ARTE

MAO, la mostra sugli “Haori. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone

Dal 12 aprile al 7 settembre prossimo è ospitata e aperta al pubblico presso il MAO, Museo di Arte Orientale, la mostra intitolata “Haori. Gli abiti maschili del primo Novecento narrano il Giappone”, che offre una singolare esplorazione della cultura materiale giapponese attraverso circa 50 haori e juban ( le giacche sovrakimono e le vesti sotto kimono maschili) nonché alcuni abiti tradizionali da bambino, provenienti dalla collezione Manavello, in dialogo con installazioni di artisti contemporanei.

La mostra non ha precedenti né in Italia né in Europa e si pone come una novità assoluta nel panorama delle proposte aventi come tematica l’arte dell’Estremo Oriente.

Le raffigurazioni che decorano gli abiti presentati non solo sono esempi di preziosa manifattura, ma documenti e testimonianze che approfondiscono il Giappone del primo Novecento, un periodo cruciale segnato da trasformazioni sociali, culturali e politiche , tra una modernizzazione accelerata e tensioni interne imperialiste.

All’interno del percorso espositivo sono presentate opere di artisti contemporanei come strumenti d’analisi e di riflessione, invitando il pubblico a orientarsi in un’epoca storica di relazioni complesse tra Giappone, Cina e Corea, ancora poco conosciuta in Italia.

Il progetto espositivo si avvale della consulenza curatoriale di Silvia Vesco, docente di Storia dell’Arte Giapponese presso l’università Ca’ Foscari di Venezia, Lydia Manavello, Yu Mi (curatrice indipendente e attualmente docente di Arte ed Economia all’Università di Kassel), in collaborazione con il direttore del MAO, Davide Quadrio, e la curatrice Anna Musini, con l’assistenza di Francesca Corrias.

Svelare, non esibire, suggerire senza palesare. A questi principi si ispira la millenaria cultura giapponese che, sull’equilibrio in perenne divenire tra pieni e vuoti e sul senso dell’armonia, tesse ancor oggi la propria esistenza.

L’abbigliamento concorre a definire i ruoli e gli spazi in cui si configura e si muove la complessa società nipponica; in questo contesto grande interesse ha sempre destato il kimono femminile, mentre l’ambito degli indumenti maschili è stato ancora poco indagato.

Meno appariscenti ma assai interessanti, le vesti da uomo costituiscono, in realtà, una parte consistente del ricco apparato tessile giapponese.

Nell’eleganza austera del completo cerimoniale o nella sobrietà di un abito da vivere tutti i giorni, i kimono da uomo racchiudono e definiscono un universo che si rende accessibile solo nel contesto domestico o nel segreto di un incontro amoroso. A rivelare l’anima di chi li indossa sono i soggetti che impreziosiscono gli interni delle giacche o l’intera superficie dei sotto kimono: immagini seduttive o narrative, sempre sofisticate, abilmente tessute o dipinte, elaborate con minuzia o appena suggerite da qualche tratto di inchiostro, raccontano la cultura del Sol Levante con riferimenti alla letteratura e all’arte della guerra, al mondo naturale e alla sfera divina.

Tradizionalmente considerati espressione dell’intimità quotidiana, gli haori e le juban presentati in mostra assumono un nuovo significato e diventano un’occasione per affrontare temi di grande attualità, tra cui le questioni legate all’espansione giapponese del XX secolo in Asia e alle implicazioni politiche e sociali che ne caratterizzarono il contesto storico. Tra queste anche la propaganda, affidata non solo ai tradizionali mezzi di comunicazione, ma in modo tanto sorprendente, quanto pervasivo, proprio agli abiti tra i quali anche quelli da bambino, cui è dedicata un’apposita sezione della mostra.

L’esposizione esplora, dunque, l’immaginario comune del Giappone in Occidente, ancora legato a una visione tradizionale e romantica, in contrapposizione alla percezione di un Giappone diverso, a tutt’oggi poco conosciuto che è quello che trapela dagli abiti maschili; le immagini che li caratterizzano da un lato celebrano il mito dell’Occidente, dai plurimi volti, dall’altro mirano ad enfatizzare l’orgoglio nazionale nipponico, entrambi culminanti nell’evoluzione tecnologica e nella strenua difesa della propria identità, prima e durante il secondo conflitto mondiale.

Questa eredità, lungi dall’essere cancellata dal tempo, sopravvive ancor oggi in Paesi e realtà al di fuori del Giappone, ma allora coinvolti, e di essa le installazioni ei video contemporanei in mostra offrono una tangibile testimonianza, arricchendo il racconto con riflessioni sul tempo passato e presente.

Con il patrocinio del Consolato Generale del Giappone a Milano

MAO Museo di Arte Orientale

Via San Domenico 11

Orari martedì- domenica 10-18. Lunedì chiuso.

 

Mara Martellotta

 

 

La bellezza femminile, da Botticelli a Mucha alle divine del cinema muto

Nelle Sale Chiablese, sino al 27 luglio

 

Un percorso lungo più di quattro secoli si snoda attraverso le sale Chiablese, in piazzetta Reale (curato in collaborazione con Arthemisia con la ricchezza di oltre cento opere, sculture disegni dipinti, prestiti da musei nazionali e internazionali e raccolte private, dalle collezioni sabaude, da Annamaria Bava, sino al 27 luglio), andando “Da Botticelli a Mucha”, un percorso attraverso “bellezza, natura, seduzione” che riserva nell’ultima piccola sala gli sguardi e i veli, gli occhi a tratti allucinati e le movenze azzardate, i sorrisi delle bellissime e sospirose di quel cinema muto che ai primi anni Dieci dello scorso secolo enumerò Sarah Bernhardt e la sua rivale italica Eleonora Duse, che avrebbe girato nel ‘16 il solo “Cenere” di Febo Mari, Lyda Borelli e Francesca Bertini dalla lunga vita, con un ultimo applauso per la sua monaca nel “Novecento” di Bertolucci, sino a Lina Cavalieri, ovvero “la donna più bella del mondo” con il viso e le curve in seguito della Lollo, immortalata da Boldini, regina del Salone Margherita, “massima testimonianza di Venere in terra”, secondo il conio di Gabriele D’Annunzio, travolta nel ’44 durante un’incursione aerea alleata.

