La scritta Tito e l’amicizia italo-slovena
Il commento di Pier Franco Quaglieni
Sul versante che guarda verso l’Italia del Monte Sabotino (legato alla storia della Grande Guerra e alle battaglie dell’Isonzo e del Carso ), oggi in territorio sloveno, continua a campeggiare la scritta TITO lunga 100 metri con lettere di 25 metri.
Un residuo della vecchia Jugoslavia a cui venne tolto l’aggettivo possessivo e “affettivo“ il “nostro“. Una forma di propaganda tipica dei regimi totalitari e autoritari come dimostrano, ad esempio, le scritte Duce, Dux, Mussolini ecc. nell’Italia fascista. Il culto della personalità e’ tipico infatti di quei regimi e Tito fu un dittatore in piena regola. Sanguinario con gli Italiani di Istria e Dalmazia infoibati dai suoi partigiani , ma anche sanguinario con gli stessi slavi e altre popolazioni presenti in Jugoslavia durante il suo lungo periodo di governo in cui ebbe un potere dispotico ed assoluto. Un anno fa l’incontro tra il presidente italiano e il presidente sloveno sembrava aver posto fine alle residue ostilità ed aver soprattutto aperto una strada di amicizia e collaborazione che sotterrasse finalmente il passato. La presenza del presidente sloveno alla foiba triestina di Basovizza stava a dimostrare una presa di coscienza storica del dramma delle foibe. La Slovenia e’ nata dalla decomposizione violenta della Jugoslavia titina dopo una lunga e terribile guerra civile. Si può pensare ragionevolmente che i nostalgici di Tito siano oggi un ‘esigua minoranza, ma una certa ostilità verso gli Italiani che ebbe origine già con la dominazione austriaca di quelle terre, rimane. L’avevo colto io nel 2007 quando guidai un pellegrinaggio laico da Fiume a Trieste nel ricordo dei 15mila infoibati. Il permanere di quella immensa scritta Tito c’è da chiedersi che significato abbia oggi. Un cimelio del passato regime rimasto a testimoniare una qualche nostalgia e nel contempo un implicito pregiudizio antitaliano? Il nome di Tito resta un elemento divisivo che rende difficile guardare avanti, come sarebbe auspicabile, all’Europa unita come superamento di tutti gli odi novecenteschi che hanno reso la storia un mattatoio. Tito rappresento’ un’ideologia che mescolo’ insieme comunismo e nazionalismo, creando una miscela esplosiva. Il fatto che si sia distaccato da Stalin non cancella le sue gravi colpe storiche anche ciò fece comodo alle potenze occidentali. Quella scritta cubitale rivolta verso l’Italia non è certo un segno di superamento delle ferite legate al dramma del confine orientale italiano. Sarebbe bene rimuoverla. In Italia giustamente nessuno tollererebbe nulla di simile che riguardasse Mussolini.
L’isola del libro
Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
Caterina Soffici “Quello che possiedi” -Feltrinelli- euro 17,00
Quanti e quali segreti sono racchiusi tra le mura della splendida villa nobiliare che dalla sommità di un poggio domina la vista di Firenze? ,E’ la sontuosa Villa del Grifo, 4000 mq con 500 anni di storia blasonata.
Qui ha trascorso la sua lunga vita l’algida contessa Clotilde Brunori Princi; da giovane di una bellezza eccezionale «…magnifici occhi d’oro, screziati di pagliuzze che cambiavano colore a seconda dell’ora del giorno, della stagione e dell’umore…».
Ora ha 82 anni, si oppone con tenacia alla malattia che la sta consumando, ed è sempre, comunque, impeccabile ed elegante, eccentrica e snob.
E’ lei l’anima della casa e domina sottilmente la sua unica figlia Olivia che, a quasi 50 anni, vive in un lussuoso appartamento della villa, sopra quello dell’anziana madre, alla quale resta poco da vivere.
I rapporti tra loro sono sempre stati tesi. La loro conflittualità ha veleggiato tra “non detti” e buone maniere, ma distanza siderale.
Ora sono adulte e l’ostilità è meno esplicita che nell’adolescenza di Olivia, ma continuano a scrutarsi e giudicarsi, senza mai parlarsi veramente per capirsi più a fondo.
In più, Clotilde non sopporta Giacomo, il genero rampante a arrampicatore che si è assestato in un comodo tran tran matrimoniale, dove è riuscito a ritagliarsi agevolmente ampi spazi di manovre libertine.
Olivia invece sta affondando nelle sabbie mobili della crisi di mezza età: i due figli sono ormai lontani e conducono le loro vite, il marito è spesso assente e lei combatte l’infelicità inseguendo una perfetta forma fisica, è vegetariana e corre per stemperare il malumore.
Su tutto aleggia un segreto terribile e scopriamo che la perfetta e bellissima vita esteriore di Clotilde è stata parecchio più difficile di quanto emerga in superficie.
Clotilde, fin da giovane e poi da sposata, era solita sparire per giorni a bordo della sua amata lancia Aurelia. Nessuno sapeva dove andasse e cosa facesse, ma la cosa ormai era stata accettata.
Ora, anziana e malata, una mattina di autunno scompare gettando nel panico la casa, e il lettore incomincia a conoscere la storia vera. Quella nascosta dietro l’impenetrabilità di questa ricca e nobile famiglia, abituata a feste sontuose, matrimoni di facciata, convenzioni…solitudine e vuoto cosmico.
Un magnifico romanzo in cui Caterina Soffici non smentisce la sua abilità nel tracciare storie di grande spessore e pathos.
Questa può essere l’occasione per rileggere anche il precedente romanzo dell’autrice, “Nessuno può fermarmi” -Feltrinelli- euro 16,00, del 2017.
Intrigante storia che narra come il giovane studente di filosofia, Bartolomeo, ritrova una lettera destinata alla nonna, in cui il nonno Bart viene ufficialmente dichiarato « Disperso, presunto annegato». E’ l’inizio della sua ricerca sulla vera sorte dell’antenato (del quale porta il nome), che in famiglia si diceva fosse morto al fronte.
La nonna non può svelargli nulla perché è morta da poco, mentre suo padre non l’ha mai conosciuto e la cosa non sembra interessarlo più di tanto.
Bartolomeo arriva a conoscere l’affascinante anziana signora inglese Florence che era stata amica dei suoi nonni, nel quartiere degli immigrati italiani a Londra, Little Italy. Dal suo racconto emergono appigli importanti che rimandano alla tragedia del 2 luglio 1940 -realmente accaduta- quando un siluro tedesco causò il naufragio della nave Arandora Star.
Aveva a bordo moltissimi internati italiani, civili innocenti deportati dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini all’Inghilterra, e vittime della xenofobia e del sospetto. Una tragedia in cui il mare inghiottì per sempre 446 passeggeri. Una morte orribile, ma ci furono anche alcuni superstiti che sopravvissero alle acque gelide, aggrappati a brandelli di relitti della nave.
Per molto tempo dopo il mare scaraventò a terra i corpi degli affogati, a centinaia, sulle coste dell’Irlanda del Nord e della Scozia; dove la pietà degli abitanti del luogo recuperò i cadaveri senza nome, dando loro almeno una sepoltura.
Bartolomeo riesce a rintracciare uno dei sopravvissuti. Un burbero anziano che forse aveva afferrato le mani del nonno nelle acque di ghiaccio, prima che la morte per assideramento lo inghiottisse per sempre.
Un romanzo in cui l’autrice tocca più temi; come la memoria, l’amicizia, l’emigrazione, la speranza, la guerra, il lutto…..in un crescendo che vi avvilupperà alle pagine tenendovi sulla corda fino alla fine.
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Bernhard Schlink “Donna sulle scale” – Neri Pozza- euro 18,00
Schlink è uno dei maggiori scrittori tedeschi contemporanei. E’ nato a Bielefeld nel 1944, e nel corso della sua vita è stato anche giudice presso la Corte Costituzionale della Renania Settentrionale Vestfalia fino al 2006, anno in cui è diventato professore universitario di Filosofia del diritto. Al suo attivo ha numerosi romanzi e racconti.
“Donna sulle scale” è ambientato tra Germania e Australia, e ruota intorno al quadro che ritrae una donna bionda e nuda, che scende lentamente delle scale: pallida, eterea, inafferrabile, bellissima ed enigmatica,
Dopo anni in cui se ne erano perse le tracce, ora il dipinto ricompare all’Art Gallery del Teatro dell’Opera di Sidney. E dietro c’è una storia intrigante.
