Magnifica Torino / Grande folla al Salone dell’Auto


Con passo deciso ma non frettoloso, ci si accompagnava agli altri avventori giù ai “Quattro Cantoni”. Lì, tra un bicchiere e un piatto di polenta “concia” accompagnato dai pesciolini in carpione ( una vera “mazzata” per il fegato, soprattutto alla sera, ma era quello che passava il convento e non era bello dire di no quando l’oste – il Luisin – era in vena di “offrire” il merendino fuori-orario) s’inanellavano ricordi, ritratti ed aneddoti
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Quando la notte si mangia le stelle e si fa nera come l’inchiostro, è segno che il tempo cambia. Le nuvole, scure e cariche di pioggia, riempiono il cielo formando una coltre spessa. “E’ notte di fiaschi e di chiacchiere da osteria”, diceva Ugo Pollastri, titolare della pescheria di Feriolo, prendendomi sotto braccio. E così, con passo deciso ma non frettoloso, ci si accompagnava agli altri avventori giù ai “Quattro Cantoni”. Lì, tra un bicchiere e un piatto di polenta “concia” accompagnato dai pesciolini in carpione ( una vera “mazzata” per il fegato, soprattutto alla sera, ma era quello che passava il convento e non era bello dire di no quando l’oste – il Luisin – era in vena di “offrire” il merendino fuori-orario) s’inanellavano ricordi, ritratti ed aneddoti. Prendevano forma e si animavano i personaggi più conosciuti. Ad esempio, il Tino Bagutti ed il suo “Motom”. Tino era stato tra i primi, subito dopo la seconda guerra mondiale, ad aver tra le mani quel ciclomotore robusto ed economico ( una specie di piccola motocicletta), di buone prestazioni ed elevata affidabilità, pur essendo confinato nei limiti di cilindrata dei più classici “cinquantini”. Il Motom, creato dal fantasioso ingegner Battista Falchetto, un ex-progettista della Lancia, in collaborazione con gli industriali De Angelis Frua , venne presentato al salone di Ginevra del 1947 con il mome di Motomic ( era l’abbreviazione di “Moto Atomica”..). Come lo teneva il Bagutti era uno spettacolo: sempre lucido, in ordine.
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Dietro al sellino aveva applicato una coda di volpe che, nelle intenzioni, doveva svolazzare davanti agli occhi dei passanti quando transitava la rombante motocicletta. In realtà, la coda restò quasi sempre giù, moscia, tristemente penzolante. Il Motom, infatti, andava a passo d’uomo sulla salita che dall’incrocio sopra il circolo di Oltrefiume saliva – tra due file di alberi – verso la Tranquilla. Tino Bagutti teneva molto “all’assetto del pilota”: guidava in posizione da corsa,proteso in avanti sul manubrio, vestito di pelle nera con cuffia di cuoio ed un paio di enormi occhialoni. Noi, all’epoca ragazzini, gli correvamo appresso, lo affiancavamo, lo guardavamo e lo sorpassavamo. Lui, umiliato, ci guardava digrignando i denti ma non ci diceva mai nulla. Non usciva nemmeno una sillaba dalla sua bocca anche se non era difficile intuirne i pensieri bellicosi. Così, lo ribattezzammo “il centauro della volpe triste”. E lui, con qualche ragione, non ci ringraziò. Un altro personaggio che veniva evocato spesso era il Balloni. Il nome non lo ricordo bene: forse si chiamava Alberto o Gilberto o qualcosa del genere. Comunque, era un bel personaggio. Era stato militare nella “Légion étrangère”,da giovane. Con la Legione aveva combattuto in Indocina, partecipando alla tragica battaglia di Dien Bien Phu, nel 1954. Era un uomo d’azione, sprezzante del rischio.Si definiva un “fascista-comunista”. La sua famiglia era stata dalla parte del Duce durante il ventennio ed alcuni avevano combattuto sotto le insegne della Repubblica di Salò. Lui, negli anni