Rubriche- Pagina 43

“L’orto fascista” Romanzo / 10

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XL

Quando il prete apparve in cima alla scala, tra i 18 imprigionati serpeggiò la paura. Se avevano man-
dato un prete per confortarli e, eventualmente, somministrare i sacramenti, era perché il loro destino era stato deciso e la loro esecuzione vicina.
Don Pompeo capì al volo la situazione e, con un sorriso non troppo ampio dato il momento tragico, disse ad alta voce perché tutti lo sentissero:
“Allegri, sono qui non per darvi l’estrema unzione o per ascoltare i peccatacci che avete sicuramente commesso. Sono qui perché hanno pensato che anche un prete possa essere loro nemico e che è bene quindi tenerlo al fresco.” Continuò quindi raccontando l’incontro avuto con lo Sturmbannführer, guardandosi bene dal far capire che era tutta una bufala: tra i 18 ci poteva essere anche una spia dei tedeschi. Meglio essere assolutamente cauti.
Gli imprigionati non erano sicuramente in buone condizioni dopo tante ore di detenzione, ma si sentirono un po’ più sereni quando ascoltarono il racconto del prete. Se i tedeschi avessero scartato l’ipotesi politica, la loro reazione, forse, sarebbe stata meno violenta.
Non era stato dato loro né un goccio d’acqua né, tanto meno, da mangiare. Per i loro bisogni avevano usato un tubo di cemento rotto che spuntava a livello del pavimento in terra battuta e non si sapeva dove finisse. Purtroppo non avendo una sufficiente inclinazione gli escrementi ristagnavano e nell’ambiente aleggiava un’orribile puzza di urina.
Lo scantinato era diviso in tre locali senza porte: solo due ricevevano una scarsa illuminazione da una finestrella vicina al soffitto. Poiché lo scantinato era quasi completamente interrato, le finestrelle dovevano essere all’altezza del giardino che circondava la casa. A quell’ora la luce cominciava a scarseggiare e gli ambienti erano pratica- mente al buio.
“Non voglio sfruttare la mia posizione di prete” disse don Pompeo cercando di mantenere un tono il più scherzoso possibile, “e non voglio fare neppure il rompi- balle” continuò. “Ma, data la situazione nella quale ci troviamo, pregare un po’ il nostro Dio, sperando che ci dia una mano, non farà sicuramente male a nessuno. Io inizio a recitare il rosario, chi ha piacere risponda. Gli altri sono solo pregati di non disturbare”. Ma tutti, credenti e no, questi ultimi dapprima stentatamente, rispo- sero alla preghiera.
Alle diciassette la porta fu violentemente aperta. Una SS scese rumorosamente la scala e, preso per un braccio don Pompeo, lo spinse verso il piano superiore pronunciando in tedesco parole incomprensibili, ma che suonarono a tutti minacciose. Ritornando poi nello scantinato si guardò intorno ed indicato uno dei presenti, scelto a caso, lo invitò con un gesto a dirigersi verso la porta che aveva lasciato aperta.

Fausto Domeneghini, il figlio del pasticcere del paese, un uomo di circa 40 anni timido e introverso, che sicura- mente non aveva mai fatto male a nessuno, si trovò così a essere la prima vittima del furore tedesco. Insieme al sacerdote fu portato, da due SS grandi e gros- se, in una piccola stanza del primo piano. Una stanza desolatamente vuota ad eccezione di due sedie, una sistemata in un angolo e l’altra al centro della stanza. Sulla prima fu fatto sedere don Pompeo, al quale furono legate le mani dietro la schiena e le caviglie alle gambe della sedia. Sulla seconda il Domeneghini, al quale fu riservato lo stesso trattamento. Quando i due furono sistemati, la porta si aprì ed entrò lo Sturmbannführer, seguito da una pallida e tremante Annetta.
Questa, evidentemente sollecitata dall’ufficiale tedesco, chiese ancora al Parroco se intendeva o meno rivelare i nomi dei due assassini. Don Pompeo, pur preso da un attacco di panico, negò ancora la sua disponibilità. Annetta tradusse la nuova lunga frase che il Comandante le aveva detto, con voce quasi piangente
“Voi, don Pompeo, non sarete toccato, nessuno vuol prendersi la responsabilità di farvi del male. Ma il Fausto sarà picchiato sino a quando non cambierete parere. Ci pensi, per favore” soggiunse con fervore. Uno dei militi della SS si tolse la giacca, indossò un gros- so grembiule che chissà dove aveva trovato e che lo rendeva ancora più minaccioso, strinse nella mano destra un tirapugni in metallo, che si era tolto da una tasca dei pantaloni, e cominciò a colpire il Domeneghini che, tenuto dall’altra SS per i capelli, era costretto a mantenere il capo eretto.
Pugni violenti al viso, allo stomaco, alle spalle, alle gi- nocchia. Uno dietro l’altro, senza un disegno preordinato ma che erano mirati a fare più male possibile. L’uomo iniziò a urlare, mentre il viso diveniva una maschera di sangue perché il ferro del tirapugni lacerava i tessuti. Annetta, sempre più pallida, dopo poco si precipitò fuori della stanza e vomitò rumorosamente.
Don Pompeo più che impaurito era incredulo allo spettacolo che stava avvenendo sotto i suoi occhi. Urlò anche lui, pregò che smettessero, li maledisse ma non ottenne nulla.
Allora si mise a pregare Dio, lo chiamò in causa perché intervenisse a fermare un simile obbrobrio. Quando la SS si fermò pensò di essere stato ascoltato. Ma quando questa, ripreso fiato, ricominciò nella sua azione distruttiva rimase muto, incapace di fare nulla.

