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Nove novembre novantatre

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Guardare Mostar era come aprire una finestra sull’inferno. La parte musulmana della città, ormai spezzata in due, era sotto il tiro degli obici e dei cecchini. La parola più comprensibile era “niente”. Niente acqua, luce, cibo. Niente pace. Forse anche niente futuro. L’odore della morte aveva quasi spento la speranza mentre dal cielo piovevano le granate

Fu l’architetto Hayrrudin a costruirlo nel 1566, per ordine del sultano Solimano il Magnifico. Dalla parola slava che indica il ponte, «most», prese nome la città sorta sulle sue opposte sponde. Quel ponte a schiena d’asino, simbolo del legame fra Oriente e Occidente, fu visto, però dai nazionalisti croati – come ha scritto, con grande acume, Giacomo Scotti -“come negazione della loro politica d’odio verso i musulmani che abitavano ed abitano sul lato del fiume opposto a quello croato, nei densi quartieri di case abbarbicate sulle pendici che scendono dolcemente verso la sponda orientale”. In quel novembre 1993 guardare Mostar era come aprire una finestra sull’inferno. La parte musulmana della città, ormai spezzata in due, era sotto il tiro degli obici e dei cecchini. La parola più comprensibile era “niente”. Niente acqua, luce, cibo. Niente pace.

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Forse anche niente futuro. L’odore della morte aveva quasi spento la speranza mentre dal cielo piovevano le granate. Tante, tantissime  granate, provenienti dall’altra parte della città, quella sotto controllo dell’Hvo (l’esercito dei croato-bosniaci). L’artiglieria croata portò a compimento il suo”capolavoro” martedì 9 novembre, abbattendo il ponte. In coincidenza con il quarto anniversario della caduta del Muro di Berlino. Esattamente cinquantacinque anni dopo la “notte dei cristalli”, il pogrom antisemita dei nazisti che distrussero, bruciarono e saccheggiarono sinagoghe e negozi ebraici in Germania, Austria e Cecoslovacchia. Casualità? Difficile dirlo. Un fatto è certo. Se, per un verso,  la caduta del Muro chiuse una pagina nera della storia europea, abbattendo simbolicamente il confine della guerra fredda e avviando il processo di riunificazione della Germania, l’abbattimento del ponte di Mostar equivalse all’esatto contrario. La distruzione del Ponte Vecchio non fu un gesto casuale, né l’azione scellerata di un manipolo di soldati scriteriati e senza ordini. Al contrario, fu il risultato di una strategia pianificata dai politici croati e dai capi croato-bosniaci per rimuovere la popolazione musulmana, ghettizzandola sulla sponda orientale della Neretva. I sei croati ritenuti responsabili vennero imputati dal Tribunale dell’Aia per aver commesso una “impresa criminale congiunta” e condannati dai dieci ai venticinque anni di prigione. Tra di loro il generale croato Slobodan Praljak, al quale di anni ne furono affibbiati venti, in quanto riconosciuto come principale responsabile della distruzione dello Stari Most. Lo stesso che dichiarò che “quelle pietre” (il ponte) “non avevano nessun valore”. Divisione, cesura, distruzione di un simbolo dell’identità culturale: altro che anonime pietre. Alla fine della guerra, nel 1995, la comunità internazionale pose tra gli obiettivi principali della ricostruzione della Bosnia-Erzegovina devastata, la riedificazione dello «Stari Most». La seconda vita di quello che molti definivano un «monumento alla pace» cominciò qualche anno dopo, con materiali e tecniche originali, recuperando dal fiume le poche pietre ancora utilizzabili ed estraendone altre dalle cave da cui proveniva la pietra originaria che andava lavorata dagli scalpellini.

