Magnifica Torino / Luci d’artista in piazza Vittorio
Ci sono concetti, parole, modalità esistenziali che suonano antipatici, ostici e fuori luogo, in questo mondo che sembra aver fatto del divertimento continuo e di una malintesa ed eccessiva leggerezza lo stile di vita di moltissime persone. Sicuramente “senso di responsabilità” è uno di questi.
Abbiamo via via relegato il senso di responsabilità nell’ambito dei comportamenti inutili, controproducenti e fastidiosi. Non voglio dire che non sia giusto ricercare il nostro piacere, sapersi divertire e gustare la vita. Però tutto ciò dovrebbe accompagnarsi a una serie di attitudini e di comportamenti che contemplino anche un sano ed equilibrato senso di responsabilità.
Perché tra l’altro, a ben pensarci, avere senso di responsabilità è una componente importante del nostro stare bene con noi stessi e con gli altri, e quindi, in fondo, del nostro piacere. Un modo più profondo, più esteso e probabilmente anche più effettivo di ricercare il nostro appagamento.
Essere responsabili, nei confronti nostri, degli altri, del mondo, dei nostri pensieri, delle nostre azioni, delle nostre decisioni, senza dare sempre la colpa a qualcun altro, a qualcos’altro di ciò che ci succede, ci rende affidabili e in grado di agire adeguatamente, guidati dai nostri valori morali e sociali.
Assumerci senza vittimismi il peso delle conseguenze del nostro agire, nel rispetto di noi stessi, degli altri, dell’ambiente in cui viviamo, è una modalità esistenziale che ci dona serenità e benessere, poiché significa anche armonia, completezza, maturità.
Il senso di responsabilità è frutto di una scelta libera e consapevole che ci induce ad avere naturalmente attenzione per ciò che facciamo, esponendoci tra l’altro a un minor rischio di errore, e non ha nulla a che fare con il senso di colpa, che, al contrario, condiziona negativamente pensieri e azioni e determina rigidità e obblighi.
(Fine prima parte)
Roberto Tentoni
Coach AICP e Counsellor formatore e supervisore CNCP.
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Rubrica su “Il Torinese” STARE BENE CON NOI STESSI.
Il “Re di pietra”, il Monviso
A cura di piemonteitalia.eu
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L’etichetta degli innominati
CALEIDOSCOPIO ROCK USA ANNI 60
Ritornando sulla questione delle difficoltà di datazione, definizione cronologica e sequenzialità delle incisioni di determinate case discografiche, non si può che ribadire l’osticità di svariate etichette che a mo’ di “tabula rasa” presentavano a malapena il nome della band, il titolo della canzone e gli autori dei brani ed il numero di catalogo. Un esempio lampante di questo tipo di etichette fu la “Studio City Records” di Minneapolis (Minnesota), che recava grafiche spartane (in nero-arancio o in rosso-giallo), stili lineari, scarse indicazioni generali e la pressoché totale assenza di nomi di produttori, studi di registrazione e indirizzi. Eppure a livello storico la “Studio City Records” contribuì con svariate incisioni al catalogo del garage rock a stelle e strisce degli anni ‘60, coprendo l’area ovest del Midwest e inglobando occasionalmente bands canadesi di oltre confine.
