina di Stefano Maria Legnani, detto Legnanino (Milano, 1661-1713) che affronta un tema inconsueto nella pittura barocca, rappresentando il generale romano Belisario caduto in miseria e reso cieco. La scelta iconografica ha un evidente valore allegorico legato alla biografia del committente che ne ordinò la realizzazione: al destino del condottiero si accosta la vicenda di Emanuele Filiberto di Savoia-Carignano, detto “il Muto”, i cui aspri contrasti con Luigi XIV culminarono con l’esilio per il rifiuto di un matrimonio imposto con una nobile francese.

Le figure sono organizzate in una composizione teatrale, divisa in due gruppi dal gioco di luce e ombra, che combina solennità classica e vivacità cromatica, derivata dai pittori genovesi attivi alla corte sabauda.

 

L’opera, eseguita intorno al 1697 per volontà del principe Emanuele Filiberto, torna oggi nella sua sede originaria grazie a un articolato percorso di studi, ricognizioni archivistiche e collaborazioni specialistiche che ne hanno permesso l’identificazione e il recupero. Commissionata allo scorcio del Seicento per decorare una sala degli appartamenti, la grande tela (208 × 195 centimetri), probabilmente collocata in origine al centro di un soffitto a cassettoni, fu trasferita successivamente a Parigi dal figlio del principe, Vittorio Amedeo. Alla morte di quest’ultimo, l’opera venne dispersa in seguito alla vendita all’asta del 1743, scomparendo dalla storia documentata del palazzo.

Riemersa sul mercato antiquariale francese all’inizio del Novecento, la tela fu acquistata dal capostipite di una famiglia fiorentina, con un’attribuzione allora riferita a Luca Giordano. Rimasta nelle raccolte della famiglia fiorentina fino ai giorni nostri, è stato sottoposta a un approfondito intervento conservativo tra il 2020 e il 2021 che ne ha restituito leggibilità e integrità. Il 3 novembre 2025 è stato firmato il contratto di acquisto da parte delle Residenze reali sabaude.

Il ritorno del Belisario nella sua collocazione originaria rappresenta un momento di grande significato per la storia artistica e collezionistica di Palazzo Carignano, che è al centro di un grande cantiere che consentirà il prossimo anno di aprire un percorso del tutto nuovo nella splendida residenza, dotata di soluzioni museali all’avanguardia.

INFO

Palazzo Carignano, via Accademia delle Scienze 5, Torino

L’esposizione è inclusa nel biglietto di ingresso.

Prezzi: intero € 5; ridotto € 2; gratuito under 18; titolari di Abbonamento Musei, Torino+Piemonte Card e Royal Pass; persone con disabilità e relativi accompagnatori; ulteriori agevolazioni secondo le normative vigenti.

Giorni e orari di apertura: sabato e domenica 10-13 e 14.15-18 (ultimo ingresso ore 17). Mercoledì 24 e mercoledì 31 dicembre chiusura alle 17 (ultimo ingresso ore 16). Aperture straordinarie: venerdì 26 e lunedì 29 dicembre, venerdì 2, lunedì 5 e martedì 6 gennaio. Chiuso nei giorni giovedì 25 e martedì 30 dicembre, mercoledì 7 gennaio.

L’acquisto del biglietto può essere effettuato online su www.museiitaliani.it oppure tramite l’App Musei italiani. Domenica 4 gennaio 2026, in occasione della prima domenica del mese a ingresso gratuito (visita libera) la prenotazione è obbligatoria e viene effettuata tramite l’acquisto anticipato online del biglietto.

Gli States… in cornice

Al “Forte di Bard”, grande mostra fotografica incentrata sul “racconto” degli Stati Uniti d’America con foto in arrivo dall’Agenzia “Magnum Photos”

Fino all’8 marzo 2026

Bard (Aosta)

Polo culturale d’eccellenza della Vallée, il sabaudo “Forte di Bard” appare sempre più orientato a diventare un vero e proprio “centro nevralgico” per quanto riguarda le esposizioni dedicate all’arte fotografica. Da poco conclusesi le rassegne “Oltre lo scatto” e “Gianfranco Ferré, dentro l’obiettivo”, e ancora in corso “Bird Photographer of the Year 2025”, l’ottocentesca Fortezza torna a proporre una nuova esposizione, a soggetto gli “States”, attingendo niente meno che dagli Archivi dell’Agenzia “Magnum Photos”, una delle più importanti Agenzie Fotografiche a livello mondiale, oggi guidata da Cristina de Middel e fondata ( inizialmente con due sedi, a New York e a Parigi) nel 1947 da Maestri del calibro di un Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger, William (detto Bill) e Rita Vandivert.

“Magnum America. United States”, é il titolo dell’attuale rassegna allestita nelle sale delle “Cantine” fino a domenica 8 marzo 2026, promossa, nel solco di un’ormai consolidata collaborazione sul fronte della fotografia storica e del costume dal “Forte” valdostano e da “Magnum”, e curata dalla critica d’arte Andrèa Holzherr, responsabile della promozione dell’“Archivio Magnum”. Organizzata in capitoli decennali, dagli anni ’40 ai giorni nostri, “l’esposizione – sottolineano gli organizzatori – ha quale primo obiettivo quello di porre a confronto persone ed eventi ordinari e straordinari, offrendo un’interpretazione commovente del passato e del presente degli Stati Uniti d’America, mettendone al contempo in discussione il futuro”. Il futuro di un Paese, cui “Magnum Photos” fin dai suoi inizi ha guardato con interesse e profonda analisi critica, com’era e com’é necessario per una nazione da sempre simbolo di “libertà” e “abbondanza”, ma anche di tensioni sociali, sconvolgimenti culturali e divisioni politiche non di poco conto e quasi sempre proiettate, nel bene e nel male, sul destino del resto del Pianeta.

Ecco allora, fra gli scatti in parete, l’iconica immagine di profilo di “Malcolm X” (Malcolm Little) attivista politico, leader nella lotta degli afroamericani per i “diritti umani”, assassinato durante un discorso pubblico ad Harlem all’età di soli 39 anni, da membri della “NOI – Nation of Islam”, gruppo “nazionalista nero” che predicava la creazione di una “nazione nera” separata all’interno degli States. Lo scatto è a firma della fotografa americana Eve Arnold, la prima free lance donna della “Magnum”. Di Bruce Gilden, ritrattista eccezionale di gente comune incontrata a Coney Island, piuttosto che a New York centro, è toccante il primo piano sofferente e affaticato di “Nathen”, ragazzo di campagna dell’Iowa, che non nasconde all’obiettivo la libera “voce” delle sue lacrime. E poi la grandiosa “Ella Fitzgerald” di Wayne Forest Miller, fra i primi fotografi occidentali a documentare la distruzione di Hiroshima, insieme al curioso caotico intrecciarsi di mani fra “John Fitzgerald Kennedy” e la folla dei sostenitori in un comizio per le “Presidenziali” del 1960.