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Il costo della ricostruzione dell’intero complesso, dalle Halèbija e Tara – le imponenti, seicentesche torri laterali – agli edifici attigui, ammontava a circa 18 milioni d’euro. E l’Italia fu la nazione più impegnata, per l’entità della donazione, con oltre tre milioni. Una parte tutt’altro che simbolica dell’impegno straordinario per aiutare la Bosnia-Erzegovina a rimettersi in piedi. Una cosa importante che s’accompagnò a quella ben più straordinaria della folla di pacifisti, donne e uomini d’ogni età e ceto sociale,  che durante la guerra, affrontando gravi pericoli e mettendo a repentaglio la propria vita, portarono ai bosniaci d’ogni etnia la solidarietà, gli aiuti concreti in cibo, medicinali e  vestiario oltre che il conforto di un mondo che non li aveva dimenticati relegandoli alla cronaca di qualche telegiornale della sera. Anche tra questi, in molti, furono gli italiani. Purtroppo, mentre il ponte rinasceva offrendo di sé un’immagine di speranza, altri episodi contribuirono a tenere aperte le ferite. Come il significato simbolico che i nazionalisti hanno voluto dare al nuovo, altissimo campanile della piccola chiesa francescana. Il più alto che esista nell’ex Jugoslavia, ovviamente molto più alto del campanile originario, anch’esso lesionato dalle cannonate nel 1992. S’innalza come un pinnacolo a 107 metri d’altezza, svettando a dominio della città, ben oltre il campanile della più grande chiesa cattolica del Balcani, vale a dire la cattedrale di Zagabria. Un evidente gesto di sfida che si accompagna all’enorme croce di marmo bianco, alta trentatré metri, che si staglia nel cielo ancor più del campanile, perché issata sul monte Hum, che domina la Mostar occidentale, croato-cattolica. Una scelta deliberata dei croati di Mostar per sfida e dispetto ai musulmani. Simboli, grandezze e ombre che s’intendono proiettate sullo Stari Most che invece appartiene a tutti i mostarini, collegando le due sponde del fiume. Ma, nonostante tutto, il ponte resterà il vero ed unico simbolo della città nel suo insieme.

Marco Travaglini

Nagasaki, 9 agosto 1945: il giorno in cui il sole cadde nuovamente sulla terra

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L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyushu, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese.  Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così  si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki

Nagasaki si estende al centro di una lunga baia, che rappresenta il miglior porto naturale dell’isola di Kyūshū, nel sud del Giappone. Il suo nome, letteralmente, significa  “lunga penisola”. Il 9 agosto del 1945 diventò il secondo obiettivo su cui sganciare una bomba atomica. Il bombardiere B-29 Superfortress  dell’aviazione americana (esemplare numero 44-27297, ribattezzato “Bockscar”) portava in pancia “Fat Man” (in italiano “ciccione“). Quel nomignolo era stato assegnato alla Model 1561 (Mk.2), la terza bomba atomica approntata nell’ambito del Progetto Manhattan, il secondo e ultimo ordigno nucleare mai adoperato in combattimento. In origine non era previsto che la città di Nagasaki finisse nel mirino dell’aereo pilotato dal  maggiore Charles W. Sweeney.

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Era, come si usa dire, “la seconda scelta”. L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyushu, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese.  Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così  si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki. Così la bomba finì  sulle acciaierie Mitsubishi situate poco fuori quella città. “Fat Man” esplose a un’altezza di mezzo chilometro sulla città e sviluppò una potenza di 25 chilotoni, quasi il doppio di “Little Boy” , l’ordigno sganciato dal bombardiere “Enola Gay” che esplose tre giorni prima su Hiroshima. Ma, dato che Nagasaki era costruita su un terreno collinoso, il numero di morti fu inferiore a quelli prodotti dalla prima bomba. A Hiroshima morirono istantaneamente per l’esplosione nucleare tra le 66.000 e le 78.000 persone e una cifra simile rimase ferita. Per due volte, in tre giorni, il sole cadde sulla terra. Un numero elevato di persone persero la vita nei mesi e negli anni successivi a causa delle radiazioni e molte donne incinte persero i loro figli o diedero alla luce bambini deformi. Il numero totale degli abitanti uccisi a Nagasaki venne valutato attorno alle 80.000 persone, incluse quelle esposte alle radiazioni nei mesi seguenti.

