ARTE

Il fuso di Kronos: ultimi giorni

In esposizione al “Museo del Tessile” di Chieri il Progetto artistico – interdisciplinare del kazako, d’origine, Lev Nikitin

Dal 13 novembre al 13 dicembre

Raccontare la propria vita, impresa tutt’altro che facile, attraverso gli strumenti, i più vari, dell’agire artistico. E, attraverso l’arte, cercare e , forse, trovare una via di fuga da quel terribile “fuso di Kronos” ( Kronos, ricordate? Il più giovane dei Titani, padre di Zeus, che nell’antica mitologia greca mangiava i suoi figli per paura di esserne spodestato) che imbriglia nella fitta rete della crudeltà l’esistenza di chi è altro da noi, del più debole, dei reietti, degli invisibili e degli espulsi dal comune vivere sociale. In un pensoso, toccante “Autoritratto” ad olio, con la pelle tormentata da simboliche presenze volatili che gli mortificano il viso, Lev Nikitin racconta proprio questa condizione dell’esistere “che è metafora – racconta – della violenza che si ripete”. E ancora: “ Kronos che divora i suoi figli non è solo un mito antico: è la logica attuale dei sistemi educativi, sociali, giuridici, artistici. E noi, per non essere divorati, gettiamo ogni giorno nella sua bocca simulacri filati con il nostro stesso’ fuso’ dell’essere”.

Non è mostra di facile intesa, ma gradevolissima e di alta qualità, “Il fuso di Kronos” (titolo emblematico di quanto sopraddetto) che, da giovedì 13 novembre a sabato 13 dicembre, la “Fondazione Chierese per il Tessile e per il Museo del Tessile” di Chieri dedica (con il sostegno della “Città di Chieri” e della “Regione Piemonte” e con il patrocinio dell’Associazione Culturale “Russkii” di Torino e della “Fondazione “Osten” di Skopje) al giovane Lev Nikitin. Nel complesso, sono 20 (un’installazione “site specific”, oli su tela e costumi teatrali) le opere dell’artista e attivista russo (ormai chierese d’adozione) accolto in residenza dal 2024.

Nato nell’ ’85 in Kazakistan, Nikitin si trasferisce in Russia nel 1993. Lascia Mosca nel 2022, in seguito al conflitto Russo-Ucraino e alle crescenti politiche discriminatorie nei confronti della comunità LGBTQ+. Nel 2023 ottiene asilo politico in Italia., aprendo un nuovo capitolo nella sua vita e nel suo lavoro. Dopo essersi sentito ignorato nel suo Paese d’origine, dove ha affrontato marginalizzazione e omofobia, l’artista trova in Piemonte e a Chieri l’opportunità di ricostruire il proprio senso di identità. E proprio questa nuova situazione aprirà un importante processo di “rinascita e ricostruzione della materia e dello spirito” attraverso la pittura, la scultura, la performance e il medium tessile.

L’abilità nel percorrere il gesto e il senso estremamente misurato e delicato (a tratti misteriosamente “sbiadito”) del colore gli derivano, in particolare nella pittura a olio, dalle “avanguardie” della grande Scuola della pittura russa post-espressionistica, corrente che molto, nelle sue varie articolazioni, ha influito sulla sua capacità di trasformare – sottolinea Melanie Zefferino, presidente della ‘Fondazione chierese per il Tessile e Museo del Tessile’ – passamanerie chieresi un poco ‘fané’ in scintillanti corpetti che possiamo immaginare indossati da ‘performer’ memori della Compagnia dei ‘Ballet Russes’ fondata da Sergej Pavlovič Djagilev e dei meravigliosi costumi di Léon Bakst”. Approdato qui viaggiando sul filo dell’arte – prosegue la presidente Zefferino – Lev Nikitin ha portato a Chieri la sua personale visione del mondo espressa creativamente con una tecnica tesa alla perfezione, facendo onore alle tradizioni culturali e artistiche di cui reca il prezioso bagaglio … E così abbiamo fatto noi perseguendo valori di inclusione e sviluppo dei talenti, così da poter oggi assecondare la ‘danza’ di Nikitin a Chieri e al suo Museo, ‘theatrum’ delle arti tessili con protagonisti internazionali in dialogo con le identità di una comunità plurale.

“Comunità plurale” che è obiettivo principe del Nikitin uomo ed artista. Arduo percorso, per la cui uscita “io artista – racconta Nikitin – come Penelope al telaio, lavoro segretamente disfacendo le trame di una tela ordita dal Titano più crudele”. Un processo che lo impegna nel campo multiforme di una tecnica ineccepibile, ma soprattutto sul piano dell’emotività e di antiche dolorose memorie difficili da mettere a parte; “un progetto artistico che si estrinseca – conclude Nikitin – anche come struttura teatrale  traendo ispirazione dal ‘Teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud: un teatro che colpisce il corpo dello spettatore, che lacera il linguaggio, che rompe il ritmo e nega il conforto. In questo senso, il mio ‘teatro della crudeltà’ è precursore di un’etica di resistenza al vuoto. Rifiuta la narrazione, la mimica, l’illusione. Non spiega, ma costringe a vivere”. Dipanando, senza sosta, quella terribile infinita matassa del “fuso di Kronos”.

Gianni Milani

“Il fuso di Kronos”

Museo del Tessile”, via Santa Clara 6, Chieri (Torino); tel. 329/4780542 o www.fmtessilchieri.org

Dal 13 novembre al 13 dicembre. Orari: mart. 9/13; merc. 15/18 e sab. 14/18

Nelle foto: Lev Nikitin: “Autoritratto”, olio su tela; Parte dell’allestimento e “Costume teatrale”

“Egitto. Nothing But Gold”, la mostra firmata dal fotografo Al Salerno

Da “Combo” a Torino, anteprima sull’Egitto d’oggi

Domenica 14 dicembre, ore 17,30

Quando nel 1922, fu chiesto al famoso archeologo britannico Howard Carter che cosa mai riuscisse a vedere dallo spioncino di una tomba, scoperta in Egitto nella Valle dei Re, durante gli scavi finanziati da Lord Carnarvon, Carter rispose con la celebre frase “Nothing But Gold – Nient’altro che oro, solo oro”. Ma quella non era una tomba “qualunque” e quella scoperta segnò un’era. La tomba, infatti, era quella di Tutankhamon (nota anche come “KV62”), giovane faraone della XIII dinastia – durante il periodo della storia egizia noto come “Nuovo Regno” – che salì al trono a solo nove anni e morì nove anni dopo, a 18. Tomba ritrovata quasi intatta, la sua scoperta ricevette ai tempi una copertura mediatica mondiale, suscitando un rinnovato interesse pubblico per l’Antico Egitto, per il quale proprio la “maschera funeraria” del giovane faraone, conservata nel “Museo Egizio” del Cairo, rimane forse il simbolo più popolare. Tant’è che reperti provenienti dalla sua tomba hanno compiuto negli anni il giro del mondo. E perfino le parole pronunciate da Howard Carter divennero lapidarie nel loro esaltante stupore. E dunque, eccole ancor oggi accompagnare, nel titolo, “Egitto. Nothing But Gold”, la mostra – parte del più ampio Progetto “A occhi aperti” – del fotografo analogico torinese (di base a Palermo) Al Salerno, ospitata in una decina di eccellenti e suggestivi scatti negli spazi del “Combo”, innovativo “hub culturale e ricettivo” situato a Porta Palazzo nell’ex “Caserma dei Vigili del Fuoco”, in corso Regina Margherita 128, a Torino.

