Rubriche- Pagina 6

Evitiamo di farci manipolare / 1

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Prima parte 

Sarà probabilmente capitato a ognuno di noi di avere talvolta la sgradevole e fastidiosa sensazione che qualcuno si stia comportando in maniera tale da indurci subdolamente a pensare, sentire o comportarci in un certo modo, in maniera che sia confacente ai suoi desideri e obiettivi.

Se da un lato è normale, direi umano, che ognuno persegua i suoi obiettivi e i propri scopi, e che così facendo cerchi anche di coinvolgere altre persone nel perseguimento dei propri fini, altra cosa è invece l’atteggiamento manipolatorio con il quale alcune persone cercano, quasi sempre intenzionalmente, di indurci a comportarci secondo i loro piani.

Cercando in qualche maniera di condizionare i nostri pensieri e comportamenti, con un atteggiamento, appunto, manipolatorio, che si può manifestare sotto diverse forme, in relazione alle modalità con cui il manipolatore cerca di condizionarci. Ci sono situazioni decisamente più facili da individuare.

Come ad esempio quelle in cui un venditore più o meno maldestramente invadente cerca di rifilarci qualche prodotto o servizio facendo smaccatamente leva sulle nostre emozioni, o presunti bisogni, giocando magari sulle nostre paure, timidezze, sensi di colpa, desideri nascosti, ecc.

In questi casi ci risulta in genere piuttosto facile “smascherare” le intenzioni manipolatorie delle persone, e decidere di non farci attirare nella trappola. Ma in molte altre occasioni non è così agevole comprendere i subdoli atteggiamenti e le vere intenzioni dei manipolatori.

Soprattutto nei casi in cui queste persone ci sono più vicine affettivamente, quali i familiari, gli amici o qualche conoscente, per i quali magari nutriamo affetto, stima, ecc. È in queste situazioni che gli atteggiamenti manipolatori, proprio perché non immediatamente compresi ed evitati, possono essere più dannosi e negativi.

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it
Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”.

(Fine della prima parte)

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La Gilera di Brunello… pardon, del Partito

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La Gilera 300 Bicilindrica del 1958, tenuta come un gioiello, era di proprietà del Partito. Brunello l’aveva in uso per svolgere la sua attività d’ispettore de L’Unità nelle varie edicole del Piemonte nord orientale, della Valle d’Aosta e della Lomellina pavese.  Una “bestia” rossonera da un quintale e mezzo a serbatoio asciutto, capace di fare trenta chilometri con un litro e di schiaffargli in faccia il vento marciando a centoventi all’ora. Brunello ne era l’orgoglioso affidatario e l’accudiva prestandole tutte le attenzioni. Il suo era un lavoro duro, sfiancante. In sella alla Gilera, macinando chilometri su strade polverose e sconnesse, costeggiando campi e risaie, attraversando borgate contadine e paesini minuscoli e sperduti, abbarbicati sui monti. Quando pioveva, e accadeva spesso, la moto e il suo autista si trasformavano in statue di fango ma niente, in nessuna stagione e con qualsiasi tempo, poteva interrompere la “missione” per conto del Partito e del giornale “fondato da Antonio Gramsci”. Brunello, in missione , si agghindava con la sua “tenuta da viaggio”.