Per molti dei fondatori europei di “Magnum”, l’America rappresentava “sia una nuova frontiera che un banco di prova per la narrazione fotografica”Robert Capa ha catturato il glamour di Hollywood e l’ottimismo del dopoguerra, mentre l’occhio attento di Henri Cartier-Bresson ha analizzato i rituali e i ritmi del Paese “con uno sguardo distaccato e antropologico”. Con la crescita dell’Agenzia, fotografi americani come Eve ArnoldElliott Erwitt e Bruce Davidson hanno contribuito con prospettive privilegiate, documentando tutto o quasi: dal movimento per i diritti civili e le proteste contro la “Guerra del Vietnam”, ai ritratti di comune quotidianità nelle piccole città e nelle grandi metropoli. Dai grandi trionfi ai più profondi traumi: il “V-day” (“Victory in Europa Day”), la Marcia su Washington, Woodstock, l’11 settembre, le campagne presidenziali, gli eventi sportivi, le manifestazioni culturali, i disastri naturali e le profonde cicatrici della disuguaglianza razziale ed economica. “Insieme, queste immagini formano un mosaico – concludono gli organizzatori – a volte celebrativo, a volte critico, sempre alla ricerca e che continua ad interrogarsi su cosa sia l’America e cosa potrebbe diventare”.

Gianni Milani

“Magnum America”

Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 0125/833811 o www.fortedibard.it

Fino all’8 marzo 2026

Orari: mart. – ven. 10/18; sab. – dom. e festivi 10/19. Lunedì chiuso

Nelle foto: Eve Arnold / Magnum Photos “Malcolm X”, Chicago, USA, 1961; Bruce Gilden / Magnum Photos “ Nathen, a farm boy”, Iowa, USA, 2017; Wayne Miller / Magnum Photos “Ella Fitzgerald”, Chicago, USA, 1948

“Una stanza tutta per me” in mostra al “MIIT”

Dieci artiste/i di gran “vaglia” e un suggestivo omaggio all’indimenticato Maestro Gianni Sesia della Merla

Fino al 22 dicembre e, ancora, dal 7 al 15 gennaio 2026

“Una stanza tutta per me”: titolo che ci riporta (senza sotterranei intenti narrativi) alla celebre “Stanza tutta per sé” di Virginia Wolf e mostra da non perdere, almeno per due motivi: la qualità mediamente più che alta delle opere esposte, in tutto una sessantina firmate da 10 artiste/i e, ancora, per la caratteristica (quasi da “mission impossibile”) di articolare quella che, senza tanti rompicapo, poteva presentarsi come semplice “collettiva” in una serie, studiata al millesimo, di 10 mini-personali. Merito– giusto ricordarlo – della capacità organizzativa di un instancabile “curatore”, qual è l’amico, Elio Rabbione. In buona compagnia con un gallerista come Guido Folco, da anni alla guida del “MIIT-Museo Internazionale Italia Arte” (corso Cairoli, 4), dove la mostra in oggetto sarà visitabile fino a lunedì 22 dicembre e, dopo una breve pausa natalizia (anche opere e artisti ne han ben donde!) da mercoledì 7 a giovedì 15 gennaio (Orari: da mart. a ven. 15,30/19,30 – sab. 10/12,30 e 15,30/19,30 – dom. 10/12,30).

 

Strana sensazione all’uscita! L’impressione è quella d’aver visitato, di “galleria” in “galleria”, un numero impressionante di mostre. Personalmente, al termine della visita, ho imboccato corso Cairoli portandomi appiccicati agli occhi, non meno che al cuore i grandi, portentosi “Ritratti” della brava Andreina Bertolini. Mestiere da vendere, non meno che capacità di fare dei volti umani (femminei, in particolare) strumenti di toccante poesia e forza emotiva. Volti raccolti e contrassegnati da diverse forze e qualità di colore (oltre che da una marcata gestualità d’impronta espressionistica) nelle loro vaganti “Stagioni della vita” o in quei suoi “Legami” dove le due attempate sorelle – gemelle dagli occhi cerulei (mi sono tornate alla mente le povere Gemelle Kessler!) appaiono legate da un “filo dorato”, “cordone ombelicale” inscindibile, segno della loro eterna inseparabilità.

E poi, che dolce incontro quello con Anna Maria Palumbo (presente, deliziosa all’inaugurazione), con i suoi dipinti; acquerelli di un’infinita aggraziata lievità accanto ai suoi oli, agli acrilici e alle tempere di più robusta matrice cromatica in quel complesso intrecciarsi di boschi fogliame e fiori, dove può anche far breccia, per un birichino saluto, il vispo musetto di un micio in cerca di coccole. Un sorriso, ed eccoci fuori dal mondo reale con le “favole antiche” (“Fantasmagorie”) del biellese Fabio Cappelli“Ritratti ricavati da una Storia antica e stralunata”“personaggi improbabili”, di una certosina grafia segnica, “strampalati” nel prezioso minuto gioco di sovrapposizioni e intromissioni figurali capaci di farti emergere perfino (ed è pure poco) un “castello turrito” dal crine impreziosito di una nobil dama d’altri tempi.

Altra storia, i pastelli e le sculture (forte il richiamo alla “spazialità” fontaniana o alle “prime cavità” di Henry Moore) di Romilda Cuniberto, con le sue informali, pesanti “circolarità”, mentre con Lidia Delloste ritorna la leggerezza e l’immediata trasparenza dell’acquerello, tecnica praticata dall’artista ad altissimi livelli. Nelle sue opere, leggiamo la quotidianità delle cose, gli umili oggetti di un “mondo antico” che sono sempre stati lì, che ti parlano di infanzia, della “ricerca di un tempo perduto” ormai imprendibile. Dal mondo professionale della medicina arriva, invece, Franco Gioia, da sempre appassionato e attualmente praticante a tempo pieno di pittura. Amante del colore, Gioia passa (spesso accompagnato dai piacevoli versi della moglie Anna) dai più rari toni morbidi di paesaggi esotici, ai rossi e ai verdi accesi del “Giardino di Manu” e dei “Papaveri a Castiglione”, per esplodere senza riserve nelle sue ingombranti fantasiose “mongolfiere”, a bordo delle quali librarsi per “toccare il cielo con un dito”. Diplomata in “Scenografia” presso l’“Accademia Albertina”, Marina Monzeglio dà prova di sbizzarrirsi, con esiti di notevole interesse, fra acquerelli “ricchi, opulenti e dorati” e “vetri” dalla forma circolare e sinuosa, in cui esplodono quieti, piacevoli richiami al mondo “Liberty”.