Curata dal fotografo torinese Stefano Carini, l’esposizione è visibile la prossima domenica, 14 dicembrealle 17,30, nell’ambito del pomeriggio culturale “Spedizione in Egitto”, pensato per raccontare, in modo particolare, l’Egitto di oggi e per mostrare e raccontare il nuovo “Museo Egizio” de Il Cairo – riaperto il 4 novembre scorso con i suoi oltre 100mila reperti, tra cui l’intera collezione del “tesoro di Tutankhamon” esposta per la prima volta al completo – per finire con l’esposizione delle immagini del “Deserto Bianco”, chiuso alle rotte turistiche per oltre dieci anni a causa di problemi di sicurezza.

L’intera organizzazione dell’evento si deve ad “Archètravel”, tour operator torinese che, da sempre, si occupa non solo di organizzare viaggi, ma anche di proporsi come “motore d’iniziative culturali”. Dopo aver dato vita, negli scorsi anni, a “Guide” e “Podcast”, ora “Archètravel” organizza anche iniziative culturali dal vivo: la giornata torinese sarà la prima e verrà poi replicata a Milano, Bologna e Roma.  Non solo. A queste ne seguiranno, infatti, altre su Paesi diversi e la proposta non si fermerà a questo: “La nostra concezione del viaggio – spiegano infatti i responsabili, Andrea Dattoli e Tiziano Salerno – nasce dal significato originario del ‘Grand Tour’, quello che si sviluppò tra il XV e il XVI secolo: un percorso pensato per la formazione dell’individuo attraverso l’incontro con il mondo. Non un viaggio di mera fruizione, ma un’esperienza per crescere, osservare, dialogare, lasciarsi attraversare dalla storia, dall’arte, dalle comunità”.

Nel corso del talk, moderato dalla giornalista Chiara Priante, si potranno ascoltare i racconti di Alberto De MinTour Leader e Travel Designer, e Federico Genre, Product Manager di “Archètravel”, che racconteranno l’Egitto di oggi, al di là delle rotte più note, oltre alla voce del fotografo Al Salerno e del curatore Stefano Carini, nonché a quella dei fondatori di “Archètravel” ed esperti viaggiatori, Tiziano Salerno e Andrea Dattoli.

“ ‘Nothing But Gold’ – spiega il curatore Stefano Carini – è un diario visivo che trasforma un’esperienza individuale in un linguaggio condivisibile. Ciò che l’autore restituisce non è l’Egitto come concetto, ma l’Egitto come incontro: una terra stratificata, complessa, in cui la bellezza convive con l’inesorabile. E dentro questa complessità, ciò che emerge con più forza – nelle persone, nei colori, nella luce – è quella stessa percezione che Carter tentò di tradurre un secolo fa aprendo per la prima volta da millenni la tomba di Tutankhamon: un sentimento di meraviglia che, pur non essendo mai spettacolare, rimane innegabile”.

Parole che ben concordano con le affermazioni dello stesso fotografo Al Salerno“Non ho nessun dubbio su cosa sia la cosa che più mi ha colpito tra caotiche città e deserti silenziosi: l’anima della gente. La gentilezza dei volti, l’empatia mai centellinata. Il mio viaggio è stato questo e questi sono i miei ricordi in fotografia. E quando qualcuno mi chiederà che cosa ho visto laggiù non potrò che rispondere in un solo modo: ‘Nothing But Gold’”.

Attenzione! Nel corso della serata è previsto anche un aperitivo. Per partecipare: https://www.archetravel.com/live/evento-egitto-torino/

Per info: “Archétravel”, via Frassinetto 49, Torino; tel.011/19821722 o www.archetravel.com

Gianni Milani

Nelle foto: Al Salerno “Alle piramidi di Giza”, Il Cairo, 2025; “Templi di File ad Aswan: Alberto De Min, Tiziano Salerno e Alberto Salerno”; “Al mercato di Downtown”, Il Cairo, 2025

Manifesti per “raccontare” Biella

Uno sguardo “nuovo”, tra ironia e riscoperta, sull’antica “Bugella” attraverso le opere di Dalla Fontana & Maffeo e del fotografo cinese Jin Ting

Dal 1° dicembre

Biella

Nato nell’ambito del Progetto “Da cosa nasce cosa” (ideato nel 2021 da “BI-BOx Art Space”, Galleria biellese tesa alla divulgazione del “contemporaneo”) e ampliato nel 2024 sotto il tema “La città che vorrei”, con l’intenzione di sfatare il pregiudizio che classificherebbe tutta l’arte contemporanea come “astrusa e incomprensibile”, a Biella tale pregiudizio torna ad essere nuovamente messo fuori gioco con l’idea di “sorprendere” (si spera, felicemente) i cittadini biellesi, che da lunedì 1° dicembre (e per 15 giorni) si troveranno a transitare  nella piazza della stazione ferroviaria di “Biella San Paolo” e nella zona della “Rotonda” tra Chiavazza, Vigliano ed il raccordo della superstrada, attraverso la sostituzione delle consuete pubblicità con due elementi “fuori posto”, in grado di “interrompere – dicono da ‘BI-BOx Art’ – lo sguardo automatico, spingendo ad interrogarsi sul ruolo delle immagini e sul valore degli oggetti nella nostra vita quotidiana”.

Quei due elementi “fuori posto” sono semplicemente “Manifesti” (6×3) nati da “immaginari e culture differenti”, che – seguendo loro specifiche motivazioni creative ed emozionali – aprono sguardi assai diversi sulla relazione “oggetti-identità-memoria”“BIGO Moments”, opera inedita del grafico Andrea Dalla Fontana e del “naturalista – geologo” Stefano Maffeo (entrambi operanti in “Arc-en Ciel”, società attiva nella comunicazione scientifica, didattico – ambientale, attività outdoor e progettazione turistica) rivisita con ironia i più tradizionali stereotipi biellesi attraverso il linguaggio pubblicitario, mentre “Portrait of Time” del fotografo cinese, oggi residente a Shangai, Jin Tin trasforma un macchinario tessile d’antan (il “cucisacco”) in un’immagine sospesa e sopravvissuta al tempo, lirica e malinconica nel suo silente donarsi agli occhi dei passanti.

Bizzarro, curioso e anche un po’ irriverente, il “BIGO Moments” del duo Dalla Fontana – Maffeo “se a un primo sguardo somiglia in tutto – sottolinea la nota stampa – a un cartellone promozionale, osservandolo meglio si rivela come un catalogo semiserio dell’immaginario biellese, dove ogni ‘scatola BIGO’ rappresenta un frammento riconoscibile della cultura locale: il tinello Aiazzone, la funicolare del Piazzo, Quintino Sella, la polenta concia, e altre piccole mitologie quotidiane che abitano la memoria collettiva. Partendo dall’estetica pop e dai codici del consumo, il progetto mette in scena una riflessione sul senso di appartenenza e sulla costruzione dell’identità territoriale”. Ecco allora chiederci: Quale simbolo portarci a braccetto? Da quale sentirci meglio rappresentati? E quale, a rifletterci su, ci pare meno rappresentativo, se non inutile?

Domande lecite, non impegnative su cui farci pure una permessa, ben accetta, risatina. Per questa ragione, attraverso una sezione apposita del manifesto, le persone saranno anche invitate a inviare delle proposte, indicando quale sia l’oggetto che secondo loro rappresenta maggiormente Biella.

Le varie suggestioni verranno illustrate dagli artisti e presentate venerdì 12 dicembrealle 18, in un evento programmato alla Galleria “BI-BOx”.