La più “completa” era quella invernale: doppia maglia di lana, copia di giornale (ovviamente, l’Unità) per riparare il petto dall’aria, maglione pesante, giaccone di cuoio, doppio paio di pantaloni, ginocchiere da portiere e, a riparare la testa, casco e occhialoni. Con la bella stagione, l’armamentario restava più o meno lo stesso, calando però in stratificazione. In uno scenario politico dominato dai governi di centrosinistra e segnato dal “miracolo economico”, nel marzo del 1962, L’Unità aveva unificato le direzioni di Roma e Milano, affidando ad un unico direttore, Mario Alicata, la conduzione del giornale. Al suo fianco, come condirettori, lavoravano  Aldo Tortorella per l’edizione settentrionale e Luigi Pintor per quella del Centro-Sud.Il giornale era migliorato anche in qualità, apparendo più vivace e scorrevole, con articoli meno lunghi e un linguaggio meno complicato, con foto più grandi e numerose. Insomma, piaceva e si vendeva bene. Dopotutto era l’unica vera voce dell’opposizione in un paese impegnato a vivere la fase più intensa  di trasformazione economica, sociale e culturale della sua storia. Il lavoro dell’ispettore era molto importante. Al pari di chi “confezionava” il quotidiano, dai giornalisti e stenografi ai linotipisti e tipografi,l’ispettore aveva il compito delicatissimo di vigilare sull’andamento delle vendite, controllando i resi e l’organizzazione delle diffusioni straordinarie. Era lui che doveva adottare tutti gli accorgimenti necessari a promuovere L’Unità e consolidarne il ruolo di giornale popolare. Il rapporto con gli edicolanti diventava strategico e Brunello, nella categoria ,aveva molti amici. Durante la Resistenza non furono pochi i giornalai che svolsero attività antifascista, soprattutto nelle grandi città, diffondendo la stampa clandestina delle organizzazioni democratiche, pur essendo sottoposti a fortissime pressioni poliziesche. E negli anni del dopoguerra, quei legami erano rimasti improntati ad una forte umanità. Quando arrivava, oltre alla cordialità dei rapporti e un bicchiere di vino in compagnia, non mancava mai di portare con se qualche regalino per i figli più piccoli dei giornalai.Un modellino d’aereo di cartone, un libro di storie, qualche numero speciale de “ Il Pioniere dell’Unità”, supplemento del quuotidiano che usciva al giovedì. Le storie a fumetti del giornale curato da Marcello Argilli, soprattutto quelle di Atomino e Chiodino, suscitavano un grande interesse. Così come le filastrocche raccolte sotto la sigla “Il juke box di Gianni Rodari”.L’arrivo di Brunello, come si può facilmente immaginare, era un evento. E per  L’Unità, anche da parte di coloro che la pensavano diversamente, c’era – il più delle volte – un occhio d’attenzione, un certo riguardo. Così, tra un giro e l’altro, si consolidavano amicizie e si allargava l’influenza del quotidiano del più grande partito comunista dell’Occidente. Quando transitava nel vercellese, poi, era festa grande. Soprattutto all’inizio dell’estate, nel tempo della monda del riso. Ogni anno, per la campagna risicola, migliaia di donne si riversavano nella bassa vercellese  così come nel novarese e in Lomellina dove la mano d’opera locale non era sufficiente. Le mondine arrivavano dall’Emilia, dal mantovano, dal Veneto. Accanto a loro si recavano alla monda anche le donne delle baragge e delle zone collinari che raggiungevano le cascine della bassa viaggiando sui carri o a piedi.Era un lavoro durissimo, sfibrante e malpagato ma l’alternativa era una gran miseria e quel lavoro stagionale, con i piedi a bagno nell’acqua di risaia e la schiena curva per ore e ore sotto il sole,  rappresentava l’unica possibilità di portare a casa qualche soldo per la pagnotta o la polenta.Brunello, originario di quelle parti, prima di diventare funzionario del Partito e Ispettore de L’Unità, appena finita la guerra e la lotta partigiana, aveva svolto per alcuni anni l’incarico di sindacalista della Federbraccianti. Tra le mondariso era conosciuto e apprezzato per l’impegno a tutela dei loro diritti.Quando passava su quelle strade, con la sua rombante Gilera, sentiva la nostalgia per quel mondo che pare uno specchio capovolto, dove l’ azzurro del cielo si riflette nelle acque delle risaie. Avvertiva anche l’affetto di chi non l’aveva dimenticato e , scorgendolo sulla strada, non mancava d’indirizzargli un saluto.Ma in quel fine inverno del 1963, sui campi vuoti e gelati, c’erano solo solitudine impastata con una nebbia tanto fitta che si poteva tagliare con il coltello. L’aria era ghiacciata e viaggiare in moto non era uno scherzo. Nemmeno per i comunisti di provata fede.Fu all’entrata di Arborio, provenendo dal lungo rettilineo di Ghislarengo che la ruota anteriore della moto scivolò su una  lastra di ghiaccio, perdendo aderenza. Brunello venne disarcionato ma non mollò il manubrio della Gilera e , tra gli sguardi attoniti dei pochi passanti e di qualche avventore dell’osteria dei “Mulini”, percorse tutto il centro del paese strisciando attaccato alla moto impazzita. Nessuno osò fiatare davanti a quello spettacolo di scintille, stridore e smadonnamenti da venerdì sera in osteria. Al termine della lunga “scivolata”, Brunello s’alzò, controllò la moto rimettendola in piedi e raddrizzando alla belle e meglio il manubrio. La “tenuta” invernale aveva limitato i danni fisici e anche la Gilera non subì troppe ingiurie dalla caduta. Ben peggio sarebbe stato se Brunello avesse deciso di scindere il suo destino da quello della rombante motocicletta che, con ogni probabilità, si sarebbe sfracellata contro qualche muro. I primi soccorritori, preso atto che di danni gravi non ve ne fossero,chiesero a Brunello la ragione della scelta di non mollare la presa della moto. Lui, dolorante ma composto, rispose che delle proprie cose si poteva decidere cosa farne ma con i beni  di tutti, come nel caso della moto del Partito, non si scherzava. “Vanno tutelati, cribbio. Sempre e comunque”, bofonchiò a denti stretti l’ispettore de L’Unità, riprendendo la strada con un l’intento di portare a termine la sua missione.

