Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, certo non modelli di ortodossia morale di sinistra: il primo imputò a Pavese -da che pulpito- la “vanità” e un irrimediabile decadentismo; il secondo -addirittura- la mediocrità della scrittura
di
Enzo Biffi Gentili
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In questo 2018 ricorre il cento decimo anniversario della nascita di Cesare Pavese. Si presume, trattandosi di uno dei più importanti scrittori piemontesi del Novecento -e molto probabilmente di quello più noto al grande pubblico- che Torino, la Regione e altre istituzioni culturali stiano all’erta. Per ora, a livello locale il clima culturale non pare febbrile: sulla home page del Centro interuniversitario per gli studi di letteratura italiana in Piemonte “Guido Gozzano – Cesare Pavese” ancora campeggia l’annuncio del primo centenario della morte di Guido Gozzano, che ricorreva due anni fa; mentre la Fondazione Cesare Pavese ha organizzato il febbraio scorso un tour sui luoghi dello scrittore nell’occasione della festa di San Valentino, non a caso denominato “InnamoraTI di Cesare Pavese”, a prezzo scontato. A livello nazionale si nota maggiore preoccupazione, soprattutto da parte di siti dedicati agli studenti, perché un tema sul nostro potrebbe uscire alla prima prova dell’Esame di Stato, della Maturità. Intendiamoci: non si pretende certo che a ogni decennio si programmi una grande celebrazione, considerando che va tenuta
presente anche la data di morte, il 1950, e quindi nel 2020 sarebbero settant’anni tondi… Ma la situazione d’oggi, politica e culturale, rappresenta un contesto particolarmente interessante per un confronto storico-critico spregiudicato sul corpus pavesiano.
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Difatti, in tempi nei quali la tradizionale dicotomia destra-sinistra appare in gravissima crisi, teorica e pratica, e la riflessione sul tema di Norberto Bobbio molto dépassée, l’ambiguità pavesiana si può rivelare, non solo letterariamente, una virtù. E sono stati proprio alcuni studiosi piemontesi nonostante la narrazione dazeglina e antifascista dominante a sottolineare aspetti quasi imbarazzanti del pensiero e dell’opera di Pavese, quali l’irrazionalismo e l’influsso di letture e figure allora poco frequentabili, da Karoly Kerenyi a Mircea Eliade, che fu sostenitore in Romania della parafascista Guardia di Ferro di Codreanu, sino persino a Julius Evola, ed eravamo, occorre ricordarlo negli anni Quaranta, e nella sede dell’Einaudi. Va quindi reso omaggio ai fondamentali interventi, nel secolo scorso, di Furio
Jesi (Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito, in “Sigma”, n. 3-4, 1964) e di Lorenzo Mondo, che su “La Stampa” dell’8 agosto 1990 rivelò parti censurate del Taccuino segreto di Pavese. Ma anche recentemente un altro piemontese illustre, Franco Ferrarotti, amico personale di Pavese, ha dichiarato l’impossibilità di considerarlo storicista, crociano o marxista (http://www.calabriaonweb.it/2013/10/15/il-mio-amico-cesare-pavese-e-quelli-che-non-lhanno-mai-capito-mi-telefono-prima-di-suicidarsi-ma-io-ero-al-mare-3/). E quindi possono essere oggi ancor meglio compresi e più severamente giudicati i correlativi e ingiustificabili attacchi di colleghi letterati romani, come quelli di Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, certo non modelli di ortodossia morale di sinistra: il primo imputò a Pavese -da che pulpito- la “vanità” e un irrimediabile decadentismo; il secondo -addirittura- la mediocrità della scrittura.