In linea d’arrivo, gli oli intensi, dal segno netto e dai colori accesi della carmagnolese Angela Panero, che ci parla di terre lontane, con storie di donne e uomini prigionieri da sempre di lavori e fatiche ataviche; a seguire, l’assordante visionarietà (“metafore universali”) della “pouring art” o “fluid art” di Luciana Pistone, per finire con i silenti scorci urbani, assordanti nel loro “nulla”, di Margherita Vaschetti“perfetti campi cinematografici all’Antonioni”, mi sussurra il Rabbione, saggio critico cinematografico oltre che d’arte. Ed è proprio a lui che affido la toccante descrizione dell’ultima stanza “tutta per sé” (26 dipinti in parete), omaggio, a due anni dalla scomparsa, all’indimenticato Gianni Sesia della Merla“Con l’aiuto delle figlie Rossana e Barbara, ho voluto rendere un omaggio, a quel grande artista e amico, che è stato Sesia della Merla, al tocco magico che usciva dalla sua tavolozza, ai paesaggi e alle ambientazioni, alla natura e ai vasti mercati orientaleggianti scoperti durante i viaggi, ma anche ai consigli, alle nostre chiacchierate pomeridiane, lui seduto sul divano di casa e io lì ad ascoltare il racconto di mondi che ancora adesso mi porto dentro”.

Gianni Milani

Nelle foto: Andreina Bertolini “Le due sorelle”, acquerello su tela”, 2025; Anna Maria Palumbo “Il gatto si affaccia”, olio su cartone telato, 2006; Fabio Cappelli “Personaggio improbabile 6”, tempera su carta, 2020; Lidia Delloste  “Tazzone e lumino”, acquerello su carta, 2006; Gianni Sesia della Merla “Fuori le mura di Marrakesh”, tecnica mista, 1981

Superare la realtà, tra acquerelli e disegni

Alla galleria Fogliato sino al 24 gennaio

Di origini astigiane, la sua scuola è stata l’Accademia Albertina di Torino, i suoi maestri Enrico Paulucci, Mario Davico, Mario Calandri e Francesco Franco, sue importanti mostre negli anni a Torino e Milano, a Firenze Bologna e Acqui Terme. Anna Lequio è ospite sino al prossimo 24 gennaio della galleria Fogliato di via Mazzini con la mostra “Acquerelli e disegni”, una quarantina di opere che nel loro lungo percorso artistico guardano alla realtà senza che impediscano a se stesse di lasciar trapelare “l’anima delle cose”, che fuoriesce dall’intimità delle stanze, dai piccoli oggetti di ogni giorno, dai tavolini e dalle lampade che sono non soltanto arredamento, dai luoghi aperti, dalle sinuosità dei corpi femminili, dalle cascate di mele a formare tappeti e di fiori, dalle viole leggere, timidamente accennate, che sono ricordo, abbozzo, accenno, semplice vaghezza impalpabile. Aveva in altro tempo l’artista denunciato a Marco Vallora: “…vorrei vedere se attraverso uno strumento tecnico così connotato storicamente come l’acquerello, che ha avuto modo di essere un luogo obbligato, di essere stato così usato al femminile, si possa invece suggerire una forza vera di emozione, cioè tentare di scavare sul piano tecnico tutto quello che questo modo di dipingere può regalare e sono delle sorprese notevolissime…”. Il desiderio di superare la tradizione, di sperimentare, di indagare passo dopo passo, occasione dopo occasione, di giocare con le macchie di colore ma altresì di offrire a chi guarda suggestioni e incanti stupendi, spingendosi a estrarre messaggi da quella geografia che è tutta sua, personalissima.

Non appena entrati in galleria, t’accoglie “Lo studio del pittore”, del 1988, di piccole dimensioni e infuocato di luce interna, una seggiola un lungo tavolo una piccola scultura, lo specchio di una esistenza e intimistico legame tra vita e arte, luogo di vita e di sensazioni, di sogni costruiti o sorti per caso, sul fondo un oblò di paesaggio che al confronto appare quasi freddo, anticipato dall’immagine di un albero notturno posata su quel tavolo; poco lontano “Felicitas” (12 x 20 cm), del 1994, un minuscolo cartoncino ad abbracciare un tavolino e una lampada e i versi di Lalla Romano (da “Vertigine”, “Allor non invocato / tu entri nei miei sogni…”); e “Marionette, maschere”, del 2014, già apprezzato una decina di anni fa in una mostra, “L’arte dell’acqua”, che chi scrive queste note curò nelle sale di palazzo Lomellini, a Carmagnola, un sapiente studio di luci e ombre, un fanciullesco “gioco dei fili” che, mentre ombreggia quanto è forse una recensione o un articolo di presentazione di un giornale, gioca di riflessi ambientali, in un luogo che è fuori dal tempo, e allo stesso tempo dentro una realtà che si astrae per divenire soltanto fervida emozione. Una introduzione alle più trattenute opere d’arte, ai suoi acquerelli, ai luoghi dell’anima, alle suggestioni che prendono ogni giorno l’artista. I paesaggi esplodono nelle “Rose in riva al mare”, dove Lequio prova “stupore di fronte alla realtà” quando “la vita è ossimorica”, all’interno del triplice piano che include un cielo tra l’azzurro e il rosato e fiori e mare, dove ogni parte appare sospesa, incantata, felice e pregna di vibrazioni e raffinata, lontana dal déjà vu, immaginifica e aerea, uno specchio e uno stralcio di vita forse vissuta, e ancora l’omaggio a Chagall (ancora “rose”, del 2021-’23); gli ambienti racchiusi in un bozzolo tutto proprio – “una stanza tutta per sé”, avrebbe detto Virginia Woolf – come in un obiettivo che inquadra lontano, la ventennale “Stanza degli amanti”, calchi a rappresentare corpi sfatti e abbracci di corpi nudi, un perdersi di stanze in case borghesi, macchie e accenni e velature ancora sospese, ambienti che trovano vita anche in angoli più impregnati d’oscurità ma dove sempre l’occhio del visitatore è guidato da un fascio di luce (“Risveglio”, 1995 come “”Nel museo”, 1991), ambienti che si popolano di fantasmi di forma improvvisa, che carezzano l’umanità (e i suoi dolori, “L’amore in vendita”, 2006, intrigante e bellissimo) nell’”attesa dell’ora”, un nudo di donna a esprimere la fragilità ma pure una sentinella a vegliare una luce sul fondo, a rischiarare, simbolica di speranza, un dialogo tra esterno e interno, tra silenzi e voci che verranno.