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La sorte volle che tra le persone presenti a Nagasaki quel 9 agosto di settant’anni fa  vi fossero anche un ristretto numero di sopravvissuti di HiroshimaEntrambe città furono rase al suolo. Un disastro che costrinse, meno di una settimana dopo, il 15 agosto 1945, l’imperatore del Giappone Hirohito a presentare agli alleati la resa incondizionata. Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre del 1945, si concluse di fatto il secondo conflitto mondiale. Settant’anni dopo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, due ospedali della Croce Rossa giapponese stanno curando migliaia di persone che continuano a patire le conseguenze di questi attacchi. Secondo fonti ufficiali della Federazione internazionale della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa questi ospedali – nel 2014 – si sono presi cura di 4657 vittime dell’esplosione a Hiroshima e 6030 di quella di Nagasaki.

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Si calcola inoltre che diverse migliaia di queste persone continueranno ad avere necessità di cure, nei prossimi anni, per le problematiche legate alle radiazioni. In totale, tra i due centri sanitari sono stati ospedalizzati 2,6 milioni di persone per le conseguenze legate alle radiazioni. Il 63 % dei decessi registrati nell’ospedale di Hiroshima, in funzione dal 1956, sono stati causati da diversi tipi di cancro. Tra questi, il 20 % per cancro al polmone, il 18 % per cancro allo stomaco, il 14 % per neoplasie al fegato, il 7 % per cancro all’intestino e un altro 6 % dai linfomi maligni. Nell’ospedale di Nagasaki, che cominciò a funzionare nel 1969, i morti per cancro rappresentano, fino a marzo dell’anno scorso, il 56% del totale. Secondo la Croce Rossa, l’incidenza di leucemia tra i sopravvissuti dei bombardamenti fu di quattro o cinque volte superiore rispetto alle persone non esposte alle radiazioni durante la prima decade, e diminuì successivamente. Una contabilità tremenda, eredità diretta di quello che fu l’inizio dell’era del terrore nucleare. Settanta anni dopo, la memoria di ciò che è stato deve indurre a far sì che nessuno debba più scrivere, di fronte alle atrocità della guerra, quello che il copilota, capitano Robert A. Lewis , annotò sul diario di bordo del bombardiere “Enola Gay” dopo aver verificato con un binocolo gli effetti della bomba sganciata su Hiroshima: “My God what have we done?”, ““Dio mio, cosa abbiamo fatto?”.

Marco Travaglini

Dicembre 1895, nasce il cinema con i Lumière

Lumiere2 cinemaLumiere4 cinemaNonostante la pubblicità data all’evento nei giorni precedenti, si presentarono soltanto trentatré persone, mentre la stampa snobbò completamente l’invito. Ai presenti vennero proposti dieci episodi, della durata ognuno di un minuto scarso. Dal comico L’innaffiatore innaffiato alla tenera La colazione del bimbo (protagonisti Augustine e consorte che imboccano il loro figlioletto), il filo conduttore era la quotidianità riportata senza filtri sullo schermo

Un gruppo di operai, per lo più donne, con indosso abiti tipici della Belle Époque, esce dalla fabbrica al termine della giornata di lavoro. È l’episodio iniziale del cortometraggio proiettato dai fratelli Lumière davanti a una sparuta platea che, alla modica cifra di un franco, assistette a quello che oggi è considerato il primo film della storia del cinema. Esattamente centovent’anni fa – sabato 28 dicembre 1895 –  a Parigi, con “L’arrivo di un treno nella stazione di La Ciotat”, August e Louis Lumière presentavano la loro invenzione al mondo. Il luogo fu scelto dal fotografo Clement Maurice, amico dei Lumière, che affittò il Salon Indien du Grand Café, nel seminterrato dello storico locale parigino di Boulevard des Capucines. Nonostante la pubblicità data all’evento nei giorni precedenti, si presentarono soltanto trentatré persone, mentre la stampa snobbò completamente l’invito. Ai presenti vennero proposti dieci episodi, della durata ognuno di un minuto scarso. Dal comicoLumiere1 cinema L’innaffiatore innaffiato alla tenera La colazione del bimbo (protagonisti Augustine e consorte che imboccano il loro figlioletto), il filo conduttore era la quotidianità riportata senza filtri sullo schermo. Scene di vita reale che fornirono insieme un primitivo esempio di documentario. Gli spettatori ne rimasero strabiliati e in pochi minuti all’ingresso del locale (l’edificio oggi è parte dell’Hotel Scribe, che include il ristorante Café Lumière) si formò una calca di duemila persone, desiderose di scoprire la “meraviglia del secolo“.