La modella è Irene, e intorno a lei gravitano le vicende e i destini di tre uomini, incantati dal suo fascino. Sono il marito Gundlach, manager ricco e di successo, che ha incaricato il pittore Karl Schwind di ritrarre la moglie, senza aver previsto che l’artista se ne sarebbe innamorato perdutamente.
La gelosia spinge Gundlach a danneggiare ripetutamente il dipinto, che il pittore tenta ogni volta di restaurare. Ed ecco che la terza vittima dell’incanto di Irene è il giovane avvocato che ha l’incarico di stilare un contratto tra i due litiganti.
Irene è forte, autonoma, contesa tra il marito che vorrebbe esibirla come un trofeo e l’artista a cui fa da Musa ispiratrice; una sorta di merce di scambio tra i due contendenti. Poi arriva l’avvocato che se ne innamora in modo infantile e sprovveduto.
La storia si avvolge intorno al possesso, alla perdita, al disinganno e alla decisione della protagonista di inseguire la libertà, lasciandosi indietro tutti i contendenti. Scompare e con lei anche la tela.
La ritroviamo molti anni dopo, diventata una sorta di Robinson Crusoe al femminile, che vive in una baia solitaria sulla costa a nord di Sidney, dividendo le sue stagioni tra due ripari assai precari sulla spiaggia.
Si fa chiamare Irene Adler, ormai è un’anziana debole che ha dedicato la sua vita ad accogliere ed aiutare ragazzi sbandati ed ora, quando può e le forze glielo consentono, assiste la povera gente del luogo.
Il finale di partita con i suoi 3 contendenti si svolge in quell’anfratto di vita costiera, con un epilogo che scoprirete voi stessi.
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Andrea Maia “Torino la città e gli scrittori” -Graphot Editrice- euro 15,00
Questo è un libro che potete portarvi dietro come prezioso vademecum per scoprire quanta storia e cultura trasudino palazzi, caffè, vie e scorci vari di Torino, che sono stati testimoni del passaggio di personaggi di spicco.
L’autore è stato docente di Italiano e Latino in un importante liceo cittadino ed era solito portare i suoi studenti a fare visite di tipo letterario. Dunque una grande passione per Torino e la cultura.
Ora, 10 anni dopo il precedente “Torino strade e pagine”, ci guida lungo 8 nuovi percorsi letterari nel capoluogo subalpino, scanditi da varie tappe tra strade, palazzi, autori e scritti. E riannoda i fili che hanno legato non solo scrittori, ma anche altri intellettuali e artisti di peso, alla città nella quale hanno transitato, oppure vissuto per periodi più o meno lunghi.
Ed ecco una sorta di guida e un’antologia, in prosa e versi, di scrittori che alla città hanno dedicato intere pagine delle loro opere. Torino vissuta e raccontata attraverso poesie, confessioni, lettere e scritti vari di autori di epoche e paesi diversi, a partire dal 700 fino ad oggi.
Una piacevole e dotta carrellata tra le vie torinesi che inizia con il primo percorso dedicato alle rime di Francesco Pastonchi, poeta, professore e torinese d’elezione che rende omaggio alla storica via Po.
Seguono –tra gli altri- Jean –Jacques Rousseau che arriva 16enne a Torino; Mozart; quello di un’antenata di Oriana Fallaci che lei racconta nel suo romanzo postumo “Un cappello pieno di ciliegie”; e Gramsci che dalla Sardegna giunse in città nel 1911 per studiare all’Università.
I percorsi che seguono sono altrettanto dotti e affascinanti per chi vuole approfondire tappe che rimandano ad autori italiani dal 700 al 900 e includono nomi della levatura di Silvio Pellico, Edmondo De Amicis.
Per arrivare all’oggi, con le pagine che Giuseppe Culicchia ha dedicato al Caffè Torino in Piazza San Carlo, e passando anche per Via Biancamano e l’avventura editoriale dell’Einaudi che lì fu fondata.
Tra gli altri percorsi, ci sono scrittrici e scrittori del 900, con pagine della Guglielminetti, Guido Gozzano, Montale, Calvino, Natalia Ginzburg e altri autori.
Poi poesia, teatro e politica nel secondo Ottocento. La città visitata e rappresentata da scrittori italiani come Tommaseo, Mameli, Tommasi di Lampedusa; e da stranieri, tra i quali De Maistre e il russo Dobroljubov.
Seguono tappe dedicate agli ospiti dal 600 all’800, con Manzoni, Melville, Twain e Dumas padre; per arrivare a percorsi che rimandano a teatro, critica e poesia dialettale e finire con un iter sulle orme di Vittorio Alfieri e Massimo D’Azeglio.
Insomma un modo colto e accattivante per scoprire anche dati inediti o poco noti che ammantano Torino di un fascino in più. Pagine che vi fanno da guida nella storia, nei locali, nei palazzi nelle strade e nelle grandi e famose vite che hanno transitato in città.
Lo stendardo di Giove
LIBRI / EMANUELE RIZZARDI CI RACCONTA LA STORIA DI ROMA E DEGLI ULTIMI PAGANI
Un testo profondo e drammatico che illustra le complesse dinamiche della caduta dell’Impero Romano, delle grandi invasioni barbariche, ma soprattutto della fine del mondo pagano a vantaggio dell’unica religione cristiana”
Lo storico e bizantinista Emanuele Rizzardi ha pubblicato nel 2021 la sua nuova opera letteraria.
Il giovane scrittore legnanese, già ospite su queste pagine per le sue pubblicazioni meno recenti, “L’ultimo Paleologo” e “L’usurpatore”, vive nella cittadina lombarda di Legnano e propone romanzi storici non brevi, in contesti poco conosciuti.
Partiamo subito con le domande:
Nei tuoi precedenti testi ti sei occupato di terre lontane: Anatolia, Georgia, Grecia. Oggi ci proponi un’ambientazione tutta italiana, come mai?
Perché proprio in Italia assistiamo alle gesta, alle parole e ai pensieri degli ultimi pagani di Roma, ormai in piena decadenza e vicini alla scomparsa totale a causa delle persecuzioni dell’imperatore Teodosio e all’imporsi del Cristianesimo, la religione che tutti noi conosciamo, ma che per una parte dell’Occidente era solamente un culto monoteista orientale, alieno, estraneo alle radice e alle tradizioni dei padri e della patria. E proprio in nome della difesa delle loro idee, gli ultimi pagani tentarono un’ultima, vivace resistenza che culmina con la battaglia del fiume Frigido. Una storia drammatica e già segnata, intrisa di mistica e spiritualità, che è affasciante proprio per questi aspetti.
Un Impero Romano quindi molto lontano dai fasti di Augusto o Traiano; chi sono i suoi protagonisti? Hai deciso di inserirli nella tua Opera?
Naturalmente, ogni mio romanzo fino ad ora è basato sulla realtà e su quanto fatto da personaggi realmente esistiti.
Il cuore di quella che noi chiamiamo, un po’ ingenuamente “rivolta dei pagani”, ha tre protagonisti principali.
Il magister Arbogaste, comandante supremo delle legioni, che costituisce la massima autorità militare di tutto l’impero e ha il compito di difenderlo dai barbari di Germania ma anche, secondo il suo punto di vista, dalla crescente influenza del cristianesimo e della corte orientale di Costantinopoli.
Flavio Eugenio, l’imperatore che si contrappone a Teodosio e che viene supportato dai pagani. Si tratta di un uomo mite e di fede cristiana, ma di posizioni tolleranti e di buona famiglia… e proprio per questo costituisce una figura assolutamente straordinaria; un cristiano nominato in Occidente imperatore da un gruppo di pagani, per sfidare un imperatore in Oriente, a sua volta cristiano.
Infine, Nicomaco Flaviano, ricchissimo e potentissimo senatore pagano che ha previsto la caduta del cristianesimo attraverso gli oracoli…
Una lettura alla portata di tutti, ma che invita a riflettere. Quale messaggio vuoi lanciare con questo tuo testo?
L’epoca tardoantica è un vero e proprio vivaio di eventi che toccano i giorni nostri: le grandi migrazioni, i conflitti religiosi, la corruzione, il ruolo delle istituzioni, l’eterna lotta delle periferie contro il potere centrale, i movimenti separatisti… insomma, c’è proprio tutto. Con questo libro voglio lasciare aperti importanti spunti di riflessione, tra un momento di intrattenimento e l’altro.
Di certo, il messaggio più palese e l’eterno cambiamento delle cose e il fatto che tutti noi, in un tempo remoto, siamo stati qualcos’altro.
Che luoghi andiamo ad esplorare con questa narrazione? I lettori troveranno città e villaggi a loro noti?
