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Il presidente Casellati rende omaggio a Lina Merlin

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

La presidente del Senato Elisabetta Casellati ha inaugurato un busto a Palazzo Madama della senatrice Lina Merlin, un’ alta figura di donna socialista cresciuta alla scuola riformista di Filippo Turati e di Giacomo Matteotti.

La Merlin fu la prima senatrice eletta in Senato nel 1948 dopo essere stata attiva componente all’Assemblea Costituente. A Lei si deve nell’articolo 3 della Costituzione quel “senza distinzioni di sesso“ che per lei rappresentava la parità tra uomo e donna che fu il principale obiettivo della sua vita politica.
Le sue battaglie politiche in Parlamento sono state molto importanti. La prima, per cui ancora oggi è ricordata, e’ quella contro lo sfruttamento legalizzato della prostituzione. Solo nel 1958 ottenne l’approvazione della legge che porta il suo nome e che portò alla chiusura delle case di tolleranza.  Fu un impegno appassionato e coerente che non si arrestò di fronte alle obiezioni di chi riteneva i postriboli una sorta di necessità sociale. La sua legge fu molto dibattuta e va detto che a giustificarla fu un intento morale che la laica e socialista Merlin sentiva profondamente.
Certo la chiusura non costituì la soluzione di un problema di per se’ insolubile come la prostituzione, ma riaffermo’ il valore della dignità della donne e la condanna della sua mercificazione. La prostituzione rinacque nelle strade italiane con uno dei fenomeni più ributtanti, quello degli sfruttatori. Oggi su internet si trovano offerte sessuali di tutti i tipi che farebbero inorridire la Merlin che condusse una battaglia generosa, forse un po’ idealistica, ma sicuramente giusta nei principi che la ispiravano. Anche personaggi di rilievo come Indro Montanelli erano per le case chiuse. Ma la senatrice va ricordata anche per l’abolizione della clausola sul nubilato che consentiva di licenziare in caso di matrimonio e l’abolizione del “nomen nescio” in base ai quale venivano discriminati i trovatelli. Fu anche promotrice di una moderna legge sulle adozioni. Nel 1961 il partito socialista decise di non ricandidarla e con grande dignità abbandono’ la politica, denunciandone il degrado. Aveva capito con anni di anticipo cosa stavano lentamente diventando i partiti. Fu convintamente antidivorzista, ritenendo la legge Fortuna – Baslini non adeguata a tutelare gli interessi delle donne. Resta di lei una grande e libera testimonianza politica e morale che in primis i socialisti hanno presto dimenticato. Era una donna scomoda che seppe muoversi con energia e coerenza in un mondo politico fortemente maschilista. Non è un caso che la prima presidente donna del Senato abbia dedicato la sua particolare attenzione alla senatrice Merlin. Sotto tanti punti di vista ,pur con idee diverse, le due donne si assomigliano per il rigore morale e l’indipendenza. Nel suo discorso il Presidente Casellati, da fine giurista qual è, ha tratteggiato con rigore storico una delle figure più alte della prima Repubblica rimasta Ingiustificatamente per troppo tempo nell’ oblio. Anche la ripubblicazione dei suoi discorsi parlamentari sarà di stimolo per ristudiare la senatrice Merlin che le nuove generazioni non sanno neppure che sia esistita. Lina Merlin rappresenta un richiamo etico,”laico o non laico che sia“, come diceva Croce scrivendo a De Gasperi, di cui avremmo estremo bisogno in particolare a tutela della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna, come afferma la Costituzione.

La storia della Resistenza in Val Vigezzo 

LIBRI /  RILETTI PER VOI    Tra i tanti testi dedicati alla lotta di Liberazione merita di essere citato un libro poco conosciuto ma importante. S’intitola “Val Vigezzo- La Resistenza”, edito qualche anno fa dall’Anpi con il patrocinio del comune di Malesco, curato da Paolo Bologna e Albino Barazzetti.