Un successo che spinse Augustine e Louis a produrre il cinematrographe su larga scala e a mostrarne il funzionamento in giro per il mondo. I due figli dell’imprenditore e fotografo Antoine Lumière erano da  tempo impegnati in esperimenti sul procedimento fotografico e si erano trovati la strada spianata dall’invenzione di George Eastman, che nel 1885 aveva brevettato la pellicola cinematografica. Da qui partirono per la messa a punto di uno strumento che fosse in grado di catturare e riprodurre immagini, fungendo al contempo sia da camera da presa che da proiettore. Azionarlo era la più semplice delle operazioni: girando una manovella si avviava lo scorrimento e il riavvolgimento della pellicola, in modo da allungare il tempo delle riprese continue e registrare fedelmente le azioni compiute. Il destino volle che venisse brevettata con il titolo di “cinematographe”. Esisteva infatti già un brevetto omonimo rilasciato al connazionale Leon Bouly. Quest’ultimo, per Lumiere3 cinemaristrettezze economiche, non fu più in grado di pagare il canone di locazione per i suoi brevetti, lasciando di nuovo disponibile il nome che i due fratelli poterono riutilizzare per la loro macchina (la storiografia moderna è tuttavia concorde nell’attribuire a Bouly la paternità del termine cinematografo).

Si arrivò così alla prima dimostrazione del suo funzionamento, che avvenne in forma ristretta alla Société d’Encouragement à l’Industrie Nationale di Parigi, nell’aprile del 1895. Otto mesi più tardi ci si organizzò per il suo , già richiamato, “battesimo” pubblico. Anche se gli storici si dividono sul riconoscere ai Lumière il primato di aver inventato il cinema – una parte l’attribuisce al kinetoscopio di Thomas Edison, brevettato nel 1891 – non v’è dubbio alcuno nel considerare la proiezione del 28 dicembre 1895, come il primo film in assoluto nella storia della “settima arte”. Un evento che rappresentò uno spartiacque nell’evoluzione del termine cinematografo (dalle parole greche kinema = “movimento” e grapho = “descrivere”), che già dall’anno dopo iniziò a diffondersi, anche in Italia, nella versione abbreviata “cinema” (pronunciata alla francese con l’accento sull’ultima sillaba).

Marco Travaglini

Quel 13 febbraio 1983 la tragedia del cinema "Statuto"

Incendio_del_Cinema_StatutoLa fiammata provocata dal cortocircuito incendiò un tendone che, cadendo sulle poltrone dell’ultima fila, propagò il fuoco

 

Accade spesso di passare in via Cibrario, dove adesso è costruito un condominio, e di pensare che nello stesso luogo, il 13 febbraio di 33 anni fa, si consumò la tragedia del cinema Statuto. Furono 64 le vittime, uccise in pochi minuti per le esalazioni tossiche del fumo sviluppatosi da un incendio nella sala cinematografica. La causa, un cortocircuito. Era una domenica pomeriggio, si proiettava il film “La Capra”, con Gerard Depardieu. La fiammata provocata dal cortocircuito incendiò un tendone che, cadendo sulle poltrone dell’ultima fila, propagò il fuoco. Uscite di sicurezza chiuse e le stesse porte di ingresso in sala erano state sbarrate per evitare a spettatori non paganti di entrare, Le urla disperate dei prigionieri fecero accorrere i passanti nella via. Ma ormai era troppo tardi. Tutti morti in galleria, qualcuno si salvò in platea.  Il presidente Pertini partecipò ai funerali, assieme a migliaia di torinesi. Da quel giorno si cambiarono le regole di sicurezza nei luoghi di pubblico intrattenimento. Per cambiare le cose troppo spesso devono accadere tragedie.

