Rubriche- Pagina 58

I due Carando, ma Ettore è dimenticato

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

I  fratelli Carando furono due partigiani che vennero trucidati nel 1945 a Villafranca Sabauda, ora Piemonte.

Ennio Carando era un professore liceale di filosofia di convinzioni comuniste molto radicate  che si buttò con passione  nella Resistenz , diventando ispettore delle divisioni Garibaldi del Cuneese.

E’ stato  anche  ricordato a Savona dove insegnò e dove l’egemonia dell’Anpi è soffocante e totalizzante. Il prof. Ennio Carando venne insignito di Medaglia d’oro al Valor Militare. Subì la stessa terribile  sorte il fratello Ettore, capitano di Artiglieria in Spe , che venne invece  decorato solo di Medaglia d’Argento al Valor Militare. L’eroismo dei due fratelli fu identico. Subirono atroci torture e non parlarono , affrontando  la morte con dignità, onore  e coraggio.

Io conobbi la vedova di Ettore che mi fece leggere l’ultima, affettuosa  lettera del marito a lei dedicata  in cui si faceva esplicito riferimento al suo giuramento di fedeltà  alla Patria e al Re  che l’aveva mosso a diventare un resistente. Anche Vittorio Prunas Tola mi disse dei due fratelli Carando. Prunas con i suoi figli era stato anche lui un  eroico patriota nella zona di Villafranca e negli anni Sessanta sottolineava il differente trattamento avuto dai due fratelli. Anche Valdo Fusi era indignato per la differenza di trattamento che penalizzò anche il suo amico Silvio Geuna che si offrì  al plotone di esecuzione del Martinetto al posto del Generale Giuseppe Perotti.  L’ufficiale  Carando venne presto dimenticato, mentre il professore di filosofia fu esaltato persino da Ludovico Geymonat  che vide in lui un esempio socratico. La sua opera di saggista ,mera divulgazione, appare anche oggi molto modesta, propria di un professore liceale troppo  distratto dalla politica e dal fanatismo ideologico. Un episodio che la dice lunga su certa cultura ideologizzata. Conobbi la vedova di Ettore che era una professoressa ancor giovane e avvenente , ma con sorriso triste: non aveva voluto risposarsi ed    era umiliata e indignata per il modo in cui era stato trattato il marito Già allora anche le Medaglie erano distribuite con criteri politici .L’Anpi era decisiva .  E la cosa è andata avanti così negli anni. Il capitano del R .Esercito Ettore Carando attende ancora giustizia, senza nulla togliere al fratello comunista. E il comune di Villafranca forse dovrebbe onorare Ettore. Solo Torino ha dedicato una via periferica ai due eroici fratelli  in  base ad un mio personale e discreto interessamento, volto a ricordare anche  il nome di Ettore. L’idea iniziale era quella di ricordare il solo Ennio.

 

Difendo Piero Fassino

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni  C’è chi nel Pd, pur di  caldeggiare e giustificare l’assurda alleanza con i grillini, critica il quinquennio della sindacatura di Fassino che io non votai nel 2011 esclusivamente per le persone da cui era circondato

Fassino lo avrei  votato per stima personale  (ci conosciamo dal 1984) ma era troppo attorniato da gente che invece  disprezzavo. Io mi astenni dal voto, come avevo già fatto altre volte  alle amministrative, quando mi proposero Chiamparino, Buttiglione, Costa, Rosso e l’ultima volta persino  il ragioniere on. Napoli e la ragazza giuliva grillina che al ballottaggio vinse con il voto delle destre impazzite e rancorose.  Nel 2016 votai  invece senza alcun dubbio per Fassino  al ballottaggio purtroppo inutilmente.
Lo incontrai alla vigilia del voto all’associazione degli esuli Giuliano – Dalmati, era più triste del solito ed aveva capito che il giorno dopo avrebbe perso. In effetti il “Sistema Torino“ aveva stancato, ma pochi capirono che l’Appendino lo avrebbe mantenuto in vita. In ogni caso quel sistema si identificò in Chiamparino e non in Fassino. Ma torniamo al dunque. Piero Fassino, consigliere comunale di lungo corso, deputato, due volte Ministro, era il meglio che la città potesse avere. La prima volta non  lo votai a causa dei  Moderati voltagabbana che si portava dietro e altri politicanti destinati a ricomparire a Palazzo Civico come eminenze grigie. Fassino sarebbe stato votabile anche nel 2011 perché aveva  comunque saputo  pensionare  i vari Alfieri e le varie Tessore passata  dalla corte di Alessio alla corte di Sergio , il Sindaco per eccellenza, eletto nel 2001 perché era morto all’improvviso  il bravissimo e onesto Carpanini, naturaliter successore del grande Castellani. Adesso per la sinistra del Pd, a cui va bene l’alleanza con i grillini e anche con il Sindaco uscente (che rappresenta una vergogna nella storia di Torino), Fassino ha amministrato in modo non adeguato  la città’ . Questi signori  che non sono in buona fede rimpiangono il vecchio Chiamparino e dimenticano, vogliono dimenticare il perché Piero Fassino nel suo quinquennio poté fare non tutto ciò che si era proposto: il buco di bilancio abissale lasciato da Chiamparino a cui nessuno ha chiesto conto di questo, tutti ubriacati dalle Olimpiadi invernali che durarono lo spazio di un mattino e servirono a lanciare il nuovo astro della Christillin, intima degli  Agnelli, che fino da un po’ di tempo fa aspirava anche lei  a palazzo civico, stando a  quanto scrivevano  certi gazzettieri  un po’ troppo cortigiani. Fassino si impegnò a tappare le falle create dal suo  predecessore che venne premiato con la Presidenza della Fondazione San Paolo e poi della Regione dove continuò a rivelare  i suoi limiti. Fassino avrà pure un brutto carattere, secondo alcuni suoi detrattori e’  persino irascibile,  ma è un politico serio, un uomo colto,   un amministratore a 24 carati, a cui gli attuali che ambiscono al posto di Sindaco, non assomigliano  Forse l’unico che ha rivelato qualche dote in proposito e’  l’ ex assessore di Fassino e professore universitario  Stefano  Lo Russo che ha guidato in modo forse un po’ troppo blando l’opposizione ad Appendino , ma ha almeno una esperienza alle spalle degna di attenzione.
scrivere a quaglieni@gmail.com

“Il fiume senza luna”

LIBRI Un nuovo caso per il commissario Carlo Rossi, nell’ultimo romanzo giallo di Franca Rizzi Martini

Dopo il giallo storico “Recitando Shakespeare” (2015), Franca Rizzi Martini ci regala, sempre per i tipi di “Neos Edizioni”, un altro intrigante giallo dal titolo “Il fiume senza luna”, carambolato con accattivante curiosità (sua e del lettore) in 246 pagine di un intenso racconto, dove all’indagine attuale si avvicenda una misteriosa storia che porta indietro il tempo di oltre quattro secoli, in una Moncalieri del Seicento – barocca e fluviale – che si trova a fare i conti con una Torino dei giorni nostri, con le sue anime multietniche, affogate in un bagno di solitudine, di desiderio di emergere e di spietato cinismo.