Qui di seguito, il catalogo finora definito dei soli 45 giri di “Studio City Records”:
– Deviny James “That’s Allright Mama / Baby Child” (1002) [1961];
– Cager Rose “Please Come Back / Let Her Go” (1001) [1963];
– Len Gale “Foolish Pride / Sentimental Me” (1006) [1963];
– Johnny Lidell “Immune To Love / Bimbo” (1007) [1963];
– The Titans “The NoPlace Special / Reveille Rock” (1008) [1963];
– The Charms “Pattin’ Leather / Night Train To Memphis” (1009) [1963];
– The Shattoes “Do You Love Me / Surf Fever” (1010) [1964];
– Chet Orr and The Rumbles “Please Free Me / Be Satisfied” (1012) [1964];
– Maurice Turner “On The Street Where You Live / The Bass That Walked To Town” (1013) [1964];
– Little Joe and The Ramrods “Somebody Touched Me / Hurtin’ Inside” (1014) [1964];
– The Country Kids “I’ll Cry Tomorrow / You’re Still In My Heart” (1015) [1964];
– Johnny McKane and The Inspirations “Inspiration / I’ve Been Here Before” (1016) [1964];
– Rose Mae LaPointe “Phantom Buffalo / Maybe Now” (1017) [1964];
– Harvey Urness “Never Been Blue / Send Me A Rose Of Red” (1018) [1964];
– LITTLE JOE AND THE RAMRODS “We Belong Together / Ooh Poo Pah Doo” (1019) [1964];
– Roy Rowan “I Never Thought You’d Turn Me Down / Our Love” (1020) [1964];
– Lloyd Hansen and The Country Drifters “Redwing / When It’s Springtime In The Rockies” (1022) [1965];
– LITTLE CAESAR AND THE CONSPIRATORS “It Must Be Love / New Orleans” (1023) [1965];
– Roger Rainy “Haunted House / Cold And Lonely Winter” (1024) [1965];
– THE SANDMEN “I Can Tell / You Can’t Judge A Book By Looking At The Cover” (1025) [1964];
– THE FURYS “Baby What’s Wrong / Little Queenie” (1026) [1965];
– The Carlson Sisters with The Centurys “Falling / Tell Me” (1027) [1965];
– THE STOMPERS “I Know / Hey Baby” (1028) [1965];
– The Blue Diamonds “Jailhouse Song / Big Blue Diamonds” (1029) [1965];
– THE BLEACH BOYS “Must Be Love / Wine, Wine, Wine” (1030) [1965];
– THE BANDITS “All I Want To Do / Buzzy” (1031) [1965];
– THE KINETICS “I’m Blue / Feeling From My Heart” (1033) [1965];
– THE PAGANS “Baba Yaga / Stop Shakin’ Your Head” (1034) [1965];
– THE MARAUDERS “She Threw My Love Away / Caliente” (1035) [1965];
– Texas Bill Strength “Million Memories / Cattle Call” (1036) [1965];
– THE SHANDELLS “Here Comes The Pain / Summertime Blues” (1037) [1965];
– Kathi Norris “My Jim / Wise Men Say” (1038) [1965];
– Sebastian “We Who Stay At Home / I’m The Boy” (1039) [1965];
– THE OUTCASTS “You Do Me Wrong / Love Eternal” (1040) [1965];
– Jimmy Cea and The Country Tigers “King Of The Swamp / Funeral For My Heart” (1041) [1965];
– The Defiants “Bye Bye Johnny / Maggie’s Farm” (1042) [1965];
– Jolly Bohemians “Helena Polka / Lakeside Waltz” (1043) [1965];
– Tom Magera and The Versatones “The Happy Harry Polka / The Hopeful Polka” (1044) [1965];
– THE DEVILLES “High Blood Pressure / Cry Baby” (1045) [1965];
– “YES IT IS” “Little Boy / Walkin’ The Dog” (1046) [1966];
– THE ACTION “You’re Gone / Odin” (1048) [1966];
– THE VAQUEROS “Growing Pains / 69” (1049) [1966];
– CANADIAN BEL-TONES “Hey Doll! / The Funny Little Girl On the Corner” (1050) [1966];
– Les Royal And His Sounds “Summer Rain / They Remind Me Too Much Of You” (1051) [1966];
– “YES IT IS” “Lovely Love / That Summer” (1052) [1966];
– THE EMBERMEN FIVE “Fire In My Heart / Without Your Love” (1053) [1966];
– Bob Bird “Oh How It Hurts / I’d Still Want You” (1054) [1966];
– The Four Winds “Born To Lose / In The Mood” (1055) [1966];
– THE BOSS TWEADS “Goin’ Away / It’s Best You Go” (1056) [1966];
– THE ACTION “It’s Not The Way (That Love Should Be) / Time Flies” (1058) [1966];
– THE VAQUEROS “Don’t You Dare / Mustang Sally” (1059) [1966];
– THE COBBLERS “Smokin’ At The Half Note / Maybe I Love You” (1060) [1966];
– THE EMBERMEN FIVE “My Love For You Won’t Die / Baby I’m Forgettin’ You” (7-8088) [1967];
– Ben Pena “Away, Far Away / Make Way For me” (1061) [1967];
– Country Briars “Christmas Time’s A-Coming / No Snow On The Branches” (UA 10-38167) [1967].