Per fortuna il Domeneghini, non sopportando ulterior- mente il dolore, perse i sensi. Se non fosse stato trattenuto, sempre per i capelli, sarebbe caduto in avanti procurandosi altre lesioni. Il viso si stava gonfiando, l’occhio sinistro era scomparso sotto uno strato di sangue e neppure si vedeva se esistesse ancora. Ferite sulla fronte e sulle guance. Pure le ginocchia, colpite più volte, si vedevano sanguinare attraverso i buchi e gli strappi dei pantaloni. I due vennero liberati dalle sedie alle quali erano stati legati e trascinati nuovamente in cantina. Nessuno dei due si reggeva in piedi. Non il Domeneghini che non aveva ancora ripreso i sensi, ma che comunque non avrebbe potuto camminare soprattutto per i pugni ricevuti alle ginocchia; non il Pompeo che, come paralizzato dallo shock, non riusciva a muovere né le braccia né le gambe. Quando arrivarono in cantina e furono buttati sul pavimento, il terrore invase la mente di tutti i presenti. Erano talmente impressionati dalle condizioni del Do- meneghini che nessuno, per minuti, riuscì a muoversi per dargli aiuto. Un aiuto difficile da fornire, essendo to- talmente privi di acqua o di qualsiasi liquido per pulire e medicare le ferite.

 

XLI

Il fatto che il Parroco non avesse partecipato ai Vespri senza averlo avvertito preoccupò molto don Arlocchi. Infatti tutte le volte che don Pompeo non aveva potuto intervenire a una cerimonia per una qualsiasi ragione, si era sempre premurato di avvisare il suo coadiutore. Finita la recita del rosario aveva affidato la chiusura della chiesa al Silestrini, il sacrista, e si era diretto alla casa par- rocchiale per avere notizie del suo superiore. Probabil- mente non stava ancora bene: alla mattina quando lo aveva incontrato, anche se pieno di verve, era pallido e visibilmente stanco.
Quando arrivò in parrocchia gli aprì l’Elvira. Neppure lei aveva notizie di don Pompeo ed era preoccupata an- che perché era la prima volta che il Parroco non le aveva dato le solite precise istruzioni per la cena. “Fammi sapere, per favore, quando torna e come sta. La cosa è strana e sono veramente preoccupato. Chissà che cosa gli è successo?”
Si diresse verso la sua povera casa cercando, tra sé e sé, di trovare una spiegazione plausibile, ma non gli veniva in mente nulla di accettabile. Entrato nel portico si trovò improvvisamente davanti a una persona che, al momento, non riconobbe. Era una donna che, tenendosi stretta al corpo una pelliccia, tremava visibilmente.
Capì infine che era l’Annetta, la bella figlia dell’avvocato Duchi. “Cosa ci fai qui sulle scale? Cosa è successo?” le chiese calmo perché stava iniziando ad abituarsi alle visite strane in ore altrettanto strane. La donna si alzò in piedi e gli si buttò tra le braccia piangendo. “Ma cosa è successo, benedetta ragazza? Calma, calma vieni di sopra e raccontami tutto” e presala per un braccio la guidò verso il suo appartamento. In cucina la fece sedere, riempì un bicchiere d’acqua e glielo porse. Si tolse il tabarro, la sciarpa di lana ruvida che gli aveva fatto la sua perpetua ed una specie di papa- lina che portava sempre all’aperto, estate e inverno. “Bevi un sorso d’acqua. Se vuoi ti scaldo un caffè. Ma calmati, benedetta ragazza, che mi metti in confusione. Ci mancava anche questo, con tutti i pensieri che ho già per la mente”. “Li ammazzano tutti di botte, li ammazzano don Arlocchi. Oggi hanno picchiato a sangue il Faustino, il figlio del pasticcere, lo conosce, vero? Forse è morto” balbettò tra i singhiozzi la donna. “Ma chi, ma cosa? Io non capisco. Oh povero me, Signore Gesù, Madonna santa, aiutatemi, io non ce la faccio più. Calmati, prendi fiato e raccontami tutto se vuoi che capisca” e anche lui si lasciò cadere su una seggiola.