Undici sale e dieci sezioni, un percorso attraverso le tante forme di rappresentazione della bellezza, dell’eterno femminino, espresso in più differenti declinazioni, ad iniziare dai disseminati bassorilievi archeologici di età romana, e statue, al Quattrocento di Sandro Botticelli con la sua “Venere” (1485-1490, sinuosa ed elegante “espressione di un ideale di bellezza umanistico di stampo neoplatonico”, probabile ritratto di quella Simonetta Vespucci che fu amata da Giuliano de’ Medici, bellezza senza pari del proprio tempo: una versione pressoché identica è conservata alla Gemäldegalerie di Berlino) che trovò posto nelle collezioni Gualino dopo l’acquisto degli anni Venti – ora in bella e definitiva mostra alla Galleria Sabauda a cui il mecenate l’aveva destinata nel 1930: opera che finì nelle mani della Banca d’Italia allorché il regime, per nulla soddisfatto della disobbedienza dell’imprenditore, decretò il confino e una infelice requisizione, che portò l’opera ad arricchire significativamente gli arredi dell’ambasciata italiana a Londra. Sulla parete della sala odierna, s’allineano altresì i risultati delle indagini diagnostiche compiute sull’opera tra il 2020 e il 2023, i particolari e le correzioni, i ripensamenti dell’artista, e anche questo è manna per l’appassionato d’arte. La dea, simbolo altresì della forza generatrice della natura, avvicinata qui all’opera dallo stesso titolo di Lorenzo di Credi, dove più è considerata la plasticità del soggetto, gareggia in bellezza con il “Volto di fanciulla” disegno autografo di Leonardo, realizzato tra il 1478 e il 1485 circa e proveniente dalla Sabauda (il visitatore potrà accedere al nuovo “Spazio Leonardo” posto al primo piano, previo l’acquisto del biglietto combinato Mostra + Musei Reali e/o dei soli Musei Reali).

La seconda sezione vede un omaggio al Mito di Elena, bellezza e femminilità immortalate nelle tavole del tardo Cinquecento di Lambert Sutris e da due splendidi arazzi posti ad inizio del secolo successivo, dovuti alla Manifattura di Bruxelles, come dal gruppo marmoreo rappresentante “Il ratto di Elena” di Francesco Bertos (1738). E ancora le tre Grazie, considerate fin dall’antichità la personificazione in toto della grazia femminile, l’arte di Canova in tre disegni – un nudo femminile, un gruppo di ninfe con un amorino e un disegno a carboncino ritenuto uno dei più intensi tra i fogli preparatori per il celebre gruppo scultoreo, provenienti dalle collezioni della Biblioteca Reale ne mostra tutta la bellezza. Un’eleganza e una aggraziata raffinatezza che ritroviamo più in là con il gruppo “La danza” del torinese Edoardo Rubino. La successiva sezione ci fa conoscere il “Taccuino romano” di Girolamo da Carpi, ferrarese, attivo nella prima metà del Cinquecento, pittore e architetto affermato, dedito qui a quello che viene considerato il suo capolavoro, schizzi a raffigurare monumenti romani e sculture antiche, un grande album contenente 180 fogli, disegnati tutti su entrambi i lati, oggi smembrato e diviso tra la Biblioteca Reale di Torino, che ne detiene il maggior numero, ben novanta, il Rosenbach Museum&Library di Philadelphia e il British Museum londinese. Quanto attiene alla “meraviglia della natura”, è proprio del trionfo degli “album naturalistici” di Carlo Emanuele I, la natura intesa come dispiegamento di forze vitali, la rappresentazione coloratissima di fiori e pesci e uccelli, tavole che all’inizio del Seicento facevano parte della “camera delle meraviglie” del duca.

Con intenso interesse si guarda al “fascino dell’arte classica” e all’influenza che essa ebbe nella nascita del nostro Rinascimento. I punti d’attenzione sono Firenze e Roma, ma anche la meno importante Padova, grazie alla lunga permanenza del genio di Donatello e con l’influenza che certe sue opere ebbero ad esempio sugli allievi della bottega di Francesco Squarcione, quali Mantegna, Marco Zoppo e il dalmata Giorgio Schiavone, di cui dalla Sabauda arriva la “Madonna con il bambino”, una tavola composta tra il 1456 e il 1460, una rispettosa quanto vivace rivisitazione del mondo antico in quel maestoso arco trionfale  che avvolge la Vergine, in quegli inserti di marmi policromi e porfido, nei festoni di frutti e nei putti, alcuni in carne e ossa, altri come bronzetti animati. Ancora i nomi di Macrino d’Alba e del Garofalo, ancora il gusto per le “grottesche”, sviluppatesi con il primo venire alla luce della Domus Aurea neroniana, un tripudio inarrestabile di figure umane e mitologiche, di oggetti e di mostri, di prodotti del mondo vegetale, che coinvolgono con successo i nomi di Perin del Vaga e Giovanni da Udine, come quello di Baccio Bandinelli di cui s’ammira un foglio con “Due studi di figure femminili”, come non si passa indifferenti dinanzi all’imponenza della testa colossale proveniente da Alba, forse appartenente a una divinità femminile.

“L’universo della bellezza femminile” si alterna tra la virtù e la castità, “allegorie” che ancora una volta prendono a prestito il corpo femminile in tutta la sua avvenenza, l’immagine di Lucrezia emblema di eroismo e di forza morale, le varie Sibille in sei tele sono opera di Orsola Maddalena Caccia, monaca e pittrice, figlia di Guglielmo denominato il Moncalvo dal piccolo centro piemontese dove trascorse la maggior parte della vita e morì, un ciclo proveniente dal palazzo della famiglia Dal Pozzo del ramo di Castellino, in Moncalvo, una delle testimonianze più alte della produzione dell’artista; “Regine, principesse e belle di corte”, visi regali vissuti tra il Seicento e l’inizio del Settecento, trentasette ritratti femminili raccolti nell’Appartamento dei Principi di Piemonte (qui ne sono esposti sedici) tra gioielli preziosi e abiti sontuosi, giochi di ricami e passamanerie, non ultimi esempi di signorilità la Contessa di Castiglione, seducente agente segreto pronta a far breccia nel cuore dell’Empereur, e Margherita di Savoia, grazie ai pennelli di Michele Gordigiani (nel 1872), prima regina d’Italia che vede crescere la propria popolarità presso i sudditi grazie ai molti viaggi e alle pubbliche cerimonie, presenti entrambe in omaggi che guardano già alla fotografia. E l’incantevole Sissi, dalla tragica fine, resa celebre dai film della Schneider. Il finale che suona “Incanto e seduzione tra Ottocento e Novecento”, dove sono le prove importanti di Giacomo Grosso (“Nudo di donna”, 1915, dallo sguardo carico di sensualità nascosto dietro il braccio destro ripiegato, in cui il pittore rivisita “La source” di Ingres in una concezione più intima) e di Leonardo Bistolfi (testa di “La bellezza liberata dalla materia”, 1906, per il monumento funebre a Segantini a St Moritz, proveniente dal Museo Civico di Casale Monferrato), di Cesare Saccaggi la cui “Semiramide”, dipinta intorno al 1905, è venuta di recente a far parte delle raccolte dei Musei Reali torinesi. Nei passi finali, il “Ritratto femminile”, bellissimo gesso dovuto ancora a Bistolfi, comunica con le figure di Alphonse Mucha, cecoslovacco, nome di punta dell’Art Nouveau, scomparso nell’immediato indomani dell’invasione hitleriana del suo paese, avvolte di fiori e rimandanti ancora una volta allo spirito di raffinatezza del Rinascimento italiano: uno stile personalissimo che apriva le porte alla Belle Èpoque.