che seguirono alla Liberazione, continuò a coltivare il mito dell’ uomo forte e dell’ordine“. Dove aveva fallito il Duce, c’è sempre la possibilità che andasse bene a Stalin”, diceva ad alta voce, quando alzava un po’ il gomito, a riprova che “nel vino c’è la verità”.L’ideologia, non era opposta? L’ideologia, per lui, non c’entrava un tubo. “Ciò che conta è la dittatura. Qui ognuno fa i cavoli suoi e non risponde a nessun altro che ai propri interessi. Ed allora, caro mio, ci vuole ordine, disciplina. Un tempo era il fascismo a far rigare diritti questi lazzaroni, ora ci potrebbe pensare il comunismo”. Quel “ci potrebbe” veniva espresso in forma dubitativa poiché aveva scarsa considerazione dei comunisti locali ed italiani in genere. “Gente troppo democratica, troppo perbene. Vogliono cambiare le cose con le elezioni, con il consenso. Non capiscono che qui ci vuole lo schioppo e non il voto. Quelli lì son molli, si perdono dietro alle parole quando invece c’è bisogno di agire, di tirar fuori le palle”. Lo diceva mettendo in mostra un sorrisetto sardonico, enigmatico, sotto i baffetti radi. Non capivi mai se scherzasse o se facesse sul serio. Sono tanti anni che è trapassato ma, pensandoci, ho sempre più la convinzione che incarnasse davvero, a modo suo, il paradosso dell’essere un “fascista-comunista”.
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C’era poi il Gùstin, al secolo Aurelio Gustavino. Abilissimo nel fare affari, si era fatto un nome per la capacità di contrattare l’acquisto del riso giù nella “bassa”, tra le risaie del novarese e del vercellese. Portava con se una stadera, una bilancia per la “pesata” a braccio, utilissima per misurazioni che non superassero i 15-20 chili. “A trattare era un mago. Li faceva su con la galla, li infiocchettava con la sua parlantina che alla fine non capivano più niente. Ah, che roba: li fregava sul peso e loro – per la paga – lo ringraziavano anche, al Gùstin”, diceva l’Ennio, con ammirazione. Il meglio di se, però, lo dava nell’acquisto delle uova dalla sciura Marianna. La frase che accomapgnava il lesto movimento delle mani nel contare le uova sembrava quasi uno scioglilingua: “Quatar e quattr’ott , e quatar che fan vott, e quatar dudas..la va ben, Marianna?”. E Marianna annuiva, consegnando sedici uova al prezzo di dodici. “Bisognerebbe tirar su un monumento all’abilità ed alla faccia tosta del Gùstin, cari miei”, sentenziava l’Alfredo. Non aveva torto. Da giovane, nei paesi attorno a Milano, il Gùstin chiedeva l’elemosina con fare dimesso. Guardava, supplicante, negli occhi le vecchie signore, sussurrando loro con un filo di voce: “Fate la carità ad un pover uomo che in una mano ha cinque dita e nell’altra tre e due”. Un po’ di denaro l’aveva raccolto, insieme a cibo, vestiti e qualche legnata sul groppone. Ma gli “incidenti di percorso” non lo dissuasero dal mettere a frutto la sua fantasia. Così passavamo le serate di pioggia all’osteria dei “Quattro Cantoni”. Fuori, la notte si era ormai mangiata le stelle; dentro, tra il fumo del camino e dei sigari e le chiacchiere degli amici, si “lustravano” i ricordi, quasi fossero le pentole della Maria dell’osteria dei Gabbiani.




Pacifisti? A Torino e Napoli bruciano l’effigie di Meloni, a Milano lasciano sessanta poliziotti feriti. Se questa è la pace, figurarsi la guerra.
Le frange estremiste si infilano dietro le bandiere pro-Palestina e trasformano ogni corteo legittimo in una palestra d’odio.
Il risultato: un messaggio che poteva avere un senso politico sepolto sotto fumogeni e spranghe.
La pace non si conquista a bastonate, ma provate a spiegarlo ai nuovi “nonviolenti”: vi rispondono con un sanpietrino.