Marco Travaglini

Bandiera rossa sventolerà!

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Faceva un caldo soffocante sul lago Maggiore in quei giorni di fine luglio del 1965. Le Settimane Musicali di Stresa erano in pieno svolgimento.

Nate quattro anni prima  per iniziativa di un nobile avvocato veneziano, Italo Trentinaglia de Daverio , che aveva una villa a Stresa e  la musica  nel sangue grazie all’insegnamento trasmessogli dal padre Erardo che era stato direttore generale del Teatro alla Scala di Milano e sovrintendente de La Fenice a Venezia.

In poco tempo , la perla del Lago Maggiore divenne sede di uno dei più prestigiosi  festival internazionali di musica classica, presentandosi allo sguardo del mondo con il volto compassato e austero di una località che non aveva perso lo charme degli anni in cui Margherita di Savoia, futura Regina d`Italia, vi soggiornava presso la Villa Ducale o di quando le signore imbellettate potevano guardare dal finestrino del Simplon Orient Express, il treno di lusso della Belle Époque, i paesi e le isole del golfo Borromeo. Nell’auditorium del Palazzo dei Congressi si erano esibiti pianisti affermati come Arthur Rubinstein, Arturo Benedetti Michelangeli, Nikita Magaloff, accanto a  giovani talenti come Maurizio Pollini. Accanto a loro violinisti del calibrodi Isaac Stern e violoncellisti come Mstislav Rostropovich. Il palcoscenico delle “settimane”, oltre all’Orchestra del Teatro alla Scala, aveva ospitato le migliori orchestre del mondo come la Philharmonia di Londra, quelle di Vienna e Los Angeles o la Staatskapelle  di Dresda, una delle più antiche orchestre sinfoniche, diretta anche da Wagner e Strauss. Insomma, nel breve volgere di qualche anno, l’immagine di Stresa venen associata alle arie delle opere di Chopin e Vivaldi, alle sinfonie di Berlioz, Mozart, Beethoven, alle austere sonate di Bach, alle note possenti della wagneriana Cavalcata delle Valchirie o alle frenesie del Guglielmo Tell di Rossini. Di successo in successo si arrivò a quella torrida fine di luglio con un evento più unico che raro: l’esibizione concertistica dell’Orchestra Filarmonica di Mosca. Solitamente, sul pennone antistante il Palazzo dei Congressi, prima di ogni esibizione straniera, in segno d’omaggio, era usanza issare il vessillo della nazione a cui apparteneva l’orchestra. Così, di volta in volta, il cima all’asta, garrivano gli stendardi tedesco o francese, la bandiera a stelle e strisce degli Stati Uniti  o l’Union Jack britannica, e così via. Il problema sorse, gettando l’intera organizzazione nel panico, quando ci si accorse – negli uffici della Direzione – che nessuno aveva pensato di reperire una bandiera del paese dei Soviet. Che fare? Era tardi per farne richiesta al Consolato russo a Milano o a Torino e lo stesso valeva per l’Ambasciata. E poi, diciamola per intero, che figura avrebbero fatto? Era piuttosto sgradevole dover ammettere un errore del genere. Il direttore, disperato, non sapeva più dove sbattere la testa e alla data del concerto mancavano ventiquattr’ore e  in serata si sarebbero svolte le prove d’orchestra. “Una soluzione va trovata in fretta.