Un taglio creativo molto diverso troviamo, invece, nella serie di Jin Ting “Portrait of Time” (curata dalla fotografa americana ma italiana d’adozione L. Mikelle Standbridge e dal fotografo biellese Fabrizio Lava) nata da una “residenza d’artista” di due settimane nelle cinque valli montane del Biellese, svoltasi nel settembre 2024 in occasione della mostra “Viaggio – Orizzonti, Frontiere, Generazioni”, curata da “Stilelibero”, Associazione locale impegnata a organizzare mostre di giovani artisti emergenti appartenenti alla cosiddetta “Generazione Z”. Durante la residenza, Ting ha costruito un “ponte ideale” tra la sua sensibilità e il “patrimonio industriale biellese”, trovando come luogo di ispirazione l’ex “Lanificio Fratelli Zignone”, oggi “Fabbrica della Ruota”, un complesso industriale del XIX secolo che conserva macchinari e strumenti dell’era prevalentemente contraddistinta dalla produzione del Tessile. Qui Ting ha voluto cristallizzare nel tempo le immagini custodite da un luogo che deve averlo fortemente affascinato nella sua capacità di conservare integri squarci di storia industriale fatta di oggetti e macchinari abbandonati, isolati in una narrazione fotografica scarna e senza fronzoli, in una totalità di soggetti che, pur nella loro apparente freddezza, “rivelano un’inaspettata sensualità” nella luce soffusa, nell’accettazione scenica del materiale consumato e in quella toccante solitudine degli stessi oggetti. Due modi d’intendere la città, le sue presenze, la sua storia. Invenzioni “da strada” su cui riflettere, sorridere, o perdersi in un misurato guizzo di nostalgia.

Per maggiori info: “BI-BOx Art Space”, via Italia 38, Biella; tel. 3497252121 o www.bi-boxartspace.com

 Gianni Milani

Nelle foto: Andrea Dalla Fontana e Stefano Maffeo; “BIGO Experience_transumanza”; Jin Ting; “Portrait of time_Cucisacco”

“Dove le liane s’intrecciano”, al “PAV” di Torino

La natura per raccontare … nella mostra personale di Binta Diaw 

Fino all’8 marzo 2026

Le liane. Il riferimento alle piante rampicanti, caratteristiche in particolare delle regioni tropicali, “capaci di adattarsi e resistere, simbolo di alleanze vitali e resilienze collettive”, è da subito focus illuminante di quanto l’artista italo-senegalese Binta Diaw voglia proporci, attraverso opere installative e multimateriche, nella personale presentata, fino a domenica 8 marzo 2026, al “PAV– Parco Arte Vivente” di via Giordano Bruno a Torino. Ma ancor più elemento chiarificatore è il “sottotitolo” dato alla rassegna: “Resistenze, alleanze, terre”. Curata da Marco Scotini (direttore di “FM – Centro per l’Arte Contemporanea” di Milano e responsabile del programma espositivo del “PAV”), dopo le personali dell’artista indiana Navjot Altaf, dell’indonesiana Arahmaiani e della guatemalteca Regina José Galindo, la mostra di Binta Diaw (nata a Milano nel 1995) ma cresciuta fra Italia e Senegal, rappresenta un nuovo importante capitolo nell’indagine da tempo percorsa dal “PAV” sui “legami tra natura, corpo femminile e pensiero decoloniale”. Attraverso installazioni ambientali, che diventano “forma estetica” attraverso i più vari “materiali organici e simbolici” (come terra, gesso e corde fino ai capelli sintetici e alle bandiere arrotolate) l’artista affronta tematiche di stretta e strettissima attualità, ma anche di forte impronta storica come la “memoria diasporica afrodiscendente”, in un lungo cammino che arriva ai nostri giorni, agli ingorghi della contemporaneità, come la “sopravvivenza ecologica” e la “resistenza o resilienza femminile”.

In tal senso sono due le opere chiave, al centro della rassegna. La prima, quella “Dïà s p o ra” (2021), installazione già presentata alla “Biennale di Berlino 2022”, composta da una struttura sospesa simile a una ragnatela, realizzata con trecce di capelli ed evocante la resistenza silenziosa delle donne senegalesi schiavizzate, che nascondevano semi e mappe nei capelli, trasformando la materia in archivio vivente e luogo di sopravvivenza clandestina; la seconda “Chorus of Soil” (2019), riproduzione della “pianta” della nave negriera “Brooks”, realizzata con terra e semi. Qui, le sagome degli schiavi, simbolo di oppressione, diventano anche germinazioni vegetali, trasformando la nave in un “giardino di memoria e rinascita”.

La serie “Paysage Corporel” “Nature” (2023) ha come protagonista il corpo dell’artista, trasformato in una sorta di sfumate “dune desertiche” e reinterpretato (stampa a getto di inchiostro su carta di cotone montata su dibond – pannello composito di alluminio) come “paesaggio”.

Completa il percorso l’opera video “Essere corpo”, che sintetizza, in un unico “dove”, le connessioni tra memoria, corpo e natura, trasformando lo spazio espositivo in un luogo di passaggio corporale e mentale, in cui far rinascere una costruttiva relazione fra esseri viventi.

“La mostra si configura – si legge in nota – come un paesaggio corale in cui dimensione estetica e politica si intrecciano, offrendo nuove immagini di comunità e appartenenza. E dunque, con questa mostra il ‘PAV’ conferma il proprio impegno nella costruzione di una nuova ecologia politica, capace di ripensare i rapporti tra arte, natura e società globale”.

Da segnalare:

Nell’ambito della personale di Binta Diaw, mercoledì 10 dicembre, le “AEF/PAV – Attività Educazione Formazione” propongono “Wunderkammer d’Altrove”, corso di formazione ideato nell’ambito della Rassegna “aulArte”, sostenuta dalla “Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT”, per favorire l’accesso ai luoghi di cultura dei docenti delle scuole piemontesi ad attività di formazione basate sulle pratiche dell’arte contemporanea. Per le scuole e i gruppi che visiteranno la mostra “Dove le liane s’intrecciano. Resistenze, alleanze, terre” e le installazioni presenti nel Parco (23.500 mq) viene proposto “Radici volanti”, laboratorio in movimento che si situerà nello spazio interno al Museo o nel vasto Parco, dove i partecipanti “produrranno, punto dopo punto, una catena tessile per legarsi gli uni agli altri in un’azione ludica e collettiva”.

Gianni Milani

“Dove le liane s’intrecciano. Resistenze, alleanze, terre”

PAV – Parco Arte Vivente, via Giordano Bruno 31, Torino; tel. 011/3182235 o www.parcovivente.it

Fino all’8 marzo 2026

Orari: ven. 15/18; sab. e dom. 12/19

 

Nelle foto: Binta Diaw; “Chorus of Soil” (2019); “Paysage Corporel – Nature I” (2023)

I segreti della Gran Madre

Torino, bellezza, magia e mistero

Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo1: Torino geograficamente magica
Articolo2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo3: I segreti della Gran Madre
Articolo4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo10: Torino dei miracoli