Iago Antonelli
Il piatto non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura
Un ottimo secondo piatto leggero, fresco e veloce, non necessita di lunghe cotture ma di una profumata marinatura che esaltera’ il delicato gusto del pollo abbinato alla croccantezza delle verdure.
Semplice, dal successo garantito.
Ingredienti:
1/2 petto di pollo intero
2 carote
2 zucchine
1 limone
1 spicchio di aglio
1 cucchiaino di zenzero in polvere
1 cucchiaino di semi di cumino
1 cucchiaino di semi di sesamo
olio evo q.b.
sale, pepe q.b.
Lavare le verdure e tagliarle a bastoncini nel senso della lunghezza.Tagliare il petto di pollo a striscioline, metterlo in una terrina, cospargerlo con le verdure, le spezie, l’aglio a fettine, bagnare il tutto con il limone, l’olio, il sale,e il pepe. Mescolare bene e lasciar marinare in frigorifero per almeno due ore. In una piastra in ghisa rovente, cuocere gli straccetti di pollo con le verdure scolate per circa dieci minuti, mescolare con una paletta e bagnare con la marinatura, lasciar sfumare. A cottura ultimata, servire subito.
Paperita Patty
IL RACCONTO / di Marco Travaglini
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Faggeto Lario dista poco più di 15 chilometri da Como. In auto, una mezz’ora di strada. Avete presente «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi..» descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”? Bene: il nostro “ramo” è quell’altro. E’ lì che, con il pullman dell’Azienda Comasca Trasporti in servizio sulla tratta Como-Bellagio, passando da Blèvio e Torno, sono arrivato un pomeriggio d’agosto del 1976. Avevo diciott’anni e la mia destinazione era l’Istituto di studi comunisti “Eugenio Curiel”. Un tempo, dopo la Liberazione, la “scuola quadri” del PCI nel comasco portava il nome di “Anita Garibaldi” ed era riservata alle donne. All’epoca, il PCI di Berlinguer teneva molto allo sviluppo di una politica culturale rivolta alla nuova generazione di militanti, funzionari e quadri intermedi che entravano a ingrossare le file del partito. Una grande importanza avevano le scuole di partito, la cui attività formativa si svolgeva attraverso l’organizzazione di corsi di base, presso le sezioni o le federazioni provinciali, oppure presso le strutture permanenti, tra le quali la più nota era l’Istituto di studi comunisti delle Frattocchie (dal 1973 intitolato a Palmiro Togliatti), in una frazione di Marino, località dei Colli Albani una ventina di chilometri a sud di Roma. Lì si formavano i quadri dirigenti, si insegnava l’arte della politica. Non si imparava solo la “linea”. Chi frequentava i corsi studiava storia, economia e altre materie ma, soprattutto, ci si formava sull’idea che far politica era una professione al servizio degli altri, di un ideale, di una causa. Insomma, una cosa seria. I corsi erano impegnativi e di lunga durata. I periodi di permanenza variavano da un anno a sei mesi fino a poche settimane. Il mio era un “corso estivo per giovani operai”, della durata di tre settimane che, praticamente, corrispondevano alle mie ferie. Le giornate venivano scandite secondo un programma preciso: ore 7, sveglia e riordino delle stanze; ore 7.55, inizio dei corsi; ore 12, pranzo e riposo; ore 15, discussione e studio; ore 19, cena e libera uscita (quando non capitava qualche riunione serale); ore 22, rientro. Su questo non si sgarrava. Una sera che, in tre, con l’auto di un compagno di Genova (una vecchia Simca 1000) andammo alla Festa de L’Unità di Bellagio, essendo tornati verso le 23 trovammo il cancello chiuso e dormimmo sotto i salici in riva al lago perché nel parco della scuola, dopo le 22, venivano sguinzagliati per la notte due cani piuttosto “mordenti” e non era il caso di mettere alla prova le nostre gambe e le loro mandibole. Il direttore era l’ex senatore Giovanni Brambilla (Conti). Operaio, confinato, partigiano, in