“Che notte, quella notte!” La vita breve ed eccezionale di Fred Buscaglione

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Il suo  personaggio si impose come modello al punto da essere imitato su larga scala. I suoi comportamenti diventarono una sorta di status symbol, come – ad esempio –  il suo viaggiare su una Ford Thunderbild  rosa quando in Italia circolavano soprattutto  le Topolino e le Seicento. Morì il 3 febbraio 1960

 

Il 23 novembre  del 1921 nasceva a Torino, da una famiglia originaria di Graglia, nel biellese,  Ferdinando Buscaglione, in arte Fred, il cantante più innovativo degli anni cinquanta. La sua formazione musicale viaggiò su di un doppio binario: da una parte lo studio al Conservatorio Verdi (tra gli 11 e i 14 anni), dall’altro l’apprendistato nelle orchestrine jazzche si esibivano nei locali notturni delle città, suonando il contrabbasso.Iniziò la carriera come cantante grazie all’amico e avvocato Leo Chiosso, a cui si deve anche la scelta di Fred Buscaglione di interpretare un personaggio unico e singolare. Così, in un’epoca in cui la musica leggera italiana era ancora legata a motivi dei decenni precedenti o a rime un po’ melense, un pò banali, proponendo argomenti triti e ritriti, Buscaglione irruppe sulla scena con canzoni completamente diverse, come “Che bambola!”, “Teresa non sparare”, “Eri piccola così”. Fred, cantautore, musicista ed attore, si presentò anche come un personaggio completamente diverso: niente aria ispirata e sofferente, niente romanticismi zuccherosi o d’effetto. Si presenta in scena invece come una caricatura da film, con la sigaretta all’angolo della bocca, i baffetti da gangster e le pose da duro viste nei  polizieschi americani. Il successo non tardò ad arrivare e il suo primo 78 giri “Che bambola”, nel 1955, consentì al cantante torinese di fare un botto da quasi un milione di copie.

 

Buscaglione entrò rapidamente nella schiera degli artisti più richiesti: il suo  personaggio si impose come modello al punto da essere imitato su larga scala. I suoi comportamenti diventarono una sorta di status symbol, come – ad esempio –  il suo viaggiare su una Ford Thunderbild  rosa quando in Italia circolavano soprattutto  le Topolino e le Seicento. E fu proprio a bordo di quell’auto che, nel momento in cui il suo successo era salito alle stelle, il cantante “dal whisky facile” si schiantò contro un camion in una strada di Roma. “Fred Buscaglione, popolare cantante di musica leggera è morto stamani a Roma, in un pauroso incidente stradale alle sei e venti, all’incrocio di via Rossini con via Paisiello”. Così giunse la notizia, in apertura del giornale radio, la mattina del 3 febbraio 1960. Poche ore prima, tra le lamiere della sua Thunderbird , comprata sette mesi prima per l’astronomica cifra di sei  milioni di lire, si concludeva la rapida parabola del grande Fred. Non aveva compiuto nemmeno 39 anni e il successo, quello vero, lo aveva raggiunto da non molto, essendosi fatto conoscere dal grande pubblico solo nel ’57, con l’apparizione in ” Musica alla ribalta”.

 

La trasmissione Rai era una formidabile vetrina nella quale artisti del calibro di Renato Carosone, Henry Salvador e Gilbert Becaud si alternavano a cantanti meno noti. Dopo anni e anni di gavetta, finalmente, la celebrità. Lo stesso Buscaglione in un intervista del ’59, su Stampa Sera raccontava: “Sono diventato famoso troppo tardi.. Da vent’anni suono nei night club e nelle sale da ballo”. Così, in un Paese in bianco e nero che stava faticosamente uscendo dal dramma della guerra, con alti tassi di disoccupazione e analfabetismo,Buscaglione aveva scalato il successo con il suo spirito ribelle, irriverente e anticonformista. Come tanti altri personaggi dalla breve vita la sua leggenda non era destinata a spegnersi con lui. Cinquantacinque anni dopo, la stella di “Fred” Buscaglione brilla ancora, luminosa. Nessuno saprà mai dove se ne sia andato quel 3 febbraio del 1960 ma forse si è ritagliato un posto in qualche luogo che assomiglia al suo “cielo dei bar“.