Per la maggior parte direi che è così. Se escludiamo alcune zone delle moderne Germania e Francia, l’ambientazione è tutta italiana e le città di oggi sono le stesse del 394, grossomodo.
Milano, Roma, Ravenna, Aquileia, Torino, Vercelli, Trento, ma anche luoghi meno noti per i fatti storici del tempo come Altino, Como, Lecco, Bergamo, Castelseprio e tanti altri.
Per conoscerti, oltre a leggere i tuoi testi, come possiamo fare? Vuoi condividere qualcuno dei tuoi contatti?
La pagina del libro è su Facebook e Instagram per chi vuole essere in contatto con me: https://www.facebook.com/UltimoPaleologo
https://www.instagram.com/ultimopaleologoemanuelerizz/
Questa intervista è concessa per esclusiva autorizzazione di Associazione Culturale Byzantion a cura di L. S.
Inizia oggi sul “Torinese” la pubblicazione a puntate del romanzo “L’orto fascista” di Ernesto Masina
L’AUTORE DICE DI SE’ Sono un vecchietto che a 76 anni, stanco di leggere romanzi con una infinità di personaggi difficili da ricordare (ed un inizio di arteriosclerosi non aiuta), trame complicate e finali scontati, ha deciso di tentare di scrivere il libro che gli sarebbe piaciuto leggere.
E’ nato così “L’orto fascista” che non è nè vuole essere un romanzo storico o politico. E’ una tragicommedia (più commedia che a volte sfiora la pochade) che si svolge in un piccolo paese della Valcamonica nel 1943 all’atto dell’invasione tedesca in Italia.
Il romanzo è stato accolto benevolmente dalla critica. Alcuni mi hanno paragonato a Piero Chiara (con mio immenso piacere in quanto da ragazzo ebbi occasione di frequentare lo scrittore varesino e di stimarlo), altri (con minor piacere) al “miglior” Andrea Vitali. I giornalisti del quotidiano “La Stampa” hanno collocato il mio scritto nel sito “Lo Scaffale” ove vengono ospitati solo i libri che non dovrebbero mancare in ogni biblioteca privata.
Spinto dall’entusiasmo ho scritto e pubblicato “Gilberto Lunardon detto il Limena” e quindi “L’oro di Breno” che sono altrettanto piaciuti.
Quest’anno, per festeggiare i miei 84 anni, ho pubblicato il giallo “Il sosia.” Non avendo nessuna esperienza in questa tipologia di romanzi temevo un fiasco. Quindi è stata con grande meraviglia l’aver ricevuto tante mail da persone, anche sconosciute, che si congratulavano con me e che mi esortavano a continuare. Ho altri due romanzi nel cassetto ed ho intenzione di editarli il prossimi Marzo e Ottobre. Infatti a Ottobre uscito “Don Arlocchi e il mistero della statua di Minerva”.
Ernesto Masina
***
A mia moglie Letizia
che da 52 anni mi sopporta, ma che credo sarebbe ben lieta di avermi al suo fianco
per altrettanto tempo.
Questo romanzo è pura opera di fantasia. I luoghi citati appartengo- no solo alla geografia dell’invenzione letteraria. Nomi, personaggi, fatti e avvenimenti sono invenzioni dell’autore e hanno soltanto lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.
ERNESTO MASINA
L’Orto Fascista
Romanzo
PIETRO MACCHIONE EDITORE
I
Il Federale aveva attraversato tutto il corso principale, ergendosi a bordo della sua vettura scoperta con la boria di un conquistatore e sventolando in alto la mano destra in un prolungato saluto romano. Rispondeva con sussiegosa cordialità ai tanti “Eia! Eia! Alalà!” delle camicie nere schierate ai lati della strada, alle quali si univa, più per convenienza o curiosità che per convinzione,
qualche residente. Con la mente unicamente rivolta a Roma e al “suo” Duce, era giunto, circondato da un nugolo di camicie nere, a inaugurare il locale Orto di Guerra, detto anche Orto Fascista.
Dopo aver lanciato nel 1925 la Battaglia del Grano, Mussolini, vista la situazione economica dell’Italia, da sempre dipendente dall’estero nel settore agro-alimenta- re, aveva indetto la campagna dell’Orto di Guerra, invitando tutti i comuni d’Italia ad affidare alla popolazione la coltivazione delle aree pubbliche. Si era in piena guerra, tra il 1941 ed il 1942.
L’invito, che era sentito come un obbligo dagli ammini stratori locali, timorosi di essere giudicati dei sovversivi se non si fossero adeguati in tempo agli “alti insegna- menti del Duce degli italiani”, in Valle Camonica non era stato accettato con grande entusiasmo. Persino a Breno, considerato il paese della valle più vicino al Duce e agli ideali fascisti, tanto da annoverare tra i suoi concittadini più illustri persino un docente di Mi-stica Fascista all’Università di Milano, la creazione del- l’Orto era stata continuamente rinviata.
Alla fine il Segretario della locale sezione del Partito Nazionale Fascista aveva costretto il Podestà a prendere una decisione: altrimenti avrebbe informato il Segretario Provinciale dell’ostruzionismo del primo cittadino al volere del Duce.E fu così destinato a diventare Orto Fascista un piccolo appezzamento di terreno, pieno di sassi ed erbacce, situa- to in fondo al paese, giù verso il fiume, requisito a un contadino, tale Bettino Brichetti, notoriamente antifascista. Dopo che le squadracce in camicia nera gli propinarono tre abbondanti bevute di olio di ricino nello spa- zio di due mesi, egli abbandonò il paese rifugiandosi, così si diceva, presso un parente nella pacifica Svizzera. Giunto all’Orto Fascista, il Federale di Brescia scese dalla vettura, che aveva percorso gli ultimi cento metri della strada sballonzolandolo a causa del pessimo stato dell’acciottolato. Ad imitare il Duce – tutti i gerarchi cercavano di farlo – appoggiate le mani ai fianchi, petto in fuori, pancia in dentro, aveva, con voce tonante, iniziato ad arringare la folla sostenendo “l’importanza vitale di queste istituzioni che in tempo di guerra e in attesa dell’immancabile vittoria finale, assicuravano all’Italia combattente cibo sicuro, e ai giovani, con la coltivazione del campo, la partecipazione al raggiungimento del traguardo fascista che voleva l’Italia autosufficiente in tutto”.
In effetti il campo non misurava più di 30 metri per lato, era infestato da erbaccia ostinata, pungente e primordiale e pareva chiaro che la qualità del terreno non avrebbe potuto generare che qualche stentato tubero.
Mentre parlava, il Federale si accorse che, nel tentativo di mascherare una poco maschia pancetta e trattenendola il più possibile, i suoi pantaloni, non più sostenuti dalle abituali rotondità, stavano scivolando verso il basso. Si affrettò così a concludere il discorso e, dopo aver urlato con la completa estensione delle sue corde vocali “DUCE” ed aver ricevuto in risposta un altrettanto roboante “A NOI!!!!”, si era chinato rapidamente verso un cuscino nero, portato da un Figlio della Lupa, ovviamente in divisa. Dal cuscino, sul quale era ricamato in oro un fascio littorio, aveva prelevato un paio di luccicanti forbici ed aveva tagliato, tra gli applausi, un simbolico nastro tricolore che due avanguardiste, in camicia e calze bianche, basco e gonnellina nera, tenevano teso all’altezza di un varco nella siepe che delimitava il campo. Il Podestà, che era stato sino a quel momento in disparte in doveroso silenzio, si avvicinò al Federale, gli strinse, con devozione e quasi genuflettendosi, la mano e passò quindi a presentare alcune dame intervenute alla cerimonia, alle quali il Federale, battendo romanamente i tacchi dei lucidissimi stivali, fece un cavalleresco baciamano. Fra le signore spiccava per statura e bellezza la moglie del Podestà, signora Lucia, maestra presso le locali scuole, che era stata nominata “Custode dell’Orto Fascista”.
Fu quindi la volta dei notabili: il Pretore Battipede, il Direttore del locale ospedale, prof. Parola, l’avvocato Vi- tali, squadrista della prima ora, il medico condotto, dott. Pasqualicchio, il Maresciallo dei Reali Carabinieri ed il Prevosto, mons. Cappelletti che, dopo l’ossequio, chiese al Federale l’autorizzazione alla benedizione del campo “ove, con l’aiuto di Dio, per maggior gloria del Duce, senza esborso di alcun talento, giovani mani avrebbero dal terre- no tratto frutti in abbondanza”.