Il volume,corredato da foto d’epoca e riproduzioni di documenti,raccoglie testimonianze, racconti, frammenti di vita, episodi che – nell’insieme – offrono un interessante quadro di ciò che furono gli anni della Resistenza antifascista in questa valle al confine con la Svizzera. Dal tremendo rastrellamento della Val Grande nel giugno del 1944 ( trecento partigiani caduti in combattimento, precipitati dai dirupi o fucilati come i 15 di Finero o i 9 di Beura, tra i quali Teresa Binda, medaglia d’oro al merito civile, montanari e contadini passati per le armi, baite distrutte, alpeggi bruciati, bestiame razziato) al 12 ottobre dello stesso anno quando, durante una ricognizione al Sasso di Finero,sul crinale con la Valle Cannobina, persero la vita il comandante della Divisione Valtoce, Alfredo Di Dio e il colonnello Attilio Moneta. Nelle pagine di “Val Vigezzo-La Resistenza” trovano spazio vicende come la battaglia dei Bagni di Craveggia o l’esodo verso la confinante Svizzera ( il “paese del pane bianco”, come lo definì lo stesso Bologna), le vicende collettive dei vigezzini e le storie individuali di spalloni che diventarono uomini di collegamento e “passatori” di ebrei, militari e perseguitati politici, di religiosi caparbi come Don Cabalà e Don Martinoli, di donne e uomini semplici che seppero scegliersi la parte in quegli anni tremendi. Difficile citarli tutti perché Bologna e Barazzetti, con un lavoro certosino,raccolsero tante testimonianze e documenti che rendono l’idea di cos’ è stato il movimento partigiano e il suo forte legame con la popolazione vigezzina. Storie terribili e dolorose, come quella del piccolo Romano Sotta, bambino maleschese di dieci anni trucidato dall’Alpe Basso insieme a due partigiani, o piene di speranza come si legge nelle testimonianze di coloro che trovarono la salvezza oltre confine. In 160 pagine, Bologna e Barazzetti riordinarono e proposero una lettura della storia di Vigezzo a metà del secolo scorso. I due autori sono scomparsi ma resta la speranza che questo lavoro possa servire affinché non se ne disperda il prezioso patrimonio di memoria storica e civile.

Marco Travaglini

“Storia e non storia di Rossella Casini”

LIBRI / Nell’ultimo libro di Sabrina Sezzani, il caso della giovane Rossella, una vita atrocemente spezzata dalla ‘ndrangheta

Il sottotitolo del libro, edito da “Neos Edizioni” , sintetizza con lucida drammaticità la vicenda narrata: “La donna che non mi hanno lasciato diventare”. A parlare è Rossella Casini, nata a Firenze nel 1956 e uno dei nomi di “caduti” per mafia che si leggono ad alta voce ogni 21 marzo, la cui storia però è rimasta a lungo dimenticata.

A raccontarcela, in un centinaio di pagine ricche di sincera empatia, a metà strada fra l’indagine psicologica e quella giornalistica, è oggi Sabrina Sezzani, anche lei – come Rossella – fiorentina e già autrice nel 2017, sempre per “Neos Edizioni”, della raccolta di racconti “Seduta sul tuo splendore. Trenta storie fiorentine al femminile”. Racconta la Sezzani: “In queste pagine mi sono arrogata un diritto che non ho: quello di sostituire i suoi pensieri con quelli che io ho immaginato fossero i suoi. Questo quindi, non è un libro su Rossella Casini, ma un libro della mia Rossella Casini”. Per anni di Rossella si sono occupati in pochi. “Scomparsa” nel 1981 a soli 25 anni, la sua storia è rimasta a lungo dimenticata. Una storia che sembrava destinata al silenzio, finché nel 1994 un pentito racconta agli inquirenti che Rossella Casini, giovane donna vittima di un amore “sbagliato”, era stata rapita, stuprata, fatta a pezzi e gettata in mare nella tonnara di Palmi. Senza dubbio, uno dei più vili, turpi e racapriccianti delitti mai commessi dalla ‘ndrangheta. Quale la sua colpa? Quella di aver convinto il fidanzato Francesco Frisina, calabrese di Palmi (conosciuto alla Facoltà di Pedagogia dell’Università di Firenze), a collaborare con la Giustizia, dopo l’assassinio del padre del ragazzo, imprenditore agricolo, per mano di due killer e il ferimento dello stesso giovane in un agguato tesogli pochi mesi dopo nel dicembre del ’79. Francesco accetta l’invito di Rossella, ma la sua conversione dura poco e il ragazzo ritratta. Rossella si ritrova così coinvolta nella faida mafiosa che vede contrapporsi ferocemente le ‘ndrine Gallico – Frisina contro i Parrello – Condello, finendo stritolata dalle regole dell’omertà mafiosa che s’era illusa di riuscire ad infrangere per amore. “Fate a pezzi la straniera”, fu a quel punto l’ordine dei boss mafiosi. E il 22 febbraio 1981 Rossella scomparve nel nulla. Il suo corpo non fu più ritrovato. I suoi genitori non hanno mai avuto la consolazione di una tomba dove poterla piangere. Il processo, iniziato nel 1997, si concluderà nove anni dopo con l’assoluzione per insufficienza di prove: Rossella non ha mai ricevuto giustizia, la magistratura si è arresa, non è stata in grado di fare chiarezza, di individuare e punire esecutori e mandanti. Ci racconta la giovane con le parole scritte dalla Sezzani: “Per le aule dei Tribunali, io, semplicemente, non sono più. Ho smesso di esistere in una data imprecisata, in un modo imprecisato, per mano di non si sa chi. Sono sparita, ho smesso di dare contezza di me. Il resto è sconosciuto, questo dice la verità processuale”. Ma quale la vera verità? Se lo chiede con palese tormento la scrittrice, riaprendo ferite profonde mai rimarginate, ben consapevole di quanto “sia davvero importante ricercare il perché delle cose, andare alla fonte delle informazioni e cercare di dare un senso alla nostra sete di sapere”.
Il Comune di Firenze ha collocato una targa in memoria di Rossella nel centro storico dove abitava con i genitori, in via Borgo la Croce: “Qui visse Rossella Casini vittima della ’ndrangheta scomparsa dal 22 febbraio 1981 perché per amore infranse la regola criminale del silenzio”. E a Firenze a Rossella è intitolato anche un giardino, una scuola a Scandicci e il presidio di “Libera” a Viareggio. Nel 2019 le è stata conferita la medaglia d’oro al valor civile.