 

Marco Travaglini

Vincent Van Gogh: 125 anni fa prendeva la morte per andare in una stella

 Una vita per l’arte e l’arte come unica ragione di vita: in questa frase si può condensare il senso dell’opera di questo genio, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più grande, con lo sguardo proiettato lontano, troppo lontano su altri mondi dove le stelle sono vortici e controvortici, dove i colori sono tanto intensi da diventare abbacinanti, da fare male agli occhi, dove tutto si deforma e gli oggetti diventano vivi

 

VAN GOGHIl 29 luglio 1890 moriva l’artista che più di tutti stravolse l’arte, riuscendo, in pochi anni, a passare dalle cupe atmosfere fiamminghe dei “Mangiatori di patate” ai gialli intensi che fendono cieli blu scuro, dai paesaggi dalla chiara influenza impressionista ai rami di mandorlo in fiore dell’arte giapponese fino all’ultimo quadro, il lascito testamentario di un uomo che, nella vita e nella pittura tutto sperimentò: “Campo di grano con volo di corvi”, dipinto poco prima di spararsi nei campi di grano sferzati dal vento di Auver sur Oise.

 

Personalità complessa quella di Vincent Willelm Van Gogh, nato a Zundert Groot in Olanda il 30 marzo 1854, per uno strano scherzo del destino esattamente un anno dopo un fratellino nato morto che portava lo stesso nome, fatto che influirà molto su di lui, facendolo sentire un usurpatore della vita di un altro e portandolo, spesso, a cercare nel sacrificio di se stesso a favore dei più umili e dei diseredati, come la prostituta Sien, come i minatori del Borinage, una sorta di riparazione ad una colpa ancestrale, ad un peccato originale che, suo malgrado, pesava sulla sua anima come un macigno.

 

Dopo un’esperienza fallimentare come commesso nella galleria d’arte degli zii e, successivamente, un breve e sfortunato periodo di studio presso la scuola di teologia per diventare pastore calvinista come il padre, Vincent trova la sua vera strada, il percorso da seguire: la pittura e, sostenuto economicamente dall’amato fratello Theo, inizia il suo cammino in questo difficile mondo, stroncato dai maestri di disegno, marchiato come un imbrattatele, allontanato dalle accademie incapaci di comprendere le grandi trasformazioni artistiche del XIX secolo e legate a modelli classicistici, apprezzato soltanto dai tanti suoi compagni di pittura: Touluouse Lautrec, Pissarro, Gauguin. Proprio Pissarro, anni dopo la morte di quel ragazzone olandese dalla barba e dai capelli rossi, che era capitato a Parigi per scoprire i segreti della pittura avrebbe scritto: “Quando lo incontrai la prima volta mi dissi o che sarebbe impazzito o che ci avrebbe superati tutti. Non avrei mai creduto che avrebbe fatto entrambe le cose”.

 

VAN GOGH GIRASOLIUna vita per l’arte e l’arte come unica ragione di vita: in questa frase si può condensare il senso dell’opera di questo genio, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di più grande, con lo sguardo proiettato lontano, troppo lontano su altri mondi dove le stelle sono vortici e controvortici, dove i colori sono tanto intensi da diventare abbacinanti, da fare male agli occhi, dove tutto si deforma e gli oggetti diventano vivi, come se il Pigmalione Vincent vi avesse trasfuso la sua stessa essenza e la sua stessa ragione, dove le sedie vuote diventano persone e le persone simboli di qualcosa di più alto, della disperazione, della malinconia, del dolore, un mondo che soltanto lui poteva vedere, che soltanto le sue tele potevano rappresentare con una forza devastante.

 

 “Per il mio lavoro, io rischio la vita, e la ragione vi è quasi naufragata a metà“scriveva Vincent in una lettera a Theo, frase che meglio di tutte può esprimere il prezzo che questo uomo stava pagando ad un’arte che, mese dopo mese, diventava sempre più esigente, portandosi via il suo equilibrio, la sua forza, fino alla richiesta dell’estremo sacrificio: quello della vita.

 

Nel 1889 Van Gogh si chiedeva “Perché i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili delle città e dei villaggi, dei punti neri sulla carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella”, un presagio di quello che sarebbe accaduto forse o, semplicemente, la lucida consapevolezza che soltanto la morte avrebbe potuto restituire la pace al suo corpo stanco e alla sua anima tormentata.Tante ipotesi sono state avanzate sul suicidio di questo artista, non ultima quella di una follia degenerata a tal punto da spingerlo a rivolgere la rivoltella contro di sé.