Due storie accattivanti che s’intrecciano fra loro, accomunate dal lento scorrere del fiume, “sulle cui acque non sempre si riflette la luna e la notte è più nera quando prevalgono le sfortune, i dolori e le passioni come l’avidità, la violenza e il desiderio di potere”. Oggi come quattro secoli addietro. In un calcolato, inevitabile dipanarsi di presente e passato in cui sempre è la “felicità” l’agognata preda umana. A scavare nelle pieghe degli eventi e a reggere e a indagare trame sottili abilmente rintracciate e raccontate da Franca Rizzi Martini (milanese di nascita, oggi residente a Moncalieri, vincitrice del Fiorino d’Argento al “Premio Firenze 2010” e secondo posto al “Premio Mario Pannunzio 2011”), è ancora una volta il suo commissario, dal più banale italico cognome, Carlo Rossi. E torna anche Patrizia, gentile curiosissima signora torinese, votata a sostenere con le sue osservazioni il lavoro di indagine. “Ogni caso ha i suoi interrogativi – scrive la Rizzi– e ogni omicidio ha le sue motivazioni; le morti non sono tutte uguali e anche se possono essere catalogate secondo diversi parametri, ogni omicidio nasconde cose dette e non dette”. Da una parte lo strano suicidio/omicidio di un lontano zio del commissario, mentre dall’altra ci imbattiamo nella storia di Jeremy Ross, giovane attore inglese depredato dell’amata Adelaide Grondana dalla mano assassina di un alchimista impazzito. Da un lato, l’elegante quartiere della Crocetta e i locali della Torino by night, fra barman russi e cameriere e ballerine rumene. Dall’altro, la corte sabauda di Vittorio Amedeo II, la “volpe savoiarda”, e della sua preferita, la contessa Scaglia di Verrua. Storie lontane nel tempo, le cui voci, i cui suoni, le cui presenze paiono tuttavia rincorrersi negli anni, in un miscelarsi, improbabile e misterioso, di fatti prove e verità sulle quali spetterà al povero commissario Rossi trovare il bandolo finale dell’intricata matassa. Scrive Franca Rizzi Martini: “La notte di Torino era buia, senza luna. Nell’aria spirava una leggera brezza fresca, che mitigò il suo senso di vertigine.Carlo Rossi camminava, un passo dopo l’altro sotto i lampioni che mandavano luci bianche nelle vie deserte; tutte le domande stavano riaffiorando nella sua mente. Delle persone coinvolte nel caso chi si salvava? Nessuno”.
Info: “Neos Edizioni”, via Beaulard 31, Torino; tel. 011/7413179 o www.neosedizioni.it

g. m.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Jonathan Coe “Io e Mr Wilder” -Feltrinelli- euro 16,50

Questo romanzo è un omaggio che lo scrittore inglese -alla soglia dei 60 anni – dedica a uno dei miti
suoi e del cinema mondiale, il regista Billy Wilder.
Mostro sacro che a Hollywood ha girato film strepitosi come “A qualcuno piace caldo” con
Marilyn Monroe e Jack Lemmon, “Sabrina” con Audrey Hepburn, “Irma la dolce” e
“L’appartamento” con Shirley MacLaine e di nuovo Lemmon; per citare almeno alcune delle sue
pellicole che ebbero la nomination agli Oscar e ne vinsero parecchi.
Coe imbastisce un romanzo sul regista ormai “Sul viale del tramonto”, come nella sua omonima
pellicola del 1950 con Gloria Swanson, William Holden ed Erich von Stroheim.
Pretesto narrativo sono i ricordi di una 57enne greca, che era stata arruolata dal regista come
interprete. E’ Calista Frangopoulou alle prese con due giovani figlie gemelle, di cui una incinta.
Calista ha l’abitudine di associare fatti e persone ai film, e lo fa a ragion veduta poiché nel suo
passato ha vissuto un’esperienza esaltante nel mondo del cinema.
Giovanissima, per pur caso, aveva conosciuto il grande regista Billy Wilder in procinto di girare il
film “Fedora”, (in parte sull’isola greca di Corfù) che l’aveva assunta dapprima come interprete, poi
come assistente del suo amico e storico sceneggiatore I.A.L. Diamond.
Un’esperienza decisamente unica che l’aveva catapultata dietro la macchina da presa, alla scoperta
di un grande regista di immenso talento, che però Hollywood non finanziava più dopo alcune
pellicole non proprio fortunate sul fronte degli incassi.
Ma Wilder a 70 anni crede ancora fermamente in quello che fa e si butta a capofitto nel suo
penultimo film “Fedora”: lo gira in Europa, dopo che i produttori hollywoodiani gli avevano
sbattuto le porte in faccia.
Scopriamo così il lato umano del genio, con le sue fissazioni: come la pretesa che gli attori dicano
esattamente e al millimetro le battute del copione, e capace di girare ad infinitum la stessa scena.
Ed emerge un ritratto indimenticabile di uno dei registi più interessanti e prolifici di tutti i tempi.

André Aciman “L’ultima estate” -Guanda- euro 16,00

E’ difficile parlarvi di questo romanzo senza anticiparvi troppo la sorpresa che racchiude. C’è chi ha
parlato di realismo magico, inaspettato da questo autore che ha raggiunto un successo planetario
con “Chiamami col tuo nome” nel 2008, diventato film da Oscar, diretto da Guadagnino e
sceneggiato da James Ivory.
“L’ultima estate” è ambientato sulla Costiera Amalfitana dove un gruppo di ragazzi americani viene
avvicinato da un peruviano 60enne, Raoul: affascinante, misterioso, e soprattutto dotato di poteri
straordinari.
Sembra sapere molto di ognuno di loro; nomi, passato, segreti. Li sorprende e spiazza svelando cose
di loro stessi e della loro vita che in alcuni casi ignoravano; come l’essere stato gemello di un feto
scomparso al momento del parto. O anticipa il disastro finanziario di un loro amico che neanche è
presente, e chiede di avvisarlo prima che faccia un investimento sbagliato.
Svela ai ragazzi che sapeva di possedere un dono anche prima di aver compiuto 2 anni; crescendo
ha scoperto di riuscire ad allontanare il dolore semplicemente appoggiando la mano sulla parte
dolente di un corpo, e lo dimostra alleviando il male alla spalla che tormenta uno di loro, Mark.
Ma ad attrarlo più di tutti nel gruppo è la giovane Margot, che lui chiama Maria dicendo che è il suo
vero nome e che si erano già incontrati prima.
Dapprima lei è la più scettica ed indifferente; ma pian piano, tra baie meravigliose in cui nuotare in
libertà, passeggiate e confidenze, finisce per lasciarsi guidare da Raoul in un incredibile viaggio a
ritroso nel tempo.
Tra appuntamenti mancati con la felicità, piani temporali che s’intrecciano e la nostalgia di un
grande amore che lambisce il regno dei morti, si prospetta la possibilità del susseguirsi di più vite –
diverse e magari lontane nel tempo – prima e dopo il presente.
Perché spiega: «Il punto è che noi tutti passiamo più tempo di quanto crediamo a cercare di tornare
indietro. Chiamatelo come volete, fantasticare o sognare ….pochissimi di noi conoscono la strada,
la maggior parte non trova neanche la porta d’accesso e tanto meno la chiave per aprirla. Fingiamo
di essere normali terrestri…in realtà nessuno di noi torna indietro».
Se poi volete approfondire la conoscenza di questo autore, oltre al più famoso “Chiamami col tuo
nome” uno dei suoi libri è “Harvard Square” -Guanda- euro 13,00.
E’ ambientato all’università di Harvard e inizia con un padre che accompagna il figlio, prossimo a
diventare futura matricola. E’ l’occasione per ricordare la lontana estate del 1977 in cui, in una
Cambridge quasi deserta, lui si era impegnato nel preparare degli esami per diventare professore,
attanagliato dalla paura di non venire accettato in quell’ambiente tanto elitario. Fu un periodo
particolare in cui strinse amicizia con un tassista tunisino dalla parlantina facile, i due saranno
inseparabili per alcuni mesi. Scorre il racconto di un’estate indimenticabile che sfuma quando
ricomincia il semestre invernale e i due tornano alle loro vite tanto diverse l’una dall’altra.