Articolo 3: I segreti della Gran Madre

La città di Torino è tutta magica, ma ci sono dei punti più straordinari di altri, uno di questi è la chiesa della Gran Madre di Dio, o per i Torinesi, ël gasometro. La particolarità del luogo è già nel nome, è, infatti, una delle poche chiese in Italia intitolate alla Grande Madre. L’edificio, proprietà comunale della città, venne eretto per volontà dei Decurioni a scopo di rendere onore al re Vittorio Emanuele I di Savoia che il 20 maggio 1814 rientrò in Torino dal ponte della Gran Madre (la chiesa sarebbe stata edificata proprio per celebrare l’evento), fra ali di folla festante. Massimo D’Azeglio assistette all’evento in Piazza Castello. Il dominio francese era finito e tornavano gli antichi sovrani. Il passaggio del Piemonte all’impero francese aveva implicato una profonda trasformazione di Torino: il Codice napoleonico trasformò il sistema giuridico, abolì ogni distinzione e i privilegi che in precedenza avevano avvantaggiato la nobiltà, la nuova legislazione napoleonica legalizzò il divorzio, abolì la primogenitura, introdusse norme commerciali moderne, cancellò i dazi doganali. La spinta modernizzatrice avviata da Napoleone con il Codice civile fu di grande impatto e le nuove norme commerciali furono fatte rispettare dalla polizia napoleonica con un controllo sociale nella nostra città senza precedenti. Tuttavia il carattere autoritario delle riforme napoleoniche relegava i Torinesi a semplici esecutori passivi di ordini imposti dall’alto e accrebbe il malcontento di una economia in difficoltà. Quando poi terminò la dominazione francese non vi fu grande entusiasmo, né vi fu esultanza per l’arrivo degli Austriaci. L’8 maggio 1814 le truppe austriache guidate dal generale Ferdinand von Bubna-Littitz entrarono in città, e prontamente rientrò dal suo esilio in Sardegna il re Vittorio Emanuele I, il 20 maggio dello stesso anno. Il re subito volle un immediato ritorno al passato, ossia all’epoca precedente il 1789, abrogando tutte le leggi e le norme introdotte dai Francesi. Il nuovo regime eliminò d’un tratto il principio di uguaglianza davanti alla legge, il matrimonio civile e il divorzio, e reintrodusse il sistema patriarcale della famiglia, le restrizioni civili riservate a ebrei e valdesi e restituì alla Chiesa cattolica il suo ruolo centrale nella società. Il 20 maggio 1814 fu recitato un Te Deum nel Duomo di Torino per celebrare il ritorno del re, che si fermò a venerare la Sacra Sindone. L’autorità municipale festeggiò il ritorno dei Savoia costruendo una chiesa dedicata alla Vergine Maria nel punto in cui il re aveva attraversato il Po al suo rientro in città. A riprova di ciò sul timpano del pronao si legge l’epigrafe “ORDO POPVLVSQVE TAVRINVS OB ADVENTVM REGIS”, (“L’autorità e il popolo di Torino per l’arrivo del re”) coniata dal latinista Michele Provana del Sabbione.

La chiesa, di evidente stampo neoclassico, venne edificata nella piazza dell’antico borgo Po su progetto dell’architetto torinese Ferdinando Bonsignore; iniziato nel 1818, il Pantheon subalpino venne ultimato solo nel 1831, sotto re Carlo Alberto. L’edificio ubbidiva all’idea di una lunga fuga prospettica che doveva collegare la piazza centrale della città, Piazza Castello, alla collina. La chiesa è posta in posizione rialzata rispetto al livello stradale, e una lunga scalinata porta all’ingresso principale. Al termine della scalinata vi è un grande pronao esastilo costituito da sei colonne frontali dotate di capitelli corinzi. All’interno del pronao vi sono ai lati altre colonne, affiancate da tre pilastri addossati alle pareti. Eretta su un asse ovest-est, con ingresso a occidente e altare a oriente, essa presenta orientazioni astronomiche non casuali: a mezzogiorno del solstizio d’inverno, il sole illumina perfettamente il vertice del timpano visibile dalla scalinata d’ingresso. Il timpano, sul frontone, è scolpito con un bassorilievo in marmo risalente al 1827, eseguito da Francesco Somaini di Maroggia, (1795-1855) e raffigura la Vergine con il Bambino omaggiata dai Decurioni torinesi. Ai lati del portale d’ingresso sono visibili due nicchie, all’interno delle quali si trovano i santi San Marco Evangelista, a destra, e San Carlo Borromeo, a sinistra. Fanno parte dell’edificio due imponenti gruppi statuari, allegorie della Fede e della Religione, entrambi eseguiti dallo scultore carrarese Carlo Chelli nel 1828. Sulla sinistra si erge la Fede, rappresentata da una donna seduta, in posizione austera, con il viso serio, sulle ginocchia poggia un libro aperto che tiene con la mano destra, con l’altra, invece, innalza un calice verso il cielo. Spunta in basso alla sua destra un putto alato, che sembra rivolgersi a lei con la mano sinistra, mentre nella destra tiene stretto un bastone. Dall’altro lato si trova la Religione, raffigurata come una matrona imperturbabile e regale: stringe con la mano destra una croce latina e sta seduta mentre guarda fissa l’orizzonte, incurante del giovane che la sta invocando porgendole due tavole di pietra bianca. I capelli sono ricci, e sulla fronte, lasciata scoperta dal manto, vi è una sorta di copricapo, come una corona, su cui compare un simbolo: un triangolo dal quale si dipartono raggi. Spesso, con un occhio al centro del triangolo, il simbolismo è usato in ambito cristiano per indicare l’occhio trinitario di Dio, il cui sguardo si dirama in ogni direzione, ma anche in massoneria è un importante distintivo iniziatico. Perfettamente centrale, ai piedi della scalinata, è l’imponente statua di quasi dieci metri raffigurante Vittorio Emanuele I di Savoia. La torre campanaria, munita di orologio, venne costruita sui tetti dell’edificio che si trova a destra della chiesa nel 1830, in stile neobarocco.

Entrando nella chiesa ci si ritrova in un ampio spazio tondeggiante e sobrio, c’è un’unica navata a pianta circolare, l’altare maggiore, come già indicato, è posto a oriente, all’interno di un’abside semicircolare provvista di colonne in porfido rosso. Numerose sono le statue che qui si possono ammirare, ma su tutte spicca la figura marmorea della Gran Madre di Dio con Bambino, posta dietro l’altare maggiore, il cui misticismo è incrementato dalla presenza di raggi dorati che tutta la circondano. Nelle nicchie ai lati, in basso, vi sono alcune statue simboliche per la città e per i committenti della chiesa, cioè i Savoia. Oltre a San Giovanni Battista, il patrono della città, anch’egli con una grande croce nella mano sinistra, S. Maurizio, il santo prediletto dei Savoia, Beata Margherita di Savoia e il Beato Amedeo di Savoia. La cupola, considerata un capolavoro neoclassico piemontese, sovrasta l’edificio ed è costituita da cinque ordini di lacunari ottagonali di misura decrescente. La struttura è in calcestruzzo e termina con un oculo rotondo, da cui entra la luce, del diametro di circa tre metri. Sotto la chiesa si trova il sacrario dei Caduti della Grande Guerra, inaugurato il 25 ottobre 1932 alla presenza di Benito Mussolini. La bellezza architettonica dell’edificio nasconde dei segreti tra i suoi marmi. Secondo gli occultisti, la Gran Madre è un luogo di grande forza ancestrale, anche perché pare sorgere sulle fondamenta di un antico tempio dedicato alla dea Iside, divinità egizia legata alla fertilità, anche conosciuta con l’appellativo “Grande Madre”. Iside è l’archetipo della compagna devota, per sempre fedele a Osiride, simbolo della consapevolezza del potere femminile e del misticismo, il suo ventre veniva simboleggiato dalle campane, lo stesso simbolo di Sant’Agata. Si è detto che Torino è città magica e complessa, metà positiva e metà maligna, tutta giocata su delicati equilibri di opposti che sanno bilanciarsi, tra cui anche il binomio maschio-femmina. Questo aspetto è evidenziato anche dalla contrapposizione tra il Po e la Dora che, visti in chiave esoterica, rappresentano rispettivamente il Sole, componente maschile, e la Luna, componente femminile. I due fiumi, incrociandosi, generano uno sprigionamento di forte energia. Altri luoghi prettamente maschili sono il Valentino e il Borgo Medievale, che sorgono lungo il Po e sono anche simboli di forza; ad essi si contrappone la zona del cimitero monumentale, in prossimità della Dora, legata alla sfera notturna e femminile. L’importanza esoterica dell’edificio non termina qui, ci sono alcuni che sostengono ci sia un richiamo alle tradizioni celtiche con evidente allusione a un ordine taurino nascosto tra le parole della dedica: se leggiamo l’iscrizione a parole alterne resta infatti la dicitura: Ordo Taurinus. Ma il più grande mistero che in questa chiesa si cela è tutto contenuto nella statua della Fede. Secondo gli esoteristi, la donna scolpita in realtà sorreggerebbe non un calice qualunque ma il Santo Graal, la reliquia più ricercata della Cristianità, e con il suo sguardo indicherebbe il luogo preciso in cui esso è nascosto. Allora basta capire dove guarda la marmorea giovane -secondo alcuni la stessa Madonna – e il gioco è fatto! Sì, peccato che chi ha scolpito il viso si sia “dimenticato” di incidervi le pupille, così da rendere l’espressione della figura imperscrutabile, e il Graal introvabile. Se non per chi sa già dove si trovi.