E poi i disegni. Al piano inferiore della galleria. Il trionfo delle grandi dimensioni, tra carboncini e gessetti, a raccontare corpi, di ragazzi e di donne, adagiati su una “coperta fiorita” (del 2008), a rispecchiarsi in una prospettiva felicemente superiore (“Narciso”, dei primi anni del millennio), muscolature perfettamente intese e poggiate su una liberissima parete di tratti nerissimi, un corpo giovanile che con trasporto guarda a certe sanguigne o a taluni inchiostri di De Pisis. Delicatezze, momenti di poesia, il piacere dell’acqua che scivola copiosa e tutta da trattenere e dei tratti del disegno: in una mostra assolutamente da vedere.

Elio Rabbione

Nelle immagini, di Anna Lequio “Il canto del glicine” (2016), “Interno con nudo” (2001) e “Rose e mele” (2003).

Il fuso di Kronos: ultimi giorni

In esposizione al “Museo del Tessile” di Chieri il Progetto artistico – interdisciplinare del kazako, d’origine, Lev Nikitin

Dal 13 novembre al 13 dicembre

Raccontare la propria vita, impresa tutt’altro che facile, attraverso gli strumenti, i più vari, dell’agire artistico. E, attraverso l’arte, cercare e , forse, trovare una via di fuga da quel terribile “fuso di Kronos” ( Kronos, ricordate? Il più giovane dei Titani, padre di Zeus, che nell’antica mitologia greca mangiava i suoi figli per paura di esserne spodestato) che imbriglia nella fitta rete della crudeltà l’esistenza di chi è altro da noi, del più debole, dei reietti, degli invisibili e degli espulsi dal comune vivere sociale. In un pensoso, toccante “Autoritratto” ad olio, con la pelle tormentata da simboliche presenze volatili che gli mortificano il viso, Lev Nikitin racconta proprio questa condizione dell’esistere “che è metafora – racconta – della violenza che si ripete”. E ancora: “ Kronos che divora i suoi figli non è solo un mito antico: è la logica attuale dei sistemi educativi, sociali, giuridici, artistici. E noi, per non essere divorati, gettiamo ogni giorno nella sua bocca simulacri filati con il nostro stesso’ fuso’ dell’essere”.

Non è mostra di facile intesa, ma gradevolissima e di alta qualità, “Il fuso di Kronos” (titolo emblematico di quanto sopraddetto) che, da giovedì 13 novembre a sabato 13 dicembre, la “Fondazione Chierese per il Tessile e per il Museo del Tessile” di Chieri dedica (con il sostegno della “Città di Chieri” e della “Regione Piemonte” e con il patrocinio dell’Associazione Culturale “Russkii” di Torino e della “Fondazione “Osten” di Skopje) al giovane Lev Nikitin. Nel complesso, sono 20 (un’installazione “site specific”, oli su tela e costumi teatrali) le opere dell’artista e attivista russo (ormai chierese d’adozione) accolto in residenza dal 2024.

Nato nell’ ’85 in Kazakistan, Nikitin si trasferisce in Russia nel 1993. Lascia Mosca nel 2022, in seguito al conflitto Russo-Ucraino e alle crescenti politiche discriminatorie nei confronti della comunità LGBTQ+. Nel 2023 ottiene asilo politico in Italia., aprendo un nuovo capitolo nella sua vita e nel suo lavoro. Dopo essersi sentito ignorato nel suo Paese d’origine, dove ha affrontato marginalizzazione e omofobia, l’artista trova in Piemonte e a Chieri l’opportunità di ricostruire il proprio senso di identità. E proprio questa nuova situazione aprirà un importante processo di “rinascita e ricostruzione della materia e dello spirito” attraverso la pittura, la scultura, la performance e il medium tessile.

L’abilità nel percorrere il gesto e il senso estremamente misurato e delicato (a tratti misteriosamente “sbiadito”) del colore gli derivano, in particolare nella pittura a olio, dalle “avanguardie” della grande Scuola della pittura russa post-espressionistica, corrente che molto, nelle sue varie articolazioni, ha influito sulla sua capacità di trasformare – sottolinea Melanie Zefferino, presidente della ‘Fondazione chierese per il Tessile e Museo del Tessile’ – passamanerie chieresi un poco ‘fané’ in scintillanti corpetti che possiamo immaginare indossati da ‘performer’ memori della Compagnia dei ‘Ballet Russes’ fondata da Sergej Pavlovič Djagilev e dei meravigliosi costumi di Léon Bakst”. Approdato qui viaggiando sul filo dell’arte – prosegue la presidente Zefferino – Lev Nikitin ha portato a Chieri la sua personale visione del mondo espressa creativamente con una tecnica tesa alla perfezione, facendo onore alle tradizioni culturali e artistiche di cui reca il prezioso bagaglio … E così abbiamo fatto noi perseguendo valori di inclusione e sviluppo dei talenti, così da poter oggi assecondare la ‘danza’ di Nikitin a Chieri e al suo Museo, ‘theatrum’ delle arti tessili con protagonisti internazionali in dialogo con le identità di una comunità plurale.

“Comunità plurale” che è obiettivo principe del Nikitin uomo ed artista. Arduo percorso, per la cui uscita “io artista – racconta Nikitin – come Penelope al telaio, lavoro segretamente disfacendo le trame di una tela ordita dal Titano più crudele”. Un processo che lo impegna nel campo multiforme di una tecnica ineccepibile, ma soprattutto sul piano dell’emotività e di antiche dolorose memorie difficili da mettere a parte; “un progetto artistico che si estrinseca – conclude Nikitin – anche come struttura teatrale  traendo ispirazione dal ‘Teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud: un teatro che colpisce il corpo dello spettatore, che lacera il linguaggio, che rompe il ritmo e nega il conforto. In questo senso, il mio ‘teatro della crudeltà’ è precursore di un’etica di resistenza al vuoto. Rifiuta la narrazione, la mimica, l’illusione. Non spiega, ma costringe a vivere”. Dipanando, senza sosta, quella terribile infinita matassa del “fuso di Kronos”.