Barack Obama “Una terra promessa” -Garzanti- euro 28,00

Forse la parte più interessante di questo portentoso memoir del 44° presidente degli Stati Uniti, è
quella in cui a cuore aperto narra affetti e episodi di vita strettamente privata, aneddoti curiosi,
incontri interessanti che danno la misura dell’uomo, oltre alla sua figura pubblica.
Eletto nel 2008, primo presidente di colore degli Stati Uniti, ha ricoperto due mandati come capo
del mondo libero e primo leader mondiale per potere ed importanza.
In 794 pagine scopriamo il suo spessore: giovane tenace, che supera lo scoglio dell’assenza del
padre, studioso ed ambizioso, che scala tutti i gradini fino alla vetta della presidenza.
I suoi successi, il suo charme politico, i motivi che l’hanno spinto all’impegno, il suo modo di
intendere la presidenza del paese più importante dello scacchiere mondiale, la sua importanza come
statista.
Poi ci sono gli incontri con gli altri leader, che lui ripercorre dando la sua versione personalissima di
Angela Merkel, Sarkozy, Putin e tantissimi altri capi di stato e governo. Dalla Cina al Giappone,
passando per l’Europa e per ayatollah e leader da prendere con cautela per il loro estremismo
fanatico. Una vita unica in cui ha conosciuto tutti ed è entrato nella storia a pieno titolo come uno
dei presidenti più amati.
A rendere il libro ancora più interessante è però il suo essere un marito attento e premuroso,
innamoratissimo della moglie che l’ha sempre sostenuto, e che lui a sua volta ha appoggiato in tutte
le sue iniziative. Come l’orto alla Casa Bianca, la lotta contro l’obesità e ….cosa che non sapevamo,
è stato anche il primo presidente mastro birraio della storia grazie al miele prodotto alla White
House.
Padre amorevole e presente per le sue figlie, con aneddoti tenerissimi. Come quando Malia, a 4
anni, dopo una visita allo zoo di Honolulu s’innamora perdutamente delle tigri, (la zia le regala il
peluche Tiger che l’accompagnerà ovunque negli anni successivi), chiede al padre cosa conta di fare
per i suoi felini preferiti e lui si muove di conseguenza.
O l’amore per Bo, il cane d’acqua portoghese regalatogli da Ted Kennedy e ironicamente citato
come «l’unico amico affidabile che un politico possa avere a Washington».
Così come sarà enorme il suo impegno sul fronte del pericoloso cambiamento climatico e la sua
battaglia per l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini.
Tra le pagine più interessanti, quelle finali in cui ci racconta la caccia al mefistofelico Osama bin
Laden, il coraggio dei Navy seals e l’uccisione del responsabile della tragedia delle Torri Gemelle.

Maggio, un mese di preghiera

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Papa Francesco ha indetto in 30 santuari sparsi per il mondo un mese di preghiere per invocare l’aiuto di Dio per uscire dalla pandemia. Il vecchio e dimenticato mese Mariano del mese di maggio ritorna, finalizzato ad uno scopo molto importante 

Impetrare l’aiuto della Madonna in tutte le circostanze della vita e’ una cosa importante. Io nei momenti difficili della mia esistenza , sono stato a pregare alla Consolata di Torino, confortato dalle parole di mons – Franco Peradotto, un grande amico della mia vita . Sono sempre stato devoto di Maria Ausiliatrice e ricordo che da allievo salesiano e anche da ex allievo in compagnia di Giovanni Ramella andavo alla processione il 24 maggio, partendo da Valdocco, un altro dei luoghi- cardine della mia vita. Per anni sono andato durante la scuola elementare e media alla celebrazione del Mese Mariano e ricordo ancora il senso delle prediche di un frate cappuccino che veniva dal Monte. Poi per deprecabile trascuratezza avevo smarrito per decine d’anni la pratica religiosa, anche se nel mio intimo mi sono sempre sentito cristiano. Credente e laico, come uno dei miei maestri più cari, Alessandro Passerin d’Entreves. Ho sempre vissuto con fastidio l’ateismo ostentato di certi “capanei“ alla Luigi Firpo, mentre ho sempre rispettato l’agnosticismo perché la fede è un dono di Dio che nessuno può avere la presunzione di possedere perché la fede è anche accompagnata da dubbi e da momenti di sconforto. Anche Gesù in croce si sentì abbandonato dal Padre. Pur nella mia modestissima e insignificante posizione di chi, pur peccatore, ha ritrovato l’aiuto della fede e la pratica della preghiera quotidiana, ritengo che non si sia pregato abbastanza in questo anno terribile. Una società scristianizzata, non laica, ma volgarmente profana ha avuto la prevalenza e ci ha allontanato anche dal timor di Dio, una grande virtù. Ieri in teleconferenza su zoom con Roma, dove ricordavamo Vittorio Badini Confalonieri, siamo stati interrotti da intrusi che hanno proferito una serie bestemmie. Un altro segno dell’empietà dei tempi che viviamo. Si doveva pregare di più anche a prescindere dal fatto di chiedere un intervento divino. La preghiera che precede ogni sera il mio sonno è un conforto dell’anima e mi riporta a quando ero bambino e la mia mamma pregava con me. E prego per tutti i miei morti quasi con un’ intensità pascoliana. Ho sentito che Vito Mancuso, questo strano teologo “eretico”, ha bacchettato il Papa, ritenendo “imbarazzante “ la preghiera voluta dal Pontefice e frutto di una spiritualità superata. Avevo ascoltato ad Andora Mancuso che non è professore, anche se alcuni lo chiamano maestro e rimasi interdetto per le sue frasi ad effetto del tutto vuote di significato religioso e persino umano perché frutto di una supponenza egocentrica esasperata. Non a caso la gente lo applaudi’ molto calorosamente perché invece di esprimere un pensiero religioso manifestava la mentalità plebea della miscredenza in nome di una laicità che Mancuso non sa neppure cosa sia. La laicità presuppone una moralità severa e non contempla il relativismo etico oggi di moda che copre l’assenza di ogni moralità,laica o non laica che sia,avrebbe detto Croce. Al contrario, io credo che un’Ave Maria sia, come diceva don Bosco, un preludio al sonno che potrebbe anche coincidere con la nostra morte improvvisa durante la notte. Invitare a pregare come ci hanno insegnato i grandi Santi, è un dovere etico elementare e un motivo di speranza per non affogare nella pandemia. Non e’ bigottismo.Solo gli ignorantoni che non hanno mai letto una pagina del Manzoni, possono essere indifferenti alla religione in questi momenti terribili. Anche Napoleone alla fine della sua vita si piegò, or sono duecento anni, “al disonor del Golgota”, alla croce di Cristo. Altro che Vito Mancuso.