Alessia Cagnotto

Al Pop App Museum i libri si animano

 L’inaugurazione è prevista l’11 dicembre prossimo

Nasce  a Torino il Pop App Museum a palazzo Barolo, l’unico a livello italiano e europeo, un suggestivo percorso  alla scoperta dei libri animati, libri speciali capaci di suscitare meraviglia e divertimento grazie ad effetti di tridimensionalità,  veri precursori delle moderne applicazioni digitali.  Si arricchisce così il viaggio fantastico tra libri animati e multimedialità del MUSLI, unico a livello italiano ed europeo. L’inaugurazione sarà l’11 dicembre al Musli di Torino, Museo della Scuola e del Libro per l’infanzia di via delle Orfane 7/a, con una mostra dedicata al geniale creatore di libri animati Lotont Meggendorfer, in occasione del centenario della sua morte. I materiali fanno parte del ricco patrimonio della Fondazione Tancredi di Barolo, donato dal presidente Pompeo Vagliani.

Le nuove sale, messe a disposizione dall’Opera Barolo, integrano il percorso già  esistente al MUSLI sui libri animati  e vengono inaugurate l’11 dicembre con la mostra “Sempre allegri bambini! Lothat Meggendorfer e il libro animato in Italia tra Ottocento e Novecento”, visitabile dal 12 dicembre al 28 giugno 2026. Il nuovo museo ha suscitato un grande interesse internazionale, testimoniato dalla presenza all’inaugurazione di ospiti illustri, che racconteranno diverse esperienze sul tema dei libri animati sviluppate in tutto il mondo , in particolare negli Stati Uniti, in Francia e Germania.

Il Pop App Museum rappresenta il punto di arrivo di un progetto avviato nel 2017 dalla Fondazione Tancredi di Barolo allo scopo di valorizzare  e mettere a disposizione del pubblico, degli studiosi e specialisti, ma anche degli appassionati e collezionisti, il patrimonio di materiali , conoscenze ed esperienze  sviluppati  negli ultimi dieci anni. Il progetto ha visto contemporaneamente la costituzione all’interno della Fondazione Tancredi Barolo dell’International Centre on Interactive Books, che supporta e garantisce le attività scientifiche,  di ricerca e valorizzazione sul tema e pubblica anche la rivista online “JIB journal on  Interactive Books”.

Il Pop-App Museum integra in un percorso espositivo unitario le sei nuove sale e gli spazi preesistenti del MUSLI dedicati ai libri animati. Si tratta di un nuovo museo interattivo che valorizza il collegamento tra la storia dei libri animati e le nuove tecnologie digitali, a partire da un patrimonio librario di interesse storico di oltre 1500 esemplari, che costituisce la più importante collezione in Italia  a disposizione del pubblico. Il progetto proseguirà nel 2026-2027 con l’allestimento definitivo del percorso complessivo. Saranno sviluppati nuovo contenuti multimediali,  con la creazione di un database consultabile online sulla collezione di libri mobili del MUSLI e verranno ampliate l’attività di formazione e i laboratori per la realizzazione di artefatti interattivi, sia cartacei sia multimediali.

Attraverso le attività didattiche rivolte alle scuole, il Museo permetterà di stimolare la creatività e facilitare l’avvicinamento alla lettura. Potrà inoltre costituire un’officina di sperimentazione per favorire lo sviluppo di competenze scientifiche e professionali,  per esempio nell’ambito del restauro e del cinema di animazione , in continuità con le esperienze già consolidate con il Centro di Conservazione Restauro La Venaria Reale, il Centro Sperimentale di Cinematografia e a quelle avviate recentemente con il Politecnico di Torino e l’Accademia Albertina.

Il Pop- App Museum intende inoltre stimolare esportare anche in Italia la presenza di nuovi talenti nel campo della creazione dei libri animati , capaci di unire capacità cartotecniche alle più avanzate tecnologie multimediali.

Tra gli obiettivi 2026-2027 vi è l’istituzione di un Premio rivolto ai giovani intitolato aLuisella Terzi , fra le prime donne attive in questo campo del Novecento, per libri che prevedono  parte cartotecnica e componente multimediale.

La mostra intitolata “Sempre allegri bambini” vuole essere un omaggio a uno dei più importanti e geniali creatori di libri animati per l’infanzia, Lothar Meggendorfer,  nato nel 1847 e scomparso nel 1925, di cui quest’anno ricorre il centenario della scomparsa. Mettendo evidenza la ricchezza e la varietà della sua produzione. Egli realizzò più di 160 libri , oltre 77 giochi da tavolo e numerose illustrazioni per riviste,  pubblicità e cartoline. La sua importanza nella storia dei libri mobili e interattivi presenta alcuni dei suoi capolavori più noti e spettacolari, come quelli dedicati al circo e alla casa delle bambole.

Parallelamente è anche l’occasione per esplorare il contesto dell’editoria italiana specifica tra gli anni Settanta dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, in gran parte legato alla produzione internazionale.

Particolare spazio è dedicato al volume dal titolo Pierino Porcospino Vivente, che “prende vita” grazie a un tavolo interattivo multimediale . Il percorso prevede anche un focus sulla musica, a cui Meggendorfer ha dedicato ampio spazio nella propria produzione. In mostra sono presenti alcuni corti animati  realizzati dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino, a partire dalle sue tavole mobili a tema musicale e una serie di animazioni  sonore.

L’esposizione prosegue nella biblioteca fantastica con una sezione incentrata sul contesto editoriale italiano coevo. Accanto a un approfondimento sulle case editrici  Hoepli e Vallardi, sono esposti gli album animati in un unico esemplare realizzati da Luisa Terzi tra il 1913 e il 1917, recentemente restaurati nell’ambito della collaborazione  con il Centro Restauro La Venaria Reale e le versioni animate di Pinocchio con i disegni di Attilio Mussino.

Completano la sezione le card animate e tridimensionali realizzate dal grafico Sergio Martinatto, grande collezionista di Pinocchio, la cui grande collezione è conservata al MUSLI.
Il Pop App Museum , in occasione della sua apertura e fino a domenica 11 gennaio prossimo, sarà aperto tutti i giorni dalle 14 alle 19. Chiusura il 24,25, 31 dicembre e il 1 gennaio 2026.