Elio Rabbione

Nelle immagini, Sandro Botticelli, “Venere”; tra gli allestimenti della mostra “Da Botticelli a Mucha”; “Nudo di donna” di Giacomo Grosso e “La bellezza liberata” di Leonardo Bistolfi; in primo piano “La danza” di Edoardo Rubino e alle spalle “Le tre grazie” di Pietro della Vecchia, tra i capolavori della mostra.

Strana idea! Voglia di “libertà” in pieno centro urbano

Alla Torinese “Domus Lascaris”, il “Gruppo Building” presenta sei visionari, ipnotici dipinti di Daniela Balbiano

Fino al 20 maggio

Titolo, “Oltre le Gabbie: Libertà immaginata”. Spezzoni di umane esistenze che si muovono fra architetture soffocanti, geometrie di nitida ma ingabbiante trappola quotidiana, oltre le quali figure scomposte, silhouttes dalle vivide trame cromatiche, marciano serrate, alzando occhi e mani al cielo per guadagnare spazi, all’apparenza impossibili, di nuove agognate libertà.  E il luogo è sicuramente il meno adatto per vincere l’improba impresa. Siamo infatti nel pieno centro storico di Torino, dove gira che ti rigiri, guarda a terra o all’insù, vie di fuga dall’oppressione della più moderna o architettonicamente e perfettamente inserita e miscelata in “plastici” di antica storicità, non ti lascia vie di fuga da “gabbie” urbane che ti assediano, quasi ti tengono prigioniero in spazi, pur di magnifica concezione narrativa, ma privi di salvifiche vie di uscita verso voli di libera poetica immaginata “libertà”. Di pensiero. Di movimento. Di nuovi approcci all’umana convivenza. Ecco allora il perché del titolo, “Oltre le Gabbie: Libertà immaginata”, dato alla rassegna espositiva che negli spazi di “Domus Lascaris”, il “Gruppo Building” dedica, fino a martedì 20 maggio, all’artista pavese, natali a Voghera, Daniela Balbiano. Mostra, per così dire, en plein air. Sei dipinti a tecnica mista, “ciascuno – è scritto in presentazione – testimone di quel delicato equilibrio tra oppressione e libertà che caratterizza la condizione umana”. Terra e terra e cemento contro voglia, voglia tanta, di cielo. Di spazi liberi al volo di sogni e fantasie, le più visionarie ed immaginifiche. Libere di correre oltre gli spazi delimitati del reale.

Mostra “en plein air”, si diceva. Le opere sono infatti visibili dall’esterno di “Domus Lascaris” (a una manciata di passi da piazza Solferino, realizzata nel 2013 come risultato della trasformazione di una palazzina razionalista di metà Novecento in un condominio di lusso dalle eleganti linee contemporanee) attraverso le ampie vetrate che si affacciano all’intersezione delle vie Lascaris e Dellala, in un dialogo tra spazio privato e dimensione collettiva che invita oggi i passanti a riflettere sulle “gabbie invisibili” della Balbiano, su chi siamo e chi potremmo essere.

Quella dell’artista vogherese è pittura di gran classe, in grado di giocarsi con esiti assolutamente positivi “il gesto che sfida la linea”, quella che l’artista definisce “la danza fragile tra oppressione e libertà”, la riconosciuta volontà di non trasgredire alle regole del gioco, ma anche la convinzione di poter sfuggire ai più desueti canoni scolastici per creare in astratte narrazioni di luce e colore spiragli nuovi oltre i quali immaginare nuovi destini e nuove vie di fuga alla banale, imponente  e gravosa quotidianità del vivere comune. In tal senso, “i soggetti rappresentati si trovano sospesi in una sorta di dimensione liminare tra accettazione e ribellione, tra il peso delle consuetudini e la vertigine del cambiamento, mentre il linguaggio figurativo cattura la tensione dinamica di corpi che resistono , oscillano , si lasciano trascinare o tentano la fuga”.

Buona pittura e curiosi obiettivi. Ancor di più se si considera la prestigiosa location pensata ad ospitare la mostra; location così partecipe e invischiata in un contesto cittadino tanto “chiuso” nella sua moderna (eppur storica) e perfetta architettura urbana da lasciare pochi “vuoti” al rimbalzo delle sensazioni e dell’onirico. Doppio plauso, dunque, all’organizzazione del “Gruppo Building” (specializzato in alti interventi di progettazione architettonica e studi di fattibilità, interior design e ristrutturazione edilizia, nonché al sostegno dell’arte contemporanea) e al “coraggio” della brava Daniela Balbiano, voce libera di gridare ovunque la sua incontestabile voglia di assoluta “libertà”.

Doveroso anche ricordare, a proposito del torinese “Gruppo Building” (nato nel 1983) la sua ingegnosa volontà di fare della Galleria al piano terra di “Domus Lascaris” proprio un vero punto d’incontro fra arte ed architettura, in grado di ospitare ciclicamente mostre di arte pubblica (e in libera visione degli stessi passanti) dedicate ad artisti del territorio, e non. E poi che dire? Non dimentichiamo che proprio al Gruppo guidato da Piero Boffa (e allo studio nato al suo interno “BP+P”) si deve, fra le tante, la realizzazione di “The Number 6”“la casa più bella del mondo”, trasformazione in condominio contemporaneo di una gemma del Barocco a due passi da Piazza San Carlo, premiato da “ArchDaily” come “Building of the Year 2015” per la categoria restauro. I punti d’interesse ci sono tutti per fare un salto e fermarsi lì, proprio davanti alle “vetrine” di “Domus Lascaris”.