Torino tra architettura e pittura. Mario Merz

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
8) Mario Merz (1925-2003)

Con questo  articolo si conclude il ciclo “Torino tra architettura e pittura”. In questi pezzi ho provato a sottolineare ancora una volta quanto sia meravigliosa e peculiare la nostra città, quante cose ci siano da vedere, quante architetture da visitare e quante sculture da visionare girandoci tutt’attorno.

Voci dicono che l’attuale situazione pandemica stia lentamente migliorando e forse potremo aggirarci nuovamente per le strade, pur con le debite e giuste accortezze, alla ricerca –perché no?- dei luoghi di cui vi ho raccontato: le mirabolanti cupole del Guarini, l’appuntita Mole Antonelliana, la sinuosa Casa Fenoglio o ancora gli “inaspettati” alberi di Penone. Lasciate dunque che vi dia un ultimo suggerimento, utile magari per occupare i prossimi momenti di “quasi libertà”. Tra gli artisti che hanno segnato la storia e l’aspetto urbanistico di Torino vi è Mario Merz. Nato a Milano da una famiglia di origine svizzera, Merz cresce nel capoluogo piemontese, dove si forma e dove frequenta per due anni la Facoltà di Medicina. Sempre a Torino si spegne nel 2003.

Segnano pesantemente la vita dell’artista le esperienze da lui vissute durante gli anni del secondo conflitto mondiale, da una parte l’impegno politico che lo porta ad entrare nel gruppo antifascista “Giustizia e libertà”, dall’altra la terribile vicissitudine della prigionia, egli viene infatti arrestato nel 1945 mentre faceva volantinaggio.
Terminata la guerra, Merz, incoraggiato dal critico Luciano Pistoi, inizia a dedicarsi completamente agli studi artistici, sperimentando prima la pittura astratta e poi quella informale. I dipinti che realizza negli anni Cinquanta sono densi e materici e hanno per soggetti elementi naturali come foglie e animali. Nel 1954 espone per la prima volta a Torino, presso la Galleria “La Bussola”; a partire dalla metà degli anni Sessanta inizia a sperimentare altre tecniche oltre la pittura e pone l’attenzione su tipologie di materiali come tubi al neon, ferro, cera, pietra o terra; tale scelta lo conduce ad abbandonare la pittura tradizionale a favore di un approccio creativo decisamente materico. Con i tubi al neon perfora la superficie delle tele per simboleggiare gli influssi di energia, nel contempo con ferro, pietra e cera crea le “pitture volumetriche”, ossia assemblaggi tridimensionali. Il suo nome è indissolubilmente legato al movimento dell’Arte povera – a cui aderisce anche la moglie Marisa- e di questo movimento diventa uno de massimi esponenti, insieme a Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis e altri artisti torinesi che ruotano attorno al critico Germano Celant. Merz espone con il gruppo dell’Arte povera fin dal principio, le sue opere compaiono già nella collettiva organizzata proprio da Celant nel 1967, presso la Galleria “La Bertesca” di Genova, esposizione che vede coinvolti anche Michelangelo Pistoletto, Giuseppe Penone e Luciano Fabro.
I primi lavori poveristici che realizza sono una serie di sculture create con oggetti comuni che si compenetrano ed esprimono il suo interesse per l’accumulazione, la crescita organica, il dinamismo e la vitalità. Vi sono due immagini che ricorrono simbolicamente nella produzione di Merz: la spirale e la chiocciola, come bene esplica “Lumaca” (1976), dipinto realizzato in creta e tempera su tela grezza, al centro del quale si distingue un vero guscio di chiocciola.

Nel 1967 l’artista realizza il suo primo “Igloo”, una struttura emisferica a cupola che rappresenta un’ideale architettura temporanea e nomadica, un’abitazione contemporaneamente antica e odierna, tuttavia l’ “igloo” di Merz è anche una struttura che rimanda alla volta celeste e che simboleggia la convivialità. Tali strutture archetipiche realizzate con materiali disparati rappresentano il definitivo superamento della bidimensionalità e diventano l’emblema della sua produzione artistica e del suo “modus operandi”.
Il Sessantotto è un anno particolarmente movimentato, sia per l’attività artistica di Merz, sia per quanto riguarda il contesto storico-sociale italiano: l’artista si schiera politicamente e riproduce con i suoi neon gli “slogan” di protesta del movimento studentesco; nel frattempo continua a lavorare ai suoi “igloo”, che diventano costruzioni transitorie, cangianti e “concettuali”, realizzati con materiali sempre più disparati quali ferro, fango, sacchi di sabbia, rami, cera, pietre e altro ancora.
Sono ad oggi visionabili presso la collezione permanente del Castello di Rivoli i tre “igloo”, datati tra il 1968 e il 1981; le opere si presentano tra loro diverse ma messe in relazione, l’igloo più piccolo è del 1968-69 ed è intitolato “Igloo con albero”, il secondo è l’ “Igloo (Tenda di Gheddafi)”, risalente al 1968-1981 e l’ultimo è “Architettura fondata dal tempo – Architettura sfondata dal tempo” del 1981.
“Igloo con albero” è il più piccolo fra i tre ed è anche quello realizzato prima, si presenta costruito con un tubolare di ferro, vetri e stucco, dalla sommità dell’opera fuoriesce un albero che suggerisce la compenetrazione tra architettura e mondo naturale. “Igloo (Tenda di Gheddafi)” invece è ricoperto da una tela di iuta dipinta con il motivo delle lance. “Architettura fondata dal tempo – Architettura sfondata dal tempo” è un’enorme installazione che coniuga l’igloo in tubolare di ferro, pietre e vetri con una struttura circolare in ferro e fascine che si estende a partire dallo stesso tubolare. L’opera è “sfondata” da una grande tela dipinta raffigurante un immaginario animale preistorico, il gioco di parole e significati si basa sul fatto che l’igloo è opera “fondata” dal tempo della civiltà che a sua volta è continuamente “sfondata” e rimessa in questione dal tempo e dalla natura.