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Nelle foto, dall’alto:
Manuele Fior. Cesare Pavese da L’ora dei miraggi Oblomov
Ben Heine DeviantArt Mircea Eliade
Camila Martins Saraiva. Norberto Bobbio

Regioni, Piemonte e Lombardia, ricche di potenzialità per il futuro e di ricordi del passato. La presentazione ufficiale è avvenuta martedì pomeriggio nella sala consiliare di palazzo San Giorgio alla presenza del vice sindaco ed assessore alle attività economiche Angelo Di Cosmo. Il sindaco Titti Palazzetti e l’assessore alle manifestazioni, non hanno potuto intervenire per altri impegni concomitanti. “Quella del 2018 è un’edizione all’insegna della continuità nella tradizione ma con lo sguardo ben fisso, in prospettiva, verso il domani, E questa continuità, come organizzazione, si rileva dalle presenze degli espositori che la contraddistinguono da sempre con operatori del commercio, dell’artigianato, dell’industria e dell’area agricola” ha sottolineato Carlo Manazza, amministratore, con grande esperienza nel settore fieristico, della D&N Eventi srl, la società di Casale Monferrato, che organizza la Mostra. Manazza ringrazia poi l’Amministrazione comunale di Casale Monferrato, “per aver creduto nella nostra impresa”. L’edizione 2018, infatti, ha il patrocinio del Comune di Casale Monferrato, ed il supporto di due importanti associazioni di categoria, Confartigianato Alessandria (che presenterà in Mostra la sua App, ConfiApp) e la Federazione
Coldiretti di Alessandria. Dal canto suo l’assessore Di Cosmo ha evidenziato che: «La Mostra è un importante appuntamento di aggregazione sociale che la città ripropone da ben 72 anni; un’iniziativa nata per valorizzare e promuovere le realtà economiche del territorio. Si tratta di un’occasione per le imprese che hanno la possibilità di presentare le novità, di fare rete e di incrementare i rapporti commerciali, offrendo una considerevole dose di vitalità all’economia locale». Massimo Iaretti, consigliere delegato dell’Unione dei Comuni della Valcerrina, che sarà presente in Mostra con n proprio stand, dopo aver ringraziato Carlo Manazza, ha evidenziato come verrà portata avanti proprio in sede di fiera la proposta di percorsi che vadano, partendo da Crea e viceversa in direzione della Città Metropolitana di Torino, nell’ambito di uno slogan “Tre chiese (Crea e il sistema devozionale della Valle, Santa Fede a Cavagnolo ed il Cristo Pantocratore di San Mauro Torinese), tra tre Unesco (Langhe-Roero e Monferrato, i Sacri Monti e la Collina Po), L’edizione 2018, che si svolgerà sino al 25 marzo, al PalaFiere nel Quartiere Fieristico della Cittadella e vedrà, come negli anni dal 2011 in poi, l’ingresso gratuito per tutti i visitatori ed il percorso obbligato a giorni alterni. Quest’ultimo accorgimento consentirà a tutti i visitatori di prestare la necessaria attenzione a tutte le proposte innovative che verranno presentate dagli espositori nei vari settori merceologici, agricolo, industriale, artigianale, commerciale, terziario. Un punto “catalizzatore” nell’arco del percorso mostra, sarà la Piazzetta del Gusto, attorno alla quale ci saranno un nutrito numero di alimentaristi con un’offerta enogastronomica da tutta Italia.
Giovedì 15 è stata inaugurata “Linee e frammenti. Fotografia, spirito e immanenza”, del giovane fotografo Samuele Mollo. Numeroso e partecipe il pubblico che ha riempito le sale della Burning Giraffe Art Gallery. Anche noi ci siamo lasciati ispirare dal particolare lavoro di ricerca di Mollo: un viaggio rigorosamente a passo d’uomo, una metafora dell’uomo e del
tempo, che aiuta a rendere visibile l’invisibile, dentro ciascuno di noi. Ben riuscita l’evocazione pittorica dell’allestimento, così come la scelta dei supporti. Un lavoro prezioso, quasi intimista, che ci pone, tutti, davanti alla necessità di rallentare e ricostruire, così, una nuova consapevolezza.