Gianni Milani

“Oltre le Gabbie: Libertà immaginata”

Domus Lascaris, via Lascaris 7, Torino; tel. 011/5581711 o www.domuslascaris.it

Fino al 20 maggio

Nelle foto: immagini della mostra di Daniela Balbiano 

Silvia Beccaria e Anna Roberti: “Frammenti di natura”

A Biella, la Primavera di “BI-Box Art” si è aperta con la mostra “a due” 

Fino al 10 maggio

Biella

Arte e natura. La prima messa totalmente a disposizione dell’altra attraverso le magie della tecnica, di segno e colore, e il lavorio sotteso di sensazioni sogni e speranze che sono bagaglio insostituibile nel lavoro di un autentico artista. E allora non poteva scegliersi mostra migliore per inaugurare venerdì 21 marzo scorso l’arrivo della Primavera alla Galleria “BI-Box Arte” di Biella con l’ospitata fino al prossimo sabato 10 marzo delle opere di Silvia Beccaria, torinese, e di Anna Roberti, origini bresciane. Artiste, entrambe, che attraverso tecniche assolutamente diverse, usano l’arte per esplorare “tra intrecci e trame, materia e segno, trasformazione e memoria”, il mondo della natura nelle sue forme più semplici e primigenie, nel suo continuo divenire e farsi “altro” in quell’innata capacità di rigenerarsi, nelle fratture e nelle connessioni che ne caratterizzano il ciclo vitale. Di qui il titolo della rassegna “Frammenti di natura” che vede esposte una ventina di opere messe lì in bella (davvero bella!) mostra per invitarci a ripensare il nostro rapporto con l’ambiente, per esortarci a pensare e, in certo senso, a condividere la fragilità, sì, ma anche la resilienza di un ambiente naturale che l’uomo ha ereditato per proteggerne e rispettarne i frutti e la bellezza, dimenticando invece troppo spesso di assolvere, se non di peggiorare, i principi cardine di tale compito. In tal senso “l’esposizione offre– si sottolinea – un’esperienza visiva e concettuale, ma anche un’opportunità di connessione emotiva e intellettuale, che spinge a una consapevolezza più profonda del nostro ruolo all’interno dell’ecosistema”.

Ed è proprio sotto questo aspetto che la mostra incontra anche idealmente il concorso Be Natural/Be Wild”, promosso dalla “Fondazione Cassa di Risparmio di Biella” nell’ambito di “Selvatica – Arte e Natura in Festival”, rafforzando il tema della riscoperta della forza e della bellezza naturale attraverso l’arte.

 

Elemento caratterizzante la ricerca artistica della torinese Silvia Beccaria è il “filo” che si fa “metafora di scrittura, di narrazione, di tessitura di relazioni e significati”, intrecciando i classici metodi della cosiddetta “Fiber Art”, che la Beccaria ha fatto profondamente sua attraverso la guida dell’artista olandese Martha Nieuwenhuijs (Amsterdam, 1946 – Torino, 2017), con l’utilizzo di materiali inusuali, che vanno dalla “plastica” alla “gomma” fino alla “carta”, lavorati con abile manualità in trame di materia in cui riversare emozioni, memorie e generosi advertisements attraverso cui raccontare e raccontarsi agli altri. Con un “fare” artistico, al contempo, di alta concretezza e poetica visionarietà, specchio pur anche “di suggestioni letterarie e filosofiche, che dialogano con il processo creativo e ampliano il significato dell’intreccio come pratica simbolica, capace di tenere insieme storie, esperienze e visioni del mondo”.

Laureata in “Scienze Naturali”, Anna Roberti si autodefinisce “Botanica dei colori, dei ruderi e del selvatico”. Da sempre la sua ricerca, mossa fra pittura e grafica, nasce infatti dall’esigenza di realizzare “erbari su tessuto” con “piante ruderali”, ovvero con quelle umili “insignificanti” piante che crescono spontanee lungo i sentieri, sui ruderi o tra le fessure di antichi muri. Piante eluse dall’uomo o addirittura eliminate perché considerate infestanti. Erbacce. Di cui l’artista non cerca immagini accurate e precise, ma forme, movimenti e colori capaci di dare spazio all’immaginazione e alle antiche preziosità ben evidenti in quei millenari “erbari miniati” (uno su tutti il “De materia medica”, 60-78 d.C., di Dioscoride Pedanio) che accompagnano l’artista nella sua quotidiana ricerca. La tecnica utilizzata per stampare in modo stabile le piante su tessuti grezzi di seta “bourette”, lino e cotone avviene utilizzando “pigmenti naturali” come il “nero fumo”, seguendo l’antica tecnica di richiamo leonardesco per produrre il cosiddetto “nero di lampada”. Il suo è un raffinato e poetico mondo artistico, dove è piacevole immergersi, corpo e mente e anima, luogo sospeso fra antico e moderno, dove quei “frammenti di natura”, cui accenna il titolo della rassegna, si fanno piccolo grande “microcosmo”, “una finestra aperta su un universo fatto di equilibri delicati e di continue metamorfosi”.

 Gianni Milani

“Frammenti di natura”

Galleria “BI-Box Art Space”, via Italia 38, Biella; tel. 349/7252121 o www.bi-boxartspace.com

Fino al 10 maggio

Orari: giov. e ven. 15/19,30; sab. 10/12,30 e15/19,30

Nelle foto: Silvia Beccaria; Anna Roberti “Capelvenere”, 2023 e “Erbario impresso”, Giardino della Minerva, 2018; Silvia Beccaria “La luce nelle crepe #8”

Camera, dal 13 giugno il fotografo americano Alfred Eisenstaedt

Celebre per lo scatto in cui, alla fine della seconda guerra mondiale,  in mezzo alla folla,  un marinaio bacia un’infermiera

Il programma espositivo del 2025 di Camera , Centro Italiano per la Fotografia di Torino, prosegue con una grande mostra inedita, che aprirà i battenti il 13 giugno prossimo fino al 21 settembre, che celebra in Italia il fotografo Alfred Eisenstaedt, autore della famosa immagine del “V JDAY In Times Square”, in cui un marinaio bacia un’infermiera in mezzo ad una folla festante al termine della seconda guerra mondiale. Eisenstaedt è  stato uno dei principali fotografi della rivista Life, per la quale ha raccontato il mondo e la sua contemporaneità, attraverso uno sguardo divertito e indagatore.

A trenta anni dalla sua morte e a ottanta dalla realizzazione del celebre scatto, l’esposizione, curata da Monica Poggi, presenta una selezione di 150 immagini, molte delle quali finora mai esposte, a partire dai primi scatti nella Germania degli anni Trenta, dove realizzò le inquietanti fotografie di gerarchi nazisti, tra cui quella celeberrima a Joseph Goebbels, ritratti che esprimono il suo talento vastissimo che, oltre ad essi, comprendeva reportage e immagini dal forte impatto visivo.

La mostra presso Camera, la prima in Italia dal 1984, ripercorre tutto l’arco della sua carriera, passando dalla vita vertiginosa degli Stati Uniti del boom economico al Giappone post nucleare, fino alle ultime opere realizzate negli anni Ottanta.

“Quando scatto una fotografia  – affermava Alfred Eisenstaedt – cerco di catturare non solo l’immagine di una persona o di un evento, ma anche l’essenza di quel momento”.