Gian Marchisio
PENSIERI SPARSI di Didia Bargnani




Scopri – To Alla scoperta di Torino
Quando si visita Torino, una delle tappe fondamentali è sicuramente la nota piazza Statuto di Torino, una piazza neoclassica edificata nel 1946 che vede al centro la statua in onore dei progettisti del traforo del Frejus. In pochi però sanno che a pochi passi da quest’ultimo vi è il Rondò della Forca, un luogo in cui tra il 1835 e il 1853 avvenivano le esecuzioni dei condannati a morte, all’epoca non vi era nulla attorno se non alberi e fossi, questo per ospitare il maggior numero di persone possibile per vedere l’esecuzione che doveva essere pubblica in modo da mostrare ai cittadini come venivano puniti coloro che compivano omicidi o semplicemente accusati di cospirazione politica. Adiacente al Rondò della Forca viveva Piero Pantoni l’ultimo boia di Torino, oggi al posto del patibolo troviamo una statua dedicata a San Giuseppe Cafasso, considerato l’apostolo dei carcerati.
Un altro luogo molto particolare ma meno noto è il quartiere “Cit Turin” che, in dialetto piemontese, significa “piccola Torino”; ne fanno parte le vie adiacenti all’inizio di Corso Francia, qui troviamo tantissime ville e palazzine in stile Liberty progettate da Pietro Fenoglio, fu il primo luogo costruito fuori dalle mura della città ed è considerato, ancora oggi, una delle zone più belle di Torino, dove vi è anche il rinomato mercato di Piazza Benefica.
Spostandoci poi al quadrilatero romano, una delle zone più frequentate dai giovani torinesi troviamo il mercato di Porta Palazzo, il Balòn ovvero il mercato delle pulci e i Musei Reali, il Santuario della Consolata, un capolavoro del Barocco piemontese, la Cattedrale di San Giovanni Battista definita “il Duomo di Torino”, in stile rinascimentale che ospita la “Sacra Sindone*.
STORIE PIEMONTESI: a cura di CrPiemonte – Medium / “Il regionale 4792 delle ore 15,48, proveniente da Novara, è in arrivo sul binario numero 2. Termine corsa”
di Marco Travaglini
Dall’altoparlante la voce gracchiante conferma che stiamo entrando nella stazione di Domodossola. Se non avessi il finestrino abbassato e non stessi qui, con la testa fuori e controvento, non si sentirebbe un granché. Anche perché il frastuono della vecchia locomotiva copre ogni altro suono. Che sia vecchia, nessun dubbio: basta dare un’ occhiata alle macchie di ruggine per capire che questa E.424 marchiata Breda è ormai prossima al pensionamento. Ciò nonostante ha fatto il suo dovere, coprendo i novanta chilometri a binario unico dalla città delle risaie al capoluogo ossolano un poco più di due ore, contenendo in una decina di minuti il ritardo sulla tabella di marcia.

Quasi un record, visti i tempi. Erano più di vent’anni che non tornavo a Domodossola viaggiando in treno e nel frattempo le vecchie macchine diesel erano state sostituite dalle motrici elettriche. Una botta di vita per la vecchia Novara-Domodossola anche se il viaggio attraverso la campagna novarese, la sponda orientale del lago d’Orta e la piana del Toce è stato accompagnato da un intero campionario di rumori, cigolii e sferragliamenti oltre al classico e tradizionale ta- tam, ta- tam, ta- tam. Potevo scegliere di viaggiare in auto ma non mi andava di guidare e volevo ripercorrere a ritroso la stessa strada che facevamo un tempo per raggiungere Novara quando bisognava recarsi in qualche ufficio pubblico, come il catasto, o all’Ospedale Maggiore.

La corriera, in attesa sul piazzale della stazione, a pochi metri da quella grande “D” di Domodossola, non è certo un esempio di modernità ma in quattro e quattr’otto si è lasciata alle spalle Crevoladossola, Oira, Crodo e Baceno. Ansima un po’, sbarellando nelle curve, ma “tiene” bene la strada e l’autista , decano di questa tratta, non tocca più il bicchiere da una quindicina d’anni. Un tempo la sua guida era da brivido, complice l’abitudine di alzare il gomito e l’audacia nel pigiare il pedale dell’acceleratore. Mai un incidente, per carità, ma si arrivava sul pianoro sopra la salita delle Casse con lo stomaco in gola e la tremarella nelle gambe. Oggi invece, nonostante l’età, viaggia tranquillo. Passata S.Rocco di Premia, sulla sinistra, vedo la strada che conduce a Salecchio, il nido d’aquile dei walser, un tempo raggiungibile a fatica e con gran dispendio di sudore. Mi è stato detto che oggi una strada facilita molto la salita a quel che resta del bellissimo insediamento alpino dove ogni anno, la prima domenica di febbraio, si festeggia la Candelora. Da Rivasco al ponte sul Toce saliamo i nove tornanti delle Casse che precedono Fondovalle. Sul dolce falsopiano il motore della corriera tira il fiato e in pochi minuti, attraversate le frazioni di Chiesa e Valdo, si ferma al capolinea, davanti al vecchio municipio di Ponte.