g. m.

Per info: “Neos Edizioni”, via Beaulard 31, Torino; tel. 011/7113179 o www.neosedizioni.it

In Riviera nel rispetto delle regole con più serenità

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Questo fine settimana in Riviera è stato caratterizzato dal rispetto delle norme a cui i sindaci hanno richiamato tutti in modo molto fermo: essere in zona gialla -hanno ribadito – non significa un liberi tutti.

Proprio per poter ripartire occorre prudenza e civismo, a tutela di se’ stessi e degli altri.
Certamente nelle località marine pesa il coprifuoco alle 22 e il fatto che i ristoranti possono solo servire all’esterno. In questo fine settimana c’è stata una forte mobilitazione di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza per verificare il rispetto delle regole. Un locale di Alassio, poco conosciuto, è stato multato ed è stato chiuso per cinque giorni perché i clienti pranzavano anche all’interno. Non c’è altro modo per evitare ciò che accadde lo scorso anno nei mesi estivi durante i quali la trasgressione in alcuni casi diventava la regola nel ricordo delle stagioni passate in cui la frenesia dell’estate aveva il sopravvento su tutto e le poche norme stabilite non venivano rispettate. Alassio e Albenga e la Baia del Sole riprendono con il piede giusto. La voglia di ripartire è tanta, ma il timore di dover di nuovo chiudere ha il sopravvento. In alcuni condomini lo scorso anno la mascherina all’interno delle parti comuni e persino degli ascensori era quasi un optional. Quando intervenni per richiedere il rispetto delle norme venni insolentito. Da tempo la situazione è cambiata e sono rarisssimi i casi di irresponsabilità: la mascherina è diventata una parte di noi stessi anche se a molti da’ fastidio. I mesi invernali e le zone rosse hanno lasciato il segno. Credo che con prudenza vada ripresa gradualmente se non la vita normale almeno un modo di vivere migliore o meno angosciante. Dobbiamo aver fiducia nei vaccini anche se ci vorrà molto tempo per riscoprire quella che Mario Soldati proprio ad Alassio definiva la “gioia di vivere”. Le estati inventate da Mario Berrino con la gran cagnara estiva resteranno un bel ricordo. In effetti da molti anni, per tutta una serie di motivi, le vacanze in Riviera non erano più quelle del secolo scorso. Fa impressione persino scrivere secolo scorso, ma questo primo ventennio del nuovo secolo non è stato felice al di là della pandemia che ci ha sconvolto l’esistenza. Ad Alassio però quest’anno è tornata la spiaggia di un tempo, quella spiaggia mitica dove abbiamo in molti giocato da bambini e dove Giovannino Guareschi portava i suoi figli. Fa piacere vedere i locali che hanno resistito ai mesi durissimi che hanno paralizzato ogni attività. Lo stile coriaceo, ad esempio, del mitico Jano ha prevalso su tutto. Tanti ristoranti meriterebbero di essere citati.  Che si riprenda nel rispetto delle regole è un buon segnale ed è un invito molto convincente a fare le vacanze in Italia e per noi piemontesi in Liguria. Tornare all’antico appare anche bello e suggestivo. L’importante è il civismo e il non pretendere un divertimento senza regole che era comunque qualcosa di non accettabile anche prima del Covid.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Nguyên Phan Que Mai “Quando le montagne cantano” -Nord- euro 18,00