A partire dagli anni Settanta l’artista introduce la successione di Fibonacci come simbolo dell’energia insita nella materia e della crescita organica; i numeri vengono così riproposti con dei neon colorati e collocati sia sulla superficie delle opere stesse, sia negli ambienti espositivi, come dimostrano gli allestimenti del 1971 lungo la spirale del Guggenheim Museum di New York, oppure sulla Mole Antonelliana di Torino nel 1984, o ancora sulla Manica Lunga del Castello di Rivoli nel 1990, o, nel 1994, sulla ciminiera della compagnia elettrica Turku Energia a Turku, in Finlandia, e infine l’installazione sul soffitto della stazione metropolitana Vanvitelli (metropolitana di Napoli) con forma a spirale.
Per chi non se lo ricordasse nella serie di Fibonacci ogni numero è la somma dei due precedenti (1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21 ecc.). Secondo l’artista i numeri sono “«un’invenzione fantastica», qualcosa di razionale che rende possibile l’avvicinarsi all’irrazionalità della vita”.
Lo studio dei numeri serve a Merz per sperimentare il concetto di “crescita esponenziale” e “proliferazione naturale”. A testimonianza dell’interesse dell’artista per tali tematiche si può ricordare l’opera “Senza titolo (Una somma reale è una somma di gente)”, del 1972, costituita da una serie di fotografie di un crescente numero di persone sedute a mangiare in un ristorante torinese e da una serie di numeri di Fibonacci al neon, a celebrazione della convivialità e della socializzazione.

La “Manica lunga da 1 a 987”, (1990), prima accennata, è un’opera che affronta la stessa problematica: in questo lavoro sedici numeri della serie di Fibonacci vengono situati sui mattoni esterni della Manica Lunga del Castello di Rivoli, in prossimità delle sedici grandi finestre che scandiscono l’estendersi dell’edificio. In questo modo l’architettura seicentesca viene “riattualizzata” attraverso il binomio “passato-contemporaneo”, inoltre il corpo finestra – componente strutturale già di per sé peculiare che segna il passaggio esterno/interno- assume un valore di relazione e compenetrazione. Negli anni Settanta introduce l’elemento “tavolo”, che diventerà anch’esso “tipico” e “archetipo” del lavoro di Merz.

Le sue installazioni sono opere complesse, nascono dalla combinazione di igloo, neon e tavoli, a cui si aggiungono eventuali altre superfici; è opportuno ricordare che talvolta sui piani esterni vengono disposti dei frutti veri, poi lasciati al loro decorso naturale, questi fattori hanno lo scopo di introdurre nel lavoro la dimensione del tempo reale. In definitiva i materiali utilizzati dall’artista sono eterogenei e quotidiani -vetro, cibo, giornali, parole, numeri- e riflettono la sua capacità di sperimentazione, che spazia dalle installazioni fino alla pittura, talvolta viene adoperato anche il video. È utile ricordare che proprio Merz è stato uno dei primi artisti a realizzare delle video-installazioni già negli anni Sessanta.
Sono di questi anni anche le grandi immagini di animali arcaici, quali coccodrilli, rinoceronti e iguane, che egli esegue su enormi tele non incorniciate, dimostrando in questo modo di non aver dimenticato il suo primo approccio pittorico, con cui, tempo addietro, si era affacciato sulla scena artistica del dopoguerra. Tra i dipinti da lui realizzati intorno agli anni Ottanta vi è “Animale terribile” (1981), un monumentale animale che ricorda un rinoceronte, attuato attraverso l’unione della pittura con degli oggetti, un tubolare in ferro nello specifico, che sta a sottolineare la forza originale dell’animale inconsueto.
È del 1992 “L’uovo filosofico”, un’opera composta da spirali rosse realizzate con tubi al neon e animali sospesi recanti i numeri della successione di Fibonacci, posizionata nell’atrio della stazione centrale di Zurigo. L’intento dell’installazione è sempre quello di esaltare la scoperta dello studioso che, attraverso la sua serie numerica, ha comprovato quanto la natura sia governata da regole matematiche.
Cari lettori, spero che le informazioni che vi ho proposto siano sufficienti per destare in voi un po’ di curiosità e spero altresì di essere riuscita a farvi comprendere il significato recondito che si cela dietro queste “strambe” opere d’arte.
La strada per arrivare al Castello di Rivoli certo è tutta in salita e forse non vi verrà subito la voglia di affrontare una passeggiata tortuosa per sgranchirvi le gambe, ma vi assicuro che, una volta arrivati in cima, la vista è davvero splendida. Non vi ho convinto, allora vi dico che c’è un altro igloo di Merz più facilmente visionabile, situato all’incrocio tra Corso Mediterraneo e Corso Lione. Si tratta di una struttura ricoperta da lastre di pietra e luci al neon, indicanti i punti cardinali, posta al centro di una vasca con delle canne che gettano acqua.
Sarebbe per me motivo di grande soddisfazione sapere che vi sono stata utile nel farvi intendere almeno alcune delle stranezze che a volte spuntano d’improvviso tra le strade della nostra regale ed eclettica Torino.

Alessia Cagnotto

Se anche il Pd sulle foibe sposa il giustificazionismo

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Che anche il Pd di Torino si faccia promotore di una presentazione del libretto sulle foibe dell’improvvissato ricercatore di successo e guida turistica in Jugoslavia, diventa un fatto preoccupante

Che tra i presentatori ci sia la presidente dell’ anpi Stestero, vecchia comunista di Rifondazione, appare naturale.  Ma che ci sia il segretario metropolitano del Pd Mimmo Caretta non è una cosa scontata. Mi era capitato di ascoltarlo e l’avevo apprezzato, ospite di Laura Pompeo.  Quel libercolo è una smentita del lavoro storico di Gianni Oliva ed è una sconfessione palese delle scelte politiche coraggiose di Luciano Violante e di Piero Fassino che si impegnarono per l’istituzione del Giorno del Ricordo del 10 febbraio. Tra i presentatori c’è anche Luca Cassiani,  avvocato e politico stimabile. Spero che almeno lui stecchi nel coro. L’incontro fatto per il 25 aprile significa dar ragione all’autore del libretto che vede nel 10 febbraio l’antitesi del 25 aprile, un’assurdità storica che solo la guida – turistica diventato storico ha avuto la faccia tosta di affermare. Che un grande partito come il pd si lasci allettare da un estremista nostalgico di Tito e della Jugoslavia e’ inquietante. Queste sono cose da grillini.

La storia ha delle regole precise e il fatto che nessuno dei quattro  sia uno storico e’ indicativo. Dovevano almeno invitare Giovanni De Luna che sarebbe corso a sostenere il suo allievo. Ma forse avrebbero dovuto anche invitare l’ ANVGD, l’associazione degli esuli e qualche storico che non condivide la vulgata del libretto in questione. In democrazia si discute tra persone di idee diverse. E’ strano un dibattito che sembra una messa cantata. Povero Pd!