Dopo il pranzo presso il miglior ristorante del paese, ribattezzato per l’occasione Ristorante Impero, il Federale se ne era ritornato a Brescia, portando con sé il ricordo dell’affascinante moglie del Podestà. Da quel giorno i suoi pensieri più ricorrenti erano ispirati dal Duce e dalla sublime visione della signora Lucia.
Archiviata la cerimonia, venne abbandonato, almeno per il momento, anche ogni progetto di coltivazione dell’Orto Fascista. Le notizie che arrivavano sull’andamento della guerra, pur se efficacemente censurate, facevano intravede- re la debolezza dell’Italia e creavano qualche imbarazzo all’amministrazione fascista. Ma, passata l’estate ed avvicinandosi l’apertura delle scuole, la signora Lucia, o meglio la maestra signora Lucia, come tutti la chiamavano, si ricordò di essere stata nominata “Custode dell’Orto Fascista”. Bisognava che all’inizio dell’anno scolastico si prov-vedesse alla nomina di squadre di bambini, della quarta e della quinta classe, perché si dedicassero alla nuova incombenza procedendo alla semina di qualche ortaggio o di patate, piante adatte al povero terreno.
II
La signora maestra era diventata moglie del Podestà, il rag. Benvenuto Bertoli, ai tempi impiegato di buon livello della direzione della Banca di Valle Camonica, perché, stufatasi di “correre la cavallina”, aveva pensato bene di accasarsi con l’ultimo dei suoi amanti.
Aveva fatto la moglie fedele per qualche tempo ma, quan- do il marito le confidò le sue mire politiche, pensò di potergli dare una mano circuendo qualche pezzo grosso del fascismo locale.
Le grazie non le mancavano, l’esperienza nemmeno. Il marito, facendo finta di nulla vedere e nulla sentire, non la ostacolava certo. Il gioco le piaceva, appetiti sessuali ne aveva, trascurata sempre più dal coniuge che, finito il lavoro in banca, si dedicava anima e cuore al Partito. Cominciò quindi a darsi da fare. A 37 anni era, probabilmente, all’apice della sua bellezza. Un paio di gambe lunghe e ben tornite sorreggevano due chiappe sode che formavano un gran bel sedere. I fianchi, un po’ larghi, terminavano in una vita snella e priva di qualsiasi traccia di grasso. Il seno, alto e pieno, non era particolarmente grande ma prominente, i capezzoli piccoli sembravano, come direbbe il poeta, due ciliegie mature. Il viso, modellato da lunghi capelli neri sempre ben pettinati, era dominato da un paio di occhi verdi che, secondo la luce del giorno, sfumavano verso l’oro. Un gran bel pezzo di donna, insomma. La prima occasione si era presentata l’anno successivo al matrimonio, quando la maestra era stata mandata, insieme a due colleghe, ad accompagnare le classi quarta e quinta a Pisogne, all’inaugurazione del nuovo pontile sul lago d’Iseo, chiara opera in stile fascista con i pali di sostegno della passerella trasformati in fasci littori. Vi partecipavano tutte le autorità della valle ed era stata assicurata anche la presenza del Segretario Provinciale del partito “se non occupato in altri importanti incarichi”. Il Segretario, tale Manucelli Abramo, era un reduce della guerra di Spagna, ove si era messo in vista per la collabo- razione e per il servilismo che aveva dimostrato nei riguardi dei franchisti e si era specializzato nell’interrogatorio dei “rossi” che cadevano nelle loro mani. Non lo faceva con cattiveria, ma con la furbizia caratteristica dei contadini lombardi, e riusciva a far dire agli avversari cose che non avrebbero confessato nemmeno tra dolorose torture.
Ben altra storia aveva vissuto in Africa. Pochi giorni dopo essere arrivato in Libia aveva contratto l’ameba, una brutta infezione che dava febbri abbastanza brevi ma violentissime, precedute da brividi, tremori e spasmi muscolari che lasciavano, al loro scomparire, una spossatezza totale e dolori alle articolazioni. Dopo il primo attacco era stato immediatamente rimpatriato e la sua avventura in terra d’Africa definitivamente chiusa.Il Manucelli era soprannominato “longa manus”, sia per- ché curava gli interessi lombardi di alcuni pezzi grossi del fascismo trasferiti a Roma al seguito del Capo, sia perché, appena possibile, cercava di palpeggiare le parti morbide di qualsiasi donna gli capitasse a tiro. Egli, che già soffriva di complessi per il nome che i geni- tori gli avevano appioppato, più difficile da portare ora che le leggi razziali stavano per essere promulgate, in effetti non aveva mai combinato molto con le donne, ma lasciava che la leggenda sul suo conto proliferasse. Era sempre in caccia e attentissimo a cogliere qualsiasi occasione propizia. La maestra e le sue colleghe erano arrivate a Pisogne con il trenino che percorreva la Val Camonica e arrivava sino a Brescia, in divisa regolamentare: camicia e calze lunghe e bianche, gonna e scarpe nere, basco nero sulle ventitré, molto civettuolo. Lucia era veramente uno splendore e attirava lo sguardo compiaciuto di molti presenti, uomini e donne. Le colleghe decisero che sarebbe salita lei sul palco delle autorità in rappresentanza della loro scuola. Nonostante non ne avesse assolutamente voglia, dovette accettare per l’insistenza delle altre maestre.
Nel frattempo era arrivato il Manucelli, a bordo della so- lita vettura decapottabile, tra gli urlacci dei camerati che inneggiavano al Duce e al suo devoto Segretario della provincia di Brescia. Ancora sull’auto, rimanendo in pie- di sul predellino che gli permetteva di non mostrare la statura assai bassa, il Manucelli sfoderò ampi saluti ro- mani verso il palco, alla sua destra, alla sua sinistra e, non si sa per quale ragione, anche verso il lago. La cosa non sfuggì al solito gruppetto di elementi contrari al Regime che, pur rischiando la consueta purga a base di olio di ri- cino, sghignazzarono rumorosamente.
Il Segretario, nel tentativo di manifestare giovinezza e forza fisica, raggiunse il palco saltellando da uno all’altro dei pochi scalini che vi salivano. Ancora una volta si rivolse ai presenti accettando gli applausi e salutando romanamente. Il palco si era riempito delle autorità e dei rappresentanti delle varie associazioni e scuole che, strattonandosi senza alcun riguardo, cercavano di portarsi in prima fila vicino al Manucelli. In tutto questo trambusto Lucia, che avrebbe preferito rimanere defilata, si trovò spinta a fianco del Segretario che la guardò intensamente, spogliandola con lo sguardo e rimanendone assolutamente soddisfatto. L’ingegnere Domeneghini, progettista del pontile e Direttore dei lavori, nonché, guarda caso, Podestà del paese, si avvicinò al microfono e, cercando di non dare le spalle al Segretario Provinciale, iniziò a parlare dando il benvenuto alle autorità, ai capi delle rappresentanze e a tutti i presenti, passando, poi, ad illustrare la nuova opera voluta dal Fascismo e dal suo Duce per il miglioramento della navigazione sul Lago di Iseo.
Appena il Domeneghini iniziò a parlare, Lucia sentì una mano palpeggiare la sua chiappa sinistra, scendere velocemente verso la parte interna della coscia per ritornare poi da dove era partita prendendone decisamente posses- so. Il primo istinto fu di rifilare un gran ceffone al cafo- ne che si era permesso tali avances, ma, immediatamente, si rese conto che il palpeggiatore non era altri che il Segretario Provinciale e che tra lei e la folla non c’era che qualche metro. Avrebbe quindi provocato uno scandalo e una sicura ritorsione nei suoi confronti e in quelli di suo marito. E poi… tutto sommato, quella strizzatina non le dispiaceva per nulla. Per fortuna il Domeneghini non si addentrò nei partico- lari tecnici che avevano permesso la realizzazione dell’ope- ra, cosa che, pedantemente, cercava di infilare sempre nella presentazione delle costruzioni realizzate su suoi pro- getti. Progetti che, riteneva, comprendessero sempre solu- zioni ardite ed innovative.
Si limitò a spiegare come la parte mobile del pontile si sarebbe comportata in situazioni di secca del lago o, al contrario, di aumento dell’altezza della superficie dell’ac- qua, e terminò inneggiando al Partito Fascista e al suo Duce “ispirato direttamente da Dio per rendere l’Italia grande e forte tra le nazioni civili!”.