Diciamo subito che è uno dei libri più belli, emozionante e scritto benissimo, che abbia mai letto.
Perché in 380 pagine racchiude molteplici tesori letterari: la tragedia di un popolo, la persecuzione di innocenti, la precarietà della vita, il buio; ma anche lo splendore dell’animo umano, la forza del perdono….e tantissimo altro che scoprirete leggendo. E’ il romanzo di esordio della giornalista e poetessa nata nel 1973 in Vietnam, dove per sopravvivere ha fatto anche la venditrice ambulante e la coltivatrice di riso. Poi, grazie a una borsa di studio ha lasciato il paese ed ora vive a Giacarta con il marito diplomatico e due figli.
Il libro portentoso è ispirato in parte alla storia della sua famiglia, sullo sfondo del Vietnam travagliato dalla guerra.
Narra la vita, i dolori e la forza di 3 generazioni di donne travolte dalla storia atroce del loro paese; tra conflitti, carestie, rivoluzione e dittature, bombe al napalm e orrore infinito.
Inizia nel 1972 ad Hanoi con la piccola Guava e sua nonna Diệu Lan in fuga dalle bombe americane che radono al suolo la loro casa. Senza scoraggiarsi decidono di ricostruirla ed è anche l’inizio del racconto della vita della nonna e della sua famiglia. E’ la storia del Vietnam ripercorsa in modo magistrale da una vietnamita: senza retorica o vittimismo, solo la cruda e spietata realtà, più affilata di un coltello nel colpire il lettore. Attraverso la saga familiare si ricostruisce il dramma di un paese martoriato: il colonialismo francese, la spietata occupazione giapponese, la divisione tra nord e sud in guerra tra loro, la grande carestia, le ingiustizie della riforma agraria che trasformano il vicino in nemico mortale, il ruolo degli americani.
Quella della nonna era una famiglia benestante di proprietari terrieri che lavoravano sodo e trattavano bene i dipendenti; poi con l’avvento dei comunisti possedere terra è diventato un crimine punito con la morte ed è l’inizio dell’odissea. Di colpo a Diệu Lan –che a 25 anni ha visto uccidere entrambi i genitori e a 28 aveva già 5 figli e ne voleva altri- viene portato via tutto. Il fratello ucciso, un figlio fuggito chissà dove e lei in fuga con i bambini più piccoli che è costretta a mettere al sicuro, presso famiglie e suore. Dunque la tragedia di una scelta dilaniante: abbandonarli sperando di ritrovarli quando le acque saranno più calme. Il libro è anche racconto dell’attesa straziante dei parenti andati a combattere: dramma nel dramma il ritorno di vite stravolte come quella della mamma di Guava, o il nulla di chi è disperso senza un luogo in cui poterlo piangere. Un libro che l’autrice ha scritto in 7 lunghi anni ed è la testimonianza di una voce femminile che rivive le sofferenze di un popolo e lo strazio che i singoli personaggi hanno dovuto attraversare.

 