di Pier Franco Quaglieni
valutazioni dei suoi avversari.In questo senso fu un liberale nell’accezione più ampia e più vera del termine. Pannunzio fu davvero un discepolo non banale di Benedetto Croce che fu l’ispiratore più alto del suo giornale e su maestro in campo etico e politico,come dimostra il Carteggio Croce-Pannunzio che pubblicai nel 1998 e che non fu possibile completare per la morte di Alda Croce che,sola,sapeva decifrare la calligrafia a volte illeggibile del padre. Leo Longanesi chiamava scherzosamente Mario Pannunzio “piede lavato” per evidenziare un tratto del suo carattere compassato e un po’ freddo,che in effetti celava un’innata timidezza. Arrigo Benedetti,che fu il suo amico più intimo,lo definì “un laico direttore di coscienze” per il rigore morale e
civile che caratterizzò il suo impegno culturale e politico. Indro Montanelli non ha esitato a scrivere che Pannunzio “non dovette aspettare i capelli grigi per diventare maestro” in quanto tutti gli attribuirono ”naturaliter” un’autorità morale e intellettuale che ci fa pensare al giovane Gobetti: uomini come Croce, Salvemini ed Einaudi “lo riconoscevano direttore d’orchestra e si mettevano volentieri sotto la sua bacchetta”. Lo stesso Montanelli,ridimensionando un giudizio che potrebbe sembrare un po’ retorico,se non rispondesse alla pura verità,annotò che Pannunzio”all’osteria, ai caffè e con le ragazze,beveva e peccava gagliardamente”. Nato a Lucca il 5 marzo 1910, Pannunzio si trasferì a Roma ragazzo,seguendo il padre, un avvocato abruzzese di idee comuniste,costretto dai fascisti ad abbandonare la città toscana.
diresse il quotidiano clandestino “Risorgimento Liberale” su cui solo Gerardo Nicolosi e Mirella Serri hanno finora condotto un’ adeguata ricerca storica. Fu rinchiuso per alcuni mesi a Regina Coeli,rischiando di finire alle Fosse Ardeatine; ma a chi gli ricordava quei mesi drammatici affrontati con coraggio,replicava accendendo una sigaretta,con un gesto vago e affrettandosi a cambiar discorso.
almeno ricordati i nomi di Croce, Salvemini ed Einaudi(che Mario Soldati ha definito”i padri ideali”del”Mondo”) e quelli di Ernesto Rossi,Carlo Antoni e Vittorio De Caprariis, che furono le “colonne” del giornale. “Attorno a Mario Pannunzio- ha scritto Rosario Romeo- si riunì un gruppo di intellettuali tra i più impegnati moralmente e politicamente che conosca la storia del nostro Paese”. E Alberto Moravia ricordò che”in Italia,in quegli anni,c’erano i comunisti e loro, senza alternative”. Pannunzio scriveva pochissimo,ma era l’ispiratore diretto di molti articoli,il regista di tutto il giornale di cui sceglieva personalmente anche le fotografie.
Pannunzio era assoluta. Da aristocratico qual era da parte di madre,discendente di una delle più vecchie famiglie lucchesi,disprezzava ogni forma di compromesso e di favori;la sua vita fu quindi punteggiata da continui e dolorosi distacchi e da una profonda solitudine,mitigata solo dall’affetto della moglie Mary e di pochissimi amici. Eppure in quest’uomo,che assumeva a volte i toni duri del moralista laico,c’era una profonda,sofferta umanità, venata dal metodo del dubbio con cui era solito procedere nella sua vita e nella cultura. A cinquant’anni dalla sua morte,ecco un passo d’una lettera che inviò nel 1966 a Ernesto Rossi:”Non dimenticherò mai i nostri lunghi anni di amichevole concorde collaborazione e le tue coraggiose libere campagne che hai combattuto sul”Mondo””.Essa dimostra come Pannunzio, al di là delle amare contingenze che provocarono la frattura con Rossi,era davvero uomo superiore che non serbava rancore a nessuno. Era un raffinatissimo letterato che amava Proust e Gide,un laico che aveva fatto della crociana “religione della libertà”il suo riferimento. Era però anche un intellettuale impegnato che si batteva per un’Italia più libera e meno provinciale,più avanzata socialmente,pur sentendo il fascino della tradizione liberale e risorgimentale. Volle come ultimo compagno nella bara i”Promessi sposi” di Alessandro Manzoni. In quell’anno era iniziato il ’68 e i contestatori avrebbero idealmente e forse materialmente bruciato quel grande libro che il laico Pannunzio volle con sé nell’ultimo viaggio. Un motivo di riflessione su cosa significhi per davvero essere laici.