Poi il solito “DUCE!” con l’immancabile risposta della folla “A NOI!”. Dopo il Domeneghini fu il Segretario Provinciale a prendere la parola. Il discorso, nella sua ovvietà, fu brevissi- mo, come se il Manucelli avesse altro per la testa, e chi pensò questo certamente non sbagliava. “Camerati, siamo qui riuniti per ringraziare ancora una volta il nostro Duce supremo che, nonostante i grandi problemi che lo assillano, ha desiderato che venisse compiuta questa opera per il miglioramento della vita del suo popolo. Come figli grati facciamo voti perché, col soste- gno della nostra riconoscenza, possa avere la forza di continuare a guidarci verso l’immancabile vittoria finale”.
Scroscio di applausi. “Duce a noi! Eia! Eia! Alalà!” Dopo la benedizione della nuova opera da parte del Parroco di Pisogne, l’assemblea si sciolse e il Manucelli chiamò a sé un gruppo di suoi seguaci con i quali discusse animatamente per diversi minuti, dando a ciascuno un compito da portare a termine. Ci si trasferì quindi in municipio ove, nella sala consilia- re, era stato predisposto un ricevimento al quale parteciparono praticamente tutti quelli che erano stati sistema- ti sul palco delle autorità.
Lucia si staccò dal gruppo cercando di raggiungere le sue colleghe e i bambini, ma fu dissuasa dal farlo, presa let- teralmente per un braccio da un milite fascista che, senza fornire alcuna spiegazione, la accompagnò in municipio. Erano già le 17: Lucia era sulle spine perché lei e le sue colleghe dovevano prendere il trenino della linea Brescia- Edolo, detto il Gamba-de-legn a causa della sua lentez- za, che partiva da Pisogne per Breno alle 17.25.
Va be’ che uno dei vanti del fascismo era la puntualità dei treni, ma ciò si riferiva alle linee primarie (che erano poi la Milano-Firenze-Roma-Napoli e la Torino-Milano- Venezia) mentre nelle secondarie, che ricoprivano la maggior parte della rete, regnava il caos più assoluto.
Immaginatevi una linea morta come la Brescia-Edolo, che collegava paesini sperduti della Valle Camonica nella quale la maggior parte degli abitanti non era in grado di leggere neppure un orario ferroviario. Il Gamba de legn viaggiava a vista e forse il macchinista era uno di quelli che ignorava gli orari e non aveva così gran fretta di raggiungere la meta. Abitualmente, comunque, portava ritardi di varie decine di minuti che potevano dilatarsi sino ad oltre un’ora, indipendentemente dalle situazioni atmosferiche. Entrata nella sala consiliare, Lucia si trovò ben presto vicino il Manucelli che con assoluta gentilezza e, quasi, deferenza volle sapere chi fosse, perché si trovasse a Pisogne… ecc. ecc.
Lucia diede tutte le risposte tenendo pudicamente il capo piegato verso il basso, e poi, spiegando che doveva aiuta- re le sue colleghe a sistemare gli scolari sul vagone del treno loro riservato per ritornare a Breno, si scusò e chiese il permesso di ritirarsi. Il Manucelli, con un sorriso ambiguo sulle labbra, si dimostrò comprensivo e, dopo aver tenuto molto più del necessario per un saluto la mano di Lucia, con un galante inchino ed un batter di tacchi gliela baciò rumorosamente, rimanendo poi lunga- mente a guardarla mentre si allontanava.
La storia, quella con la S maiuscola, non riuscì mai ad accertare se in effetti il motore del “Gamba de legn” quella sera si mise a fare le bizze motu proprio, o se qual- cuno gli diede un aiuto. Fatto sta che quella sera il treni- no, arrivato a Pisogne, non volle in alcun modo riprendere la strada verso Breno.
Non esisteva altro mezzo capace di trasportare i 42 bam- bini e le tre insegnanti sino al paese di origine, ma anche se si fosse riusciti a rintracciare una decina di automobili tra Pisogne ed i paesi vicini, sarebbe stato impensabile, in periodo di autarchia, usare un così cospicuo quantitativo di benzina per effettuare il viaggio. Si decise, quindi, di rimandare la partenza della scolaresca sino a quando il treno non fosse stato messo in condizione di ripartire.
A Pisogne esisteva una bella Colonia Elioterapica del- l’Opera Nazionale Fascista – anche se la stessa era stata costruita con la manovalanza degli alpini e con i contri- buti raccolti dall’Associazione Nazionale Alpini della Valle Camonica. Fu quindi presa la decisione di riaprir- ne un’ala e di mettere a disposizione due camerate con 42 lettini più due letti destinati alle sorveglianti.
All’indomani scolaresca ed insegnanti avrebbero fatto ritorno alle loro case. Dalla Stazione dei Reali Carabinieri di Pisogne fu inviato un fonogramma ai colleghi di Breno affinché le famiglie fossero avvisate e tutti dormissero una notte tranquilla.
Già, due letti per adulti. Ma le maestre erano tre! Nessun problema: una avrebbe dormito in albergo. Caso strano, anche questa volta fu scelta Lucia e, caso ancora più stra- no, nell’albergo destinato ad ospitare Lucia aveva la stanza anche il Segretario Provinciale.
I bambini furono rifocillati alla bell’e meglio. D’altra parte pochi avevano appetito, eccitati come erano dalla novità che li faceva sentire in vacanza.
Lucia, che era stata nominata dal Direttore responsabile della comitiva, ancora una volta non voleva lasciare bambini e colleghe ma non poté desistere, data l’insistenza delle due maestre e dato che il Segretario, che ben conosceva suo marito, le aveva fatto pervenire un invito ufficia- le alla cena che si teneva nel ristorante dell’albergo ove le era stata riservata la stanza.
Al suo arrivo in albergo, Lucia non riuscì neppure a sali- re nella camera a lei destinata per darsi una rinfrescata, perché la cena stava per essere servita e tutti i commensali erano già seduti a tavola. Entrando nella sala del rist rante si accorse che un solo posto era ancora libero, ovvia- mente a lei destinato: quello alla destra del Manucelli. Quindi vi si sedette, accolta da un gran sorriso del Segretario, un sorriso strano, quasi da conquistatore, al quale seguì una frase che la lasciò alquanto perplessa: “Uno splendido fiore dovrebbe essere circondato da miglior compagnia. Spero non mancherà tempo perché possa ricevere gli omaggi dovuti!”
La cena si trascinò tra insulsi discorsi e numerosi brindi- si, naturalmente al Duce, all’opera quel giorno inaugura- ta, al suo progettista… ecc. ecc. Mentre stavano servendo il caffè, o meglio, il surrogato del caffè – un miscuglio di estratto di cicoria e di altre erbe di prato – il Manucelli sussurrò a Lucia:
“Io devo risolvere qualche piccolo problema, ma quando arriverò alla mia camera, la 122 – e qui depositò nella mano di Lucia la chiave della stanza – spero, anzi sono sicuro, di trovarci il fiore più bello che mai abbia incontrato”. Lucia arrossì violentemente, e salutando con un inchino tutti i presenti, lasciò la sala del ristorante.
Prima di salire le scale dovette fermarsi a sedere su una poltrona che si trovava ai piedi della scala, perché le gambe non la reggevano. Doveva calmarsi, ragionare più freddamente possibile per decidere se ignorare la propo- sta – l’ordine? – del Manucelli o se assecondare il suo desi- derio. Di mezzo ci poteva anche essere il futuro politico del marito e poi, se avesse deciso di incontrare il Ma nucelli, sarebbero state corna quelle fatte a un coniuge che gradiva qualsiasi sua collaborazione per ingraziarsi le alte sfere? Doveva sentirsi un’eroina, perché si immolava per il bene del marito, o una poco di buono perché, in fin dei conti, l’invito ricevuto la intrigava? Ci pensò su per una decina di minuti e poi decise di giocarsi l’avven- tura. Con le gambe che ancora le tremavano salì le scale e si diresse alla camera 122. Intanto il Manucelli stava discutendo con i suoi accoliti del programma del giorno seguente, ma non si sentiva molto bene. Aveva qualche brevissimo brivido di freddo ed un certo nervosismo interno, ma ritenne che i primi potessero attribuirsi al cibo pesante e abbondante che ave- va ingurgitato, e il secondo all’avventura che stava per vi- vere. Lasciò anche lui la sala da pranzo ma stava ancora meno bene e faticò a salire le scale.
Quando aprì la porta della sua stanza e intravide, nel buio, la sagoma di Lucia, dimenticò qualsiasi malessere e si sentì rinascere. Rimase un attimo al buio, quasi incre- dulo di quale fortuna gli fosse capitata, ma poi accese decisamente la luce ed ammirò con vivo piacere quanto aveva davanti. Non sapeva bene come iniziare l’abbordag- gio, ma decise di essere gentile e, se possibile, spiritoso. “Vado un attimo in bagno ma quando ritorno spero di poter vedere qualcosa di più di questo bel fiore”.
