Torino e i suoi teatri
1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
La storia del Teatro Gobetti è una storia a “matrioska”, la sua stessa vicenda continene al suo interno almeno altre due narrazioni, inscrivibili ad essa ma di pari importanza. Manteniamo dunque la metafora del tipico “souvenir” russo: la forma più esterna rappresenta la vicenda dell’Accademia Filodrammatica di Torino, a cui si deve la costruzione dell’edificio, la bambolina mediana invece costituisce le attività del Teatro Stabile, di cui il Teatro Gobetti diventa sede ufficiale a partire dagli anni Cinquanta e, infine, il guscio più piccolo e interno è il corrispettivo di un aneddoto sonoro che tange entrambi i contesti appena accennati: è proprio in questo palazzo che è avvenuta la prima esecuzione assoluta del “Canto degli Italiani”, meglio conosciuto come “Inno di Mameli” o “Fratelli d’Italia”, nel novembre del 1847. Approfondiamo dunque questa storia “a cipolla” e iniziamo a sbucciare dall’esterno le vicende, affrontandole una alla volta, senza fretta e senza perder tempo. Tutto inizia nel 1828, quando nasce l’Accademia Filodrammatica di Torino, un’associazione amatoriale di appassionati di arte teatrale; il gruppo decide di utilizzare come propria sede una sala di “Palazzo Pallenzo” – situato nell’attuale via Alfieri- in questo luogo si tengono dibattiti e rappresentazioni teatrali riservate ad un pubblico assai ristretto.
Qualche anno più tardi risulta necessario cambiare sede, così i membri dell’associazione acquistano un terreno in quella che all’epoca era chiamata “Contrada della Posta” – attuale via Rossini- non lontano dai Giardini Reali, e incaricano l’architetto Barnaba Panizza di progettare un edificio da far sorgere proprio in quella zona.
A dirigere i lavori subentra il ticinese Giuseppe Leoni, anche lui abile architetto e membro stesso dell’Accademia. Ci vogliono due anni per ultimare il progetto; nel 1842 il teatro inaugura l’apertura ufficiale, all’evento partecipa anche il principe Vittorio Emanuele II e per l’occasione si eseguono “La Pia dei Tolomei”, tragedia di Carlo Marenco -anche lui membro dell’associazione Filodrammatica- e la commedia di Eugène Scribe, titolata “Una visita a Bedlam”. Il palazzo progettato da Leoni è di stile neoclassico; l’edificio presenta delle proporzioni peculiari, dovute alla specifica conformazione del terreno su cui sorge, originariamente destinato ad accogliere un campo da gioco per la pallacorda.
La facciata dell’immobile di tre piani è costituita da un basamento con tre ingressi, su cui poggiano sei lesene scanalate di ordine corinzio, che si alternano a cinque finestre sormontate da timpani, di cui tre balaustrate in marmo. All’ultimo piano vi era un’incisione ormai non più visibile riportante il nome dell’ “Accademia Filodrammatica”.
Il palazzo era senza dubbio sontuoso ed elegante, così come riporta Pietro Visetti, che descrive il salone riservato all’accoglienza come una “graziosa saletta ottagona appositamente costruita per servire da camera d’aspetto”; Visetti racconta anche di un vestibolo ellittico da cui partiva una importante scala che si collegava al piano superiore, dove c’erano la sala per gli spettacoli e gli spazi di servizio; egli si sofferma anche sul “maestoso proscenio, sorretto da quattro colonne scanalate”, nonchè sul soffitto a cassettoni decorati con “eleganti emblemi musicali rappresentati sui binari di fianco”.
Leoni dunque è stato assai abile nel ricavare da locali decisamente angusti un edificio “impeccabile nella classicità delle proporzioni”.
La compagnia dell’Accademia Filodrammatica si scioglie negli anni Sessanta dell’Ottocento. L’edificio rimane prima inutilizzato, successivamente passa sotto l’amministrazione cittadina, che ne adibisce i locali per le aule del Liceo Musicale, infine, nel 1928, diviene “Casa del soldato”, ossia un centro d’accoglienza e conforto per i militari di stanza in città.
È solo nel secondo dopoguerra che la struttura ritorna alla sua funzione originaria di “teatro”, a seguito della decisione del Comune di dedicare l’edificio al critico e intellettuale antifascista Piero Gobetti.L’inaugurazione del “Teatro Gobetti” ha luogo il 22 dicembre 1945, con la rappresentazione della commedia di Vittorio Bersezio “Le miserie ‘d Monsù Travet”.