Teresa Ciabatti “Sembrava bellezza” -Mondadori- euro 18,00

In questo romanzo Teresa Ciabatti riconferma la sua bravura nel raccontare l’universo femminile, e sviscera a fondo le emozioni e le dinamiche di madri, sorelle, figlie e amiche.
Voce narrante è quella di una scrittrice 47enne che, dopo un’adolescenza un po’ ai margini e in secondo piano rispetto alle coetanee più ricche e blasonate, si prende una gran bella rivincita sul piano professionale diventando una scrittrice di successo.
Nella vita privata, invece ci sono più macerie: è separata ed ha una figlia di 20 anni, Anita, che vive a Londra e stravede per il padre, mentre con la madre è perennemente in rotta di collisione poiché la ritiene la principale artefice del divorzio (anche se così non è).
Dopo 30 anni di silenzio, nella vita della scrittrice torna a farsi viva la sua amica ai tempi dell’adolescenza, Federica, e il rapporto tra le due si rinsalda, anche se le loro traiettorie di vita hanno seguito direzioni diverse. Federica tiene in piedi un matrimonio scricchiolante, ha due figli e vive a Genova. Soprattutto è la sorella di Livia, che ai tempi del liceo era la più bella e corteggiata, quella perfetta, l’ape regina in famiglia e tra i coetanei. Ed ecco che la protagonista torna indietro con la memoria, alla giovinezza negli anni 80, e a un fattaccio che ha distrutto più vite.
Livia dapprima sembrava scomparsa, poi viene trovata in frantumi e agonizzante in mezzo ai cespugli sotto casa, dopo un volo di metri. Mentre le ipotesi sulla dinamica dell’incidente si sprecano, la ragazza resta in coma per 20 giorni, subisce una craniotomia che lascerà cicatrici, e quando si risveglia deve riappropriarsi di tutta una serie di conoscenze e abilità che richiedono una lunga e faticosa riabilitazione. Ma soprattutto le è stato rubato il futuro, perché resterà per sempre al palo dello sviluppo cerebrale di una 18enne, con un ritardo cognitivo e mentale per il resto della vita.
La tragedia ha pesanti ripercussioni sui genitori di Livia che non sanno bene come muoversi e scaricano su Federica il fardello di occuparsi della sorella minorata. Federica diventa di colpo madre e badante di Livia, una responsabilità che pesa più di un macigno e determina le sue scelte di vita future, come la fuga in un matrimonio affrettato.
La scrittrice ripercorre le fasi dell’amicizia con Federica «movimento continuo di rovesciamenti, che vedeva primeggiare una nella sofferenza dell’altra, e viceversa».
Il romanzo parla del tempo che passa, di ferite che non si rimarginano, di incomprensioni, e a movimentare le cose torna sulla scena Livia all’alba dei 50 anni anagrafici ma cristallizzati ai 18.

 

Mary Gaitskill “Questo è il piacere” -Einaudi- euro 15,00

La storia è ambienta nella New York blasonata dei party dell’editoria, e racconta di due editor affermati, Quinn e Margot, che dopo un inizio imbarazzante- lui cerca di infilare la mano sotto la gonna di lei- finiscono per diventare grandi amici. Entrambi felicemente sposati e realizzati nelle loro carriere, sono legati da un rapporto consolidato.
Lui è sempre pronto a sostenerla nei momenti down e le fornisce preziose dosi di autostima.
Lei è depositaria delle confidenze di Quinn che le racconta apertamente, anche con battute pesanti e sconvenienti, delle donne che ruotano nella sua orbita, che lui corteggia, umilia, usa, manipola o protegge.
Già, perché Quinn è abituato ad approcci non sempre limpidi con il genere femminile, sia nella vita privata che in ambito professionale.
Ma in epoca di Mee Too, questo modus operandi risulta inaccettabile e finisce in aule di tribunale con tanto di caduta negli inferi di chi non ha saputo tenere a freno le mani.
Il romanzo alterna la versione di Quinn a quella di Margot: lui stenta a rendersi conto della gravità delle sue azioni, dimostra notevole incapacità emotiva ed è lontano anni luce dal comprendere il punto di vista delle donne.
Margot veleggia tra il senso di colpa per non aver messo un freno ai comportamenti inappropriati di Quinn e, d’altro canto, il concetto di lealtà dovuta a un amico. E pone un’amletica domanda: dove si colloca e finisce l’amicizia e dove sconfina nella complicità deprecabile?
Questo il nocciolo del breve romanzo della scrittrice 66enne diventata famosa con il racconto che aveva ispirato il film “Secretary” del 2002, con James Spader e Maggie Gyllenhaal. Da allora ha scritto altri romanzi e racconti che scavano a fondo nei rapporti umani.
Dall’esperienza di un suo amico travolto dalle accuse in clima Mee Too ecco questo romanzo che a lui si ispira per i lineamenti di Quinn, in una vicenda decisamente attuale.

 