Anche Lucia non sapeva bene come comportarsi. Tanto per cominciare, si sbottonò il vestito e lo lasciò cadere a terra, rimanendo in guêpière e calze di seta e si rimise ferma, quasi sull’attenti, in mezzo alla stanza, dando le spalle alla porta del bagno come a lasciare qualsiasi inizia- tiva al suo prossimo amante.
Il Manucelli intanto, in bagno, si stava lavando i denti ma, improvvisamente, fu scosso da brividi violenti e da un tre- more che non riusciva a controllare. Capì subito che una violenta febbre lo stava assalendo e gli venne impellente il desiderio di stendersi per non cadere. Spalancò la porta e crollò sul letto quasi privo di conoscenza.
Lucia non si mosse per qualche secondo, non riuscendo a comprendere quale gioco amoroso il suo partner volesse praticare. Non aveva la forza di girarsi. Sentiva il letto scricchiolare sotto gli spasmi del Manucelli e un suono quasi di nacchere che, ben presto se ne rese conto, era pro- vocato dallo sbattere dei denti dell’uomo. Alla fine si voltò e vide il Segretario Provinciale, terreo in volto, ballonzola- re sul materasso, il viso contratto in un ghigno che dimo- strava grande sofferenza.
Lucia non sapeva cosa fare. Gli si accostò, istintivamen- te gli mise una mano sulla fronte e quasi si scottò. Il Manucelli doveva avere la febbre a quaranta! Che fare? Corse in bagno, bagnò una salviettina da bidet e la pose sulla fronte del malato che rispose con un mugolio di piacere e riconoscenza. Ben presto la salviettina divenne calda e lei la rimosse, corse in bagno, la mise sotto il rubinetto dell’acqua fredda, la strizzò e ritornò in camera riposizionandola sulla fronte.
Il tremore stava esaurendosi, probabilmente perché la temperatura aveva raggiunto una certa stabilità. Trovò in bagno un’altra salvietta e una bacinella. La riempì, vi immerse la salviettina ed andò a sedersi sul letto di fianco al Manucelli. Cominciò a cambiare sistematicamente ogni dieci minuti le pezzuole sulla fronte del malato, il quale sembrava essersi assopito e solo ogni tanto allungava una mano per accarezzare la coscia di Lucia, quasi volesse accertarsi della sua presenza.
Così passò la notte. Alle sei la donna, in punta di piedi per non svegliare il Segretario che sembrava caduto in un sonno ristoratore, lasciò la stanza, uscì dall’albergo e si incamminò verso la Colonia Elioterapica. Alle otto il Manucelli si svegliò. Si sentiva come se lo avessero bastonato in tutto il corpo ed era debole come non si era sentito mai.
Con estrema fatica si alzò, andò in bagno e si fece, con mano malferma, la barba. Si pettinò e scese al bar dell’albergo per prendere un caffè. Al bar erano già presenti buona parte dei suo scagnozzi che avevano saputo dall’albergatore che il loro capo si era portato in camera la bella maestra di Breno, con la quale aveva passato la notte.
All’apparire del Manucelli stavano per applaudirlo per la nuova avventura, ma rimasero bloccati nel vederlo invecchiato di 10 anni, bianco in volto, con un paio di occhiaie violacee e quasi incapace di restare diritto. Che femmina doveva essere quella maestra signora Lucia per essere riuscita a ridurre il leggendario Segretario Provinciale in quelle condizioni!
(continua)
La foto di Vincenzo Solano
Magnifica Torino / Meravigliosa anche vista da casa
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Ho avuto qualche polemica con Angelo Del Boca in passato, ma non ho mai disconosciuto la sua buonafede. La morte del giornalista e saggista ha portato a riscrivere del colonialismo fascista di cui egli è stato uno dei massimi studiosi, anche se Del Boca non era neppure laureato
Torino e i suoi teatri
1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.
1 Storia del Teatro: il mondo antico
Per scaramanzia non lo diciamo a voce troppo alta, ma le cose sembra stiano migliorando e si ha la comune impressione che, poco a poco e con le dovute precauzioni, si possa tornare a togliersi qualche sfizio.
Il mese scorso io stessa ho riscoperto il piacere di andare al cinema e, lo ammetto, mi è parso un delizioso diletto dal gusto antico, sedersi – distanziati- sulle poltroncine, osservare le luci che si assopiscono, quell’attimo di buio afono che separa l’inizio della pellicola dall’incessante parlottio delle pubblicità. Le piccole cose dunque non sono poi così tanto piccole: i divertimenti, le passioni, gli “hobbies” fanno parte di noi così come i grandi insegnamenti dei libri e della scuola.
Torino ovviamente offre una molteplicità di scelte non indifferenti per quel che riguarda come trascorrere il tempo libero, le vie del centro brulicano di locali dove sedersi per un aperitivo, le panchine lungo il Po costeggiano il fiume sia per i viandanti affaticati che per le coppiette innamorate e le sale dei cinema sono nuovamente pronte ad accogliere gli amanti della celluloide. Eppure tra i tanti modi di occupare una serata ce n’è uno che talvolta passa in sordina: andare a teatro.
In questo nuovo ciclo di articoli vorrei proprio dedicarmi a raccontarvi qualcosa dei maggiori teatri torinesi, quali il Gobetti, il Carignano o ancora il celeberrimo Teatro Regio, nella speranza – cari lettori- di intrattenervi piacevolmente, di narrarvi qualcosa di nuovo o di cui vi eravate momentaneamente dimenticati e, soprattutto, con l’augurio di spingervi a passare qualche piacevole serata estiva in compagnia di attori e musicisti.
Tuttavia prima di addentrarmi nel vivo dell’argomento, vorrei proporvi una più che breve storia del teatro e dello spettacolo, a partire dalle origini fino alla contemporaneità. Va da sé che la materia è assai vasta, complessa e articolata, tenterò dunque di svolgere l’esposizione nel modo più esaustivo possibile, cercando di non tediarvi con eccessivi cavilli.
Che queste letture siano appunto uno svago, un breve passatempo mentre osservate lo scorrere del fiume o sorseggiate un Martini al Caffè Torino.
La parola “teatro” deriva dal greco “θέατρον” (théatron), “luogo di pubblico spettacolo”, termine che rimanda al verbo “θεάομαι” (theàomai) “guardare”, “essere spettatore” e indica un insieme di diverse discipline che vanno a concretizzarsi nell’esecuzione di un evento spettacolare dal vivo.
Il teatro ha una storia antichissima, pare infatti che ancora prima della tragedia greca fosse praticato nell’antico Egitto, sotto forma del culto dei “Misteri di Osiride”.
Il primo punto da sottolineare è che la “storia del teatro” non equivale alla “storia della drammaturgia” e la “storia dello spettacolo” non è la “storia delle opere”; la “storia del teatro” è invece la materia che mira a ricostruire l’immagine di fenomeni perduti sulla base di diverse testimonianze, che possono comprendere documenti letterari, diretti, indiretti o figurativi, oggetti concreti, come ad esempio vasi su cui è stato rappresentato un attore, fino a prove più astratte come una moderna registrazione televisiva.
Caratteristica essenziale del teatro è l’essere “effimero”. Tale peculiarità viene apprezzata anche da diversi ambiti artistici in quanto “non produce prodotti” così come la “performance”, “l’action painting” o la “body art”, tutte modalità creative che volutamente pongono l’attenzione non sul prodotto artistico finale ma sulle modalità del suo farsi.
Da un punto di vista più storico-artistico e sociologico gli studiosi sono soliti far risalire le origini del teatro ai riti religiosi o alle identificazioni magiche tra l’uomo-attore e l’animale o l’oggetto interpretato, non di meno fanno altresì parte della storia del teatro quelle teatralità diffuse quali le feste o gli spettacoli popolari, alcuni tipi di giochi, le sfilate, le processioni o alcune esibizioni individuali.