A settembre dello stesso anno il Comune affida il teatro a un’associazione formata dal “Piccolo Teatro Eleonora Duse” di Genova e da una compagine cittadina, il gruppo prende il nome di “Piccolo Teatro di Genova e Torino”. A metà degli anni Cinquanta l’edificio è indicato come sede ufficiale del “Piccolo Teatro della Città di Torino”. Per tale occasione viene messa in scena la commedia goldoniana “Gl’innamorati”, affiancata dall’atto unico di Alfred De Musset “Non si può pensare a tutti”.
Il tempo non si arresta, neanche per i fabbricati, così nel 1956 sono necessari diversi interventi di manutenzione. Le modifiche però non sono sufficienti e negli anni Ottanta la struttura non risulta idonea alle norme di sicurezza, il teatro deve dunque affrontare un altro lungo periodo di chiusura.
Solo negli anni Novanta lo stabile viene riaperto, grazie allo stanziamento di diversi fondi approvato dalla giunta comunale; in questi anni sono gli architetti Luigi e Maria De Abate a seguire il cantiere, ultimato solo nel 2001. Questa volta è una commedia di Pirandello, “La ragione degli altri”, a sancire l’inagurazione, (18 aprile 2001). Lo spettacolo è prodotto dalla compagnia del Teatro Stabile di Torino, in collaborazione con il Teatro Stabile dell’Umbria. Nel 2016 proseguono i lavori di restauro, dell’atrio e della “hall”, affidati allo “Studio De Ferrari”.
Ed ecco che senza quasi accorgercene abbiamo cambiato “strato”. Dovremmo dunque trattare ora delle vicende del Teatro Stabile di Torino, che surclassa il Piccolo Teatro nel 1957, dopo la prima vera restaurazione del palazzo. Il Teatro Stabile di Torino è tra i principali enti di produzione e ospitalità per il teatro di prosa a livello italiano ed europeo.
Mi risulta tuttavia rischioso dedicare un intero paragrafo alle vicissitudini dello Stabile, perchè finirei per trascrivere un lunghissimo e monotono elenco di nomi altisonanti che si succedono nelle varie epoche, a partire da Nico Pepe e Gianfranco De Bosio, che dirigono le stagioni teatrali tra gli anni Cinquanta e Sessanta, passando per il turbolento Sessantotto, in cui il nome di riferimento è Giuseppe Bartolucci, per arrivare poi a tempi più recenti, dove è opportuno citare la direzione di Luca Ronconi che, tra i vari allestimenti memorabili, propone una versione “tutta sua” de “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Karl Kraus, allestita nella Sala Presse dello stabilimento dismesso di Fiat Lingotto. Non mi dilungherei su questa via dunque, ma prima di arrivare al “nocciolo interno”, tengo a ricordare ancora l’essenziale contributo di Guido Davico Bonino al quale succede Gabriele Lavia. A partire dal 2018 la direzione artistica è affidata a Valerio Binasco.
Siamo così arrivati alla “matrioska” più interna, cuore del metaforico “souvenir”, ma anche del presente articolo. Ho detto fin da subito che un evento particolare contraddistingue le vicissitudini del Tetaro Gobetti e di conseguenza del Teatro Stabile: il teatro, inteso come struttura, è stato sede, nel novembre del 1847, della prima esecuzione assoluta del “Canto degli Italiani”, composto da Goffredo Mameli (Genova,1827-Roma,1849) e musicato dal genovese Michele Novaro, secondo tenore e maestro dei cori dei teatri Regio e Carignano.
Il testo di quello che diventerà “il nostro inno” viene scritto da un giovane Goffredo, sul finire degli anni Quaranta dell’Ottoscento; egli è all’epoca uno studente appassionato ma sopratuttutto un fervente patriota. Le strofe del canto infatti sono pregne non solo dei suoi ideali, ma anche del generale patriottismo diffuso che preannuncia i moti del 1848 e lo scoppio della Prima Guerra di Indipendenza (1848-1849). Il giovine Mameli vuole inizialmente adattare il suo testo a qualche musica già esistente, tuttavia non trova soddisfazione in questi suoi tentativi, così prova a inviare il lavoro a Michele Novaro, il quale ne è subito conquistato e –come alcuni raccontano – si mette a musicarlo la sera stessa in cui gli è arrivato il celebre testo.
Sono sicura che, mentre state leggendo queste righe, già un po’ state canticchiando, magari anche perchè siamo tutti “freschi di ripasso” dopo gli Europei appena terminati.