La casa dei miei, affittata solo d’estate, da metà luglio alla fine d’agosto, mi accoglie silenziosa. Raccoglie sotto un unico tetto , come tutte le antiche case rurali dei walser, l’abitazione, la stalla e il fienile. Il nonno e i suoi fratelli l’hanno costruita con maestria su tre piani. Sul seminterrato, in muratura di pietre, è posata la struttura lignea dell’abitazione con la stalla, un angolo dedicato al soggiorno, la cucina e un angusto bugigattolo dove ricoverare gli attrezzi. Al primo piano le due camere da letto — una grande e l’altra più piccola — e sopra il fienile e la stanzetta per la conservazione di segale, patate, formaggi, carne secca e mele. Il nonno era un giramondo e, curioso come pochi, aveva studiato le abitazioni valsesiane fino al punto di imprimerne alcuni dei caratteri architettonici alla sua. Da lì è venuta l’idea dell’ampio loggiato che la circonda, consentendo a fieno, segale e canapa di seccare all’aperto, evitando che la pioggia le bagnasse. Orientata con il fronte principale rivolto a sud, in ogni sua parte il legno e la pietra le danno un senso di solida unità e di equilibrio con i monti e i boschi che stanno attorno. Il nonno, del resto, ci teneva tanto alla sua “radice” vallesana e come i suoi antenati svizzeri e tedeschi amava testimoniare il fatto di essere felicemente ordinato. Nel letto di rovere ho dormito come un ghiro e dopo un giro a salutare i pochi, vecchi amici che mi rammentano gli anni della gioventù, mi incammino a ritroso nel tempo discutendo con Walter. Ormai in pensione, dopo una vita passata a controllare quadri elettrici e prese d’acqua per conto dell’Enel sui bacini di Morasco e dei Sabbioni, Walter non perde l’occasione di rievocare insieme gli anni felici della nostra gioventù. Complice una bottiglia di Gattinara che ho acquistato per celebrare l’occasione, si sciolgono i ricordi. In poco tempo torniamo agli anni di scuola, d’inverno.

“Rammenti l’inverno del 1959?”, dice Walter. Eccome, se lo rammento. Quell’inverno di neve ne era già venuta giù molta. Anche troppa. E non finiva mai. Asciutta e morbida, continuava a cadere. Una spessa e soffice coltre bianca si era depositata ovunque. Sul tetto della baita di Joseph, sul fienile di Marianna, sul sagrato della chiesa . Ogni cosa cambiava forma e aspetto, sotto la neve. “Per fortuna il raccolto della segale e delle patate è andato bene e la caccia autunnale ci ha riservato delle buone soddisfazioni”, diceva mastro Peter, schiacciando il tabacco nel fornello della pipa di radica che s’era comprato all’emporio di Briga. Era lui, con il suo aspetto severo di vecchio montanaro che sapeva come far rendere la terra a quell’altitudine, l’anima della comunità. Capace di buoni consigli e di sagge decisioni, mastro Peter stava per compiere ottant’anni ma ne dimostrava venti di meno. Alto, dal fisico asciutto, i capelli corti e radi ed un viso segnato da alcune profonde rughe, incuteva rispetto e un po’ di soggezione. La nostra piccola comunità walser viveva d’agricoltura di montagna, di allevamento e del lavoro che i componenti maschi più giovani prestavano nelle cave di serizzo o nei cantieri dell’Edison.