Annetta si asciugò gli occhi, si soffiò il naso e, dopo aver tirato un paio di lunghi sospiri, raccontò tutto quello che era successo in sua presenza. Ogni tanto veniva interrotta, per chiarire qualche particolare, da un don Arlocchi sempre più agitato e che aveva iniziato a sudare abbondantemente. Quando Annetta arrivò a raccontare che il Parroco aveva riferito ai tedeschi di aver confessato due uomini di un paese vicino che si attribuivano la responsabilità di aver ucciso il soldato tedesco, don Arlocchi fece un salto sulla seggiola rimanendo con la bocca spa- lancata. Alla fine del lungo racconto il povero prete non sapeva più a che santo votarsi. Com’era il fatto che due persone avevano confessato al Parroco di aver ucciso il soldato tedesco se a lui lo avevano raccontato due perso- ne diverse? Ma quanti erano quelli che avevano fatto l’at- tentato? E perché avevano arrestato il suo Parroco se que- sti non aveva agito diversamente da quanto avrebbe fatto un altro sacerdote?
Le idee in testa si ingarbugliavano e lui cominciò a pas- seggiare avanti e indietro per la piccola stanza, bronto- lando tra sé e sé e cercando di mettere in ordine i fatti. – Un padre, un fratello, il Russì, il farmacista Temperini. Ma non è che Annetta aveva capito male? Il Russì e il far- macista non avevano sorelle ma, se per questo, non ave- vano neppure più un padre. E se uno dei due fosse anda- to a confessarsi anche da don Pompeo? Ma con quale scopo? Lui non aveva negato l’assoluzione, l’aveva solo rimandata. E poi di quelle cose così delicate meno gente ne sapeva meglio era. Ma se anche fosse andata così, il padre da dove spuntava? Oh Signore, io ti ringrazio per avermi fatto arrivare alla mia età senza dover affrontare grossi problemi. Ma negli ultimi tempi non è che stai un po’ esagerando? A me, un povero prete di campagna, non è possibile dare tutte queste responsabilità. Io non ce l’ho l’esperienza. A ognuno la sua croce, va bene. Io se devo portarla la porto, ma per dare aiuto agli altri in certe situazioni si deve avere o la predisposizione o l’e- sperienza. E io non ho né l’una né l’altra. Oh Signore e adesso io cosa faccio? Guidami tu, ti prego. Diciotto parrocchiani in carcere che rischiano di essere uccisi e con loro il mio Parroco. No, scusami Signore, ma è troppo. Madonnina, anche tu, dai, non negarmi il tuo aiuto. – “Annetta, vai cara, adesso tu vai a casa. Io mi metto a pregare e qualche soluzione la trovo, vedrai. Se è possibile te lo faccio sapere. Non dire niente a nessuno, per ora. Un segreto tra noi due. Se lo sanno in paese chissà cosa può succedere. Prendiamo tempo sino a domani mattina. E se puoi datti malata e non frequentare più quelle belve. Va’, va’ adesso. E prega anche tu per me che ne ho bisogno”. Così dicendo l’accompagnò alla porta che poi chiuse a chiave. La prima idea sensata che venne a don Arlocchi fu quel- la di avvisare il Vescovo di Brescia. Era un atto dovuto che permetteva anche di diminuire tutte le sue responsabilità. Mettersi nelle mani di un superiore, ascoltare i consigli, eventualmente eseguire gli ordini era la cosa migliore. E poi del Vescovo si diceva un gran bene. Era ostile ai tedeschi ma era riuscito a farsi rispettare e, in alcune occasioni, anche a farsi ascoltare. Dicevano avesse salvato molte persone da morte certa. Ma queste noti- zie si bisbigliavano solo tra amici perché non si poteva dire liberamente che i tedeschi uccidessero gli italiani.
Aveva ancora davanti mezz’ora prima della chiusura del centralino. Doveva fare in fretta, perché alle 20 le linee venivano interrotte d’ufficio e le comunicazioni cessavano. Si rivestì velocemente, prese quei pochi soldi che aveva dal cassetto della scrivania e corse verso l’ufficio postale, all’interno del quale vi era un piccolo spazio con il tavolo per la centralinista e due cabine telefoniche insonorizzate alla bell’e meglio. La centralinista, che era occupata a quell’ora a soddisfare, con le poche linee esistenti, le tante richieste di utenti che volevano telefonare, per un buon cinque minuti non diede retta al prete. Poi, senza neppure salutarlo, rispose alla sua richiesta di chiamare l’Arcivescovado di Brescia dicendo che se lui non aveva il numero neppure lei lo conosceva.
“E’ una cosa estremamente urgente, cara signorina” disse con un tono di voce e un cipiglio anche a lui sconosciuto “O lo cerca lei sull’elenco o mi dà l’elenco e lo cerco io. Tutto questo con estrema sollecitudine, per favore”. La donna, che conosceva il prete come una persona timi- da e introversa, fu colpita dal suo modo di fare e capì quanto la cosa fosse grave. Dopo pochi minuti disse: “L’arcivescovado di Brescia è in linea sulla due” riferendosi alla cabina numero due. Don Arlocchi, preso sempre più dai propri pensieri, ai quali si aggiungeva il disagio di dover parlare direttamente con il suo Vescovo, non capiva. Allora la centralinista gli fece cenno con la mano e il prete entrò nella cabina.
“Scusate il disturbo. Mi spiace tanto disturbare, davvero. Ho bisogno con urgenza di conferire con sua Eccellenza il Vescovo. E’ una cosa così importante, sa? Deve proprio passarmelo”.
“Le passo il Segretario. Aspetti!” rispose una voce sgarbata ed asettica. Dopo un tempo che a don Arlocchi sembrò lunghissimo, una voce da bambino malato chiese: “Chi vuol parlare con Sua Eminenza a quest’ora? Soprattutto per quale motivo?” e ribadì “A quest’ora”. Co- me per dire: ma dovete proprio disturbare in questo momento quando stiamo andando a cena?
“Sono un prete, sa, il coadiutore del Parroco di Breno, signor Segretario mi dispiace, sa, ma devo proprio parlare con Sua Eminenza. E’ una cosa grave e riservata”.