passato vicesegretario della Federazione milanese del Pci e segretario generale della Fiom provinciale milanese. Un uomo tutto d’un pezzo, gentile ma ferreo nell’applicare la disciplina. I docenti erano di grande livello. Stava per essere pubblicato dagli Editori riuniti “Economia politica marxista e crisi attuale” dell’economista Sergio Zangirolami, e si studiava con lui sulle sue dispense. Il giornalista e scrittore Luciano Antonetti, amico e biografo di Alexander Dubcek, protagonista della Primavera di Praga e leader di quel “socialismo dal volto umano” soffocato dai carri armati sovietici nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, ci parlava di politica internazionale. Luciano Gruppi, intellettuale comunista di rango, vicedirettore della rivista “Critica marxista”, anticipò i contenuti di due volumi che sarebbero usciti di lì a poco: “Il compromesso storico” e “Il concetto di egemonia in Gramsci”. Insomma, per farla breve, era un corso impegnativo e, nello stesso tempo, intrigante. Imparavamo a mettere in ordine secondo una certa logica le intuizioni che avevamo colto nel muovere i primi passi in politica e questo ci dava una bella carica. Ma eravamo anche dei ragazzi, tra i diciotto e i ventiquattro anni, e amavamo anche divertici. Non racconterò gli scherzi che si possono immaginare, come – tanto per fare un paio d’esempi – lo zucchero infilato sotto le lenzuola di Mauro Z., operaio metalmeccanico di Carpi, che andava sempre a letto senza pigiama perché soffriva il caldo, o il sale nella minestra di Roberto P., studente di Lodi, che la sputò schifato in faccia a Luigi F., anch’esso studente ma di Verona, che gli sedeva di fronte nel refettorio. Il sabato o la domenica, a seconda delle condizioni del tempo, si andava in gita sul monte Palanzone, con una bella sgambata di qualche ora. Tra canti partigiani e pranzi al sacco, quelle gite rafforzavano il nostro cameratismo. Le nuotate nel lago erano una consuetudine dopo pranzo, prima che entrasse in azione la digestione del pasto che, a dire il vero, era alquanto frugale. Ho sempre avuto una fifa blu nello spingermi dove non si toccava, quindi mi limitavo a quattro bracciate in orizzontale, poco distante dalla riva. Ma la cosa più straordinaria, e per certi versi tragica, capito’ a Bepi. Il cognome l’ho dimenticato, ma mi ricordo che svolgeva le mansioni di magazziniere in una distilleria di Bassano del Grappa. Quando arrivai in istituto a Faggeto Lario, Bepi era già lì da quindici giorni ed era molto nervoso. Non ci mettemmo molto a comprenderne le ragioni. A ridosso della scuola, appena oltre il muro, c’era una chiesa che un tempo era appartenuta alla stessa proprietà ma che il partito, dopo averla acquisita, con gesto generoso, aveva donato alla curia comasca. Del resto, che cosa ce ne facevamo di una chiesa? Chi aveva fede poteva tranquillamente frequentare le funzioni e queste erano di competenza della diocesi e non certo del PCI. Comunque il problema non era tanto la chiesa ma l’orologio del campanile che, grazie ad un meccanismo ad ingranaggi collegato ad una campana, segnava non solo le ore ma pure le mezze. E se, per il Manzoni, verso sera “si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, cha annunziava il fine del giorno. …” per il povero Bepi s’annunciava il calvario di un’altra notte in bianco perché quel suono gli impediva di riposare. Così, un bel giorno, mi pare di venerdì, calate le ombre della sera, ormai esasperato, armatosi di un possente martello e di due cunei di ferro, lunghi e spessi, si arrampicò come un gatto sul campanile. Giunto all’altezza delle lancette dell’orologio, fissò con forza i cunei nel muro, bloccando il meccanismo che – in tensione per l’impedimento – si ruppe, bloccando il meccanismo che attivava la campana con un forte “crack”. Così, dopo il blitz di