Noi si andava a piedi a scuola. Con il bello o il brutto tempo, raggiungevamo la scuola elementare di Ponte dove ci attendeva, dai primi d’ottobre alla metà di giugno, la maestra Rosamaria con le sue lezioni d’italiano e matematica, storia e geografia. E di tutto il resto, compreso le ore dedicate alla nostra lingua. La pronuncia era quella che era. Impacciata, claudicante e soprattutto troppo marcata da quell’inflessione francese che ne tradiva le origini valdostane prima ancora che dichiarasse il suo cognome: Jannod. In Formazza era stata mandata per sostituire la vecchia maestra Hilde Brunner, troppo anziana per tenere a bada la pluriclasse. Doveva essere un affidamento temporaneo. Almeno così le avevano detto al Provveditorato agli studi di Novara per “indorare la pillola” della cattedra assegnata all’estremo nord della provincia, a ridosso con il confine svizzero. Ed invece rimase lì con noi. Se all’inizio si riteneva fortunata per non avere ancora una famiglia tutta sua, Rosamaria — con il tempo che passava e con quell’incarico provvisorio che come tutte le cose provvisorie era ormai da considerarsi definitivo — una famiglia pensò di farsela . Sposò Piero Locker, un boscaiolo alto e biondo, appartenente ad una delle più antiche famiglie walser formazzine. La classe che gli era stata affidata risultava composta da ragazzini intelligenti, vivaci. Avevamo tutti una gran fretta d’imparare. Ascoltavamo la maestra in religioso silenzio, divorando ogni testo ci passasse tra le mani. Eravamo attratti dalla storia e, tra i vari episodi, uno in particolare ci incuriosiva: la vicenda di Annibale, il grande generale cartaginese. “Maestra, e gli elefanti?”. Iniziava Giosuè, detto “pel di carota” per i capelli fulvi ed il volto coperto di lentiggini.

Voleva che Rosamaria parlasse di Annibale e della sua impresa più straordinaria: l’attraversamento delle alpi con il suo esercito composto da 50.000 fanti , 90.000 cavalieri e una quarantina di elefanti. Si, gli elefanti. Animali enormi dalla grande memoria, probabilmente scelti da Annibale con l’intento di farli restare nella memoria, appunto, consegnando alla storia un’impresa che pareva impossibile tanto era collocata oltre ogni ragionevole immaginazione a quell’epoca. Come se lui sapesse, e forse proprio per questo, che dopo la sua impresa qualsiasi altro esercito si fosse trovato sulle Alpi non avrebbe fatto lo stesso effetto. Tant’è che , qualche anno dopo il suo passaggio, la stessa via venne ripercorsa da suo fratello Asdrubale senza che nessuno ne porti il ricordo, nonostante avesse con se il doppio di elefanti e avesse subito molte meno perdite. Dopo di lui a tutti gli altri — Giulio Cesare, Carlo Magno, Napoleone, gli Alpini ed i Kaisershutzen — non restò che il ruolo di imitatori di un’idea. Ogni qualvolta s’accennava ad Annibale i ragazzi ascoltavano attentissimi, mostrando curiosità mista ad interesse. E la maestra non si faceva pregare.“ Il condottiero cartaginese, tra il 218 e il 216 avanti Cristo, marciando dalla Spagna, attraverso i Pirenei, la Provenza e le Alpi scese in Italia, dove sconfisse le legioni romane in tre grandi battaglie: quelle della Trebbia, del lago Trasimeno e — la più famosa — di Canne. Sconfiggendo le tribù montane, sfidando le difficoltà del terreno, intemperie e tempeste di neve, inerpicandosi su strettissimi tornanti e scendendo in gole impervie a filo degli strapiombi, Annibale ha compiuto una delle imprese militari più memorabili del mondo antico. Trovò persino un metodo geniale per spaccare le rocce che impedivano il passaggio: riscaldava la roccia e una volta che questa si raffreddava, la spezzava dopo averla ricoperta di aceto. Il prezzo fu altissimo .Non si contarono le perdite tra gli elefanti e gli uomini dell’esercito, nonostante ciò Annibale riuscì nel suo intento di ridiscendere i monti e affacciarsi sulla Pianura Padana”.

Che ricordi. Belli, lontani. Eravamo ragazzini e c’era l’entusiasmo di conoscere tutto, la curiosità delle domande che bruciavano le risposte. E la fame di futuro. Ed ora? Ora con Walter, in questa serata, tra un bicchiere e l’altro, si rievoca un po’ tutta l’infanzia. Intanto, lenta e silenziosa, fuori la neve sta cadendo. Gli parlo dell’incontro avuto poche ore prima con padre Giacomo, che mi ha procurato una forte emozione. Non ci vedevamo da una vita ma entrambi non abbiamo avuto esitazione alcuna nel riconoscerci quando ci siano trovati, uno davanti all’altro, di fronte all’entrata del negozio della signora Hilde, dove si può comprare il miglior Bettelmatt di tutta la valle. Un energico abbraccio e un paio di bicchieri di rosso davanti al banco da mescita di Liborio, hanno colmato in un attimo quasi quarant’anni. “Caro Marco, ne sono passate di stagioni, eh? Io ormai sono vecchio ma tu non sei tanto cambiato da quand’eri ragazzo. Sì, ora sei quasi calvo e hai messo su un po’ di pancetta, ma quella luce che ti brilla negli occhi è la stessa di quando venivi all’Oratorio a discutere con me di ogni cosa ti capitasse per la testa. Ricordi? Eri curioso, intelligente ma anche un gran testardo e non c’era verso di farti cambiare idea quando te ne infilavi una in testa e ci attaccavi anche il cuore”. Giacomo, pur essendo di vent’anni più anziano, è sì un prete ma è anche un amico. Uno dei più cari tra gli amici.