Gianni Milani

“Il fuso di Kronos”

Museo del Tessile”, via Santa Clara 6, Chieri (Torino); tel. 329/4780542 o www.fmtessilchieri.org

Dal 13 novembre al 13 dicembre. Orari: mart. 9/13; merc. 15/18 e sab. 14/18

Nelle foto: Lev Nikitin: “Autoritratto”, olio su tela; Parte dell’allestimento e “Costume teatrale”

“Egitto. Nothing But Gold”, la mostra firmata dal fotografo Al Salerno

Da “Combo” a Torino, anteprima sull’Egitto d’oggi

Domenica 14 dicembre, ore 17,30

Quando nel 1922, fu chiesto al famoso archeologo britannico Howard Carter che cosa mai riuscisse a vedere dallo spioncino di una tomba, scoperta in Egitto nella Valle dei Re, durante gli scavi finanziati da Lord Carnarvon, Carter rispose con la celebre frase “Nothing But Gold – Nient’altro che oro, solo oro”. Ma quella non era una tomba “qualunque” e quella scoperta segnò un’era. La tomba, infatti, era quella di Tutankhamon (nota anche come “KV62”), giovane faraone della XIII dinastia – durante il periodo della storia egizia noto come “Nuovo Regno” – che salì al trono a solo nove anni e morì nove anni dopo, a 18. Tomba ritrovata quasi intatta, la sua scoperta ricevette ai tempi una copertura mediatica mondiale, suscitando un rinnovato interesse pubblico per l’Antico Egitto, per il quale proprio la “maschera funeraria” del giovane faraone, conservata nel “Museo Egizio” del Cairo, rimane forse il simbolo più popolare. Tant’è che reperti provenienti dalla sua tomba hanno compiuto negli anni il giro del mondo. E perfino le parole pronunciate da Howard Carter divennero lapidarie nel loro esaltante stupore. E dunque, eccole ancor oggi accompagnare, nel titolo, “Egitto. Nothing But Gold”, la mostra – parte del più ampio Progetto “A occhi aperti” – del fotografo analogico torinese (di base a Palermo) Al Salerno, ospitata in una decina di eccellenti e suggestivi scatti negli spazi del “Combo”, innovativo “hub culturale e ricettivo” situato a Porta Palazzo nell’ex “Caserma dei Vigili del Fuoco”, in corso Regina Margherita 128, a Torino.

Curata dal fotografo torinese Stefano Carini, l’esposizione è visibile la prossima domenica, 14 dicembrealle 17,30, nell’ambito del pomeriggio culturale “Spedizione in Egitto”, pensato per raccontare, in modo particolare, l’Egitto di oggi e per mostrare e raccontare il nuovo “Museo Egizio” de Il Cairo – riaperto il 4 novembre scorso con i suoi oltre 100mila reperti, tra cui l’intera collezione del “tesoro di Tutankhamon” esposta per la prima volta al completo – per finire con l’esposizione delle immagini del “Deserto Bianco”, chiuso alle rotte turistiche per oltre dieci anni a causa di problemi di sicurezza.

L’intera organizzazione dell’evento si deve ad “Archètravel”, tour operator torinese che, da sempre, si occupa non solo di organizzare viaggi, ma anche di proporsi come “motore d’iniziative culturali”. Dopo aver dato vita, negli scorsi anni, a “Guide” e “Podcast”, ora “Archètravel” organizza anche iniziative culturali dal vivo: la giornata torinese sarà la prima e verrà poi replicata a Milano, Bologna e Roma.  Non solo. A queste ne seguiranno, infatti, altre su Paesi diversi e la proposta non si fermerà a questo: “La nostra concezione del viaggio – spiegano infatti i responsabili, Andrea Dattoli e Tiziano Salerno – nasce dal significato originario del ‘Grand Tour’, quello che si sviluppò tra il XV e il XVI secolo: un percorso pensato per la formazione dell’individuo attraverso l’incontro con il mondo. Non un viaggio di mera fruizione, ma un’esperienza per crescere, osservare, dialogare, lasciarsi attraversare dalla storia, dall’arte, dalle comunità”.

Nel corso del talk, moderato dalla giornalista Chiara Priante, si potranno ascoltare i racconti di Alberto De MinTour Leader e Travel Designer, e Federico Genre, Product Manager di “Archètravel”, che racconteranno l’Egitto di oggi, al di là delle rotte più note, oltre alla voce del fotografo Al Salerno e del curatore Stefano Carini, nonché a quella dei fondatori di “Archètravel” ed esperti viaggiatori, Tiziano Salerno e Andrea Dattoli.

“ ‘Nothing But Gold’ – spiega il curatore Stefano Carini – è un diario visivo che trasforma un’esperienza individuale in un linguaggio condivisibile. Ciò che l’autore restituisce non è l’Egitto come concetto, ma l’Egitto come incontro: una terra stratificata, complessa, in cui la bellezza convive con l’inesorabile. E dentro questa complessità, ciò che emerge con più forza – nelle persone, nei colori, nella luce – è quella stessa percezione che Carter tentò di tradurre un secolo fa aprendo per la prima volta da millenni la tomba di Tutankhamon: un sentimento di meraviglia che, pur non essendo mai spettacolare, rimane innegabile”.

Parole che ben concordano con le affermazioni dello stesso fotografo Al Salerno“Non ho nessun dubbio su cosa sia la cosa che più mi ha colpito tra caotiche città e deserti silenziosi: l’anima della gente. La gentilezza dei volti, l’empatia mai centellinata. Il mio viaggio è stato questo e questi sono i miei ricordi in fotografia. E quando qualcuno mi chiederà che cosa ho visto laggiù non potrò che rispondere in un solo modo: ‘Nothing But Gold’”.

Attenzione! Nel corso della serata è previsto anche un aperitivo. Per partecipare: https://www.archetravel.com/live/evento-egitto-torino/

Per info: “Archétravel”, via Frassinetto 49, Torino; tel.011/19821722 o www.archetravel.com

Gianni Milani

Nelle foto: Al Salerno “Alle piramidi di Giza”, Il Cairo, 2025; “Templi di File ad Aswan: Alberto De Min, Tiziano Salerno e Alberto Salerno”; “Al mercato di Downtown”, Il Cairo, 2025

Manifesti per “raccontare” Biella

Uno sguardo “nuovo”, tra ironia e riscoperta, sull’antica “Bugella” attraverso le opere di Dalla Fontana & Maffeo e del fotografo cinese Jin Ting

Dal 1° dicembre

Biella

Nato nell’ambito del Progetto “Da cosa nasce cosa” (ideato nel 2021 da “BI-BOx Art Space”, Galleria biellese tesa alla divulgazione del “contemporaneo”) e ampliato nel 2024 sotto il tema “La città che vorrei”, con l’intenzione di sfatare il pregiudizio che classificherebbe tutta l’arte contemporanea come “astrusa e incomprensibile”, a Biella tale pregiudizio torna ad essere nuovamente messo fuori gioco con l’idea di “sorprendere” (si spera, felicemente) i cittadini biellesi, che da lunedì 1° dicembre (e per 15 giorni) si troveranno a transitare  nella piazza della stazione ferroviaria di “Biella San Paolo” e nella zona della “Rotonda” tra Chiavazza, Vigliano ed il raccordo della superstrada, attraverso la sostituzione delle consuete pubblicità con due elementi “fuori posto”, in grado di “interrompere – dicono da ‘BI-BOx Art’ – lo sguardo automatico, spingendo ad interrogarsi sul ruolo delle immagini e sul valore degli oggetti nella nostra vita quotidiana”.