Ha realizzato anche ritratti a personaggi famosi, come Sophia Loren, Marlene Dietrich, Marilyn Monroe, Albert Einstein, e Robert Oppenheimer.

Due sezioni della mostra sono dedicate all’importante reportage che Einsenstaedt realizza in Europa, prima della seconda guerra mondiale,  e quello realizzato in Italia nel dopoguerra, dove i  cartelloni stradali iniziano a cambiare  le prospettive e i paesaggi, riflettendo  le trasformazioni sociali ed economiche in corso, prestando particolare attenzione ai dettagli del paesaggio urbano. In Italia, ad esempio, documenta l’impatto dei nuovi cartelloni pubblicitari sulle prospettive visive e sull’ immaginario collettivo. Le sue fotografie, in questo senso, diventano strumenti critici che riflettono sul tempo presente.

Lo stile di Alfred Eisenstaedt si colloca nel solco della grande tradizione documentaria americana, ma ne amplia i confini grazie a un linguaggio visivo personale e aperto alla contaminazione. Nei suoi scatti convivono rigore giornalistico e suggestione pittorica. Alcune immagini dedicate alle ballerine classiche evocano le atmosfere ottocentesche di Edgar Degas, mentre altri suoi lavori si avvicinano al surrealismo europeo, con le sue costruzioni stranianti e ironiche.
Questa duplicità rappresenta la chiave di volta del successo di questo fotografo, che sa essere cronista e poeta, testimone e narratore, osservatore e interprete.
Eisenstaedt ha continuato a fotografare fino agli anni Ottanta, attraversando decenni cruciali per la storia del Novecento. La sua lunga carriera rappresenta una testimonianza vivente del potere della fotografia come strumento di racconto, di analisi e di bellezza.
Dopo una vita trascorsa tra redazioni, viaggi, incontri e immagini, il fotografo, nato in Polonia  a Dirschau nel 1898, si è  spento nel 1995 all’età di 95 anni nella sua casa di villeggiatura di Martha’s Vineyard. A trent’anni dalla sua scomparsa Camera con questa mostra ne restituisce un ritratto vivo e complesso, quello di un artista che ha fatto della fotografia un’arte della presenza e della memoria.

Camera Centro Italiano per la Fotografia via delle Rosine 18, Torino

Mara Martellotta

La passione secondo Jaquerio. Visita guidata agli affreschi

Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso

20-21 aprile 2025

La passione secondo Jaquerio

Visita guidata agli affreschi del più grande esponente piemontese del gotico internazionale

 

La Salita di Cristo al Calvario è il capolavoro del pittore torinese Giacomo Jaquerio, maggior esponente del gotico internazionale, realizzata nella cappella adibita a sacrestia della Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso nel primo quarto del XV secolo.

Ciò che contraddistingue questa raffigurazione rispetto agli altri affreschi della cappella è la resa dei personaggi che appare più realistica all’interno di una scena drammatica. Per accrescere nei devoti la meditazione e la partecipazione alla sofferenza della Passione di Cristo, Jaquerio ha infatti accentuato i caratteri patetici e drammatici della scena. Lo spazio non è reso con una visione prospettica corretta, ma il senso di profondità è ottenuto disponendo i personaggi ad arco e collocando il volto dei soggetti più arretrati in una posizione più elevata rispetto a quella dei personaggi che sono in primo piano.

Nella folla è evidente la contrapposizione tra il Bene il Male nella scelta di colori e in un certo tipo di gestualità. I personaggi che trattengono la croce o quello che tira Gesù con una corda presentano lineamenti talmente alterati e deformati che sembra abbiano quasi connotazioni non umane. Tra la folla, si riconoscono il fabbro, a cui i giudei si rivolgono per fabbricare i chiodi della croce di Cristo, nell’uomo che tiene in mano tre chiodi e un martello (la sua partecipazione agli eventi della Passione si trova in alcune rappresentazione teatrali popolari diffuse in Francia e Inghilterra) e Giuda con la barba e i capelli rossi (colore che richiama la violenza e le fiamme dell’inferno) e il vestito giallo per evocare il tradimento.

 

INFO

Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso

Località Sant’Antonio di Ranverso, Buttigliera Alta (TO)

20-21 aprile, ore 15

La passione secondo Jaquerio

Costo attività: 5 euro, oltre il prezzo del biglietto

Biglietto di ingresso: intero 5 euro, ridotto 4 euro

Hanno diritto alla riduzione: minori di 18 anni, over 65, gruppi min. 15 persone

Fino a 6 anni e possessori di Abbonamento Musei: biglietto ingresso gratuito

Prenotazione obbligatoria

Info e prenotazioni (dal mercoledì alla domenica):

011 6200603 ranverso@biglietteria.ordinemauriziano.it

www.ordinemauriziano.it

“Wildlife Photographer of the Year: quando la Natura dà spettacolo

In mostra al valdostano “Forte di Bard”, cento scatti fotografici in arrivo dalla 60^ edizione 

Fino al 6 luglio

Bard (Aosta)

E’ stata, a ragione, definita “una fotografia mozzafiato”. Firmato dal fotoreporter canadese (specializzato in conservazione marina) Shane Gross, lo scatto ci propone il magico mondo sottomarino dei “girini” di rospo boreale (specie oggi fortemente minacciata a causa della distruzione dell’“habitat” e dei predatori), porta il titolo di “The Swarm of Life” (“Lo sciame della vita”) ed è stata premiata come la “migliore fotografia naturalista del 2024” nell’ambito della 60^ edizione di “Wildlife Photographer of the Year”, il più importante riconoscimento dedicato alla “fotografia naturalistica” promosso dal “Natural History Museum” di Londra. Ben 59.228 gli scatti realizzati, nel corso dell’anno passato, da fotografi di tutte le età e livelli di esperienza, provenienti da 117 Paesi. Di questi, in un nutrito numero di Cento, compresi i premiati e i più significativi, sono oggi esposti, fino a domenica 6 luglio, nel sabaudo complesso fortificato sulla rocca che sovrasta il borgo di Bard, in Valle d’Aosta. “Utilizzando il potere emotivo unico della fotografia per coinvolgere ed emozionare il pubblico – dicono gli organizzatori – le immagini fanno luce su storie e specie di tutto il mondo e incoraggiano un futuro a difesa del Pianeta”. Catturate a volte in rapidissimi “istanti” (ah, non farseli sfuggire!) non privi di più o meno faticosi e lunghi a non finire “appostamenti”. E’ il caso, proprio, della premiata fotografia di Shane Gross, catturata mentre il fotografo canadese faceva snorkeling per diverse ore tra tappeti di ninfee nel lago Cedar, sull’isola di Vancouver, nella Columbia Britannica, e muovendosi con estrema attenzione per non disturbare i sottili strati di limo ed alghe che ricoprono il fondale del lago. Attenzione e fatica premiate dallo stupendo “lavoro” portato a casa.