Ma Jan “Il sogno cinese” -Feltrinelli- euro 15,00

Il 67enne scrittore cinese Ma Jan da tempo vive esule a Londra e i suoi libri sono proibiti nella sua patria: un ostracismo del regime scattato anni fa, a partire dal suo pamphlet -denuncia sui fatti di Piazza Tiananmen “Pechino è in coma” del 2009.
Proprio perché in esilio Ma Jan può permettersi uno sguardo lucido e realista sul suo paese e può pubblicare un romanzo come questo che è uno spietato affresco della Cina odierna, una satira dark che non fa sconti a nessuno e punta l’indice contro l’obbrobrio dei regimi totalitari.
Al centro della vicenda c’è Ma Daode: mediocre funzionario di provincia, corrotto fino al midollo, ricco sfondato, sposato ma famoso per le sue 12 amanti, devoto seguace e ammiratore del presidente Xi Jinping. Daode è il direttore dell’Ufficio del Sogno cinese, da poco istituito nella città di Ziyang e suo preciso compito è indottrinare la popolazione.
Deve entrare nella testa delle persone e convincerle ad aderire alla grande campagna per realizzare il “sogno cinese” e l’ambizioso progetto di “ringiovanimento nazionale”. Ovvero fare tabula rasa di pensieri e ricordi, cancellare memoria del passato, non avere libero arbitrio e seguire in massa il sogno del presidente che promette a tutti una “vita di gioia senza freni”.
Ma il passato si mette di traverso nella mente di Ma Daode che continua ad essere rincorso da pensieri allucinati, visioni e angosce che riportano alla superficie immagini del suo passato: violenze a cui ha assistito quando era una giovane Guardia Rossa, ma anche quelle di cui è stato artefice e responsabile.
A perseguitarlo più di tutto è il ricordo del suicidio dei suoi genitori, dopo essere stati malmenati e umiliati da militanti maoisti ai quali lui stesso li aveva denunciati. Poi lui e la sorella che li seppelliscono di nascosto in una cassa modesta, in un luogo che ormai non c’è più.
La modernizzazione l’ha raso al suolo, come cerca di fare anche con l’antico villaggio di Yaobang, costringendo con la forza gli abitanti ad abbandonare le loro case, promettendo un luogo migliore in cui vivere e un indennizzo che non ci sarà mai.
Ma non è facile per il regime cancellare dalla memoria collettiva del paese il passato, così come è complicato per Daode sconfiggere i suoi fantasmi, ed ecco una possibile soluzione: un microchip da impiantare nel cervello per sostituire i ricordi con la visione del leader.

Una vita operaia

LIBRI / RILETTI PER VOI   Giuseppe Granelli, classe 1923 ( morto a novant’anni nel 2013), operaio colto dell’acciaieria Falck di Sesto San Giovanni, è il protagonista di questo libro-inchiesta di Giorgio Manzini. Cresciuto nel villaggio Falck divenne, grazie a “Una vita operaia”, emblema della condizione dei lavoratori metalmeccanici nell’Italia del secondo dopoguerra

“Una vita operaia”, scritto da Giorgio Manzini e pubblicato da Einaudi negli “Struzzi Società” nel 1976, non è certo un libro nuovo e nemmeno si può dire sia stato un bestseller anche se vendette parecchie copie. E’ però un libro importante e persino attuale. Giuseppe Granelli, classe 1923 ( morto a novant’anni nel dicembre di due anni fa ), operaio colto dell’acciaieria Falck di Sesto San Giovanni, è il protagonista di questo libro-inchiesta di Giorgio Manzini. Cresciuto nel villaggio Falck divenne, grazie a “Una vita operaia”, emblema della condizione dei lavoratori metalmeccanici nell’Italia del secondo dopoguerra. Manzini, giornalista e redattore di “Paese Sera” ( scomparso, a 61 anni, nel 1991)  interrogò a lungo Granelli, scelto tra decine di migliaia di operai  di Sesto San Giovanni perché era conosciuto come un sindacalista di fabbrica che non ha mai sgarrato e perché era una persona libera e intelligente. Una vita come tante, chiusa in un giro ristretto, ma anche investita “dai bagliori dei grandi avvenimenti politici”:la Resistenza, le illusioni del ’45, le difficoltà economiche del dopoguerra,la rottura del fronte operaio,la restaurazione, la caduta del mito di Stalin, la lenta riscossa sindacale.

Questo libro di Giorgio Manzini – saggio, inchiesta, romanzo vero – ripubblicato recentemente dall’Archivio del Lavoro, oggi assume un significato ancora più profondo perché racconta di un uomo – Giuseppe Granelli, il protagonista in carne e ossa – che per quarant’anni ha lavorato alla Falck di Sesto San Giovanni. La sua esistenza è stata quella della città dove ha vissuto, dagli stabilimenti dell’acciaieria al villaggio operaio al Rondò da dove partivano le grandi marce solidali. Storie che sono diventate una parte della nostra storia nazionale: un simbolo altalenante di conquiste, di sconfitte, di risalite, di cadute, un microcosmo che può rispecchiare la vita dell’intero Paese. La fabbrica amata e odiata – il pane, la fatica, il conflitto – non c’è più. I resti, certi resti, dei vecchi capannoni (Concordia, Unione, Vittoria: si chiamavano così i vecchi stabilimenti della Falck),le fonderie, i laboratori, il forno sono come ombre e fantasmi di un passato. Resta la memoria di “una vita operaia”, di quel Giuseppe Granelli che, una volta andato in pensione, diventò la “voce degli operai” e raccolse le biografie di quasi 490 sindacalisti della Fiom,militanti, semplici operai che avevano speso la vita in fabbriche come l’Alfa Romeo, la Falck, l’Innocenti, la Breda, la Pirelli, la Richard Ginori, la Magneti Marelli e tante altre di cui non ci si ricorda nemmeno più il nome. Un lavoro prezioso, certosino, cosciente che quelle “sue vite”, raccolte con la consueta pazienza, catalogate nell’Archivio del lavoro di Sesto, erano la sua eredità, la medaglie al valore che nessuno gli ha mai messo sul petto. Il padre di Granelli, Tone, aveva lavorato anche lui alla Falck Concordia per quarant’anni, manutentore al laminatoio. Giuseppe (detto Giuse, Tumìn, Granel) cominciò a faticare, ragazzo di fabbrica, a 14 anni, per 84 centesimi l’ora a portar l’olio, scopare i trucioli di ferro, allungare gli stracci ai compagni alla macchina. Manzini seppe fare di Granelli il simbolo di milioni di uomini di un passato ora morto e sepolto.