Mi vuol bene anche se le mie idee e le scelte che ho fatto in seguito non sono mai state le sue. Però, e di questo gli devo merito, non ha mai cambiato il suo atteggiamento nei miei confronti, rispettando anche ciò che non condivideva. E’ con lui che abbiamo imparato — io, Walter e tanti altri — a conoscere quel sentimento religioso che ha accompagnato, nel tempo, la vita quotidiana della nostra gente. “Ti ricordi, Walter? E’ lui che, insieme al suo sacrestano, il vallesano Berti, ci ha insegnato la formula di ringraziamento con la quale i walser di Formazza invocavano la protezione di Dio per le persone e i loro cari defunti, quel “Färgalts Gott tüsuk Maal, tresch gott un ärlesch Gott di Abkschtorbnuseela” che significava Ti ricompensi Dio, mille volte, consoli Dio e liberi Dio le anime dei tuoi morti”. Con lui si giocava a calcio nel prato di Valdo e s’andava sugli alpeggi dove, dopo il tramonto, il casaro e i pastori recitavano il Vangelo di San Giovanni affinché gli spiriti maligni non andassero a molestare gli animali. Padre Giacomo ci spiegava che dall’allevamento e dai prodotti derivati dal latte dipendeva buona parte dell’economia della valle e che le preghiere ( qualche volte accompagnate da veri e propri rituali di esorcismo) servivano a “scacciare il male” dalle stalle. Ricordo a Walter, che annuisce, quando — all’inizio di una estate — a Foppiano, nel giorno di San Giovanni, che cade il 24 giugno, assistemmo alla benedizione dei gigli rossi i cui petali erano stati messi ad ardere in un braciere insieme all’ulivo benedetto, affumicando la stalla del papà di Martino, allo scopo d’allontanare ogni influsso negativo.

Quanti ricordi, E i fratelli Arnold e i loro cugini Berger? Da bambini accompagnavano al pascolo le mucche fin su nel pianoro di Riale e si divertivano con un gioco, ”Z Hêmmelfarä” che significava ”correre in Paradiso”, seguendo tutte le fasi che portavano dall’Inferno al Purgatorio e da lì al sommo dei cieli , e quindi alla vittoria, aiutandosi con un legnetto che veniva lanciato in aria. Con Giacomo abbiamo anche ricordato mia nonna, Helga. Mi portava spesso ai due santuari dedicati alla vergine Maria, ad Antillone e a Brendo, il suo preferito, dove si venerava Maria del monte Carmelo. Una volta si mise in testa di condurmi in pellegrinaggio, ovviamente a piedi. Era indecisa sulla meta: Sion, Reckingen o Einsiedeln? Mia madre Maria, sua figlia, sfruttando quell’indecisione riuscì a convincerla che non era il caso di farmi fare una sfacchinata del genere e così, pur contrariata e a malincuore, la nonna s’arrese. All’interno di casa, nell’angolo della Stube, tra le due finestre, teneva un grande crocifisso di legno e le statuette di San Teodulo e di San Nicola, i suoi ( e nostri) santi protettori. Mi fece un grande effetto quando mi toccò, a meno di dieci anni, fare la dolorosa scoperta del significato della piccola finestrella, sormontata da una croce, aperta sulla facciata della casa dei nonni.