Il Segretario, probabilmente offeso dal fatto che lo si volesse saltare per una “cosa grave e riservata” – lui che del Vescovo godeva grande fiducia – avendo anche saputo degli arresti avvenuti a Breno, perdonò il suo interlocutore. “Vedo di fare quello che posso sperando di rintracciare Sua Eminenza” come se non sapesse che il prelato si era appena accomodato a cena nella grande sala da pranzo del palazzo vescovile. “Sono il Vescovo” arrivò alle orecchie di un tremebondo don Arlocchi il suono caldo e suadente del prelato “Sia lodato Gesù Cristo. Cosa posso fare per voi, figliuolo?” A questo punto, trovandosi in comunicazione con un personaggio così importante che lui aveva solo visto, e ammirato, a distanza, e con il quale non era mai riuscito a parlare né l’unica volta che era stato in Arcivescovado, né durante le visite pastorali a Breno per la somministra- zione delle cresime – tenuto sempre a debita distanza dal Parroco che voleva, solo lui, apparire al Vescovo – il cervello del povero prete andò, letteralmente, in acqua. “Sia lodato anche Lei Santità, no, scusate, Sua Eminenza. Mi prostro e bacio l’anello a Sua Eccellenza. Mi deve tanto scusare se la disturbo. Ma sono… in ambasce, sì, credo si dica così. Insomma non so proprio come dire. Ma qui a Breno stanno succedendo cose enormi, incredibili. Sì, proprio un’Apocalisse. Il Parroco è stato arrestato dai tedeschi perché ha detto che in confessione un padre ed un figlio hanno ucciso un soldato tedesco. Non so se sa. L’attentato lo chiamano. Ma io non so, perché io so che l’attentato lo hanno fatto altri due che hanno confessato a me, e la donna… non si sapeva nulla di una donna messa incinta, con rispetto parlando, Sua Eminenza. Sa io di queste cose non so, non capisco nulla. E adesso li vogliono ammazzare, tutti e 19, perché sono 18 più il Parroco. Vogliono ammazzare a bastonate i tedeschi. Ma no, cosa dico, oh Signur aiutami tu! Sono i tedeschi che vogliono ammazzare a bastonate i 18 che sono poi 19 perché c’è anche il Parroco don Pompeo Cappelletti, che Lei Eminenza sicuramente conosce. Io non so cosa fare. Mi aiuti Sua Eccellenza, mi aiuti, la prego”.
Il Vescovo che aveva cercato più volte di fermare lo sproloquio di don Arlocchi senza riuscirvi, in un momento di pausa, che il coadiutore si era preso per tirare il fiato, riuscì a intervenire. Con un tono fermo ma dolce, come se parlasse ad un bambino, riuscì a dire:
“Si fermi, figliuolo. Glielo ordina il suo Vescovo. Non parli e mi ascolti. Io non ho capito nulla di quanto ha cercato di dirmi. Ora io le farò delle domande ben precise e lei mi risponderà con calma e con precisione. I fatti, solamente i fatti e nulla di più. Ha capito?”
“Oh Sua Eccellenza, sì, ho capito, credo di aver capito. Sa io sono un povero prete ignorante di campagna e mi confondo quando parlo con Sua Eminenza. Che poi non è che ci sono abituato, che è la prima volta. Comunque mi domandi, per favore ed io, prostrato davanti a Sua Eccellenza, cercherò di rispondere nel modo migliore”. Il Vescovo iniziò a fare semplici domande precise e a ricevere risposte semplici e coerenti. Dopo dieci minuti era riuscito a rendersi conto della situazione e, non lasciando trasparire la rabbia che lo aveva assalito per il comportamento dello Sturmbannführer, cercò, prima di sa- lutare l’Arlocchi, di rassicurarlo promettendogli che non sarebbe stato lasciato solo. Non prendesse nessuna iniziativa prima che il suo Segretario, che avrebbe raggiunto Breno con il primo treno dell’indomani mattina, non si fosse messo con lui in contatto.
Solo dopo il termine della telefonata il Vescovo si rese conto di non aver neppure chiesto il nome al suo inter- locutore.