Quei due elementi “fuori posto” sono semplicemente “Manifesti” (6×3) nati da “immaginari e culture differenti”, che – seguendo loro specifiche motivazioni creative ed emozionali – aprono sguardi assai diversi sulla relazione “oggetti-identità-memoria”“BIGO Moments”, opera inedita del grafico Andrea Dalla Fontana e del “naturalista – geologo” Stefano Maffeo (entrambi operanti in “Arc-en Ciel”, società attiva nella comunicazione scientifica, didattico – ambientale, attività outdoor e progettazione turistica) rivisita con ironia i più tradizionali stereotipi biellesi attraverso il linguaggio pubblicitario, mentre “Portrait of Time” del fotografo cinese, oggi residente a Shangai, Jin Tin trasforma un macchinario tessile d’antan (il “cucisacco”) in un’immagine sospesa e sopravvissuta al tempo, lirica e malinconica nel suo silente donarsi agli occhi dei passanti.

Bizzarro, curioso e anche un po’ irriverente, il “BIGO Moments” del duo Dalla Fontana – Maffeo “se a un primo sguardo somiglia in tutto – sottolinea la nota stampa – a un cartellone promozionale, osservandolo meglio si rivela come un catalogo semiserio dell’immaginario biellese, dove ogni ‘scatola BIGO’ rappresenta un frammento riconoscibile della cultura locale: il tinello Aiazzone, la funicolare del Piazzo, Quintino Sella, la polenta concia, e altre piccole mitologie quotidiane che abitano la memoria collettiva. Partendo dall’estetica pop e dai codici del consumo, il progetto mette in scena una riflessione sul senso di appartenenza e sulla costruzione dell’identità territoriale”. Ecco allora chiederci: Quale simbolo portarci a braccetto? Da quale sentirci meglio rappresentati? E quale, a rifletterci su, ci pare meno rappresentativo, se non inutile?

Domande lecite, non impegnative su cui farci pure una permessa, ben accetta, risatina. Per questa ragione, attraverso una sezione apposita del manifesto, le persone saranno anche invitate a inviare delle proposte, indicando quale sia l’oggetto che secondo loro rappresenta maggiormente Biella.

Le varie suggestioni verranno illustrate dagli artisti e presentate venerdì 12 dicembrealle 18, in un evento programmato alla Galleria “BI-BOx”.

Un taglio creativo molto diverso troviamo, invece, nella serie di Jin Ting “Portrait of Time” (curata dalla fotografa americana ma italiana d’adozione L. Mikelle Standbridge e dal fotografo biellese Fabrizio Lava) nata da una “residenza d’artista” di due settimane nelle cinque valli montane del Biellese, svoltasi nel settembre 2024 in occasione della mostra “Viaggio – Orizzonti, Frontiere, Generazioni”, curata da “Stilelibero”, Associazione locale impegnata a organizzare mostre di giovani artisti emergenti appartenenti alla cosiddetta “Generazione Z”. Durante la residenza, Ting ha costruito un “ponte ideale” tra la sua sensibilità e il “patrimonio industriale biellese”, trovando come luogo di ispirazione l’ex “Lanificio Fratelli Zignone”, oggi “Fabbrica della Ruota”, un complesso industriale del XIX secolo che conserva macchinari e strumenti dell’era prevalentemente contraddistinta dalla produzione del Tessile. Qui Ting ha voluto cristallizzare nel tempo le immagini custodite da un luogo che deve averlo fortemente affascinato nella sua capacità di conservare integri squarci di storia industriale fatta di oggetti e macchinari abbandonati, isolati in una narrazione fotografica scarna e senza fronzoli, in una totalità di soggetti che, pur nella loro apparente freddezza, “rivelano un’inaspettata sensualità” nella luce soffusa, nell’accettazione scenica del materiale consumato e in quella toccante solitudine degli stessi oggetti. Due modi d’intendere la città, le sue presenze, la sua storia. Invenzioni “da strada” su cui riflettere, sorridere, o perdersi in un misurato guizzo di nostalgia.

Per maggiori info: “BI-BOx Art Space”, via Italia 38, Biella; tel. 3497252121 o www.bi-boxartspace.com

 Gianni Milani

Nelle foto: Andrea Dalla Fontana e Stefano Maffeo; “BIGO Experience_transumanza”; Jin Ting; “Portrait of time_Cucisacco”

“Dove le liane s’intrecciano”, al “PAV” di Torino

La natura per raccontare … nella mostra personale di Binta Diaw 

Fino all’8 marzo 2026

Le liane. Il riferimento alle piante rampicanti, caratteristiche in particolare delle regioni tropicali, “capaci di adattarsi e resistere, simbolo di alleanze vitali e resilienze collettive”, è da subito focus illuminante di quanto l’artista italo-senegalese Binta Diaw voglia proporci, attraverso opere installative e multimateriche, nella personale presentata, fino a domenica 8 marzo 2026, al “PAV– Parco Arte Vivente” di via Giordano Bruno a Torino. Ma ancor più elemento chiarificatore è il “sottotitolo” dato alla rassegna: “Resistenze, alleanze, terre”. Curata da Marco Scotini (direttore di “FM – Centro per l’Arte Contemporanea” di Milano e responsabile del programma espositivo del “PAV”), dopo le personali dell’artista indiana Navjot Altaf, dell’indonesiana Arahmaiani e della guatemalteca Regina José Galindo, la mostra di Binta Diaw (nata a Milano nel 1995) ma cresciuta fra Italia e Senegal, rappresenta un nuovo importante capitolo nell’indagine da tempo percorsa dal “PAV” sui “legami tra natura, corpo femminile e pensiero decoloniale”. Attraverso installazioni ambientali, che diventano “forma estetica” attraverso i più vari “materiali organici e simbolici” (come terra, gesso e corde fino ai capelli sintetici e alle bandiere arrotolate) l’artista affronta tematiche di stretta e strettissima attualità, ma anche di forte impronta storica come la “memoria diasporica afrodiscendente”, in un lungo cammino che arriva ai nostri giorni, agli ingorghi della contemporaneità, come la “sopravvivenza ecologica” e la “resistenza o resilienza femminile”.