L’accusa di stupro al figlio di Grillo

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Non voglio dare giudizi di natura giuridica sul figlio di Grillo e sui suoi amici accusati da una ragazza di stupro dopo essere stata drogata e ubriacata

Non sono stati neppure rinviati a giudizio e per me vale sempre la presunzione di innocenza e inoltre detesto i massacri mediatici che sono sempre più spesso un segno della barbarie in cui siamo caduti e di cui proprio Grillo è da anni uno strumento carico di livore, violenza e volgarità’.

Voglio dare invece un giudizio morale, non moralistico, su questi giovani ventenni che praticano il sesso, mescolandolo ad alcool e a droghe. La mia generazione non ha mai conosciuto certe depravazioni ed ha praticato il sesso giovanile nella sua solarità e nella sua gioiosa naruralezza. Amare per noi non era solo fare sesso, ma era – per noi liceali del classico – il “bene velle “ catulliano, accompagnato da bigliettini furtivi e da baci scambiati nel buio delle sale cinematografiche. E poi al mare vedere le ragazze in bikini era un piacere visivo che precedeva qualche volta, rara e indimenticabile, l’amore di notte sulle spiagge deserte o nelle scomodissime 500. Io ebbi il privilegio di avere una Fulvia coupe’ in dono ed ero un privilegiato.

Non avevamo le villone sarde del figlio di Grillo e non ci sarebbe mai venuto in mente di ottenere i favori di una ragazza facendola bere. Il sesso per noi non era uno sfogo dei bassi istinti . Le droghe, ai miei tempi, erano sconosciute, anche se già si leggevano sui giornali i primi scandali di certi ambienti altolocati, ma si trattava di eccezioni che suscitavano profonda riprovazione sociale.  Per alcuni di noi c’era anche la fede religiosa a trattenerci o farci vivere il piacere del sesso senza la dovuta serenità. Era prima del ‘68 e le ragazze non erano facilmente disponibili come poi accadde dopo. Ciascuno di noi, come direbbe con espressione obsoleta Montanelli, poi “pecco’ gagliardamente” e la libertà sessuale divenne naturale, una liberazione per la donna, ma anche per noi ragazzi. Ho ricordato questi fatti perché non riesco ad accettare i comportamenti di cui è accusato il figlio di Grillo, al di là persino degli ovvi ragionamenti circa la violazione della libertà e della dignità della donna che Grillo figlio e padre trascurano del tutto.

A maggior ragione non posso accettare l’arrogante difesa d’ufficio del figlio da parte di Grillo padre che attacca anche i magistrati inquirenti, cosa davvero infrequente da parte di un giustizialista incallito come lui. Finora non ho sentito nessuna femminista denunciare questo fatto che è rimasto silenziosamente ovattato sui media per circa due anni e condannare le parole dissennate del comico divenuto capo politico. Hanno offeso il generale Figiuolo, ma su Grillo hanno taciuto.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Annie Ernaux  “La donna gelata”   -L’Orma editore-   euro  17,00

Questo romanzo della scrittrice francese è uscito in patria nel 1981, ed è un altro capitolo dell’affresco complessivo della sua vita, scomposta in tante fasi che racconta agganciandosi allo sfondo sociale, miscelando soggettività e momento storico. Qui l’arco temporale va dagli anni 50 ai 70 e mette a fuoco luci ed ombre del crescere femmina a quell’epoca.

La Ernaux -figlia di appartenenti alla classe lavoratrice del nord della Francia, che gestivano la bottega del paese- in “La donna gelata” narra infanzia, adolescenza, formazione e poi lo schianto nel matrimonio.

La sua è stata una crescita con due genitori fuori dagli schemi dell’epoca; una famiglia che si reggeva su un equilibrio anomalo, in cui i ruoli erano rovesciati. Madre e padre erano complementari al contrario, perché seguendo le loro inclinazioni e attitudini spontanee si organizzarono con lei che mandava avanti la bottega, mentre lui svolgeva i lavori domestici.

Un bell’esempio per la loro figlia unica che crebbe senza impalarsi all’idea che maschile sia superiore al femminile. Sarà soprattutto la madre a spronarla a lasciare da parte le bambole, aspettandosi che studi, sia libera e diventi qualcuno.

Poi c’è il traghettarsi attraverso l’adolescenza, l’accettazione del proprio corpo e la scoperta della sessualità che all’epoca prevedeva grande libertà per i maschi, rigide regole per le ragazze.

Lei studia, cresce e si impegna sulla strada dell’emancipazione; peccato però che l’aver avuto quello che sembrava il vantaggio di una famiglia “illuminata” non l’abbia preparata al confronto con una realtà ben diversa.

Se ne accorgerà una volta sposata con un uomo banale, quando diventerà madre e sarà lasciata sola dal marito a destreggiarsi tra pannolini, pappe e pisolini; restando indietro su tutto il resto, a partire dalla carriera messa in stand by.

Leggendo scoprirete come riuscirà a dare una nuova rotta alla sua esistenza.

 

 

 

Steven Price  “Casa Lampedusa”    -Bompiani-     euro  18,00

E’ magnifica questa biografia romanzata in cui il poeta e scrittore canadese Steven Price ricostruisce la vita del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, cogliendone soprattutto il lato crepuscolare. Nato nel 1986 e ultimo discendente di una nobile casata -ormai decaduta- autore del capolavoro “Il Gattopardo”, è morto di tumore ai polmoni nel 1957, con la delusione di aver visto il suo manoscritto rifiutato da due grandi case editrici.

E’ stata una beffa del destino morire prima di poter assaporare il successo del libro che Bassani volle pubblicare a tutti i costi nella collana che dirigeva da Feltrinelli. Fu riconosciuto un capolavoro ed un trionfo replicato anche al cinema, con l’omonimo film diretto da Luchino Visconti nel 1961 e con un cast stellare.

Price si concentra soprattutto sugli ultimi anni del principe, dopo una vita di studi e letture; ritrae un uomo sul viale del tramonto, malinconico e pensieroso, minato nella salute e deluso dai tempi che avanzano.

In 299 pagine scritte con sensibilità e finezza ripercorriamo le tappe salienti della sua vita.

Le grandi case dell’infanzia, i ricordi più cari, gli anni della guerra con il palazzo di famiglia distrutto dai bombardamenti degli alleati.

Il rapporto strettissimo con la madre aristocratica e altera; Beatrice, la maggiore delle 5 bellissime e stravaganti sorelle Cutò, donna affascinante ma col carattere inasprito da sventure e lutti.

Il suo rapporto con Giuseppe sarà strettissimo e soffocante, e inciderà non poco sulla vita matrimoniale del figlio. Donna Beatrice non approvò mai l’unione con la principessa Alessandra Wolff Stomersee, detta Licy, psicanalista colta e sensibile, che Tomasi di Lampedusa

conobbe nel 1925 e sposò.