 

E’ bello pensare, invece, che non gli bastasse più che le stelle, tante volte dipinte, restassero lontane da lui e, consapevole di avere dato a quell’umanità la parte migliore di sé, abbia semplicemente deciso che era venuto il momento di raggiungerle per sempre e di farlo in mezzo alle spighe di grano che hanno la loro stessa luce, che hanno il loro stesso colore, solo, sotto l’immensità del cielo. I critici, il pubblico, il mondo interno, in questi 125 anni hanno celebrato l’artista, il genio, tributando alla sua grandezza tutti gli onori che si devono a chi ha scritto il suo nome nella storia dell’arte e della cultura. Credo che a Vincent, schivo e sensibile, malinconico ed introverso, tutto questo sarebbe pesato.

 

VAN GOGH2Mi piace, quindi, ricordarlo, in questo anniversario, con un’immagine carica di significati: due tombe, sgretolate dalle intemperie, due lapidi di pietra grezza in un piccolo camposanto di campagna, senza fiori, ma coperte da un manto di edera. Su una è scritto: “Ici repose Vincent Van Gogh, 1854–1890”, sull’altra “Ici repose Theodore Van Gogh – 1857-1891”. Sono le tombe di Vincent e Theo che, vicini nella morte come lo sono stati nella vita, dormono il loro ultimo sonno, in un silenzio quasi irreale, visitati dai corvi e da qualche raro passante, distanti dalle luci e dai rumori della città, in un angolo remoto dove forse hanno raggiunto la pace ricercata e mai trovata nelle loro brevi esistenze.

 

Barbara Castellaro

Alex Langer, vent’anni dopo

Ci lasciò orfani di migliaia di cartoline, appunti, riflessioni, strette di mano, viaggi. Ci lasciò molti scritti e un’eredità difficile da gestire. Quella di un uomo ostinato e fragile, curioso, intelligente, caparbio

 

Langer 1“I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più. Non rimane da parte mia alcuna amarezza nei confronti di coloro che hanno aggravato i miei problemi. Così me ne vado più disperato che mai, non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. Sono passati vent’anni da quel 3 luglio 1995, quando Alexander Langer lasciò quest’ultimo biglietto prima di scegliere di allontanarsi volontariamente dalla vita.Aveva 49 anni, cattolico autodidatta (come amava definirsi), nato a Sterzing-Vipiteno, uomo senza patria e con molte patrie, intellettuale che parlava cinque lingue e aveva cento vite, costruiva ponti, univa popoli, faceva politica da persona che con questa politica aveva poco a che spartire. Al Pian de’ Giullari,nei pressi di Firenze, scelse un albero di albicocco in un uliveto, si tolse le scarpe, e ci lasciò al nostro “grande freddo”, come disse Daniel Cohn Bendit, il giorno successivo. Ci lasciò orfani di migliaia di cartoline, appunti, riflessioni, strette di mano, viaggi. Ci lasciò molti scritti e un’eredità difficile da gestire. Quella di un uomo ostinato e fragile, curioso, intelligente, caparbio, fondatore di Lotta continua prima (fu l’ultimo direttore a firmare il giornale, ma all’epoca il suo lavoro vero era insegnare in un liceo), poi dei Verdi, dei quali non fu leader per scelta, ma capogruppo al parlamento di Strasburgo.

 

Ci lasciò mentre l’Europa, lui che l’aveva già vissuta, si affannava a scegliere una via condivisa che ancora oggi stenta a trovare. Vent’anni diLanger2 assenza sono tanti per chi gli ha voluto bene e chi cercava nelle sue parole una risposta o l’illusione di averla. Nell’autunno 1961, Alexander Langer, appena quindicenne, scrisse (in tedesco) un editoriale sul nuovo mensile Offenes Wort, della Congregazione studentesca mariana di Bolzano. Vi si legge: “Vorremmo esistere per tutti, essere di aiuto ed entrare in contatto con tutti. Il nostro aiuto è aperto a tutti, così come per tutti vale la nostra preghiera. Venite a noi, e vi aiuteremo con tutte le nostre forze. Ma che cosa ci spinge a farlo? L’amore per il prossimo. Dobbiamo prendere sul serio la tanto declamata carità cristiana, senza mezze misure”. Alexander Langer per tutta la sua vita ha preso davvero tutto “sul serio”, davvero “senza mezze misure”. Difficile pensare a cosa avrebbe detto oggi. Difficile sapere cosa avrebbe detto di quest’Italia e di un’Europa sempre più cinica, lontana da quella che lui aveva sempre intravisto. Meno difficile immaginare il giudizio critico su questo mondo in conflitto con la sua idea di “più lentamente, più in profondità, con più dolcezza”, che ci avevi spiegato come radicale rovesciamento del motto olimpico “più veloce, più alto, più forte”. La suaostinata voglia di non piegarsi e costruire ponti l’ha lasciata in eredità a noi.