Mi pare doveroso – prima di affrontare argomenti più conosciuti- un rapido accenno al teatro dei popoli “primitivi”, per lo più legato ad una periodicità fissa, cioè quella dei cicli stagionali. Tali manifestazioni, a cui partecipa l’intera comunità, diventano strumento essenziale per abolire metaforicamente la netta distinzione tra passato, presente e futuro, a favore di un’esperienza collettiva che coinvolge la storia e il destino del gruppo. Durante queste manifestazioni teatrali-rituali non solo avviene l’insegnamento dei fenomeni naturali attraverso l’azione del “mimo” – l’anziano “mima” ai fanciulli i comportamenti degli animali o le fattezze delle piante- ma si assiste anche alla trasmissione in termini rappresentativi del patrimonio mitico-culturale; questi riti, spesso consistenti in brevi cerimonie, sono soliti avere una medesima struttura, essi sono divisi in tre momenti essenziali: le prove fisiche o psichiche, la manifestazione degli spiriti e la rivelazione agli iniziati che in realtà gli spiriti non sono altro che uomini mascherati.
Pur non dimenticando l’importanza di tali realtà, è necessario sottolineare che la base storica della tradizione teatrale dell’Occidente è da ricercarsi in Grecia nelle rappresentazioni tragiche e comiche dell’Atene del V secolo a.C. Questi spettacoli sono a loro volta connessi a precedenti forme rituali connotate con il termine “ditirambo”, ossia il canto lirico-corale, di cui troviamo testimonianza nella “Poetica” di Aristotele e nelle “Storie” di Erodoto. Da questi testi si evince che il “ditirambo” viene cantato e accompagnato da danze, dunque non si tratta solamente di una forma letteraria bensì di uno spettacolo a tutti gli effetti.
Gli spettacoli tragici in Atene si svolgono in tre periodi dell’anno, durante le “Grandi Dionisie”, le “Lenee” e le “Dionisie rurali”, tutte festività in onore del dio Dioniso; essi hanno luogo in un edificio costruito su una collina, in modo da sfruttarne la pendenza, dotato di una scenografia e di un’orchestra, dove si muove il coro. Peculiarità del teatro greco è il crearsi di una forte simbiosi tra attori e spettatori, il pubblico infatti viene coinvolto in un’esperienza unica, che provoca la “catarsi”, una sorta di purificazione dell’anima. Questo avviene durante l’azione della tragedia, che suscita nello spettatore la necessaria riflessione per liberarsi dagli impulsi e “rinascere purificato”.
Gli spettacoli sono organizzati per conto e sotto la sorveglianza dell’autorità pubblica e sono un vero e proprio concorso (“agone”), al quale vengono ammessi tre poeti finemente selezionati, mentre la cura e le spese della messa in scena sono affidate ai cittadini più abbienti; vengono altresì dati dei premi alla migliore realizzazione scenica, al miglior poeta e al miglior attore.
È Aristotele che sottolinea l’evoluzione architettonica e scenografica del teatro, che si modifica in parallelo a quella degli stilemi scenici della rappresentazione tragica, costituita dal dialogo tra gli attori e il coro, composto da quindici persone a nome dei quali parla il “corifeo”. Tali dialoghi sono in realtà gli “episodi” – i nostri “atti”- intercalati da intermezzi lirici cantati dall’intero coro, gli “stasimi”. Se negli “stasimi” nessun attore è presente, nel momento di maggior tensione drammatica, il “kommòs”, anche l’attore è coinvolto nel canto e nella danza. In principio il dialogo avviene tra il solo attore e il coro, successivamente con Eschilo viene introdotto un secondo attore, infine Sofocle ne aggiungerà un terzo. Ricordiamo subito che tre sono i massimi poeti della tragedia ateniese del V secolo a.C., Eschilo, Sofocle, Euripide.
Con il tempo anche la funzione del coro cambia, perdendo sempre di più il ruolo centrale che aveva in Eschilo; anche l’aspetto stesso degli attori muta, come si può notare se si pensa ai costumi imponenti utilizzati per impersonare i personaggi di Eschilo e li si confronta con gli abiti degli attori sofoclei, vestiti, pare, solamente di stracci (“rakia”).
A tali cambiamenti corrispondono le modifiche architettoniche dell’edificio del teatro. L’aspetto della “cavea”, cioè le gradinate destinate agli spettatori, nel tempo si allontana sempre di più dalla forma originale trapezoidale e assume le sembianze dei teatri arcaici, a pianta a semicircolare.
Secondo tradizione gli spettacoli più antichi, come le tragedie di Tespi, di cui quasi nulla sappiamo, ma che fu considerato l’inventore del genere tragico (VI sec. a.C.) o di Eschilo (come sopra indicato il primo dei tre grandi tragici greci) avvengono su piani distinti, uno per il coro che si trova nell’ “orchestra” (una zona circolare al centro del teatro nel cui mezzo si trova un altare) e l’altro dedicato all’attore, che si muove su una piattaforma – l’equivalente del nostro palcoscenico- innalzata al fondo dell’orchestra e appoggiata a una struttura di sfondo denominata “skenè”, utilizzata sia dagli attori per cambiarsi, sia come vera e propria scenografia. Con Sofocle la “skenè” viene per la prima volta adornata con pitture e motivi architettonici; in seguito sulla “skenè” compare una porta centrale adornata con un protiro e affiancata, a partire dal 450 a.C., da due piccoli edifici aggettanti, detti “paraskenia”. La “skenè” diviene dunque il fulcro dell’azione, anche se il coro continua ad entrare attraverso dei corridoi laterali, le “parodoi”.
La storia della tragedia, ossia del teatro europeo, si apre per noi con il vertice poetico di Eschilo, che – come prima indicato – con l’aumento degli attori da uno a due consente il confronto e l’opposizione di individui e di idee, e riconosce all’organismo drammatico la possibilità di esprimere tutto un mondo di valori. Dal rapporto tra l’ineluttabilità del destino e la responsabilità dell’uomo dell’opera drammatica di Eschilo, alla suprema armonia della tragedia di Sofocle, che si duole della fragilità dell’uomo, a Euripide, che raggiunge l’intensità della più alta poesia, e che comprende lucidamente che la vita ordinaria è pervasa da una umanità degradata, ma tanto più capace di soffrire. Le creature da lui rappresentate guardano dentro di sé, con una introspezione acuta e spietata. Ben a ragione sul suo sepolcro così recita l’epitaffio: “Di Euripide è monumento l’Ellade tutta intera”.
L’invenzione del teatro rappresenta una delle eredità più importanti trasmesse dall’antica Grecia alla civiltà europea.
Dopo la tragedia, non possiamo non accennare alla commedia, di cui si occupa anche Aristotele nell’ultima parte della sua “Poetica”. Vi sono però anche altre fonti, come il filosofo Stagira, il quale racconta che la commedia deriva dagli “exarchontes”, coloro che intonano i canti fallici nel corso dei cortei celebrati in onore di Dioniso, alle cui origini vi erano certamente riti stagionali e di fecondità. Ad Atene le commedie vengono soprattutto rappresentate durante le feste Lenee, tra i mesi di gennaio e febbraio, ma anche in occasione delle Grandi Dionisie, quando una intera giornata è dedicata agli spettacoli comici. Si è soliti dividere la storia della commedia greca in tre fasi: antica, di mezzo e nuova. Della prima fase fa parte la triade citata dal poeta latino Orazio “Eupolis atque Cratinus, Aristofanesque poetae”. In questa fase l’elemento centrale delle commedie è la “parabasi”, una sorta di sfilata del coro e degli attori accompagnata da versi pungenti. Tra i vari autori spicca il nome del grande ateniese Aristofane (V-IV secolo a.C.), a cui si deve la stesura di celebri opere quali “Gli uccelli”, “Lisistrata” o “Pace”; le sue rappresentazioni sono il trionfo della fantasia creatrice, la scena è audacemente lanciata nell’irreale, nel regno del fantasioso, piena di una straordinaria vivacità e della sublimità del comico.
Le tematiche sono disparate, e passano dall’involucro del mito allo studio della realtà, alle disquisizioni sull’uomo e sul suo destino, alle riflessioni sulla politica e sulla società. Proprio perché gli argomenti sono condivisi dalla cittadinanza, non è insolito che il pubblico nel corso degli spettacoli partecipi in prima persona, al punto che si viene ad instaurare un vero e proprio dialogo tra gli attori, il poeta e gli spettatori.
Il totale sovvertimento della struttura formale e dei contenuti drammatici della commedia coincide con la perdita dell’indipendenza politica di Atene e con il conseguente venir meno degli ideali e dei valori legati all’impegno civile degli abitanti; nel 388 a.C. la “polis” ateniese viene sconfitta a Cheronea, e come riflesso le opere degli autori cambiano tono e finiscono per concentrarsi su tematiche legate al quotidiano. È il momento della commedia “nuova”, di cui i massimi esponenti sono Filemone di Soli ( 361-263 a.C.) e soprattutto Menandro (343-291 a.C). Con la commedia “nuova” si stabilizzano due elementi strutturali: l’intreccio e il carattere. Gli episodi sono organizzati secondo uno schema logico che parte da uno squilibrio iniziale e perviene a un equilibrato assetto finale. Ogni personaggio ha un suo tratto psicologico dominate, i “caratteri”. Da un punto di vista scenico scompaiono molti elementi, resta solo la smorfia mimica, accentuata dalle maschere. Lo spazio scenico e la scenografia rimangono dunque simbolici, anticipando un tratto tipico del teatro romano, la cui drammaturgia continua ad essere decisamente legata a rielaborazioni della commedia “nuova”.