Questo libro appartiene, come ha scritto Corrado Stajano, “alla letteratura industriale”, quella dei Carlo Bernari, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Primo Levi, Vittorio Sereni. Granelli, nel portafoglio, conservò per anni una fotografia di Stalin, per lui l’uomo della guerra patriottica, il vincitore delle armate naziste. Il XX Congresso del Pcus fu un trauma, la rivolta di Budapest un colpo al cuore. Granelli tenne sempre fede ai suoi principi di giustizia sociale: tolse dal portafoglio la foto di Stalin e non ne rimise altre. Amava il dubbio, il confronto. Aveva un grande rispetto per il sapere, era curioso, frequentò a Milano la Casa della Cultura diretta da Rossana Rossanda, era attratto dal fascino di Cesare Musatti e lesse i grandi libri della storia e della letteratura. Il libro di Manzini lo rese felice. Gli fece capire che una vita come la sua, simile a quella di infiniti altri, poteva  e doveva essere ricordata. Le ultime tre righe del libro raccontano la sua pazienza, la sua tenacia e la saggezza di quest’operaio che sapeva fare “i baffi alle mosche”: “ L’importante è continuare il rammendo, sostiene Granel, e avere fiducia. Se non si avesse fiducia si starebbe qui a diventar matti tutti i giorni?”. Manzini è morto da quasi venticinque anni. Anche Granelli non c’è più : è sepolto nel silenzio del cimitero del paese dei suoi genitori, a  Moio De’ Calvi, nella bergamasca. Rimane questo libro, “Una vita operaia”, troppo bello e troppo importante per non essere ripreso in mano, per leggerlo o rileggerlo.

 

Marco Travaglini

Il liberalismo, Napoleone e Barbero

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Siamo ormai abituati a leggere le opinioni più strane e contraddittorie sul liberalismo e solo chi non ha dimestichezza con la cultura liberale può stupirsene.