 

XLII

“Quel don Cappelletti, devo dire, non mi è mai piaciuto. Sempre sfuggente, un po’ viscido, mai un sorriso, con quel suo tono di voce monocorde…” stava dicendo al suo Segretario, dopo una parca cena consumata velocemente. “Ma, devo ammettere, una persona decisamente furba. Ha messo in scacco i tedeschi. O quanto racconta è vero e allora non possono né costringerlo a parlare, né possono uccidere degli uomini per pura vendetta e non quale ritorsione, trattandosi di un comune delitto, o si è inventato una grossa menzogna. Ma anche qui i tedeschi non possono fare nulla contro la popolazione. Si verrebbero a conoscere le parole del Parroco, i tedeschi sarebbero anche accusati di stupro e, dal punto di vista strettamente politico subirebbero una grande debacle. Sicuramente anche i fascisti non sarebbero d’accordo e la frattura già esistente tra loro e gli alleati tedeschi si amplierebbe a dismisura”.
“Don Mandelli, desidero che lei vada domani mattina a Breno, prima possibile. Non in auto perché apparirebbe una visita ufficiale. Può prendere il primo treno. La dispenso, data la gravità del fatto, di dire messa. Arrivato lassù contatti quel buon uomo del coadiutore”. “Si chiama don Arlocchi, Eminenza” lo interruppe il Segretario.
“Ecco, bene contatti don Arlocchi e poi, con le sue riconosciute abituali cautele, si informi presso la popolazio- ne. Quali sono state le reazioni agli arresti, quali i pensieri su don Cappelletti… beh, lei sa bene come fare in questi casi. Più si sa e meglio è. Rimanga a Breno tutte le ore necessarie, ma se ritiene vi sia qualcosa che devo sapere mi telefoni immediatamente. Mi pare io non ab- bia impegni fuori dall’Arcivescovado domani. Controlli, per favore. Anzi, mi lasci la lista delle cose che devo fare e delle persone che devo incontrare. A meno che la situa- zione di Breno si aggravi e allora saltino tutti i programmi. Un’ultima cosa, amico mio. Io intendo incontrare questa sera stessa il Comandante della Gendarmeria tedesca per riuscire a capire se e quali decisioni hanno preso. Lei mi accompagnerebbe? So che è molto stanco e che domani mattina dovrà alzarsi all’alba, ma abbiamo dedicato la vita a Dio e, quando è necessario, non possiamo risparmiarci”.
“Sempre a Sua disposizione, Eminenza. E’ solo un gran- de piacere poter collaborare con Lei e soddisfare i suoi desideri”.
“Ecco, bravo, troppo buono. Chiami i tedeschi, chieda del Colonnello Von Prisch e, se glielo passano, gli dica che voglio, meglio desidero, incontrarlo. Se è così gentile, olio, mi raccomando olio, di accettare ci andiamo subito e lei viene con me. Voglio un testimone… anzi, prenda appunti di quello che dirò. Potrebbe sempre servire a rinfrescarmi la memoria in caso di necessità”.
Quando la telefonata giunse al Comando tedesco, il Colonnello Von Prisch era in una concitatissima riunione iniziata alle 18 quando era giunta da Breno, portata da un motociclista, la dettagliata relazione dello Sturmbannführer. Von Prisch si era reso subito conto della gravità della situazione e aveva convocato nel suo ufficio il capo locale delle SS, il responsabile della polizia politica e i suoi collaboratori diretti.

La situazione in Italia era sempre più complicata. Il nu- mero dei partigiani aumentava di giorno in giorno, la popolazione italiana era sempre più ostile e gli alleati an- glo-americani, anche se bloccati temporaneamente all’al- tezza di Cassino, non erano sicuramente intenzionati a diminuire i loro sforzi di raggiungere velocemente il nord. Von Prisch, come tanti degli ufficiali tedeschi, aveva capito che la guerra per loro era persa e che bisognava pensare al dopo, evitando di creare nuovi motivi di rea- zione da parte della popolazione italiana.
Mettersi apertamente contro il Vaticano, poi, pretendendo da un sacerdote di tradire il suo mandato in un momento così delicato, sarebbe stato un nuovo passo falso. Chiaramente le SS, tanto invaghite del loro Führer da non capire che ormai erano pura follia le sue azioni asse- tate di sangue, pretendevano che venisse compiuta un’a- zione punitiva nei confronti degli arrestati. Anche senza una prova della loro colpevolezza. Per fortuna il peso del pensiero delle SS nei comandi militari diminuiva conti- nuamente. Venivano considerati dei rompiballe, anche se dei temibili rompiballe. All’arrivo del Vescovo il colonnello fece uscire tutti dal suo ufficio. Spalancò le due finestre per liberare la stanza dal fumo dei sigari e delle troppe sigarette che i mili- tari avevano nervosamente fumato nel corso delle 3 ore di riunione. Fece accomodare il prelato su una delle due comode poltrone Frau che si era portato con sé nel corso dei numerosi spostamenti e alle quali non voleva rinunciare per nessuna ragione. Quando vi si sedeva a riposa- re – e la cosa avveniva sempre più raramente – si sentiva un po’ a casa sua. Gli erano state, infatti, regalate da frau Angela, la sua adorata moglie che non vedeva ormai da oltre un anno, per arredare il suo vero primo ufficio a Karlsruhe quando, promosso al grado di Haupmann, era stato mandato a comandare quel distretto.Prese posto nell’altra lasciando che il Segretario usasse una sedia alle spalle del Vescovo.