Bepi, la notte trascorse in un silenzio irreale e così anche il giorno dopo fino a quando, avvertito del danno che aveva guastato l’orologio, il parroco diede in escandescenze, accusando “quei senza Dio di comunisti” di “aver tagliato le corde vocali alla cristallina voce della Chiesa”. Ma, non avendo prove, dopo un po’ di baillamme, la polemica si stemperò nel nulla. Cosa diversa fu invece l’inchiesta interna condotta dal direttore Brambilla che, superando il nostro muro del silenzio, ottenne da Bepi una piena confessione dopo che lo stesso aveva manifestato un repentino cambio d’umore, canticchiando una poco edificante canzoncina il cui ritornello prometteva di mandare a fuoco le chiese per poi, sulle macerie, costruire delle sale da ballo. Reo confesso, Bepi lasciò la scuola e tornò a Bassano mentre noi, per altri dieci giorni, continuammo il nostro corso di studi per poi tornare a casa. Così passai le ferie del 1976, tra amici e compagni, studiando e frequentando – quando si poteva, mettendo insieme i pochi spiccioli di cui disponevamo – l’Osteria dei Manigoldi, dove si poteva gustare la petamura. Non saprei come definirla: sembrava un dolce, una specie di budino, ma era anche un pasto completo , composto da farina, latte, zucchero e vino. Era molto consistente e nutriente, nonostante fosse un piatto povero. Sarà stata la fame, saranno i ricordi un po’ sbiaditi della gioventù, ma quel piatto tradizionale di Faggeto dal colore violaceo era proprio una bontà.
GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA
Lunedì. Alle OGR suona Ronald Baker & Tony Match Trio.
Mercoledì. Al Blah Blah si esibiscono I Cospiratori.
Giovedì. Al Vinile è di scena Simona Palumbo Quartet. All’Hiroshima Mon Amour si esibisce Lina Simons + Juma. Al Blah Blah suonano i The Dirteez + Bone Rattler.
Venerdì. Al Peocio di Trofarello è di scena il sestetto di Luca Vicini. Al Circolino suona il Just in Trio. Allo Ziggy si esibiscono i GoTho + Codcreep.
Sabato. Al Vinile sono di scena i The Bartenders. Al Peocio di Trofarello và in scena Music for Burkina. Al Magazzino sul Po suonano gli Ecko Bazz & Still.
Pier Luigi Fuggetta
C’è qualcosa di malinconico, ma anche di indecoroso, nelle vecchie cabine telefoniche che ancora resistono qua e là, arrugginite e scassinate, come relitti di un’epoca che non tornerà. La loro rimozione – ci dicono i piani ufficiali – doveva essere già storia chiusa, e invece eccole lì, in Borgo San Paolo come altrove, come ci segnala il lettore Luigi Gagliano, con le porte che cigolano, i vetri scheggiati, i telefoni pendenti a mo’ di lingue stanche.
Qualcuno, furtivo, si aggira a scassinarle per rubare le poche monete dimenticate, e in questo piccolo atto di sciacallaggio c’è tutta la misura del nostro rapporto con il passato: non lo custodiamo, lo lasciamo marcire, e poi ce ne lamentiamo.
Eppure quelle cabine hanno avuto una vita nobile. Sono state il confessionale laico di generazioni che lì dentro hanno pianto, litigato, dichiarato amori e dato addii. C’era un’epica minuta nel gesto di infilare il gettone o la scheda, nell’attesa del “pronto”, nell’eco metallica della voce amata che arrivava da lontano. Erano spazi di intimità pubblica, dove il mondo si fermava per pochi minuti, chiuso in un parallelepipedo di vetro.
Ma ogni gloria, se abbandonata a se stessa, rischia la caricatura. Quelle cabine oggi non sono più monumenti, ma rottami. Non parlano più di romanticismo, ma di incuria. Tenerle lì, così, non è rispetto: è abbandono. Se davvero vogliamo onorarne la storia, bisogna avere il coraggio di rimuoverle. O si restaurano come cimeli museali – e pochi, scelti – o si tolgono dalla strada, perché la ruggine non diventi il loro epitaffio.
È la legge delle cose: ciò che è stato grande non merita di finire in rovina. Meglio un addio dignitoso che una sopravvivenza da rudere
Iago Antonelli