Non possiamo cadere su di un particolare così importante, rischiando un incidente diplomatico”,  disse, rosso in volto, il direttore ai suoi collaboratori, davanti ad un caffè al banco del Bar dell’Imbarcadero. La discussione, ad alta voce, venne udita da Raimondo Lupini, barcaiolo ed ex partigiano della Valtoce, nonché esponente di spicco della locale sezione comunista. Il “Mondo”, con in testa il suo inseparabile cappello da cowboy, era un tipo gioviale, allegro. Rivolgendosi al direttore, che conosceva da una vita, disse: “Mi scusi se m’intrometto, ma una soluzione al vostro problema ci sarebbe. A dire il vero non è proprio ortodossa, come cosa da fare, ma può ben andare considerate le circostanze”. E, senza tanti giri di parole, esternò la sua idea. Il direttore delle Settimane Musicali e i suoi collaboratori restarono a bocca aperta, attoniti. La proposta del “Mondo” li aveva lasciati lì, secchi come dei baccalà: innalzare sul pennone la bandiera rossa della sezione. Non quella della “festa”, con i fronzoli dorati e le lettere ricamate “Pci di Stresa”, che non sarebbe andata per niente bene. L’altra bandiera, quella che usavano ai cortei, rosso fuoco con falce, martello e stella di un bel giallo paglierino. “Una volta su, chi potrà dire che non è quella dei moscoviti? E poi non c’è quasi vento in questi giorni ed è prevista ancora bonaccia, quindi non sventolerà più di tanto e il trucco può funzionare”, aggiunse il Lupini. Convinti o no, direttore e assistenti, dovettero far buon viso a cattivo gioco. Non c’erano alternative se non quella di lasciare il pennone vuoto e sarebbe stata la scelta peggiore. Quindi, senza tanto clamore, la bandiera fornita dal “Mondo” salì in alto, più in alto dei tetti degli edifici circostanti, quasi a voler dominare dall’alto l’intera cittadina. L’assenza di vento consentì di confondere alla vista le differenze con la bandiera sovietica e la cosa finì lì. Tutti, in fondo erano soddisfatti. Gli orchestrali, piuttosto indifferenti, a dire il vero, si esibirono e lasciarono Stresa alla volta di Ginevra. Il direttore salvò la faccia e ringraziò “Mondo” che, a sua volta, informò della cosa – in via riservata – i suoi compagni che salutarono l’evento con una bella bevuta alla Bocciofila di Vedasco. L’unico che, all’oscuro di tutto, la prese davvero male fu Don Gerlando Gabbìa che quasi quasi stramazzò per terra dallo spavento quando vide il vessillo rosso. “Dio mio, i comunisti hanno preso il potere!”, gridò prima di chiudersi a doppia mandata in sacrestia. Ci volle un po’ di tempo e tanta pazienza da parte di Carlo Brovella, impiegato delle poste e aiutante delle Settimane musicali, per rassicuralo e convincerlo che non era successo nulla e che la bandiera era tornata a riposare nella cassapanca del “Mondo”.

Marco Travaglini

Tonno di coniglio, tradizione monferrina

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Una ricetta della cultura contadina, tipica del Monferrato.

Una ricetta antica dal sapore delicato ed aromatico riproposta oggi anche nei ristoranti piu’ raffinati. Si chiama cosi’ perche’ la carne del coniglio, dopo la cottura, sara’ conservata sotto’olio a macerare con aglio ed aromi e diventera’ tenera e saporita proprio come… il tonno.

 

Ingredienti

 

1 kg. di coniglio intero

1 carota

1 cipolla

1 costa di sedano

6 spicchi di aglio

2 chiodi di garofano

2 bacche di ginepro

1 mazzetto di salvia

4 foglie di alloro

1 rametto di rosmarino

1ciuffo di prezzemolo

Olio evo

Sale, pepe q.b.

 

Lavare bene il coniglio in acqua e aceto. Tagliare a pezzi la carota, il sedano e la cipolla, metterli in una pentola con due litri di acqua, unire tutti gli aromi (tranne la salvia e  l’aglio), il pepe, il sale, portare a bollore, aggiungere il coniglio e cuocere per circa 90 minuti. A cottura ultimata, lasciar raffreddare e spolpare la carne a pezzi non troppo piccoli. Pelare gli spicchi di aglio, lavare e asciugare la salvia. Prendere un contenitore, preferibilmente in vetro, versare dell’olio sul fondo, fare uno strato di coniglio con foglie di salvia e aglio, aggiungere altro olio e proseguire con gli strati sino ad esaurimento degli ingredienti, coprire il tutto con altro olio. Lasciare riposare in frigo per almeno 48 ore. Servire a temperatura ambiente decorando a piacere.