Da segnalare anche, fra le opere esposte, quella di Alexis Tinker-Tsavalas, fotografo tedesco che si è, invece, aggiudicato il “Young Wildlife Photographer of the Year 2024” per l’immagine ravvicinata “Life Under Dead Wood” (“C’è vita sotto il legno morto”), che raffigura i corpi fruttiferi della muffa melmosa ed un minuscolo “collembolo”, fra gli insetti (“Entognati”) più piccoli – solo in alcuni casi superano i 5 mm di lunghezza – esistenti in quasi ogni angolo del mondo e vitali per migliorare la salute del suolo, nutrendosi di microrganismi come batteri e funghi, aiutando così la materia organica a decomporsi. Per scattare questa foto Tinker-Tsavalis ha rotolato con estrema rapidità un tronco, scattando velocemente (con la tecnica del “focus stacking”, in cui vengono combinate 36 immagini, ciascuna con un’area diversa a fuoco) poiché i “collemboli” possono saltare molte volte la lunghezza del loro corpo in una frazione di secondo. Cogliere in un attimo infinitesimale l’“attimo fuggente”. E questi sono i magnifici risultati.

Due gli italiani premiati. Il calabrese di Vibo Valentia, dal 2007 residente in Scozia, Fortunato Gatto, vincitore della categoria “Piante e funghi” con lo scatto “Old Man of the Glen” (“Il vecchio della valle”) e con “menzione d’onore” nella stessa categoria per “High tide indicator” (“Indicatore di alta marea”) e “A carpet of woods” (“Un tappeto di boschi”) e  Filippo Carugati (origini milanesi, ma residente a Torino, e cognome che ricorda il mitico Gino Bramieri) che ha ricevuto la “menzione d’onore” nella categoria “Subacquee” con lo scatto “Green, thin and rare to see” (“Verde, magro e raro da vedere”).

Per celebrare, inoltre, il sessantennale del “Concorso”, è stato introdotto per questa edizione anche il Premio “Impact Award” teso a riconoscere “una storia di speranza e di cambiamento positivo”. Due i premiati. L’“Adult Impact Award” è stato assegnato al fotoreporter australiano Jannico Kelk per “Hope for the Ninu” (“Speranza per i Ninu”), con l’immagine di un “bilby” maggiore in una riserva recintata, in modo che il piccolo marsupiale possa prosperare dopo essere stato portato quasi all’estinzione da predatori come volpi e gatti; alla polacca Liwia Pawlowska è andato, invece, il “Young Impact Award” per “Recording by Hand” (“Registrazione a mano”), dove un esemplare di “sterpazzola” (uccello migratore che ha il suo “quartier generale” nell’Africa sub-sahariana) appare rilassata durante l’inanellamento degli uccelli, tecnica che aiuta gli sforzi di conservazione registrando la lunghezza, il sesso, le condizioni e l’età di un uccello per aiutare gli scienziati a monitorare le popolazioni e a tracciare i modelli migratori.

Gianni Milani

“Wildlife Photographer of the Year”

Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 0125/833811 o www.fortedibard.it

Fino al 6 luglio

Orari: mart. – ven. 10/18; sab. dom. e festivi 10/19; lun. chiuso

Nelle foto: Shane Gross “The Swarm of Life”; Alexis Tinker-Tsavalas “Life Under Dead Wood”; Fortunato Gatto “Old Man of the Glen”

Museo Nazionale della Montagna: “Guido Rey. Un amateur tra alpinismo, fotografia e letteratura”

Un’importante mostra dedicata all’eclettica figura del grande alpinista, pronipote di Quintino Sella

Fino al 19 ottobre

“Io credetti, e credo, la lotta coll’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede … La Montagna è fatta per tutti, non solo per gli Alpinisti: per coloro che desiderano il riposo nella quiete come per coloro che cercano nella fatica un riposo ancora più forte”. C’è in queste parole tutta l’essenza e la complessità dell’uomo, grande appassionato di montagna e alpinismo, e, al contempo, profondo narratore e, pur anche (quale fu) attento illustratore per parole ed immagini di quell’universo roccioso che seppe tenerlo a sé legato per l’intera vita. Sono parole tratte dall’introduzione di “Alpinismo acrobatico” (1914), fra le varie opere dedicate alla montagna e scritte fra i primi del ‘900 e la metà degli anni ’30, da Guido Rey (Torino, 1861 – 1935) “figura chiave al crocevia tra alpinismo, fotografia e letteratura” della cultura piemontese e del panorama nazionale ed internazionale a cavallo di Otto e Novecento. Pronipote di Quintino Sella, ministro del Regno e fondatore nel 1863 del “Club Alpino Italiano” (in cui anche Guido tenne sempre un ruolo di primissimo piano) a lui il “Museomontagna” di Torino dedica, fino a domenica 19 ottobre, una nuova retrospettiva, dopo la monografica già proposta nel 1986. Il progetto, curato da Veronica Lisino e Mattia Gargano, nasce dal riordino del complesso dei “Fondi Guido Rey”, conservato dal “Centro Documentazione” del “Museo” di Piazzale Monte dei Cappuccini e catalogato nel 2024.

Curioso l’aggettivo amateur parte del titolo. Si tratta di un termine, spiegano i curatori, “che – privo dell’odierna accezione negativa ‒ indicava chi, tra XIX e XX secolo, si dedicava a un’attività per puro passatempo. L’essere ‘dilettante’ consentì a Rey di esprimersi in maniera più libera e disinvolta, tra scrittura, disegno e fotografia. Ciascuno di questi linguaggi diventa un filtro che gli permette di prendere le distanze da una realtà per lui limitata e di proiettarsi così in un ‘mondo altro’”. In un mondo ideale che accanto “all’intimità delle scene famigliari”, fu soprattutto per Guido rifugio inviolabile dove toccare vedere e ascoltare i luoghi amatissimi delle sue “terre alte”, in particolare di “quella montagna” a pronunciata forma piramidale che, per mano allo zio Quintino, Guido imparò a conoscere fin dal 1874, all’età di soli 13 anni. Era un bimbo e quello fu il suo primo grande grandissimo amore: quei 4.478 metri del “Cervino” (settima vetta e terza montagna italiana per altitudine), cui più tardi (1904) dedicò anche un libro “Il Monte Cervino”, con splendide vedute disegnate dall’amico – scultore Edoardo Rubino e l’introduzione di Edmondo De Amicis, al quale insieme al figlio Ugo, lo legò una profonda e sincera amicizia. Sul Cervino, Rey ebbe modo di salire più di cinque volte, attraverso imprese (anche letterarie e fotografiche) che ne fecero l’alpinista italiano più amato e tradotto prima di Walter Bonatti.