Per quel che riguarda il teatro della commedia nella Roma antica, merita fare appena un breve cenno ai suoi due massimi esponenti Plauto (III sec. a C.) e Terenzio (II sec. a.C.), che si rifanno agli autori comici greci. Plauto, dominatore della scena teatrale, capace di smontare il suo modello greco per poi ricomporlo come un insieme coerente e originale, in una lingua di grandissima ricchezza e varietà, sia a livello lessicale che sintattico, un insieme davvero unico e inconfondibile. Della grandezza del poeta è testimonianza anche il celebre epigramma sepolcrale: “Da quando Plauto è morto, la Commedia è in lutto, la scena è rimasta deserta, il Riso, lo Scherzo, il Gioco, e i Ritmi innumerevoli tutti insieme sono scoppiati a piangere (“numeri innumeri simul omnes collacrimarunt”). Diversa dalla vivacità della commedia plautina, la commedia di riflessione di Terenzio, che si rivela stretto seguace del greco Menandro, poggia sulla serietà dei temi e dei personaggi; nella scelta linguistica assume come punto di riferimento la conversazione delle classi colte, con parole scelte, in un tono moderato ed elegante. Egli riprende l’ideale di “humanitas” della cultura filosofica greca e lo rende più corretto, insistendo sui comportamenti che corrispondono alla dignità umana.
I generi teatrali romani sono di importazione greca: la “palliata” (commedia) e la “cothurnata” (tragedia), vi sono poi la “togata” e la “praetexta” cioè commedia e tragedia pensate con un’ambientazione romana, la prima è una forma di spettacolo popolare a cui fanno riferimento anche l’ “atellana” – a cui si accosterà la commedia dell’arte- e il “mimo”, forma di recitazione priva di maschera e considerata estremamente volgare; la seconda, di maggiore levatura, è invece dedicata al portare in scena fatti storici.Tutta romana è anche la “pantomima”, genere che nasce in epoca augustea, in cui un coro o un cantore cantano i passi più belli delle tragedie, mentre un attore con una maschera a tre volti interpreta tutti i personaggi. In tale tipologia di spettacolo non importa più la forma né il contenuto, ma tutto è incentrato sulla gestualità.
Mi pare di essermi dilungata già eccessivamente sul teatro nel mondo classico e non vorrei correre il rischio di annoiarvi, ottenendo il risultato contrario a quello sperato. Tuttavia in chiusura mi piace soffermarmi brevemente su un dettaglio della nostra Torino antica, che anche in ambito teatrale ha qualcosa da mostrarci.
Vi è a Torino infatti il “Teatro romano”, compreso nelle vestigia romane dell’antica “Augusta Taurinorum”; i resti dell’edificio sono visibili nell’area del Parco Archeologico e risalgono al 31 a.C.
Tale edificio è l’unica struttura del Quadrilatero -la parte romana della città- ad averci lasciato numerose testimonianze delle diverse fasi costruttive, rendendo gli studi archeologici leggermente più semplici. L’edifico è rimasto abbandonato e in fase di drammatico decadimento per secoli, fino al 1899, quando, per volere di re Umberto I, finalmente viene riportato alla luce.
Il teatro sorge in quella che anticamente era la parte più agiata della città, circondato da abitazioni patrizie e vicino al “forum”; è stato edificato su un declivio, in modo da sfruttarne il pendio e a ridosso delle mura che circondavano la città, come si evince dal ritrovamento dell’“intervallum”, il camminamento ricavato nello spazio che intercorre tra le mura e gli edifici lì vicino. Esso risulta quindi essere stato parte integrante delle mura urbiche, la parete nord del teatro era probabilmente dotata di torri similari a quelle della “Porta Principalis Dextera”, in cui vi erano gli ingressi che consentivano l’accesso diretto al teatro per coloro che venivano da fuori città.
Il teatro romano torinese, che è uno degli esempi di teatro più piccoli del suo genere, ricorda nella struttura il teatro di Augusta Raurica, l’attuale Basilea.
Originariamente occupava un’intera “insula” ed era costituito da una “cavea” semicircolare realizzata in marmo e da una parete con tre portali che costituiva la “scaena”, che comprendeva anche il “pulpitum”, (il palcoscenico) e i due “parascaenia”; l’ “aulaeum” (il sipario) veniva probabilmente azionato da macchinari in legno ancorati a diversi pozzetti tutt’oggi visibili.
Sappiamo altresì che per ovviare alle intemperie la “cavea” era sovrastata da un “velarium”, una grande copertura in tela che riparava dalla pioggia ma anche dall’eccessivo sole estivo.
Con questo spunto conclusivo spero non solo di aver iniziato ad invogliarvi a “spulciare” quali spettacoli poter vedere in queste sere accaldate, ma mi auguro di avervi incuriosito ad andare a visionare il sito archeologico, poiché studiare e vedere le fonti è sempre il miglior modo per appassionarsi a qualsivoglia argomento. È ora di fermarsi e di riflettere sul fatto che siamo solo noi “moderni” a non sfruttare abbastanza quella che da sempre è stata una delle forme di intrattenimento più apprezzate e diffuse dalla notte dei tempi. È forse ora di smettere di considerare certi passatempi come “troppo lontani da noi” o rivolti solo ad un certo genere di pubblico, la cultura è e deve essere di tutti, così come il teatro.
Alessia Cagnotto
Libertà, vaccino e tutela della salute
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Un gruppo di medici che non vogliono vaccinarsi, sta cercando di invocare dei presunti diritti costituzionali di libertà, per non sottoporsi alla vaccinazione. Una vera e propria ribellione, palese e ingiustificabile provocazione che rivela la irresponsabilità di una minoranza di medici, a fronte dello spirito di sacrificio e, a volte, anche dell’eroismo del personale medico e paramedico italiano.
La rassegna dei libri del mese
Consueto appuntamento con la rassegna dedicata al mondo dei libri a cura della redazione del sito Il passaparola dei libri – Notizie, appuntamenti e curiosità per ogni tipo di lettore!
In questo mese hanno tenuto banco sul gruppo Un libro tira l’altro ovvero il passaparola dei libri le discussioni legate alla rosa dei finalisti del Premio Strega: i cinque romanzi finalisti sono Due Vite (Neri Pozza) , di E. Trevi, Il pane perduto (La Nave di Teseo) di E. Bruck, Borgo Sud (Einaudi) di D. Di Pietrantonio, L’Acqua Del Lago Non E’ Mai Dolce (Bompiani) di G. Caminito e Il Libro Delle Case (Feltrinelli) di A. Bajani. Leggete il nostro approfondimento e partecipate al sondaggio per votare il vostro preferito, sul nostro gruppo FB.
Incontri con gli autori
Prosegue la nostra collaborazione con il sito Novità in libreria.it che questo mese pubblica le interviste con alcuni dei nuovi nomi del panorama narrativo italiano. Questo mese abbiamo incontrato: Riccardo Piana, emergente autore di Janina (Youcanprint), Domenico Corna, che torna in libreria con Nuvole Al Tramonto (Robin Edizioni) e Vincenzo Corrado, nota penna de La Gazzetta di Mantova, che racconta la sua città di adozione nel suo ultimo libro: Un’Altra Mantova (Editoriale Sometti).
Andar per libri (e non solo)
Ripartono alcune iniziative legate al mondo dei libri, come la sesta edizione di Trovautore in programma a Fiuggi dal 16 al 18 luglio. Dedicata alla piccola e media editoria, la rassegna letteraria ospiterà gli stand di tante case editrici indipendenti che presenteranno le loro novità. Il programma, che prevede incontri con gli scrittori, letture e laboratori sono disponibili sui canali dell’Associazione Culturale Trovautore.
Dal 15 al 18 luglio torna anche Riminicomix, rassegna dedicata al mondo de fumetto e dell’illustrazione. Informazioni e programma sul sito della manifestazione.
Per questo mese è tutto, iscrivetevi al nostro sito per rimanere sempre aggiornati sul mondo dei libri e della lettura! unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it