Gualano, curatore delle collezioni d’arte della residenza. Gli strati di pulviscolo atmosferico accumulatosi negli anni, specie negli interstizi del raffinato intaglio difficilmente raggiungibili durante le normali attività manutentive, ne avevano infatti offuscato lo splendore. Oggi, grazie al lavoro di attenta pulitura, si può nuovamente ammirare la lucentezza della foglia d’oro che ne ricopre l’intera superficie. Situata al piano nobile del Palazzo, la sala del trono venne riplasmata per volontà di Carlo Alberto dal bolognese Pelagio Palagi nella prima metà del XIX secolo, precedentemente l’ambiente fu utilizzato come Camera da Parata, prima delle duchesse e poi delle regine. Palagi modificò gran parte delle decorazioni rendendole adatte al nuovo uso, inserendo anche capolavori già presenti nelle collezioni palatine. Fulcro dell’intervento fu l’ideazione di un nuovo trono, disegnato dall’artista bolognese e realizzato dall’ebanista Gabriele Capello. Sormontato da un ricco baldacchino, il trono fu cinto da un prezioso arredo già presente nelle collezioni reali: la balaustra in legno intagliato, scolpito e dorato realizzata da Francesco Bolgié per racchiudere il letto di Maria Teresa d’Asburgo Lorena-Este, giovane sposa del Duca d’Aosta. Infatti, in occasione del suo matrimonio con il futuro re Vittorio Emanuele I, nel 1789, si rimodernò l’Appartamento dei duchi al secondo piano di Palazzo Reale e la balaustra, ornata da putti, girali d’acanto, vasi, fiaccole e colombe, trovò collocazione. Il restauro si inserisce tra gli interventi sostenuti dal Consiglio regionale del Piemonte, primo tra tutti il recupero della Cappella privata di Carlo
sin da bimbo Matteo Renzi, per la sua propensione a spararle grosse, era chiamato dai compagni “il Bomba”. Ma occorre fare un po’ di revisionismo storico, rammentando che anche a Torino, tra gli anni ’70 e gli ’80, assistemmo a una straordinaria proliferazione di nickname, molti dei quali nati nell’area socialista, e spesso creati da quel personaggio esuberante che fu Silvano Alessio. Citiamone alcuni, omettendo tuttavia, per rispetto, nomi e cognomi beneficati da nomignoli forse troppo irriguardosi. La narrazione della scena socialista aveva tra i suoi protagonisti, al di là dei piuttosto ovvi “Barbone” per Giusi La Ganga o “Genio” per Eugenio Bozzello o “Scico Scico” per
Libertino Scicolone, “il Pavone” per Piergiorgio Boffa, “il Bombo” per chi scrive, “l’Uomo della collina” per lo stesso Alessio, “il Pesce” per Gabriele Salerno, “Fitty Fitty” per Gianni Daffara, “Gambone” per Giuseppe Rolando, “l’Uovo” per Salvatore Gallo e poi i più insolenti “la Pennoira” e “Grondaia”. Anche seconde file, simpatizzanti o lobbysti non sfuggivano al destino: circolavano infatti “Senza collo”, “l’Albino”, “Pallone”, “il Cervo” (evidenti le ragioni della mancata indicazione delle relative corrispondenze). Pure i comunisti non erano risparmiati: “Barbaperu” era Gianni Dolino, “Nasello” Diego Novelli, “il Lungo” Piero Fassino, “Benny Goodman” Giancarlo Quagliotti, per via di suoi improbabili variopinti panciotti (poi diverrà, copyright Bruno Babando, “l’Eminenza
grigiastra”). E ora stiamo assistendo a una certa ripresa, vittime i Grillini: al di là della folgorante crasi “Chiappendino”, sempre copyright “Lo Spiffero”, è Gabriele Ferraris a rialimentare questa illustre tradizione: ed ecco comparire “Mainagioia” per l’Assessora alla Cultura Francesca Leon e “Chiarabella” per Chiara Appendino, probabilmente allusiva alla disneyana spilungona e dinoccolata Clarabella, fidanzata del cavallino Orazio Cavezza, ma che ebbe anche una sbandata per Pippo. E che fu tra l’altro la principale attrice della saga a fumetti Gli anni muggenti di Clarabella, nei quali noi tutti ora stiamo vivendo.