Paperita Patty        

La gestione ottimale delle nostre energie / 3

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Terza parte

Per una buona gestione delle nostre energie il riposo è essenziale. Impegniamoci, almeno due o tre sere la settimana ad andare a dormire prima delle 23, e cerchiamo comunque di dormire almeno sette ore per notte. Evitiamo cene troppo abbondanti. E lasciamo perlomeno uno spazio di tre ore tra la fine della cena e l’andare a coricarsi.

Evitando così di addormentarci con la digestione ancora in atto, garanzia di una mediocre qualità del sonno. E, se ci è possibile, utilizziamo qualche piccolo trucco per concederci qualche minuto di riposo nel corso della giornata, anche sul lavoro. Un divano (o qualcosa di analogo, anche se magari meno comodo…), su cui schiacciare un veloce pisolino.

Quando sentiamo calare le energie, può rivelarsi di notevole aiuto… E, se ne abbiamo la possibilità, staccare un quarto d’ora per una breve passeggiata nel corso della giornata è una bella iniezione di energia. Una buona respirazione ritmica, consapevole, profonda e lenta, stimola stati psico fisici calmi e rilassati e agisce positivamente sul nostro livello di energia e sullo stato di benessere psico fisico.

Quando ci sentiamo particolarmente affaticati e scarichi e con poche energie, portiamo la nostra attenzione sul respiro e nell’arco di un minuto facciamo cinque o sei inspirazioni ed espirazioni profonde. Ci accorgeremo che, almeno per qualche tempo, ci sentiremo meno stanchi e più energetici.

Tra i suoi numerosi effetti nefasti, Il fumo riduce in maniera considerevole l’apporto di ossigeno al cervello e agli altri organi, determinando una riduzione assai significativa del livello energetico di chi si ostina e perseverare in questa malsana abitudine. La dipendenza dalla nicotina, dando al fumatore l’errata sensazione immediata di piacevolezza e di rasserenamento, in realtà ne limita fortemente l’energia e la capacità vitale.

Cerchiamo anche di seguire una dieta sana ed equilibrata e non saltiamo i pasti. Una errata alimentazione porta in genere ad un aumento del peso corporeo, e determina un dispendio energetico spesso molto più elevato, con condizioni di appesantimento e di stanchezza che si rivelano energeticamente molto gravose. Attenzione dunque a mantenere il nostro peso e la nostra massa grassa entro limiti compatibili.

Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
www.tentoni.it
Autore della rubrica settimanale de Il Torinese “STARE BENE CON NOI STESSI”.

(Fine della terza e ultima parte)

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Con un sacco di fieno in fabbrica

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Da vent’anni, riposta nel solaio la bricolla da contrabbandiere, varcava puntualmente alle sette del mattino i cancelli dell’acciaieria di Villadossola. Alto e secco, con l’andatura un poco ciondolante, Ugo aveva alle spalle una vita a dir poco avventurosa.

Già in tenera età boscaiolo, addetto al palorcio della teleferica e all’accatastamento del legname; poi partigiano con Superti in Val d’Ossola e, dopo la Liberazione, contrabbandiere per necessità, arrancando sui sentieri degli spalloni per racimolare qualche misero guadagno per poter mettere insieme il pranzo con la cena e dare una mano alla vecchia madre. Alla morte della genitrice lasciò ad altri i rischi dell’andar di frodo scegliendo di lavorare in fabbrica dove aveva trovato impiego come operaio addetto al laminatoio. La sua era diventata, da quel giorno, una vita più regolare, scandita dai turni in azienda. Aveva così anche il tempo  per dedicarsi alla passione per la lettura, soddisfacendo la sua curiosità di sapere le cose nel mondo. Comprava regolarmente due giornali ( uno era il quotidiano più diffuso, dove trovava anche la cronaca locale; l’altro era L’Unità), divorava libri di ogni genere, andava al cinema appena poteva e frequentava anche gli spettacoli della filodrammatica amatoriale che di tanto in tanto metteva in scena opere classiche e senza tempo sul palcoscenico del teatro comunale.