Al centro dell’iter espositivo, uno spazio dedicato alle sue vicende biografiche. Attorno si sviluppano quattro sezioni tematiche: Letteratura alpinistica, Fotografia di montagna, Fotografia tra montagna e pittorialismo, Fotografia pittorialista, quella attraverso cui Rey amava ricreare quadri famosi con effetti di “tableaux vivants”. Si tratta di aree da vedersi come ambienti in continua connessione tra loro che consentono al visitatore di muoversi liberamente, senza obblighi di percorso, tra le imprese alpinistiche, la cultura fotografica e gli interessi letterari, accompagnati dagli “occhi pieni di visioni” e dall’“animo ricco di ardimenti” di Guido Rey.

Sottolineano ancora i curatori: “La mostra ha l’obiettivo di riconsiderare la sua figura, confinata in passato entro schemi fin troppo rigidi e che invece merita di essere rivalutata nella molteplicità delle sue manifestazioni. Riprendendo le parole del suo amico e compagno di cordata Ugo De Amicis, è un pregiudizio pensare che l’acuta sensibilità artistica sia incompatibile con quella dell’uomo d’azione, poiché quel dualismo interiore ed esteriore, cioè del sentire e dell’agire, significa integrazione e ricchezza, invece che contraddizione e debolezza. Questa visione si riflette nella varietà dei materiali in mostra, che spaziano dalle fotografie e dagli apparecchi fotografici a schizzi, disegni, volumi, riviste, diari e lettere, fino all’attrezzatura alpinistica, offrendo un ritratto sfaccettato del suo universo creativo ”.

Gianni Milani

“Guido Rey. Un amateur tra alpinismo, fotografia e letteratura”

“Museo Nazionale della Montagna”, Piazzale Monte dei Cappuccini 7, Torino; tel. 011/6604104 o www.museomontagna.org

Fino a domenica 19 ottobre

Orari: mart. – ven. 10,30/18; sab. e dom. 10/18

Nelle foto: Ugo De Amicis “Guido Rey guardando il Cervino”, stampa alla gelatina bromuro d’argento, post 1910 e (tableau vivant) da Caspar David Friedrich “Il viandante sul mare di nebbia”, olio su tela, 1817, “Amburgher Kunsthalle”, credit WikimediaCommons; Guido Rey “Grandes Jorasses”, stampa alla celloidina, 1905 ca.; Guido Rey “L’Hotel del Giomein e il Cervino”, stampa alla gelatina bromuro d’argento, 1899 ca.

Carrie Mae Weems, “The heart of the matter”

Alle Gallerie d’Italia – Torino di Intesa SanPaolo  la mostra dedicata alla grande fotografa americana 

Dal 17 aprile al 7 settembre prossimo Gallerie d’Italia di Torino apre al pubblico  una nuova grande mostra dedicata all’artista di fama internazionale Carrie Mae Weems, dal titolo “Carrie  Mae Weems. The heart of the matter”; si tratta di una fotografa nota per le sue indagini fotografiche sui temi dell’identità culturale, del sessismo e dell’appartenenza di classe.

In anteprima assoluta un progetto commissionato da Intesa Sanpaolo che si inserisce in una retrospettiva costituita da opere tratte dalle serie fotografiche più famose, che condurranno il visitatore lungo l’arco di tutta la carriera dell’artista,  tracciandone un percorso personale e spirituale.

Con il patrocinio della Regione Piemonte e della città  di Torino, l’esposizione è  realizzata in collaborazione con “Aperture” e curata da Sarah Meister.

Per la mostra sono state selezionate un centinaio di opere, che sottolineano il valore unico  di Carrie Mae Weems nell’affrontare la complessità e le ingiustizie del mondo che ci circonda, radicando la sua fotografia in luoghi spesso esclusi dalle narrazioni, quali studi d’artista, piantagioni del Sud degli Stati Uniti, spazi domestici, fino ad arrivare alle “istituzioni invisibili” nate come luoghi di culto della comunità nera durante le oppressioni, accostate a immagini di monumenti e musei che sono stati storicamente luoghi di esclusione.

“Le Gallerie d’Italia si aprono al lavoro straordinario di un’importante artista,  Carrie Mae Weems – spiega Michele Coppola, Executive Director Arte Cultura e Beni Storici di Intesa Sanpaolo – che affida alla bellezza e alla forza espressiva delle sue opere la condivisione di un messaggio di profondo valore umano, sociale  e culturale. Si tratta di un progetto eccezionale che conferma il Museo di piazza San Carlo come principale luogo in Italia per le committenza e la promozione della fotografia  Internazionale,  con a fianco un partner prestigioso come Aperture e con una pubblicazione di grande qualità a cura di Allemandi. Grazie alle immagini di Weems, le Gallerie d’Italia diventano uno spazio vivo di riflessione intorno a temi cruciali, dall’identità all’uguaglianza sociale, in coerenza con la visione più ampia di responsabilità che caratterizza il Gruppo Intesa Sanpaolo”.

Al centro della mostra c’è il nuovo progetto “Preach”, realizzato per questa esposizione su committenza originale, una ambiziosa e intensa installazione che ripercorre la religione e spiritualità per gli afrodiscendenti americani attraverso le generazioni.  La serie celebra le forme di culto profonde, appassionate e gioiose che definiscono l’esperienza della Chiesa Nera di Weems e insieme denuncia la violenza e l’oppressione che sono elementi inseparabili di questa storia.

Weems scrive nel nuovo testo poetico che accompagna questa installazione: ”Nelle fiamme e tra le bombe prega dove e quando puoi; nei porti e nelle capanne, nei palazzi e nei semiinterrati, nei teatri e nei club. Dal tuo nascondiglio segreto hai scoperto nuove forme di culto”. Usando se stessa come musa e guida, Weems ci invita a unirci a questo risveglio spirituale e a condannare la persecuzione che rende questi spazi sacri luoghi di rifugio e di attivismo.

Preach intreccia insieme le prime immagini da Harlem, San Diego e Sea Island, Georgia, con una vasta gamma di nuovi lavori che evocano la realtà trascendentale e profana dell’espressione religiosa per gli americani neri di oggi.

La retrospettiva comprende anche molti dei primi lavori di Weems, come la storica ‘Kitchen

Table Series’ (1990) e Museums ( 2006- in corso); una selezione di progetti più recenti come ‘Scenes and takes ‘( 2016) e Painting The Town (2021) e importanti installazioni video tra cui The Shape of Things (2021) e Leave Now! (2022). Insieme queste opere accompagnano i visitatori in un  viaggio che abbraccia l’intero arco della sua carriera, mostrando la profondità e la varietà del suo linguaggio artistico.