Le due donne della sua vita mal si sopportavano e per anni Licy e Giuseppe vissero lontani. Ma il loro fu un rapporto inossidabile, fatto di grande intesa, e lei gli restò accanto fino alla fine.

Altro capitolo importante è quello in cui decidono di adottare il figlio di un cugino di secondo grado, il giovane  Gioachino, -erano legatissimi a lui e alla moglie Mirella-  nominandolo erede legale. Il patrimonio ormai era sfumato, ma il giovane avrebbe almeno ereditato il titolo di duca di Palma e, pur non potendo trasferire quello più importante di Lampedusa, Giuseppe ebbe la certezza che non tutto sarebbe morto e finito con lui.

 

 

Susie Orman Schnall   “Adesso splendi”    -Feltrinelli-   euro 17,00

Questo è un romanzo scoppiettante e racconta l’amicizia di due giovani donne: i loro sogni e le ambizioni, lo scontrarsi contro un mondo ben stretto nelle mani degli uomini che lasciano poco spazio al gentil sesso. Tutto ambientato sullo sfondo della sfarzosa fiera mondiale tenutasi a New York nel 1939, inaugurata dal Presidente Roosevelt in persona.

Protagoniste sono l’attrice Vivi Holden e l’aspirante giornalista Maxine Roth: entrambe dovranno fare i conti con una realtà più dura del previsto, e finiranno per scoprire che a volte il dirottamento della traiettoria che si sognava non necessariamente si traduce in disfatta.

Vivi è un’attrice alle prime armi che punta a diventare una star di Hollywood e mal digerisce l’essere surclassata da colleghe rampanti, più immanicate di lei con i personaggi che contano.

Da Los Angeles plana a New York per diventare la prima donna dello spettacolo di nuoto sincronizzato dell’Aquade, che è la punta di diamante dell’Expo. Ma l’inizio sarà tutt’altro che facile….

Invece Maxine, o più semplicemente Max, ambisce ad entrare nella scuderia dei giornalisti del New York Times, ma anche lei si schianterà contro un muro di difficoltà. Viene spedita a fare una dura gavetta nel giornale dell’esposizione e relegata a pubblicare il programma giornaliero degli eventi. Anche lei se la dovrà vedere con il maschilismo imperante, colleghi subdoli e umiliazioni a iosa.

Sebbene Vivi e Max siano diverse, stringono una fortissima amicizia fatta di condivisione e solidarietà. Si confidano, si aiutano e insieme si fanno forza, rialzandosi ogni volta dalle delusioni, tenaci e combattive, determinate a non tradire i loro sogni e a raggiungere le mete prefisse.

Un romanzo che è una boccata di aria fresca….

 

 

Ivan Bunin  “Il signore di San Francisco e altri racconti”   -Adelphi-  euro  20,00

Bunin è un autore russo ancora poco conosciuto nel nostro paese: scrittore e poeta, il primo del suo paese a vincere il Premio Nobel nel 1933, e tutt’altro che un personaggio minore della letteratura mondiale.

Ivan Alekseevič Bunin è nato nel 1870 a Voronež in una famiglia di antica nobiltà spazzata via dalla Rivoluzione d’Ottobre e costretta ad emigrare. Lui nel 1920 riuscì a scappare dalla Russia sovietica e a rifugiarsi in Francia, vivendo con scarsi mezzi tra Parigi e Grasse.

Ma fu anche un viaggiatore instancabile e visitò la Palestina, Ceylon, Egitto, Turchia e Africa del nord.

La sua opera lo colloca come “l’ultimo classico”, orgoglioso di scrivere nel solco dell’illustre tradizione ottocentesca russa, da Tolstoj a Cechov.

Il libro racchiude 15 racconti con ambientazioni e soggetti molto diversi tra loro. Alcuni li ha scritti a Capri (dove soggiornava all’Hotel Quisisana), e tra Napoli e l’isola ha ambientato quello di apertura “Il signore di San Francisco” del 1915. Racconto che rasenta la perfezione e narra il viaggio per mare di un ricco signore americano 58enne e della sua famiglia; pagine attraversate da molteplici segnali che indicano la morte della “vecchia” Europa e l’incombere della fine di

un’epoca.

Altri brani traggono spunto dai suoi numerosi viaggi a latitudini diverse e a contatto con culture che esercitarono su di lui un immenso fascino. Curioso di tutto e attento alle diversità, fu attratto soprattutto dai paesi orientali, dalle basi culturali e religiose delle più svariate società; spinto anche da una ricerca interiore morale e filosofica.

Tra i racconti migliori c’è la storia di Gotami: ragazza di famiglia modesta, nata ai piedi dell’Himalaya, viene notata dal principe locale che ne fa la sua amante, e lei si trasferisce a corte, senza mai un lamento per il suo ruolo di concubina. Un racconto che gronda fascino e ricorda le favole orientali dal fascino esotico.

Non mancano poi pagine dedicate alla sua patria e alla Russia contadina, racconti profondamente realistici e disillusi che parlano di povertà, violenza e vita misera nelle izbe, le case di legno in cui vivevano i contadini.

Vi chiederete perché tanto talento non raggiunse la notorietà presso i suoi contemporanei: probabilmente per il suo carattere distaccato, sincero fino in fondo e decisamente poco diplomatico, non certo per mancanza di bravura….leggere per credere.

Malagodi, il più grande liberale del secondo ‘900

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni 

Il 17 aprile di trent’anni  fa moriva Giovanni Malagodi.