Era conosciuto e rispettato perché sapeva fare bene il proprio mestiere, sempre attento e puntuale sul lavoro, ben voluto dai compagni del reparto. Ugo era tra quelli che, fieri della propria rettitudine, potevano andare a testa alta. Comunista convinto anche se non aveva mai avuto in tasca la tessera di quel partito perché il suo spirito ribelle non gli consentiva di soggiacere alle regole e alle liturgie della vita di partito. Il suo punto di vista, formatosi nel vivo della lotta partigiana, si era fatto più saldo nell’inferno di calore, polvere e rumore dell’acciaieria. Era lì che era maturata la presa di coscienza di tutta una condizione lavorativa, umana, politica. Era lì che aveva fatto l’amara scoperta che di lavoro si muore perché la vita degli operai valeva meno del profitto. Dopo i bagliori delle lotte sul finire degli anni sessanta era iniziato un periodo opaco. Soffriva molto nell’assistere al tramonto della centralità operaia nell’immaginario della società italiana e nell’orizzonte politico delle stesse forze di sinistra. I segnali che attestavano l’arretramento del movimento dei lavoratori, sottoposto a ripetuti attacchi, l’avevano reso più nervoso e meno accomodante. La figura e il ruolo dell’operaio si erano fatti sempre più complicati e le ultime generazioni erano andate a scuola, avevano studiato maturando la convinzione che la fabbrica non rappresentasse più un’occasione di riscatto sociale, perdendo parte del senso di appartenenza a una ben precisa classe sociale. Tutto era diventato più fluido e la compattezza e l’orgoglio di un tempo erano un ricordo sfocato. Eppure Ugo avvertiva che fra i vecchi e  i giovani c’era ancora uno scambio di saperi e che il nocciolo duro della militanza sindacale e l’etica del lavoro e delle cose ben fatte non erano spariti del tutto. Forse era per via di quelle radici che affondavano nella tenacia di quella cultura contadina di montagna che da quelle parti era cosa seria, dove  l’universo dell’acciaieria con l’altoforno, le colate e i laminatoi era condiviso dai tanti che mantenevano un legame con i campi e gli alpeggi, la fienagione e qualche animale nella stalla. Aveva maturato una consapevolezza che il tempo aveva levigato rendendola disincantata, lucida, a volte venata da una malinconia che veniva ben presto scacciata da quel suo carattere deciso, incline alla battuta arguta, al commento salace. Non perse nemmeno l’abitudine di andare a votare, come amava dire, “in zona Cesarini”. I seggi chiudevano alle quattordici del lunedì e cinque minuti prima del termine ultimo varcava la soglia del seggio, soffermandosi davanti ai tabelloni con le liste. Si prendeva un paio di minuti per far scorrere lo sguardo sui simboli e candidati e poi, ritirata la scheda, entrava nella cabina commentando ad alta voce: “ Vediamo un poco.. Toh, ecco il simbolo di quelli che fanno portare la croce agli altri e quello dei padroni. E l’altro dove sarà mai?? Ah, eccolo qui, Quello che piace a me. Il simbolo degli operai, anche se un poco sbiadito. Un segno qua e un segno là . E anche questa volta ho votato bene!”. Ripiegava la scheda e la infilava soddisfatto nell’urna, salutando presidente e scrutatori con un largo sorriso. Un giorno scelse di manifestare il suo disprezzo per crumiri e per i pavidi che non protestavano e non scioperavano mai presentandosi alla portineria d’entrata con un sacco di fieno in spalla. I due guardiani che sostavano davanti al cancello gli chiesero cosa intendesse fare con quel sacco e lui, serafico, rispose: “Ci sono quelli che portano in fabbrica la schiscetta con il pranzo, il panino o il quartino di vino? Bene. Io ho portato il fieno per dar da mangiare a tutti gli asini che stanno qui dentro. Non ci vedo niente di male, no? Sono una persona generosa, io”. Ugo in fondo era così e niente al mondo l’avrebbe cambiato, tant’é che quando andò in pensione in fabbrica avvertirono tutti, anche quelli ai quali non era mai stato simpatico, un vuoto, un’assenza che rese l’ambiente ancora più povero di quanto non fosse già diventato.

Marco Travaglini 

 

Le ragioni del pappagallo

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Arsenio era un pappagallo cinerino dal piumaggio prevalentemente grigio, con tonalità più scure sulla testa e sulle ali, e un bel becco nero e ricurvo.