 

Marco Travaglini

Guglielmo Marconi e il brevetto della radio

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Era il 2 luglio del 1897, 118 anni fa 

 

Avere 118 anni e non mostrare nemmeno una ruga, denunciare un malanno, soffrire di un acciacco, è più unico che raro. Ed è così per l’invenzione che cambiò per sempre la storia dell’uomo: la radio. Era il 2 luglio del 1897 quando Guglielmo Marconi, a Londra,  ricevette il brevetto brevetto “Perfezionamenti nella trasmissione degli impulsi e dei segnali elettrici e negli apparecchi relativi”. Tre anni prima, a vent’anni, il giovane  Marconi iniziò i primi esperimenti sulle onde elettromagnetiche nella villa paterna di Pontecchio (oggi frazione del comune di Sasso Marconi, nel bolognese) ispirato agli studi sulle onde elettromagnetiche realizzati dal fisico tedesco  Heinrich Rudolf Hertz. Da quel momento lo scienziato iniziò una serie di esperimenti sulle trasmissioni a distanza, utilizzando mezzi di fortuna. La prima trasmissione telegrafica senza fili avvenne dal suo laboratorio alla collina di fronte, dove si era posizionato il fratello Alfonso insieme con l’aiutante Marchi. Marconi trasmise il segnale che azionò un campanello al di là della collina e un colpo di fucile in aria lo avvertì che l’esperimento era riuscito. Così Marconi, classe 1874, nel giro di qualche anno, realizzò l’apparecchiatura che, oltre a renderlo uno degli uomini più celebri del suo tempo, rese il mondo più vicino e più piccolo, annullando le distanze. Buona parte delle sue attività la svolse  tra l’Inghilterra e l’Irlanda poiché sua madre era irlandese e suo padre, pur essendo italiano, decise di assumere la cittadinanza britannica.

 

Il traguardo successivo dell’intraprendente Guglielmo, ottenuto il brevetto,  fu la prima comunicazione transoceanica, creando un collegamento dalla Cornovaglia,nella zona di Poldhu, all’isola canadese di Terranova, dall’altra parte dell’Atlantico, dimostrando così che la curvatura terrestre non rappresentava un ostacolo alle trasmissioni radio. L’esperimento riuscì il 12 dicembre 1901 ed è facilmente immaginabile l’entusiasmo che suscitò quando dal Canada Marconi inviò all’antenna installata in Inghilterra i tre punti che nel codice Morse indicano la lettera “S”. S’inaugurò da quel periodo l’era commerciale degli apparecchi radio, che lo stesso Marconi iniziò a costruire in serie con la propria società, la Marconi Wireless Telegraph Company. Il nuovo dispositivo si rivelò presto uno strumento essenziale per la sicurezza del trasporto marittimo, al punto che ogni nave ne venne dotata e l’addetto al suo funzionamento fu indicato con il nome di “marconista”, in onore dell’inventore del radiotelegrafo. Vale la pena ricordare, a riprova dell’utilità dei segnali radio i 1.700 viaggiatori del transatlantico Repubblic che vennero tratti in salvo durante il naufragio di quel piroscafo proprio grazie alla possibilità di lanciare un S.o.S via radio. A coronamento di questi successi venne  assegnato a Guglielmo Marconi il Nobel per la Fisica nel 1909, riconoscendogli “il contributo dato allo sviluppo della telegrafia senza fili”.

Marco Travaglini