In tal senso sono due le opere chiave, al centro della rassegna. La prima, quella “Dïà s p o ra” (2021), installazione già presentata alla “Biennale di Berlino 2022”, composta da una struttura sospesa simile a una ragnatela, realizzata con trecce di capelli ed evocante la resistenza silenziosa delle donne senegalesi schiavizzate, che nascondevano semi e mappe nei capelli, trasformando la materia in archivio vivente e luogo di sopravvivenza clandestina; la seconda “Chorus of Soil” (2019), riproduzione della “pianta” della nave negriera “Brooks”, realizzata con terra e semi. Qui, le sagome degli schiavi, simbolo di oppressione, diventano anche germinazioni vegetali, trasformando la nave in un “giardino di memoria e rinascita”.

La serie “Paysage Corporel” “Nature” (2023) ha come protagonista il corpo dell’artista, trasformato in una sorta di sfumate “dune desertiche” e reinterpretato (stampa a getto di inchiostro su carta di cotone montata su dibond – pannello composito di alluminio) come “paesaggio”.

Completa il percorso l’opera video “Essere corpo”, che sintetizza, in un unico “dove”, le connessioni tra memoria, corpo e natura, trasformando lo spazio espositivo in un luogo di passaggio corporale e mentale, in cui far rinascere una costruttiva relazione fra esseri viventi.

“La mostra si configura – si legge in nota – come un paesaggio corale in cui dimensione estetica e politica si intrecciano, offrendo nuove immagini di comunità e appartenenza. E dunque, con questa mostra il ‘PAV’ conferma il proprio impegno nella costruzione di una nuova ecologia politica, capace di ripensare i rapporti tra arte, natura e società globale”.

Da segnalare:

Nell’ambito della personale di Binta Diaw, mercoledì 10 dicembre, le “AEF/PAV – Attività Educazione Formazione” propongono “Wunderkammer d’Altrove”, corso di formazione ideato nell’ambito della Rassegna “aulArte”, sostenuta dalla “Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT”, per favorire l’accesso ai luoghi di cultura dei docenti delle scuole piemontesi ad attività di formazione basate sulle pratiche dell’arte contemporanea. Per le scuole e i gruppi che visiteranno la mostra “Dove le liane s’intrecciano. Resistenze, alleanze, terre” e le installazioni presenti nel Parco (23.500 mq) viene proposto “Radici volanti”, laboratorio in movimento che si situerà nello spazio interno al Museo o nel vasto Parco, dove i partecipanti “produrranno, punto dopo punto, una catena tessile per legarsi gli uni agli altri in un’azione ludica e collettiva”.

Gianni Milani

“Dove le liane s’intrecciano. Resistenze, alleanze, terre”

PAV – Parco Arte Vivente, via Giordano Bruno 31, Torino; tel. 011/3182235 o www.parcovivente.it

Fino all’8 marzo 2026

Orari: ven. 15/18; sab. e dom. 12/19

 

Nelle foto: Binta Diaw; “Chorus of Soil” (2019); “Paysage Corporel – Nature I” (2023)

I segreti della Gran Madre

Torino, bellezza, magia e mistero

Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo1: Torino geograficamente magica
Articolo2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo3: I segreti della Gran Madre
Articolo4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo10: Torino dei miracoli

Articolo 3: I segreti della Gran Madre

La città di Torino è tutta magica, ma ci sono dei punti più straordinari di altri, uno di questi è la chiesa della Gran Madre di Dio, o per i Torinesi, ël gasometro. La particolarità del luogo è già nel nome, è, infatti, una delle poche chiese in Italia intitolate alla Grande Madre. L’edificio, proprietà comunale della città, venne eretto per volontà dei Decurioni a scopo di rendere onore al re Vittorio Emanuele I di Savoia che il 20 maggio 1814 rientrò in Torino dal ponte della Gran Madre (la chiesa sarebbe stata edificata proprio per celebrare l’evento), fra ali di folla festante. Massimo D’Azeglio assistette all’evento in Piazza Castello. Il dominio francese era finito e tornavano gli antichi sovrani. Il passaggio del Piemonte all’impero francese aveva implicato una profonda trasformazione di Torino: il Codice napoleonico trasformò il sistema giuridico, abolì ogni distinzione e i privilegi che in precedenza avevano avvantaggiato la nobiltà, la nuova legislazione napoleonica legalizzò il divorzio, abolì la primogenitura, introdusse norme commerciali moderne, cancellò i dazi doganali. La spinta modernizzatrice avviata da Napoleone con il Codice civile fu di grande impatto e le nuove norme commerciali furono fatte rispettare dalla polizia napoleonica con un controllo sociale nella nostra città senza precedenti. Tuttavia il carattere autoritario delle riforme napoleoniche relegava i Torinesi a semplici esecutori passivi di ordini imposti dall’alto e accrebbe il malcontento di una economia in difficoltà. Quando poi terminò la dominazione francese non vi fu grande entusiasmo, né vi fu esultanza per l’arrivo degli Austriaci. L’8 maggio 1814 le truppe austriache guidate dal generale Ferdinand von Bubna-Littitz entrarono in città, e prontamente rientrò dal suo esilio in Sardegna il re Vittorio Emanuele I, il 20 maggio dello stesso anno. Il re subito volle un immediato ritorno al passato, ossia all’epoca precedente il 1789, abrogando tutte le leggi e le norme introdotte dai Francesi. Il nuovo regime eliminò d’un tratto il principio di uguaglianza davanti alla legge, il matrimonio civile e il divorzio, e reintrodusse il sistema patriarcale della famiglia, le restrizioni civili riservate a ebrei e valdesi e restituì alla Chiesa cattolica il suo ruolo centrale nella società. Il 20 maggio 1814 fu recitato un Te Deum nel Duomo di Torino per celebrare il ritorno del re, che si fermò a venerare la Sacra Sindone. L’autorità municipale festeggiò il ritorno dei Savoia costruendo una chiesa dedicata alla Vergine Maria nel punto in cui il re aveva attraversato il Po al suo rientro in città. A riprova di ciò sul timpano del pronao si legge l’epigrafe “ORDO POPVLVSQVE TAVRINVS OB ADVENTVM REGIS”, (“L’autorità e il popolo di Torino per l’arrivo del re”) coniata dal latinista Michele Provana del Sabbione.