Giorgio lo ricevette in regalo dallo zio Arialdo che a sua volta l’aveva portato con se a Torino al termine di un lungo viaggio in Africa equatoriale. Il piccolo pennuto, originario delle foreste pluviali nel cuore del continente nero, aveva una caratteristica particolare che lo distingueva dagli altri volatili e da gran parte degli animali: l’eccezionale intelligenza, secondo alcuni esperti paragonabile a quella di un bambino di tre anni. Perfettamente in grado di associare alle parole ripetute l’esatto significato, con gli anni e adeguatamente istruito, aveva imparato ad esprimersi con brevi frasi compiute, interloquendo nelle conversazioni. Ghiotto di frutta e semi, Arsenio era diventato a tutti gli effetti un membro della famiglia di Giorgio, scapolo impenitente. La strana coppia filava d’amore e d’accordo, condividendo l’appartamento in Corso Casale che offriva una suggestiva vista sul verde del parco Michelotti e sul Po. Giorgio, progettista di una nota azienda, si era formato al dipartimento di ingegneria meccanica e aerospaziale del Politecnico torinese. La sua attività gli consentiva di passare buona parte del tempo lavorando da casa, condividendo le giornate con il fedele Arsenio. Appassionato di calcio, era cresciuto nel mito del Grande Torino, la compagine degli “invincibili” capitanati da Valentino Mazzola che persero tragicamente la vita nell’incidente aereo del 4 maggio 1949, schiantandosi sulla collina di Superga. Trasmettere quel sentimento d’affetto al pappagallo non fu per nulla difficile, tant’è che Arsenio imparò a ripetere con infallibile memoria l’esatta sequenza della storica formazione, imitando la voce del suo padrone con un lieve timbro nasale: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Un bel giorno l’azienda chiese a Giorgio la disponibilità  di recarsi per un periodo di sei mesi all’estero, in America del Sud, allo scopo di contribuire all’avvio di un nuovo sito produttivo a Montevideo, la capitale dell’Uruguay. Era un’occasione davvero importante e quasi unica per la sua carriera ma occorreva risolvere il problema del pappagallo, abituato a convivere con il suo padrone. Tra l’altro a Montevideo avrebbe dovuto dividere l’appartamento con un collega.

Erano due locali più i servizi nel quartiere della città vecchia, a poca distanza dalla piazza dell’Indipendenza. Uno spazio abbastanza angusto e per di più l’altro tecnico pareva fosse allergico al piumaggio degli uccelli. Non vi era dubbio sul fatto che Arsenio non potesse seguirlo nella missione. A chi lasciarlo in custodia, allora? Parenti non ne aveva più, avendo perso i genitori in tenera età e morto da un anno anche il vecchio zio Arialdo. Era un cruccio enorme, un tormento da togliere il sonno. Ad un certo punto maturò un’idea. L’unico vero amico che aveva, un compagno di università con il quale trascorreva talvolta le serate e qualche fine settimana, era stato sfrattato e stava cercando una sistemazione. Lo chiamò spiegando il suo problema e chiedendogli la cortesia di occupare il suo alloggio per il tempo della missione. Non avrebbe avuto nessuna spesa e l’unico obbligo di prestare cura al ciarliero pappagallo. L’amico, che si chiamava Giulio, invitato a cena accettò con entusiasmo la proposta. Arsenio, con le sue spiccate capacità intuitive, colse dai discorsi dei due amici seduti a tavola nell’alloggio di corso Casale dei frammenti di discorso che non gli piacquero,  e si chiuse in un ostinato mutismo. Ma ben presto dovette fare buon viso alla situazione che si venne a creare con la partenza del padrone di casa, accettando la novità. Il pennuto, superato l’imbarazzo delle prime giornate dove prevalse una lieve malinconia, considerando che il nuovo inquilino gli dava regolarmente da mangiare, gli parlava e qualche volta canticchiava dei motivi di suo gradimento, al punto che ne ripeteva qualche parola, accettò la presenza di Giulio. Anzi, con il passare dei giorni, gli si affezionò. L’uomo raccontava all’uccello storie e confidenze quasi avesse a che fare con una persona e decise anche  di fare un piccolo scherzo all’amico. Tifoso sfegatato della Juventus, la vecchia signora antagonista del Torino, oltre a insegnare al pappagallo parole e proverbi in piemontese, gli ripeté una frase che avrebbe certamente fatto colpo su Giorgio: “Viva la  goeba”. Ai bianconeri juventini era stato incollato addosso   anche questo curioso soprannome, riservato tanto ai giocatori quanto ai tifosi, di “gobbi”. Pareva che il termine risalisse a un curioso episodio degli anni ’50 quando per una intera stagione, durante le corse dei giocatori, le loro maglie trattenendo l’aria,  si gonfiavano creando una specie di gobba. Una malignità, probabilmente creata ad arte dai rivali, tifosi dei granata. Fatto sta che quel “viva la Gobba” in piemontese piacque molto ad Arsenio che lo ripeteva di continuo come un mantra, accompagnandolo con altri spezzoni del dialetto subalpino.