Mara Martellotta

Biella, “Bethlem”: nel Duomo l’installazione itinerante di Franzella

Fino a martedì 6 gennaio 2026

Biella

Eppure il titolo – “Bethlem” – è chiaro! Ma quell’asino oscuro e inquietante, ricoperto di catrame, in groppa di tutto e di più (niente di bello!!) sacchi di iuta, oggetti domestici, caschi bellici, borse zeppe di armi e micidiali munizioni, NO … non può essere il mite asinello, simbolo di umiltà, dedito con il bue (figure entrambe introdotte da San Francesco nel Presepe, nel 1223) a donare calore, la notte della “Natività”, a quel “Pargol Divin”, rifugiato nella Sacra Grotta di Betlemme. Non c’è mitezza in quegli occhi, né luce, né segni d’amore e speranza. Quell’asino è simbolo di un’attualità ferita e crudelmente mortificata che accompagna ormai da anni i nostri giorni e non s’arresta neppure di fronte alle richiesta di fratellanza, rispetto e dignità umana che, da più parti, si levano inascoltate e schiacciate dal peso disumano dei grandi terreni poteri.

Realizzata con tecnica mista, resina iuta e catrame, è arrivata così – come un pietoso asino “da soma” – nel neogotico “Duomo di Santo Stefano” a Biella l’installazione itinerante, “Bethlem”, progetto avviato nel 2016 dall’artista concettuale, poeta della materia e geniale architetto dello “scarto”, il palermitano Daniele Franzella, oggi vice direttore dell’“Accademia di Belle Arti” del capoluogo siciliano. L’evento rientra nell’ambito del Programma “Sia luce. Un percorso tra arte e spiritualità” a cura di Irene Finiguerra per “BI-Box Art Space”; percorso d’arte e sacralità che mette al centro del suo interesse il complesso della “Cattedrale” biellese, come fulcro della spiritualità della città e del suo territorio e che dall’ottobre del 2019 ha portato fra le austere navate del “Duomo” di Biella le opere di un buon numero di “artisti contemporanei” e di “respiro internazionale”, in un susseguirsi di intrecci altamente suggestivi fra il “tema del sacro” e il declinarsi di narrazioni artistiche che, in maniera diversa, hanno sempre rincorso le voci e le lingue della più esaltante modernità.

Ebbene, fino a martedì 6 gennaio dell’anno prossimo (tutti i giorni dalle ore 7 alle 19), in quella “Cattedrale”, considerata “Chiesa Madre” della “Diocesi di Biella” sarà esposta l’opera, coraggiosa e simbolicamente intrigante di Franzella, già presentata in altri luoghi carichi di spiritualità e memoria, dalla “Johanneskirche Stadtkirche” alla “Biblioteca Centrale” di  Düsseldorf. La sua “Bethlem”, diciamolo chiaro, non è opera di facile acquisizione e lettura. In essa giocano, oltre all’estrosa ma superba manualità dell’artista, volani di pura emozionalità e intrigante simbologia, in cui è facile perdere il senso della narrazione e del tempo. Resta viva, invece e volutamente percettibile quell’atmosfera di cupa percezione di un mondo raccattato a pezzi e ricostruito attraverso passaggi operativi che mai interrompono la linearità di una pessimistica visione dell’esserci e del quotidiano, così estranei a quel clima di luminosa serenità che gli attuali tempi di Festa vorrebbero. E qui il condizionale è, oggi più che mai, d’obbligo.

Scrive in proposito Irene Finiguerra“L’asino di Franzella è l’emblema – fra scena della ‘Natività’ e della ‘Fuga in Egitto’ – di un esodo contemporaneo:  la condizione del rifugiato, lo sradicamento, la fuga, la precarietà di chi porta con sé il peso di una storia che non ha scelto. Il suo dorso è una ‘montagna di dramma’, ma anche un ‘archivio di vite’: ogni oggetto è traccia, indizio, testimonianza … Gli stessi oggetti che sormontano l’animale sono un inventario visivo che rinvia dalle guerre postcoloniali ai più recenti scenari bellici, evocando le immagini di carovane di profughi, di gente in fuga costretta a raccogliere frammenti del loro vissuto lungo il proprio esodo”.

Parole pienamente condivisibili, proprie di chi, dall’esterno, osserva con attenzione e competenza l’opera, ma parole che accettano e bene convivono con un’altra possibile interpretazione. Quella data dllo stesso artista che considera “Bethlem” come un’opera “carica d’amore”.

“L’asino ricoperto di buio materiale – afferma Franzella – è un appello alla compassione; dentro gli oggetti del fuggiasco c’è l’eco delle nostre stesse vulnerabilità; dentro la sua immobilità si muove il racconto universale dell’attesa. Nel tempo liturgico del Natale, l’opera agisce come un contrappunto critico: non illustra la tradizione ma la rilancia nel presente, ricordandoci che Betlemme non è soltanto un luogo della storia, ma una condizione dell’umanità”.

Per info: “BI-Box Art Space”, via Italia 38, Biella; tel. 392/5166749 o www.biboxartspace.com

Gianni Milani

Nelle foto: Daniele Franzella “Bethlem”, tecnica mista, resina, iuta e catrame, 2016, nell’allestimento all’interno del “Duomo di Santo Stefano” (Ph. Stefano Ceretti per “Sia Luce”); Daniele Franzella

“ET” di Riccardo Cordero, il Museo Accorsi-Ometto si apre al Novecento

Nella serata di giovedì 4 dicembre, il Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto ha presentato un’opera molto speciale: “ET”, di Riccardo Cordero, realizzata nel 2007.

Una scultura che il Museo ospita all’interno del proprio cortile, alta poco più di due metri e omaggio simbolico all’arte e all’architettura barocca. Caratterizzata da un frenetico rincorrersi di linee e curve, esprime al meglio la tensione dinamica dell’energia in movimento, intrappolata all’interno di una robusta e lucente superficie in acciaio inox. Con questa scultura, Riccardo Cordero dimostra di partire dal movimento continuo e pluridirezionale delle superfici barocche per giungere a esiti non figurativi che lo pongono in continuità con le sperimentazioni astratte e spaziali novecentesche, interessate a dare forma e colore al sentimento e al pensiero individuale.

Per il Museo Accorsi-Ometto, storicamente specializzato nell’esposizione d’arte settecentesca, ospitare “ET” di Cordero significa un’apertura all’arte novecentesca, e l’occasione per presentare, in occasione delle festività natalizie, l’acquisizione di alcune opere di Carlo Levi e Francesco Gonin, oltre alla composizione di una magica tavola di Natale decorata con un bellissimo servizio di piatti in porcellana realizzato a Limoges, in Francia, nei primi anni del Novecento. Fu acquistato da Amalia Cattaneo, a Torino, in uno dei numerosi punti vendita della preziosa ceramica francese, quello del signor Pietro Scaglia, di via Garibaldi 10. Il servizio, che conta oltre cento pezzi, ma che non è esposto nella sua interezza, è stato concesso per l’evento festivo dal suo attuale proprietario, Leopoldo Olivero,

“Ospitando nel nostro cortile la scultura di Riccardo Cordero – ha dichiarato Luca Mana, direttore del Museo Accorsi-Ometto – abbiamo certamente dato risalto all’arte di uno scultore cha ha già preso parte, in passato, a molte esposizioni proposte dal Museo, ma si tratta anche di un’operazione studiata appositamente per aprirsi all’arte del Novecento. La presenza di ‘ET’ nei nostri spazi significa omaggiare la città di Alba, che ha dato i natali a Riccardo Cordero, e che è stata ufficializzata come Capitale Italiana dell’Arte Contemporanea nel 2027. La presentazione della sua opera ci permette anche di comunicare l’acquisizione di alcune opere di Carlo Levi e Francesco Gonin, oltre all’esposizione, in occasione delle Feste, del magnifico servizio Limoges su gentile concessione di Leopoldo Olivero. L’obiettivo del Museo Accorsi-Ometto è quello di diventare un foro accessibile a tutti, e la scultura di Riccardo Cordero, visitabile gratuitamente per tutta la cittadinanza, è un esempio chiaro della direzione intrapresa”.