Infatti non esiste una bibbia del liberalismo a cui richiamarsi e ci sono diverse sensibilità culturali che hanno contribuito a formare il pensiero liberale che è plurale per definizione. La scuola inglese, non è quella austriaca, Croce non è Einaudi, per fare solo alcuni esempi. La “Storia del liberalismo europeo“ di Guido De Ruggiero pubblicata nel 1925, l’anno del fascismo diventato ufficialmente e drammaticamente dittatura, è un documento di questo “pluralismo” liberale. Per altri versi lo stesso De Ruggiero scandalizzo’ Croce aderendo a quel partito d’azione che il filosofo napoletano considerava un ircocervo ,“ l’animale favoloso metà capro e metà cervo che stava ad indicare la chimerica e contraddittoria politica che derivava dalle origini di quel partito collegate a “Giustizia e libertà” , un binomio equivoco che il liberale Croce non poteva accettare. Anche oggi esiste ancora un gruppuscolo di persone invasate che, pur ribaltando la denominazione in “Libertà e giustizia”, sono state protagoniste di tante battaglie profondamente illiberali e giacobine. Non c’è da stupirsi di nulla. Gobetti, ad esempio, viene considerato un grande liberale, mentre altri negano il suo liberalismo ed altri ancora in nome suo tengono in piedi un centro studi che da sempre è stato filocomunista.
Si può quindi parlare anche di una babele liberale che è comunque sempre preferibile rispetto al dogmatismo di certe ideologie che impongono obbedienze cadaveriche.
Ma accettare la conclusione di un articolo di Alessandro Barbero su Napoleone, non risulta proprio possibile per chi sappia qualcosa del liberalismo, anche il più eretico e controverso. Il medievista e tuttologo di Vercelli è giunto a scrivere che “è anche grazie a Napoleone se alla lunga in Europa hanno trionfato il liberalismo e la democrazia”.
Mi sono occupato di Napoleone nei giorni scorsi ,cercando di non scrivere la manzoniana “ardua sentenza” a duecento anni dalla sua morte, ma di capire l’opera di uno dei più grandi personaggi che abbia avuto la storia. Non mi sono lasciato invischiare nei pregiudizi ed ho cercato di vedere in lui uno statista rinnovatore e non semplicementei un tiranno. Ho cercato di evidenziare il suo sforzo titanico di piegare la storia alla sua volontà. Ma non si può ragionevolmente convenire con Barbero nel vedere in Napoleone anche solo un barlume di liberalismo. Forse nella fase rivoluzionaria abbraccio’ il democratismo che sostituì molto presto con quello che sarà un regime militare in piena regola. Napoleone che amava leggere e non era un militare incolto, non sentì assolutamente il liberalismo come un qualcosa che potesse appartenere alla sua visione politica che ruotava su uno stato accentratore ed autoritario e quindi naturaliter illiberale. Il liberalismo nacque in Inghilterra con Locke e Smith nel 1700. In Francia fu Tocqueville, andando oltre la Rivoluzione e Napoleone, a mettere le basi di un pensiero liberale, guardando alla democrazia americana. Il bonapartismo successivo, quello di Napoleone III, fu fortemente liberista, ma non certo liberale. Napoleone III fu nella sua giovinezza di sentimenti liberali, poi rapidamente abiurati.  Solo chi sa poco di liberalismo, può vedere in Napoleone un personaggio che in qualche modo abbia favorito il “trionfo del liberalismo.” Napoleone resta un grande anche se fu illiberale perché a giudizio di uno storico liberale la grandezza di un personaggio non si misura in base all’ideologia, ma da un giudizio di più ampio respiro.

Napoleone in Francia Vittorio Emanuele in Italia

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni  Il presidente della Repubblica  francese Macron ha reso omaggio ieri  alla tomba di Napoleone  con una cerimonia austera e solenne nel bicentenario della morte avvenuta il 5 maggio 1821.

Lo scorso anno, bicentenario della nascita del Padre della Patria e primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II  nessuna alta carica dello Stato italiano ha fatto anche solo un gesto
per ricordare uno degli artefici del Risorgimento e dell’ Unità d ‘Italia, al Pantheon, al Vittoriano o a Palazzo Carignano dove nacque. Due modi opposti di sentire la storia nazionale perché Macron ha affermato che Napoleone è parte della Francia e che il passato non va valutato con le nostre idee del presente. Osservazioni ovvie perché gli anacronismi sono l’esatto opposto della storicizzazione. E’ stato proprio un grande storico francese Marc  Bloch ad invitare a comprendere prima di giudicare. Non da oggi c’è invece la tendenza propria degli ignoranti e dei politicanti di giudicare senza neppure tentare di comprendere. Macron ha fatto un discorso in cui sono emerse luci ed ombre , distinguendosi dall’estrema destra esaltatrice della grandeur napoleonica  a prescindere e della gauche legata a pregiudizi ideologici volti a confondere Napoleone personaggio storico con il Bonapartismo politico. E’ un dovere elementare di un Paese  civile ricordare la propria storia senza demonizzazioni che, a duecento anni dalla morte, appaiono ridicole. Come condottiero militare Napoleone è confrontabile, ad esempio, con Alessandro Magno e Giulio Cesare e come tale va ricordato , senza far prevalere giudizi pacifisti e antimilitaristi che son nati nel secolo scorso e ci impediscono di comprendere il passato. La Francia anche sotto la pandemia ha saputo ricordare un grande francese. L’Italia repubblicana lo scorso anno non ha saputo dedicare un minimo di attenzione per il Re che venne considerato un Galantuomo e che non ha nessuna ombra anche solo lontanamente paragonabile con quelle del Corso. Siamo all’assurdo che in alcune città italiane e’ stato o verrà onorato Napoleone, mentre persino Torino, dove nacque nel 1820, ha riservato un agghiacciante silenzio al Re del nostro Risorgimento. Una  ennesima prova di una classe politica formata da pavidi e mediocri, asserragliati nel fortino del potere ed incapaci di fare i conti con la storia perché il loro destino è, al massimo, la cronaca del presente.