L’esposizione “ Carrie Mae Weems- il cuore della materia”, sarà  accompagnata da un catalogo edito da Società editrice Allemandi insieme ad “Aperture”.

Oltre a numerose immagini delle opere dell’artista americana sarà arricchita da contributi di studiosi appartenenti a diverse generazioni,  sottolineando il valore unico della visione di Carrie Mae Weems.

La mostra verrà affiancata da una serie di eventi e incontri gratuiti, parte del Public Program Inside.

L’esposizione è  realizzata nell’ambito della seconda edizione di “Exposed Torino Photo Festival”. Fino al 2 giugno prossimo, per tutta la durata del festival, i visitatori potranno accedere alla mostra alle Gallerie d’Italia a un prezzo speciale di 5 euro.

Mara Martellotta

E’ tempo di “Seconda Risonanza” alla GAM di Torino

Sotto il collante tematico di “ritmo, struttura e segno”, un super – tris di mostre dedicate a Melotti, Cattaneo e Fioroni … e non mancherà il solito “Intruso”

Fino al 7 settembre

Fra i massimi esponenti dei movimenti d’avanguardia del secolo scorso, da “Novecento” fino alle voci più o meno assonanti degli artisti  gravitanti intorno a “Il Milione” – Lucio Fontana in primis – a Fausto Melotti (Rovereto, 1901 – Milano, 1986) scultore, pittore ceramista musicista e scrittore, la “GAM” dedica, fino a domenica 7 settembre, l’attuale “mostra d’apertura” della seconda stagione di “Risonanze”, iter espositivo cui fa capo la nuova programmazione del “Museo”, così ideata dalla direttrice Chiara Bertola“Ritmo, struttura e segno” i termini-chiave cui s’ispira (dopo la prima incentrata su “luce, colore e tempo”) l’attuale “Risonanza” di “seconda stagionalità” che, insieme all’artista roveretano, ospita altre due personali dedicate alla milanese Alice Cattaneo e alla progettazione filmica di Giosetta Fioroni.

L’attuale mostra di Fausto Melotti, dal titolo “Lasciatemi divertire!” (titolo che ben rappresenta “l’approccio giocoso e sperimentale” che nel tempo è stata cifra singolare della sua ricerca) arriva oltre cinquant’anni dopo la personale a lui dedicata nel ’72 dalla stessa “GAM”, che gli guadagnò (a lui che con Torino mantenne sempre un costante rapporto negli anni) il blasone di “cittadinanza onoraria” da parte del grande indimenticato Marziano Bernardi. Curata da Chiara Bertola e da Fabio Cafagna, in collaborazione con la “Fondazione Fausto Melotti” di Milano, la rassegna  si articola in otto sezioni e  comprende oltre 150 opere, ordinate secondo una progressione cronologica e tematica che tocca i vari “gesti” creativi dell’artista passando dalle prime “creazioni astratte” (anni ’30), per arrivare alle sezioni dedicate a “Intervalli e Contrappunti” e a “Pioggia e vento”, in cui traspare quella passione di Melotti per il ritmo e la musica che è componente costante delle sue opere e che trova forma singolare in composizioni di estrema lievità e seducente silenziosa attesa, che furono (curiosità!) fervida fonte d’ispirazione letteraria per il grande suo amico Italo Calvino nella stesura de “Le città invisibili” del ’72. Ampio spazio, in un allestimento che va a coinvolgere non solo le sale espositive, ma anche atrio, vestibolo e giardino della “Galleria”, è infine riservato alla “Ceramica” e ai famosi “Teatrini” abitati da originali  figure antropomorfe e realizzati da Melotti a partire dalla metà degli anni Quaranta.

Accanto alle fantasiose plastiche elucubrazioni del Maestro roveretano, troviamo le cosiddette “anti-sculture” dell’artista milanese Alice Cattaneo, raccolte sotto il titolo di “Dove lo spazio chiama il segno” (suggeritole, pare, da un maestro vetraio di Murano: il vetro s’ha da tagliare “là dove chiama il materiale”) ed accompagnate dalla curatela del critico veneziano Giovanni Giacomo Paolin. Ferro, legno, vetro e carta i materiali utilizzati per strutture di “visionaria precarietà”, che “ possono essere lette – spiega Paolin –  come ‘interruzioni di pensiero’, gesti mossi da una necessità figlia della sua stretta relazione con lo spazio espositivo, seguendo una linea di azione per cui l’artista è chiamata a rispondere secondo le proprie modalità espressive”.

E a chiudere la triade espositiva, una rassegna, a cura di Elena Volpato, dedicata ai film (quattro: “Coppie”“Gioco”“Goffredo” e “Solitudine femminile”) realizzati nel ‘67 da Giosetta Fioroni (Roma, 1932) e conservati nella “Videoteca GAM”. La mostra ha il suo incipit in uno dei suoi dipinti dal titolo “La ragazza della TV” del ’64, un profilo di donna tracciato a riserva nell’argento del fondo che si va sistemando i capelli con le mani. Sottolinea Elena Volpato“Le immagini di Fioroni sembrano sempre consapevoli di essere immagini di immagini, perennemente intente a scrutarsi in qualche riflesso, a truccarsi o pettinarsi, a posare per l’obiettivo o a catturare lo sguardo di qualcuno”. E la stessa Fioroni: “Cercavo la leggerezza quasi di un’antica sequenza dei Fratelli Lumière, del primo cinema, qualcosa che proprio trascorre […], qualcosa che poteva suggerire in chi guardava un che di tremulo, di estremamente lieve: un’apparenza, una dissolvenza”.

Infine. L’immancabile ad ogni “Risonanza” che si rispetti, “Intruso”. In quest’occasione trattasi dei curatori e sound artis Chiara Lee e Freddie Murphy. Loro l’idea di trasformare, in collaborazione con il “MAO” (di cui da circa tre anni curano il public program “Evolving Soundscapes”) gli interstizi delle scale del “Museo” in strumento musicale. A tener loro bordone l’artista sakha (Siberia orientale) Aldana Duoraan.

Gianni Milani

“Seconda Risonanza”

GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e contemporanea”, via Magenta 31; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it

Fino al 7 settembre

Orari: mart. – dom. 10/18. Chiuso il lunedì

Nelle foto: Allestimento (Ph. Gonella); Fausto Melotti “Il carro dei rabdomanti”, ottone, 1959 ca.; Alice Cattaneo “Untitled”, ardesia vetro, ferro, 2019; Giosetta Fioroni “Coppie”, 1967