Mi fa piacere allora continuare a fischiettare il motivo insieme a voi, provando però a rispolverare il significato del testo, specie di quelle parti meno note, perchè generalmente non vengono eseguite. Mano sul cuore e… “Fratelli d’Italia/ L’Italia s’è desta/ dell’elmo di Scipio/ s’è cinta la testa”. Goffredo qui propone un richiamo metaforico alla seconda guerra punica, quando Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano (253-183 a. C.), sconfisse a Zama (202 a.C.) i Cartaginesi guidati da Annibale, il senso è che l’Italia è ormai pronta alla guerra d’indipendenza contro l’Austria.
Proseguiamo, nella seconda strofa si incita la dea Vittoria – immaginata come una bellissima donna dai lunghi capelli – a “porgere la chioma”, il simbolico gesto richiama l’usanza di tagliare i capelli alle schiave in segno di sottomissione, ma in questa quartina Mameli suggerische che nessuno potrà privare la dea dei suoi capelli, nè l’Italia della sua vittoria.
Si parla poi di “coorte”, cioè un’unità di combattimento dell’esercito romano, esattamente la decima parte di una legione. È questa una vera e propria esortazione a impugnare le armi e allontanare l’oppressore straniero.
Nelle successive strofe si legge “Perchè non siam popolo/ perchè siam divisi”, verso che a suon di contrasti con le frasi successive sottolinea il desiderio tutto mazziniano, strenuamente condiviso anche da Goffredo, di unire i sette Stati in favore di una sola repubblica italiana. In altre strofe ancora meno conosciute, si accenna a degli episodi militari, alla battaglia di Legnano (1176) e alla coraggiosa difesa della Repubblica di Firenze che, tra il 12 ottobre del 1529 e il 12 agosto del 1530, viene assediata dall’esercito imperiale di Carlo V d’Asburgo.
Vi è anche la parola “Balilla” (“I bimbi d’Italia/ si chiaman Balilla”) nel nostro inno, ma l’attuale sentore di “politically correct” non ci fa arrivare a tale punto del canto, nè ci permette di capirne il significato. Balilla è il soprannome del mitico fanciullo genovese – probabilmente un certo Giambattista Perasso – che nel dicembre 1746 scaglia la prima pietra contro gli ufficiali della coalizione austro-piemontese, dando così avvio alla rivolta che porta alla liberazione della città. Siamo quasi giunti alla fine, siamo al “suon d’ogni squilla”, ossia di ogni campana; Mameli vuole qui richiamare l’episodio dei “Vespri Siciliani”, quando, il 31 marzo 1282, il lunedì di Pasqua, tutte le campane di Palermo si misero a suonare per incitare il popolo a insorgere contro i francesi.
Chiudiamo infine: “Stringiamci a coorte/ Siam pronti alla morte/ L’Italia chiamò.” Un ultimo invito a combattere, a dare il colpo di grazia all’ “aquila bicipite” degli Asburgo, un incitamento per i popoli oppressi a liberarsi dagli oppressori, gli Italiani dal giogo austriaco, come pure i Polacchi da quello russo (il “cosacco”).
Possiamo ora toglierci la mano dal cuore, felici e fieri di aver cantato fianco a fianco il nostro inno, che sempre ci rende orgogliosi e ci convince fermamente che, parafrasando il detto dazegliano, “oltre ad aver fatto l’Italia abbiamo anche fatto gli italiani”.
Alessia Cagnotto

La propaganda finisce però di prevalere e quindi il partito comunista fa una questione di classe anche nella lotta alla pandemia. Un po’ come ebbi modo di leggere mesi fa su Fb che il poter raggiungere la seconda casa era un privilegio intollerabile dei ricchi. Ma chi scriveva quella frase piena di odio classista era invece persona davvero da quattro soldi. Che adesso anche il professore di Filosofia Massimo Cacciari scriva tante frasi senza costrutto per criticare il green pass come un qualcosa che fa pensare al regime sovietico, mi indigna non poco. Non l’ho mai considerato un filosofo come invece vuol far credere di essere, ma lo ritenevo un piacevole intrattenitore televisivo non allineato e quindi interessante. Questa sua presa di posizione aspramente ostile al Governo Draghi la giudico un tradimento del chierico Cacciari. Il famoso tradimento dei chierici di Benda anche se a scartamento ridotto. Un pensatore critico come Bobbio avrebbe avuto il buon senso comune di tacere perché in certi momenti chi può influire sull’opinione pubblica deve astenersi dal dare giudizi emotivi che possono avere un che di sedizioso. La responsabilità oggi deve prevalere su tutto. Più che mai oggi abbiamo bisogno di disciplina. Non abbiamo bisogno di seminatori di dubbi (ci sono già i virologi che abbondano nel loro intollerabile protagonismo mediatico che semina terrore), ma di uomini di cultura che infondano fiducia. Cacciari che è stato deputato del Pci, non ha titolo di parlare dell’ Italia come un regime sovietico. I veri comunisti in alcuni momenti decisivi della nostra storia hanno saputo essere patrioti. Lo colse molto bene lo storico Raimondo Luraghi che andò nei garibaldini a combattere nella Resistenza perché non poteva più accettare la faziosità dei giellisti. Certo giellismo fazioso si rivelò come un qualcosa di inutile, se non di dannoso.