Dopo i primi convenevoli, il colonnello si alzò, prese una scatola di sigari – conosceva l’unica debolezza del Ve- scovo – la porse all’ospite che, con un ampio sorriso, di- mostrò la sua riconoscenza. Ignorando poi il Segretario, ne scelse a sua volta uno e si rimise a sedere.Sembrava un normale incontro tra amici. Mancava solo un bicchiere di un buon vino d’annata o un sorso di brandy per renderlo più piacevole. Ma il colonnello era diventato drasticamente astemio dopo che il padre, alcoolizzato, era morto di cirrosi epatica. Due uomini di azione, come erano i nostri, non potevano perdersi in lunghi convenevoli. Il primo a introdurre lo scontato argomento fu il Vescovo.Con parole durissime condannò il modo di agire di questi giovani ufficiali.“Non dico solo tedeschi sa, caro colonnello. I giovani d’oggi sono tutti cresciuti nutrendosi di materialismo e la parte spirituale dell’esistenza, che dovrebbe essere la predominante, è misconosciuta, dimenticata e calpestata”. Tornando ai fatti specifici, dichiarò inaccettabile che un sacerdote fosse stato incarcerato unicamente perché si rifiutava, secondo le regole canoniche, di infrangere il segreto della confessione.
“Non ho ancora riferito nulla alla Santa Sede ma sarò costretto a farlo se niente avverrà entro 24 ore. Non vuo- le essere un ricatto, caro colonnello, ma anch’io ho dei superiori ai quali sono tenuto a riferire”. Con grande meraviglia del Vescovo e del suo Segretario la risposta di Von Prisch fu pronta e chiara. Riteneva il giudi- zio del Vescovo sui giovani un po’ troppo severo ma condivideva la preoccupazione che le nuove generazioni non crescessero più con quei principi e quella cultura che erano sempre stati il vanto di nazioni come l’Italia e la Germania. “Mala tempora currunt” continuò il colonnello, “e quando è in pericolo la sopravvivenza, la parte spirituale della vita, inevitabilmente, passa in secondo piano”. Al colonnello, che parlava un italiano fluente, piaceva mettere in evidenza la sua cultura e, quando aveva avuto occasione di incontrare il Vescovo, gli aveva confessato, un po’ vantandosene, un po’, da uomo di preparazione militare, vergognandosene, di aver effettuato profondi studi di filosofia all’università di Bamberg.“Ma veniamo ai fatti di oggi” proseguì il Colonnello. “Io sono d’accordo con Lei che la cosa è stata mal gestita, lo stavo proprio sostenendo poco fa con i miei aiutanti. Sono lieto della sua visita perché ho l’occasione per chiederLe di collaborare perché tutto venga messo a tacere. Noi rilasceremo gli uomini arrestati e il suo sacerdote. Il suo sacerdote non comunicherà a nessuno quanto ha saputo in confessione. Lei quindi non ha saputo nulla e tanto meno il Vaticano. Affossiamo tutto”.
“Mi sembra un accordo ragionevole, signor colonnello” rispose il Vescovo che non aveva sperato tanto e cercava di nascondere la gioia che lo aveva invaso.
“E come faccio ad essere sicuro che verrà rispettato?” “Promissio boni viri est obbligatio, ammesso che Lei mi ritenga un uomo onesto”.
“Certo, lo penso. Anzi ne sono sicuro” rispose il Vescovo. “Abbia la compiacenza di attendermi un attimo. Ho un motociclista che deve rientrare a Breno e devo comunicargli le nostre decisioni. Poi finiremo, in santa pace – mi passerà questo termine signor Vescovo – i nostri sigari”. “Sa, quasi quasi gli chiedevo se il motociclista non potesse dare a lei un passaggio sino a Breno. Poi mi è sembra- to sconveniente, non per lei, ma per il colonnello” disse il Vescovo, che era preso da un’incontrollabile allegria dopo la tensione di tutte le ore precedenti, mentre lui e il suo Segretario rientravano in arcivescovado. Il Segretario non capì lo scherzo e rimase in silenzio a testa bassa. “Domani mattina però, la prego, vada ugualmente a Breno. Magari non con il primo treno, ma presto comunque, per controllare che tutto si risolva, effettiva- mente, nel migliore dei modi. Mi spiace di non poter avvisare io il povero don… come si chiama, ah sì, Arlocchi, ma se il motociclista arriva per tempo e l’ordine viene eseguito subito, in paese si farà sicuramente festa e anche lui vi parteciperà”.