“Voglio ringraziare il presidente e il direttore del Museo Accorsi-Ometto per la cura e l’accoglienza dedicata a ‘ET’ – ha sottolineato l’artista Riccardo Cordero – questa mia opera, che ha visto la luce nel 2007 e che è nata da un’esperienza artistica originata in Cina, si ispira alle linee e alle forme del barocco, in particolare del barocco piemontese. La scultura, che è un intreccio di linee d’acciaio pensato per rappresentare l’energia dell’universo, degli astri e dello spazio, e progettata aerata affinchè il fruitore possa immaginare di viverla immerso all’interno di essa, si ispira alla struttura della cupola della chiesa torinese di San Lorenzo. Una cupola, come dice Guarini, che è ‘fonte di meraviglia, atterrimento dell’animo umano’. Un intreccio di sculture articolate su tre ordini sovrapposti, occultate dall’architettura apparente dell’aula, che sostengono la vertiginosa cupola. Guarini ha saputo concentrare la complessa, misteriosa struttura della cupola, nella rappresentazione dell’istante in cui il calcolo matematico diventa un percorso di fantasia che tende a Dio”.

Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto – Via Po 55, Torino

www.fondazioneaccorsi-ometto.it

Gian Giacomo Della Porta

“UniversoBrachetti, una mostra dedicata al maestro del trasformismo

A Casale Monferrato, con le fotografie di Paolo Ranzani

Dal 6 dicembre 2025 all’11 gennaio 2026

Casale Monferrato (Alessandria)

Recita la locandina d’invito: “La mostra ti porta dietro le quinte della vita artistica della leggenda vivente del trasformismo e conduce alla scoperta della storia di Arturo Brachetti attraverso foto, video e locandine”. Ebbene, a trascinarti e ad acchiapparti all’istante per aderire con entusiasmo alla proposta,  è proprio quel “dietro le quinte” e dunque la curiosità che ti spinge a scoprire il “gioco”, i “salti mortali”, l’“impossibile” che anticipano l’entrata in scena di quella leggenda del “quick-change”, ovvero di quel “trasformismo” che lui stesso ha riportato in auge, attraverso chiavi interpretative assolutamente personali e contemporanee. Cosa succede nel “camerino” del mitico Brachetti, maestro incontrastato del “trasformismo” noto in tutto il mondo, prima che lui – quel Renzo Arturo Giovanni Brachetti (così all’anagrafe), torinese doc, classe ’57 – metta piede oltre il sipario per scodellarti, come fossero nocciolini e in un nano-secondo, centinaia di personaggi, maschili e femminili, liberati da un cilindro magico capace di contenere fantasia, immaginazione e arte illusionistica in quantità industriale?

A rivelarcelo è la mostra fotografica dal titolo “UniversoBrachetti”, curata da Mariateresa Cerretelli (con il sostegno della “Città di Casale Monferrato”) a lui dedicata e allestita nella “Capitale storica” del Monferrato all’interno degli spazi suggestivi della “Sala Marescalchi”, nel “Castello dei Paleologi” o “del Monferrato”. A renderla unica è la presenza, in rassegna e per la prima volta in assoluto, delle “foto inedite” del torinese Paolo Ranzani“fotografo personale” dell’artista, a lui legato da un rapporto di collaborazione e amicizia personale, che gli ha consentito di lavorare al suo fianco scattando immagini di grande fascino, le “uniche” mai realizzate nel “dietro le quinte” degli spettacoli di Brachetti. Una conoscenza reciproca, data dal lavoro fianco a fianco, da oltre vent’anni, e che ha permesso a Ranzani di cogliere particolari, gesti, tensioni e momenti di grande emozione fissandoli per sempre nei suoi scatti, oggi “per la prima volta visibili” a tutti in occasione di “UniversoBrachetti”.

“Il fotografo personale di Brachetti, in questa sezione ‘top secret’ della mostra – si sottolinea – svela per la prima volta al pubblico, attraverso la sua abile e consolidata maestria, il magnifico incanto del più grande attore-trasformista del mondo sul palco e dietro le quinte nei vari teatri e durante gli spettacoli in Italia e nel mondo, con una selezione eccezionale di ritratti rocamboleschi e cangianti, di luci e di ombre plasmate sul personaggio in scena, di ‘assoli’ indimenticabili e di folle incantate dai mille universi delle meraviglie presentati dall’artista”. La mostra invita per mano il pubblico, esortandolo a fare suoi, come in una fiaba, i passaggi fondamentali di una carriera artistica incredibile, fiabesca per l’appunto, che s’avvia dall’infanzia del grande artista torinese (unico erede del grandissimo Fregoli e dal 2002 nel “Guinness” dei Primati dopo aver interpretato 81 personaggi diversi in uno spettacolo di due ore) al suo debutto, poco più che ventenne, sul palco del “Paradis Latin” di Parigi, per  esibirsi poi ai quattro angoli del pianeta, in diverse lingue e in centinaia di teatri. Fino al ritorno in Italia nel 1983 e alle sue prime esperienze in Tv (sotto le ali protettrici, come primo impatto, del regista Antonello Falqui), nei teatri, nei musical, nei grandi varietà e nella prosa, in un percorso artistico interminabile, inseguendo sempre il “treno del mondo”, in Europa e in America; da Los Angeles a Parigi, dove nel 2004 si esibisce all’ “Eliseo” sotto gli occhi del presidente Chirac e dove, nel 2013, dopo una prima pagina su “Le Monde” entra a far parte, con il suo ciuffo ribelle all’insù, delle “statue di cera” del “Museo Grevin”. Una carriera sfolgorante, dai mille volti quanti sono quelli da lui portati in scena. E perfino, nel 2010, una “laurea honoris causa” in Scenografia all’“Accademia Albertina” di Torino. Nel 2016 prepara e produce quel “fuori dal mondo” (in senso, ovviamente, positivo) che è il suo “SOLO – The One Man Show”, con tappa d’esordio in novembre a Torino e che attraverserà poi l’Italia, giungendo ad oggi alla nona stagione“un magico viaggio nella mente di Arturo Brachetti, una casa della memoria e delle emozioni, nelle cui sette stanze, grazie alla magia dell’artista, prendono vita oltre sessanta personaggi”. E attenzione! Non è un caso se, proprio scrivendo della mostra fotografica dedicata da Ranzani a Brachetti e prossima ad inaugurarsi a Casale Monferrato, citiamo il fantasmagorico “SOLO” – arrivato a oggi a registrare oltre un milione di spettatori – in quanto proprio dalla città dell’alessandrino, lo spettacolo prenderà nuovamente il via per la nona stagione del suo “tour” nazionale. Dunque, da Casale … ad maiora!

Gianni Milani

“UniversoBrachetti”

Castello del Monferrato, Casale Monferrato; tel. 0142/444329 o www.castellodelmonferrato.com

Dal 6 dicembre 2025 all’11 gennaio 2026. Orari: sab. e dom. 10/13 e 15/19

Nelle foto: Paolo Ranzani, alcuni scatti fotografici presenti in mostra

Quattro artisti, tra classicità e natura, colore e sogno

Negli spazi della Galleria Malinpensa by La Telaccia

Terminerà sabato 6 dicembre, nelle sale della Galleria Malinpensa by la Telaccia, tappa di quel percorso più ampio che è “Raccontare e raccontarsi”, la mostra (a cura di Monia Malinpensa) che vede in esposizione le opere di quattro artisti, Cesare Iezzi, Graziano Rey, Gianalberto Righetti e Fulvia Steardo Fermi. Un passato, quest’ultima, che ha visto approfondimenti all’Accademia d’Arte Albertina di Genova, Steardo mette in primo ordine, sulle sue tele di lino, una eccellente tecnica mista che ama arricchire con l’uso di foglie d’oro – “Red garden” del 2024, una sorta di filiforme e stilizzato ikebana su fondo rosso, un allinearsi di piccoli steli e degli accenni di fievoli fiori: “una forte predisposizione e soddisfazione nel dipinto gliela riserva l’impiego della foglia d’oro 24 kt, che rappresenta per lei il massimo rispetto e omaggio all’arte e alla creatività”, aveva scritto di lei con entusiasmo Vittorio Sgarbi.