Quando nonna Helga , a causa di una brutta febbre, stava per morire, la finestrella — che era sempre stata chiusa — venne aperta affinché la sua anima potesse trovare il passaggio per uscire e andare in cielo, per essere poi richiusa subito dopo la morte, impedendole di rientrare. La “finestrella dell’anima”, la “Seelenbalgenn”, pensavo m’avesse rapito la nonna e io piangevo, piangevo disperato e non mi davo pace. Toccò proprio a Giacomo, a quell’epoca appena ordinato prete, trovare le parole giuste per consolarmi. E, con grande pazienza, vi riuscì. Per questo oggi, da ateo qual sono diventato, mi spiace avergli fatto un così grave torto. Lui, però, con quel sorriso aperto che il tempo non ha cambiato, mi ha confidato di non aver abbandonato la speranza in un mio ravvedimento. E così, tra una chiacchiera e l’altra, amico mio, abbiamo fatto scorrere le ore fino al vespro quando l’anziano prete mi ha salutato con un abbraccio ed è andato a dir messa. Sull’uscio, girandosi, mi ha rivolto un ultimo sguardo, dicendomi: “Oh, Marco. Mi raccomando. Non far passare ancora troppo tempo nel tornare qui a casa perché non posso garantirti che mi troverai ancora qui ad aspettarti. E chi ti confesserebbe, a quel punto, per darti assoluzione da tutti i tuoi peccati?”. Così mi ha detto ,con il suo sorriso. Poi, con un cenno della mano, mi ha salutato e, lentamente, se n’è andato verso la chiesa di Santa Caterina. Ma gli incontri non sono finiti qui. In questo mio peregrinare tra le vie ho incontrato anche Edith e Ingrid, le due sorelle Meier. Entrambe vedove, le ho trovate ancora in gamba, nonostante l’età: la prima ha novantasette anni e la seconda solo due di meno. Sarà il freddo dei lunghi inverni o l’aria buona che scende dalle vette a conservarle così arzille? Se io, tu e tanti altri come noi, cresciuti qui in valle, ci siamo nutriti a pane, formaggio e leggende, è grazie a loro. Le due Meier, originarie della valle di Goms, con il loro italiano indurito dalla pronuncia tedesca, nelle sere d’inverno quando tra una casa e l’altra c’era tanta, troppa neve e ci si doveva aprire dei varchi spalando di gran lena, invitavano amici e parenti nella loro grande casa e lì, con in mano una tazza di tisana alle erbe raccolte tra il lago Kastel e il Toggia, raccontavano delle storie incredibili. Rimaste vedove ancor giovani, avevano deciso di rimanere qui in Formazza, dove mandavano avanti la loro attività di sarte. Sia io che Walter ricordiamo bene quelle sere. Del resto le leggende hanno sempre avuto una grande importanza, occupando un posto di primo piano nella cultura walser perché nel racconto si mescolano i desideri, le convinzioni, le gioie e le paure insieme ai fatti della vita quotidiana e ai personaggi. Un nostro coetaneo, Aldo Svillar, che noi chiamavano “kartoffen” vuoi perché aveva un gran naso a patata, vuoi perché di quei tuberi faceva grandi scorpacciate, era sempre in prima fila, con la bocca aperta. Silvia, la figlia del sindaco, una bella morettina tutto pepe che aveva anch’essa più o meno la nostra età, gli dava delle botte terribili sotto il mento, facendogli mordere la lingua, dicendo al povero Aldo: “Chiudi quel forno, altrimenti la strega di Morasco ti mangia la lingua”. E noi giù a ridere. Ridevamo tutti, tranne il malcapitato, cioè lui.. Quando però le Meier iniziavano i racconti, non volava nemmeno una mosca. Le leggende erano ambientate tra i monti, in sperdute valli e isolati alpeggi dove la natura selvaggia era popolata da streghe, diavoli, folletti e nani. Dai Pubrina di Salecchio, uomini selvatici o esseri mostruosi che fossero, che portavano i bambini ( le cicogne non c’erano e sotto i cavoli non si trovavano neonati ) ma che al tempo stesso erano il terrore dei piccoli quando questi facevano i capricci, al pari dell’uomo nero, agli Zwärgji, eccentrici burloni che abitano i boschi, bassi di statura e coperti di stracci e foglie, sempre pronti a divertirsi alle spalle degli alpigiani, vittime dei loro dispetti. A differenza delle streghe che fanno malefici al bestiame o che mandano in malora il latte e il formaggio, gli Zwärgji avevano insegnato ai nostri avi come fare il bucato con la cenere o lavorare il latte. Forse per farsi perdonare gli scherzi, forse per evitare che pastori e i casari, stanchi di esser presi in giro, se ne andassero via, abbandonando gli alpeggi formazzini. Nei racconti di Edith e Ingrid le valanghe, le bufere di neve, i movimenti dei ghiacciai, il sibilare del vento erano ricondotti al mistero delle tante creature fantastiche che vivevano la montagna. Lo scricchiolio dei ghiacciai del Sidel o dei Camosci era interpretato come lamento delle anime. “Sì, perché Edith, alzando l’indice minaccioso, ci ammoniva sul fatto che i ghiacciai fossero il purgatorio dove i defunti scontavano i loro peccati”, dice Walter. “E noi zitti, con il cuore in gola e i brividi lungo la schiena. In fondo, lo capimmo più tardi, la morte, per chi viveva in condizioni così difficili, era una componente non così estranea o distante dalla vita di tutti i giorni”. Oltre alle vicende dei morti, alle loro inquietanti processioni e alle streghe dal brutto carattere, alle sorelle Meier piaceva raccontare la leggenda di un uomo della valle che, per sfuggire alle vessazioni di un signorotto, decise di passare il confine, emigrando in Alta Val Bedretto, a Ronco, dove fu bene accolto al punto da metter su famiglia. Da quell’avvenimento, dicevano le sorelle, discendeva il diritto che veniva riconosciuto alla gente di Ronco di andare a far legna sul territorio di Formazza, in nome di quell’antica discendenza che accomunava le due valli, comprovata anche da alcuni documenti.