E’ un esempio, non comune, di libro intelligente, utile e piacevole. In puro spirito rodariano, Maria Carfora lo ha scritto durante il lockdown dello scorso anno, immaginando una realtà quasi magica, ideale per viverci. A Boscobello c’è tanta natura, gli animali ( che sono i protagonisti come nelle favole di Esopo e Fedro o La Fontaine) vivono le loro differenze in armonia, non ci sono auto e ci si sposta solo in bici, ognuno può scegliersi il lavoro che preferisce e non circola denaro perché “tutti possono avere tutto, collaborando tra loro e aiutandosi reciprocamente, perché ogni abitante mette a disposizione di tutti la propria bravura, abilità e conoscenza”. Nelle storie che vi si sviluppano l’autrice riesce nel non facile e per nulla scontato intento di mescolare con grazia un interessante e sano intento pedagogico, una capacità narrativa e una esigenza “didattica” arrivando a proporre qualcosa di veramente bello e utile. Ogni racconto si apre con un disegno da colorare e nella storia ci spunti su cui riflettere, lasciando a chi legge il tempo per farlo. Nelle nove storie del libro prende corpo il desiderio e la curiosità dei protagonisti di conoscere il mondo in cui vivono, con tutti i problemi della quotidianità, i momenti belli e quelli difficili e complicati imposti dalle restrizioni rese necessarie dalla pandemia (l’invasione dei “cornettini” che immaginiamo parenti prossimi del virus che abbiamo imparato a conoscere e con il quale ci stiamo tuttora confrontando). Realtà, fantasia e razionalità convivono nelle storie della famiglia composta da topi, tra gli uccelli che sapranno superare i pregiudizi e riconoscere il valore delle diversità che non sono mai un ostacolo davanti all’amore, l’anatroccolo Pallino che ritrova fiducia dopo aver sconfitto le discriminazioni che lo amareggiavano facendo intendere a tutti che le differenze rendono unici e insostituibili e, in fondo, sono un valore aggiunto e non uno svantaggio. A volte ci si perde di vista e i fatti della vita allontanano come accade ai gatti Matilda e Camillo ma l’amicizia e il caso ( o forse il destino) possono riunire e rendere nuovamente complici. Stupende le vivaci farfalle che si sono viste assegnare a ogni colore un’emozione così da renderle uniche. Ovviamente non sempre si sa come finiscono le storie perché occorre viverle per scoprirlo ma anche questo è il bello del racconto. Ognuno può metterci del suo, come i protagonisti ( e sono tanti) che in “Aiuto..piove!”, l’ultima storia, raccolgono le idee “antinoia” scrivendole ognuno su un foglio che, ripiegato, verrà deposto in una grossa scatola di legno a scuola, in attesa di poterle condividere. “Le storie di Boscobello” si leggono in un fiato e, leggendole, si imparano molte cose, iniziando dal significato di alcune parole e concetti molto importanti. Come già fece Gianni Rodari anche la maestra Maria ( che non è una “ex” perché maestri si rimane tutta la vita quando si ama così il proprio lavoro) ha dato un contributo a quel filone di pedagogia letteraria che, descrivendo situazioni reali con un linguaggio comprensibile anche ai più piccoli, solleticando la fantasia, fa leva sulla giusta convinzione che a un bambino si possa parlare di tutto, se si sanno usare le parole giuste. E, in ultimo, un grazie di cuore a Maria Carfora per aver dedicato questo suo importantissimo lavoro ai cinque nipoti e “a tutti quei bambini a cui nessuno ha raccontato o letto una storia”.