 

 

È la raffinatezza coloristica a colpire soprattutto nei lavori della pittrice, c’è un’eleganza non discosta da una bella vivacità che si espande, altresì nei tratti simbolici posti in aree concettuali, nella sensazioni emozionali che ne nascono. Le sono sufficienti piccoli tratti di colore in rapida successione verticale per creare, ancora su un supporto di lino, un delicato affresco di “Bouganville”, i rossi gli azzurri i verdi acidi usati a illuminare i bianchi che intervallano sempre accompagnati da queste strisce dorate che fanno da contraltare alla “semplicità” dell’opera. Sono suggestioni, è musicalità, è da parte di chi guarda un immaginare continuo, al di là del vero e proprio progetto, dello stesso titolo, della poesia innegabilmente presente, dell’intensità che l’artista pone nella sua natura, espressa in differenti modi (ancora una composizione che colpisce, “Green”, del ’22, pressoché un quadrato di colori che sembrano abbracciarsi, vivificati da alcuni deboli fiori rassastri che tentano timidamente una nascita). È un ambito di rivelazioni, di espressioni convincenti, quelle che prendono origine dall’uso preciso e forte della materia, quelle a cui Fulvia Steardo dà vita.

Di natura ci parla anche Gianalberto Righetti – ingegnere e fotografo genovese, dagli anni Novanta espone le sue opere in varie gallerie d’arte contemporanea, opere “di razionalità e logica tipiche di un ingegnere. laddove Righetti “fotografa esponendo per le luci, ottenendo immagini sottoesposte e con colori saturi, grazie anche al frequente uso del filtro polarizzatore” -, sotto altra forma, attraverso la fotografia coniugata sotto sguardi diversi. Attraverso una “foglia” (2020), quasi rinsecchita nei suoi colori autunnali, imprigionata tra due robuste colonne, attraverso l’immagine lattiginosa di un angolo di deserto in Namibia, “Presenza invisibile 8” del 2023, attraverso il tronco contorto e spigoloso di un albero (“Frammenti ricomposti 6”), colto lo scorso anno nella campagna della ligure Bogliasco. Estetismi che non sono superflui esercizi di tecnica, quelli di Righetti, quelli che guardano e coniugano l’essenza e la concretezza allo stesso tempo dell’”albero”, che rimane il protagonista di questo spazio di galleria dedicato all’autore: davanti a ogni opera ci imbattiamo in un risultato profondo, nella trasformazione del “linguaggio visivo in un’esperienza naturalistica” (scrive Malinpensa nella sua presentazione), nel ritrovarci spinti a sentirci far parte, inglobati nel soggetto che abbiamo davanti a noi. Quella di Righetti è poi una natura non statica ma in movimento, parte di un ambiente che vive e che respira, Righetti vivendola dall’interno pare giocarci insieme: “Frammenti Ricomposti 4” nel suo incessante sfuggire verticale, come uno specchio deformato, ne è la prova, come i chiaroscuri, rubati alle Cinqueterre, di “Presenza invisibile 1” (un’opera del 2008), come quelle immagini che sembrano quasi soltanto impressioni e accenni, riprese dai panorami di States del nord americano, come tutto quanto emblematicamente diventa macchia, rossastra o verde, nelle tante ricercate tonalità, tra le campagne di Chaumont, soltanto pochi mesi fa. Opere che sono respiro, immersioni, lirismi, coloriture, “poesie visive”, ragnatela di accordi e di rapporti a mano a mano più stretti e compatti, dove la presenza umana è saggiamente bandita.

Graziano Rey – torinese, classe 1953, membro della “Soffitta macabra di Alessandri, dentro il mondo della pittura e della musica (sua la sigla di “Buona Domenica”, suo il premio “Rino Gaetano” 1991/92 come il premio Viareggio come cantautore: nonché opinionista per numerose puntate del “Maurizio Costanzo Show”) – poggia in maniera assai personale sulle proprie tele “un mondo di colori”, per estrema astrazione, di grande movimento e di forte impatto visivo, simpaticamente strambo e dinamico, variante e ritmato, grumi di colore che sono note posate in vario disordine su un frastagliato e scomposto rigo musicale; gioca in “frammenti di tela” con quelle che paiono coreografie costruite sulla tenuità dei colori, i rosati gli azzurri i grigi, insetti sconosciuti o gemme preziose ; o piccoli mondi in movimento; sogna e ondeggia con deboli profondità attraverso “Frammenti di blu” (2024), ovvero impercettibili sagome che paiono guardare ad accenni umani, piccoli e ormai cresciuti, oggetti che spetta a noi decifrare, in pieno sfondo di un giallo acceso, mentre tutt’intorno è calmo silenzio, un invito a considerare, a trattenersi un attimo, tra quanto può essere realtà e quanto diventa immediatamente sogno.

Dalla classicità parte e s’avventura Cesare Iezzi – nativo di Chieti, premio artistico Giuliano Nozzoli 2024 -, dal mondo greco e rinascimentale, dalla perfezione dell’oggetto, dalla conclamata bellezza dell’esecuzione, colma di partecipazione e di misura, nel chiarore del bianco dell’elemento principe, abbinando di volta in volta gesso, pvc, luce e legno marino, di differenti altezze, attraversando maschere dai nomi inusitati come Medeine (2023, in un perfetto gioco di materiale naturale e di tratti oscuri che paiono deturparle il volto), Anakin, Inanna, Poseidon (2023, quasi un sfinge, mentre i capelli scomposti gli nascondono parte dello sguardo), Euterpe (dall’ampiezza frontale, dallo studiato svolazzo di copricapo e di abito, 2025), Harnauta (forse una cecità che soltanto una luce azzurrognola può disperdere, 2023), Halcestis (lo sguardo rivolto all’alto nella propria immolazione di tragedia, assorto o indagatore, 2022), Sarepide, tra mitologia e letteratura e sogno. Calde espressività e movimento vivificato dalla luce posta all’interno di copricapi dal sapore quattrocentesco e fiammingo, che riportano lo spettatore a un ampio tratto di Storia, entrambi costruttori di quella forte energia che scaturisce dall’opera. Un tempo antico, che piace qui ritrovare (ma lontano dal rétro e dalla nostalgia), dove gli inserti lignei accrescono e fortificano un’età, una ricerca in più, un confronto maggiore con il passato dei vecchi capolavori e dove la lampada inserita, che finisce con l’avvolgere da questo o da quell’altro lato, da un elemento in più che piomba dall’alto e rivela a poco a poco i tratti sottostanti, mostra una bellezza dai tratti femminili, dove ogni piega diventa poesia, tratti sospesi nella memoria, nella spiritualità di ognuno. Tratti perfetti ravvicinati a qualcosa di incompiuto ma egualmente vibrante, sinfonia di guance e di bocche che esprime sentimenti, emozioni, sguardi lontani e imperscrutabili.

Elio Rabbione

Nelle immagini, opere di Fulvia Steardo Fermi (“Metropoli”, 2020), di Gianalberto Righetti (“Frammenti Ricomposti 4”, Chaumont 2025), di Graziano Rey (“Frammenti sul verde”, 2024), di Cesare Iezzi (“Medeine”, 2023)