La chiesa, di evidente stampo neoclassico, venne edificata nella piazza dell’antico borgo Po su progetto dell’architetto torinese Ferdinando Bonsignore; iniziato nel 1818, il Pantheon subalpino venne ultimato solo nel 1831, sotto re Carlo Alberto. L’edificio ubbidiva all’idea di una lunga fuga prospettica che doveva collegare la piazza centrale della città, Piazza Castello, alla collina. La chiesa è posta in posizione rialzata rispetto al livello stradale, e una lunga scalinata porta all’ingresso principale. Al termine della scalinata vi è un grande pronao esastilo costituito da sei colonne frontali dotate di capitelli corinzi. All’interno del pronao vi sono ai lati altre colonne, affiancate da tre pilastri addossati alle pareti. Eretta su un asse ovest-est, con ingresso a occidente e altare a oriente, essa presenta orientazioni astronomiche non casuali: a mezzogiorno del solstizio d’inverno, il sole illumina perfettamente il vertice del timpano visibile dalla scalinata d’ingresso. Il timpano, sul frontone, è scolpito con un bassorilievo in marmo risalente al 1827, eseguito da Francesco Somaini di Maroggia, (1795-1855) e raffigura la Vergine con il Bambino omaggiata dai Decurioni torinesi. Ai lati del portale d’ingresso sono visibili due nicchie, all’interno delle quali si trovano i santi San Marco Evangelista, a destra, e San Carlo Borromeo, a sinistra. Fanno parte dell’edificio due imponenti gruppi statuari, allegorie della Fede e della Religione, entrambi eseguiti dallo scultore carrarese Carlo Chelli nel 1828. Sulla sinistra si erge la Fede, rappresentata da una donna seduta, in posizione austera, con il viso serio, sulle ginocchia poggia un libro aperto che tiene con la mano destra, con l’altra, invece, innalza un calice verso il cielo. Spunta in basso alla sua destra un putto alato, che sembra rivolgersi a lei con la mano sinistra, mentre nella destra tiene stretto un bastone. Dall’altro lato si trova la Religione, raffigurata come una matrona imperturbabile e regale: stringe con la mano destra una croce latina e sta seduta mentre guarda fissa l’orizzonte, incurante del giovane che la sta invocando porgendole due tavole di pietra bianca. I capelli sono ricci, e sulla fronte, lasciata scoperta dal manto, vi è una sorta di copricapo, come una corona, su cui compare un simbolo: un triangolo dal quale si dipartono raggi. Spesso, con un occhio al centro del triangolo, il simbolismo è usato in ambito cristiano per indicare l’occhio trinitario di Dio, il cui sguardo si dirama in ogni direzione, ma anche in massoneria è un importante distintivo iniziatico. Perfettamente centrale, ai piedi della scalinata, è l’imponente statua di quasi dieci metri raffigurante Vittorio Emanuele I di Savoia. La torre campanaria, munita di orologio, venne costruita sui tetti dell’edificio che si trova a destra della chiesa nel 1830, in stile neobarocco.

Entrando nella chiesa ci si ritrova in un ampio spazio tondeggiante e sobrio, c’è un’unica navata a pianta circolare, l’altare maggiore, come già indicato, è posto a oriente, all’interno di un’abside semicircolare provvista di colonne in porfido rosso. Numerose sono le statue che qui si possono ammirare, ma su tutte spicca la figura marmorea della Gran Madre di Dio con Bambino, posta dietro l’altare maggiore, il cui misticismo è incrementato dalla presenza di raggi dorati che tutta la circondano. Nelle nicchie ai lati, in basso, vi sono alcune statue simboliche per la città e per i committenti della chiesa, cioè i Savoia. Oltre a San Giovanni Battista, il patrono della città, anch’egli con una grande croce nella mano sinistra, S. Maurizio, il santo prediletto dei Savoia, Beata Margherita di Savoia e il Beato Amedeo di Savoia. La cupola, considerata un capolavoro neoclassico piemontese, sovrasta l’edificio ed è costituita da cinque ordini di lacunari ottagonali di misura decrescente. La struttura è in calcestruzzo e termina con un oculo rotondo, da cui entra la luce, del diametro di circa tre metri. Sotto la chiesa si trova il sacrario dei Caduti della Grande Guerra, inaugurato il 25 ottobre 1932 alla presenza di Benito Mussolini. La bellezza architettonica dell’edificio nasconde dei segreti tra i suoi marmi. Secondo gli occultisti, la Gran Madre è un luogo di grande forza ancestrale, anche perché pare sorgere sulle fondamenta di un antico tempio dedicato alla dea Iside, divinità egizia legata alla fertilità, anche conosciuta con l’appellativo “Grande Madre”. Iside è l’archetipo della compagna devota, per sempre fedele a Osiride, simbolo della consapevolezza del potere femminile e del misticismo, il suo ventre veniva simboleggiato dalle campane, lo stesso simbolo di Sant’Agata. Si è detto che Torino è città magica e complessa, metà positiva e metà maligna, tutta giocata su delicati equilibri di opposti che sanno bilanciarsi, tra cui anche il binomio maschio-femmina. Questo aspetto è evidenziato anche dalla contrapposizione tra il Po e la Dora che, visti in chiave esoterica, rappresentano rispettivamente il Sole, componente maschile, e la Luna, componente femminile. I due fiumi, incrociandosi, generano uno sprigionamento di forte energia. Altri luoghi prettamente maschili sono il Valentino e il Borgo Medievale, che sorgono lungo il Po e sono anche simboli di forza; ad essi si contrappone la zona del cimitero monumentale, in prossimità della Dora, legata alla sfera notturna e femminile. L’importanza esoterica dell’edificio non termina qui, ci sono alcuni che sostengono ci sia un richiamo alle tradizioni celtiche con evidente allusione a un ordine taurino nascosto tra le parole della dedica: se leggiamo l’iscrizione a parole alterne resta infatti la dicitura: Ordo Taurinus. Ma il più grande mistero che in questa chiesa si cela è tutto contenuto nella statua della Fede. Secondo gli esoteristi, la donna scolpita in realtà sorreggerebbe non un calice qualunque ma il Santo Graal, la reliquia più ricercata della Cristianità, e con il suo sguardo indicherebbe il luogo preciso in cui esso è nascosto. Allora basta capire dove guarda la marmorea giovane -secondo alcuni la stessa Madonna – e il gioco è fatto! Sì, peccato che chi ha scolpito il viso si sia “dimenticato” di incidervi le pupille, così da rendere l’espressione della figura imperscrutabile, e il Graal introvabile. Se non per chi sa già dove si trovi.

Alessia Cagnotto