(continua…)

 

 

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Edith Bruck “Il pane perduto” -La nave di Teseo- euro 16,00

Non bisogna mai smettere di ricordare l’orrore dello sterminio degli ebrei, soprattutto oggi che xenofobia e razzismo tendono ad rialzare la testa. E’ questo il valore aggiunto delle pagine autobiografiche in cui la scrittrice ungherese Edith Bruck -nata nel 1931, ultima di 6 fratelli di una modesta famiglia ebrea- nel 1944, poco più che una bambina sprofonda nell’inferno della persecuzione.
Dapprima sperimenta l’ostracismo riservato alla sua stirpe: lei bravissima a scuola è relegata al fondo della classe con altre 2 allieve ebree. Ma è solo l’anticamera dell’atrocità che irrompe con i gendarmi nella sua casa: arrivano e li portano via tutti con la forza, per caricarli sui treni della morte.
E’ l’inizio di un viaggio crudele in cui sono ammassati come bestiame e destinati ai campi di concentramento.
Lei è piccola, spaventata e non sa a cosa sta andando incontro. Dopo 4 giorni il treno frena bruscamente e ad accoglierli ci sono cani feroci e nazisti spietati che operano la prima selezione. Loro non lo sanno, ma la differenza tra essere ammassati a destra o a sinistra sancisce l’immediata morte nelle camere a gas o l’indicibile orrore delle baracche, con fame, freddo, pidocchi, malattia e morte.

Quello che segue è il racconto di una bambina che, separata dai genitori (struggente la scoperta del destino della madre nel campo in cui si cammina sulla cenere eruttata dai camini dei forni crematori), si ritrova a tentare di sopravvivere insieme alla sorella Judit.
Vengono spostate in vari inferni, tra le tappe ci sono Anschwitz, Dacauh e Bergen-Belsen, la macabra toponomastica dello sterminio. Riescono a sopravvivere ma si porteranno sempre dentro il ricordo degli stenti, delle pile di cadaveri che sono state obbligate a trascinare nella piramide umana del Todzelt, ovvero la tenda della morte e dell’infamia nazista.

Quando vengono liberate sprofondano nello spaesamento, nella disperazione e nel senso di abbandono. Ritrovano due sorelle, ma l’accoglienza non è quella sperata. Dilaniante è il senso di estraneità rispetto agli altri ebrei che non hanno conosciuto la mostruosità dei lager; è impossibile che capiscano quello che hanno vissuto Edith e Judit. Va meglio con il fratello che era stato internato col padre e che, come loro, ha attraversato la tragedia.

Judit cercherà il futuro in Israele, mentre Edith realizza di voler scrivere. E’ la genesi della sua lunga e straordinaria carriera di scrittrice di romanzi, poesie e traduzioni, grande testimone della Shoah.
Ed eleggerà l’Italia come paese di adozione, accanto all’uomo della sua vita, il regista Nelo Risi, scomparso nel 2015, col quale aveva costruito un lungo sodalizio artistico oltre che sentimentale.

 

Susan Allott “Una vita migliore” -HarperCollins- euro 18,00

E’ strepitoso l’esordio letterario della scrittrice inglese Susan Allot, che ha vissuto e lavorato negli anni 90 in Australia, salvo poi avvertire la nostalgia di casa e tornare in patria dove ha incontrato e sposato un australiano. Ora vivono a Londra con i loro figli, ma il paese dei canguri le è rimasto nel cuore.
Questo romanzo noir è in qualche modo un omaggio a quella terra e affronta temi corposi come i rapporti matrimoniali, tradimenti, derive di disperazione, alcolismo e violenza domestica, nostalgia per la patria di origine e l’argomento scottante dei bambini aborigeni sottratti arbitrariamente alle loro famiglie.
Una vergogna a lungo taciuta che riguarda la “stolen generation” (la generazione rubata), ovvero i bambini isolani dello Stretto di Torres allontanati con l’inganno e la forza dai genitori, in ottemperanza alla spietata legge dei governi federali australiani in vigore dal 1869 al 1970.
Secondo alcune stime ha coinvolto almeno 100.000 piccoli aborigeni. L’idea era quella di fornire loro un futuro migliore; venivano affidati alle missioni religiose che avrebbero dovuto educarli secondo “lo stile di vita bianco”. Ma in realtà, molti finivano in un buco nero.
Su tutto poi imperversano segreti accuratamente custoditi e la misteriosa scomparsa da 30 anni di una delle protagoniste, della quale non è stato ritrovato neanche il corpo.
Al centro ci sono due coppie che abitano vicine in un tranquillo sobborgo di Sydney, fatto di villette e giardini curati affacciati sul mare e destinati ad aumentare di valore negli anni.
Nel 1967 lì comprano casa gli immigrati inglesi Joe e Louisa con la loro bambina di 4 anni, Isla; e la coppia formata da Mandy e Steve, che di mestiere fa il poliziotto. Agli inizi sembrano giovani, belli e spensierati; ma sotto la superficie albergano inquietudini e insoddisfazione.