“Ma la leggenda più bella era quella della valle perduta. Te la ricordi, Marco?”, dice Walter. Eccome, se la ricordo. In ogni villaggio walzer sgorga una sorgente d’acqua proveniente dalla valle perduta, la nostra terra d’origine, dove tutto è iniziato. Dai padri ai figli, per generazioni, dalla notte dei tempi si parla di questo luogo meraviglioso. Un vero paradiso, verde d’erba e alberi, ricco di pascoli e boschi, nascosto tra ghiacciai e nevi eterne. Una leggenda che, per molti secoli, ha aiutato la nostra gente ad affrontare asprezze e difficoltà con il miraggio di poter raggiungere un giorno la straordinaria, fertile e mite “valle perduta”. Così, tra un sorso e una scheggia di formaggio stagionato, abbiamo tirato tardi. Fuori la nevicata si è fatta più intensa. E’ ormai buio e attorno alle luci fioche dei lampioni i fiocchi disegnano traiettorie leggere, sospinti dall’aria. Alcuni finiscono sui vetri della casa, disegnando arabeschi di gelo. Viene giù che è un piacere, secca e soffice. Ancora un paio di giorni e mi raggiungerà anche Carla. Nella vecchia casa dei nonni addobberemo l’abete che mi ha regalato Walter. A Natale e a fine anno sarà una festa. Si canterà Stille Nacht, in tedesco. Per chi non ha dimestichezza con la lingua dei vecchi padri, la tradurremo in italiano, nell’Astro del Ciel. Ci augureremo che l’anno nuovo sia migliore di quello che ci lascia. E le fiammelle compariranno sulle finestre, tremolanti. Come un tempo.
Crpiemonte
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Usseaux, le bellezze del Piemonte
Le immagini ci sono state inviate dalla lettrice Marisa Fantino.


Una suggestiva immagine del centro storico di Venaria scattata da Marisa Fantino
Perfetta. Una crostata fresca, fragrante, dal profumo intenso di limoni, dal sapore delicato piacevolmente aspro, unico, inconfondibile. Un dolce senza tempo, perfetto in ogni occasione.
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Ingredienti
Per la frolla:
200gr. di farina 00
30gr. di fecola di patate
100 di burro
80gr. di zucchero
2 tuorli
1 bustina di vanillina
1 pizzico di sale
Per la farcia:
300gr. di latte intero
200gr. di panna liquida
4 tuorli
120 di zucchero
40gr. di amido di mais
1 grosso limone biologico
1 mela rossa
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Preparare la frolla impastando velocemente nel mixer tutti gli ingredienti, fare una palla, avvolgerla con la pellicola e riporla in frigo per almeno 30 minuti. Preparare la crema al limone, mescolare i tuorli con lo zucchero, aggiungere poco alla volta l’amido di mais. Scaldare il latte con la panna liquida, unire alla crema di uova e lasciar cuocere per cinque minuti, unire la scorza del limone grattugiata e, sempre mescolando, poco alla volta, il succo del limone. Stendere la frolla in uno stampo per crostata foderato con carta forno, bucherellare il fondo, versare la crema di limoni e livellare. Cuocere in forno preriscaldato a 190 gradi per 50 minuti. Lasciar raffreddare e prima di servire decorare con fettine di mela sottilissime arrotolate a rosellina.
Una felice Pasqua a tutti i lettori.
Paperita Patty