A ricordarlo  in modo diretto è rimasta solo la rivista “Libro aperto” da lui fondata e diretta da Antonio Patuelli,  parlamentare liberale ed attuale presidente dell’ABI, a sua volta l’unica figura di matrice liberale che ricopra  oggi un’importante carica istituzionale. Malagodi pare sia scomparso dal dibattito storico – politico, anche se fu Ministro, Presidente del Senato e leader incontrastato del PLI per vent’anni. Era un uomo coltissimo, aveva un’esperienza internazionale di rilievo che lo portò anche a presiedere l’Internazionale liberale, era corazzato di cultura economica acquisita sul campo come banchiere ed era un oratore sobrio, ironico, efficace che parlava più alla ragione che al cuore. Queste qualità oggi sono quasi introvabili in una stessa persona, escludendo a priori i politici alla ribalta. Malagodi veniva da lontano, in certo senso era figlio d’arte perché suo padre Olindo era stato deputato e stretto collaboratore di Giovanni Giolitti. Fino al 1953 non si era occupato direttamente  di politica, solo in quell’anno si candidò, su invito di Enzo Storoni, eminenza grigia liberale, alla Camera nel Collegio di Milano e venne eletto.  Già nel 1954 divenne Segretario Generale del PLI , una carriera ancora più rapida di Spadolini, che dovette attendere la morte di La Malfa per diventare leader. Il PLI del dopo guerra era in affanno perché mancava di un vero leader. Le figure carismatiche di Benedetto Croce e di Luigi Einaudi non bastavano,specie dopo l’elezione del secondo alla presidenza della Repubblica. Gli altri liberali, da Cassandro a Villabruna, erano personalità oggettivamente  fragili. Il vero leader che avrebbe potuto traghettare il Partito dal pre fascismo al post fascismo era morto appena  sessantenne nel 1945 ed era il Ministro del Tesoro Marcello Soleri,  grande piemontese ,unico erede di Giolitti,  ma  anche politico che andava oltre il giolittismo.  Addirittura il PLI cadde nelle mani di Roberto Lucifero che lo fece alleare con i qualunquisti di Guglielmo Giannini, suscitando il dissenso e l’uscita dal Partito di una sinistra liberale che –       come scrisse Croce – non rappresentava un granché. I vari Carandini e Cattani erano molto ambiziosi, osservo’ il filosofo, ma non altrettanto capaci in termini politici. In quella sinistra liberale l’unica figura di spicco era Mario Pannunzio che però – bisogna essere obiettivi dopo tanti anni – era un intellettuale di prim’ordine , ma non certo un possibile segretario, non foss’altro per la sua mitica indolenza che si contrapponeva alla sua vivacità intellettuale.
Malagodi, che veniva dal Nord produttivo e finanziario, diventò naturaliter il nuovo capo, mandando Villabruna a fare il Ministro. La sinistra liberale lo accusò quasi subito, per bocca di Carandini – grande proprietario terriero come lo stesso Malagodi e la sua famiglia – di aver “affittato“ il partito all’ Assolombarda, se non alla Confindustria.  Dopo poco ci fu la scissione radicale nel 1955 che non riuscì nel suo intento perché i gruppi parlamentari restarono con Malagodi ,se si esclude il solo  Villabruna.  Nelle elezioni del 1956 , del 1958 e del 1960 il PLI incrementò i suoi voti, i Radicali, alleati prima con il PRI e poi con il
PSI, raggiunsero percentuali, come si disse successivamente per scherno  , da prefisso telefonico ante litteram. Malagodi venne spesso accusato di autoritarismo nella conduzione del partito, mentre i Radicali finirono per  sciogliersi nel 1962 per beghe personali  e politiche che giunsero persino in tribunale.  La storia, non le opinioni personali,  diede ragione a Malagodi, la cui unica colpa fu quella di non lasciar crescere  a fianco a se’ nuovi leader liberali, anche se la sua attenzione ai giovani della GLI fu sempre molto viva e attenta : Patuelli fu segretario nazionale della GLI che ebbe un notevole consenso soprattutto nel mondo universitario. E’ quasi un paradosso che il Segretario liberale forse più attento al movimento giovanile non sia riuscito a scegliersi un successore che andasse oltre ad una figura spenta come Agostino Bignardi.
Dopo il centrismo nel quale il PLIfu protagonista, venne la stagione del centro- sinistra che trovò i liberali all’opposizione.  I socialisti, secondo Malagodi, erano immaturi per un’esperienza di Governo e la sinistra democristiana dei Moro e dei Fanfani si era già rivelata profondamente illiberale. Il disegno perseguito da Giolitti di un Governo tra liberali, cattolici e socialisti, naufragato esattamente cent’anni fa nel 1921 , non era fattibile nel 1963 . E Malagodi condusse con rigore e fermezza un’opposizione senza sconti contro le nazionalizzazioni e contro l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario  che avrebberomassacrato le finanze statali e compromesso l’unità nazionale.
Questa seconda battaglia oggi rivela la lungimiranza quasi profetica  del leader liberale che vide nel regionalismo divisivo – aggravato oggi dalla riforma del titolo V della Costituzione – un grave errore. L’esperienza dimostra che aveva ragione. Questa posizione isolò Malagodi al centro,  non volendo egli  un rapporto con i monarchici che in parte finirono di passare nel PLI – non ben accolti – un po’  alla chetichella .       Nel 1963 Malagodi portò il Partito al 7 per cento dei voti, ma anche la crescita parlamentare non genero’ nuovi leader qualificati , ma quasi sempre si trattò’ di assessori locali eletti deputati e senatori con l’unica eccezione di Durand de la Penne e del vecchio Fossombroni. Non si creò una classe dirigente attorno al leader . Forse gli  unici politici  di calibro adeguato furono  Gaetano Martino ,ministro degli Esteri,Vittorio Badini Confalonieri presidente del partito  e Aldo Bozzi che fu un autorevole giurista e Francesco Cocco Ortu che in parte fu anche oppositore di Malagodi. Dopo quel successo iniziò il declino liberale, ma esso non è attribuibile ad errori suoi  bensì ad un centro – sinistra diventato regime clientelare ed anche corrotto che creo’ attorno a se’ un facile consenso.
L’onesto  Mario Pannunzio (che non aveva le ambizioni politiche  frustrate di Carandini ) si rese conto che le politiche illiberali del centro – sinistra non avevano dato i frutti sognati per cui si era battuto nei famosi convegni del “Mondo“ e nel 1966 chiuse il suo giornale che nessuno riuscì più a risuscitare perché legato ad un’epoca storica definita ed uno stile inimitabile. Fu proprio  la delusione subìta a portarlo ad abbandonare l’impresa, come anni dopo mi disse Arrigo Olivetti che fu editore del giornale e ultimo Segretario del Partito radicale. Dopo le elezioni del 1968 che segnarono un arretramento del PLI e dopo i successi del Movimento Sociale nel 1971 /72, ci fu un effimero governo Andreotti – Malagodi che la DC volle strumentalmente per coprirsi le spalle  a destra. Restò in carica neppure un anno tra il 1972 e il 1973 e non è passato alla storia per qualcosa di significativo . Già l’accoppiata Andreotti – Malagodi che fu ministro del Tesoro, aveva un che di stonato  e di contraddittorio.
Il governo cadde per iniziativa dei Repubblicani e lasciò spazio a nuovi Governi di centro – sinistra. All’interno del PLI per la prima volta si costituì una consistente  corrente di sinistra capeggiata da Altissimo e Zanone che nel 1976 divenne Segretario e portò il Partito al suo minimo storico alle elezioni politiche di quel medesimo anno. Lo stesso Altissimo non venne rieletto deputato. Incominciò così l’inizio del ritorno dei liberali al Governo nel pentapartito auspicato da Pertini. La presenza liberale al governo fu quasi irrilevante e non poteva che essere così per lo scarso numero di eletti. Zanone svecchio’  il partito, ma non riuscì ad incidere politicamente. Ma questa  è una vicenda troppo recente perché si possa storicizzarla , anche se gran parte dei suoi principali  protagonisti sono morti.  Resta però un fatto indiscutibile. Nella sua storia quasi centenaria ( il Partito liberale si costituì nel 1922 alla viglia della marcia su Roma ), il solo Malagodi spicca su tutti i leader  in modo inequivocabile. Nessuno è stato come lui,  neppure il mio amico Valerio Zanone che finì la sua carriera politica come senatore del PD.