Un giorno, dopo l’uscita di Giulio per delle compere, un fattorino si presentò sull’uscio per consegnare un pacco. Dopo aver suonato il campanello udì una voce gracchiante rispondere dall’interno: “Chi è?”. “Devo farle una consegna, signore!”, disse l’uomo. “Chi è?” rispose Arsenio, ripetendo l’invito più volte. “Sono il fattorino. Ho qui un pacco per lei. Mi può aprire, per favore?”, replicò il dipendente della ditta spedizioniera, tradendo un certo fastidio. Il pappagallo, per tutta risposta, inanellò una serie di frasi mescolando il piemontese con l’italiano: “Cosa fai daré ëd la pòrta?”, “Va via, fafioché d’un fafioché” ( in pratica dandogli del buono a nulla, di colui che parla tanto e non conclude niente), “Gavte la nata, balengo” (l’equivalente dell’invito a togliersi il tappo, un modo come un altro per suggerire di farsi furbo). Spazientito, il fattorino rispose con un epiteto che provocò la furibonda reazione di Arsenio che alzò ancor di più la sua stridula voce. Offeso l’uomo ridiscese le scale, visibilmente infuriato. Incontrando il portiere dello stabile gli chiese chi fosse quel maleducato che abitava al terzo piano. L’addetto alla custodia, stupito, rispose a sua volta non gli risultava nessuno in casa, avendo visto uscire una mezz’ora prima il signor Giulio. Bastò questa risposta perché il fattorino gli sbattesse tra le braccia il pacco urlandogli un seccatissimo “Visto che ci sono i fantasmi, allora a consegnare questo ci pensi lei!!”, infilando il portone e andandosene per la sua strada con un diavolo per capello. Passarono i giorni, le settimane, i mesi e il pappagallo sviluppò un attaccamento morboso nei confronti di Giulio, manifestando episodi sempre più costanti di gelosia.

Uno dei casi più frequenti si manifestava quando Giulio era costretto a uscire. Era sufficiente che indossasse la giacca o un cappotto perché Arsenio strillasse con sofferenza, roso dal tormento: “Non andare via! Stai qui! Non uscire!”. Per ingannare l’intelligentissimo volatile era arrivato al punto di calare dalla finestra, con la complicità del portinaio, la giacca o il soprabito, fugando il sospetto di una imminente fuga. Al termine dei sei mesi, al ritorno di Giorgio, il pappagallo raggiunse l’apice della possessività gridando disperatamente: “Giulio non andare via.. A l’è mej n’amis che des parent (è meglio un amico che dieci parenti).. Non mi lasciare, non abbandonarmi.. A basta ‘n to soris! (basta un tuo sorriso). Erano scenate davvero strazianti, a riprova di un amore che spezzava il cuore. Un diluvio di parole che Arsenio, rifiutandosi di mangiare, emetteva con una voce acuta e stridente che pareva sul punto di spezzarsi in pianto. I due amici, non potendo restare indifferenti davanti a tanta sofferenza, considerato che l’appartamento era abbastanza grande e che Giulio un alloggio per se non l’avevo ancora trovato, decisero di condividere l’abitazione di corso Casale. Il pappagallo ascoltò con attenzione il discorso che gli fecero, quasi si stessero rivolgendo a un bambino. E come un marmocchio davanti ai doni trovati sotto l’abete la mattina di Natale, Arsenio dimostrò tutta la sua felicità svolazzando per le stanze, pur senza rinunciare ad avere l’ultima parola: “I papagal l’an sempre rason”. I pappagalli hanno sempre ragione. E come si poteva dargli torto?

Marco Travaglini

Le vostre foto, Torino stile Liberty

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La lettrice Alessandra Macario ci invia una foto dell’interno di Via Susa 33 a Torino.

‘Il cortile del Palazzo Ansaldi, situato in via Susa, è stato progettato dal Carrera all’inizio del ‘900 in un suggestivo ed elegante stile liberty. Sullo sfondo, la splendida Torre Westminster.’