Louisa è attanagliata dalla nostalgia di Londra, Joe non la capisce e lei a un certo punto decide per uno strappo doloroso che getta il marito nella disperazione.
Le cose non vanno meglio per l’altra coppia con la quale fanno amicizia. Mandy che fa un po’da baby sitter a Isla, è terrorizzata dalla prospettiva di una gravidanza. Cosa che invece renderebbe felice Steve, il quale a sua volta è dilaniato dal suo lavoro “sporco”; perché è lui che ha lo sgradevole compito di strappare dalle loro famiglie i piccoli aborigeni per relegarli in case di accoglienza ed assistenza minorile.

La storia corre di pagina in pagina su due piani temporali diversi: nel 1967 quando improvvisamente si perdono le tracce di Mandy e poi nel 1997 quando Isla Green, 35enne in lotta contro l’alcolismo e residente a Londra, torna in Australia perché il padre è accusato di essere stato l’ultimo a vedere Mandy ed è il principale sospettato.
Isla deve confrontarsi con il passato, e continui colpi di scena vi indicheranno la strada verso la soluzione del mistero.

 

Linn Ullmann “Gli inquieti” -Guanda- euro 20,00

Ingmar Bergman, nato nel 1918 e morto nel 2007, è stato uno dei registi più geniali e famosi a livello mondiale del 900: autore di opere di profonda introspezione psicologica, sommo maestro nel raccontare drammi interiori, angosce e senso della morte. Sceneggiatore, drammaturgo, scrittore e produttore cinematografico svedese ha lasciato all’umanità pellicole della caratura de “Il settimo sigillo”, “Il posto delle fragole”, “Scene da un matrimonio” ed altre perle della storia del cinema.

Linn Ullman è la figlia del regista e dell’attrice Liv Ullmann, che ebbe ruoli importanti in alcuni film di Bergman e nella sua vita privata. Si innamorarono sul set nel 1964 e dalla loro relazione nacque nel 1966 la loro unica figlia.
Liv capitò tra un matrimonio e l’altro. Per stare con lei, il regista lasciò la sua quarta moglie; i due vissero insieme ma non si sposarono mai e le loro strade presero tangenziali diverse quando Linn aveva 5 anni. La bambina crebbe con la madre, attrice tra le più intense e talentuose della sua epoca, sempre in viaggio tra Europa e America, tra un set e l’altro. Una madre «capace di piegare una sbarra di ferro con uno sguardo» facendo sentire la figlia compresa e amata.
Oggi Linn è un’affermata scrittrice e questo libro è il suo portentoso tributo al padre.
Quasi 400 pagine che ci portano dentro la vita incredibile del genio, dalla vita sentimentale parecchio intensa: sposato 5 volte ebbe in tutto 9 figli da 6 donne diverse.
Un’ incredibile famiglia allargata in cui la prole legò allegramente, soprattutto durante le spensierate vacanze sulla piccola isola svedese di Fårö nel Mar Baltico. Lì, nel villaggio di Hammars, il regista costruì una casa in pietra, con vista sul mare, che negli anni ampliò sempre e solo orizzontalmente, nido del via vai dei numerosi figli.
E’ lì che Bergman scelse di ritirarsi nel tempo del declino, fino alla sua morte a 89 anni il 30 luglio del 2007.

Quando è alla soglie degli 80 anni, e avverte che la memoria sta scemando, Ingmar Bergam è alla figlia più piccola, Linn, che affida il racconto della sua vita, tutto metodicamente registrato e trascritto dalla scrittrice. Nel libro, a metà strada tra opera autobiografica e biografia romanzata, l’autrice mischia ricordi personalissimi alle parole del padre; a volte stentate o sconclusionate, soprattutto quando la memoria stava per arrendersi all’impietoso incedere degli anni.

E’ soffuso di affetto figliale il ritratto di un genio che nella vita privata ha pasticciato tra amori, tradimenti e tratti da Peter Pan; salvo poi venire schiantato dal dolore per la morte dell’ultima moglie, Ingrid, consumata dal cancro.
Emergono anche le debolezze di un padre “monumento”: forte, impeccabile, capace di pensare e creare in grande, ma anche con qualche mania, come la fissazione per la puntualità.

C’è poi l’ultimo tratto di stentata vita del regista, sempre più debole, depresso e relegato alla sedia a rotelle; accudito da uno stuolo di donne governate con piglio dittatoriale da Cecilia, che manda avanti la casa, protegge ogni istante il malato e spesso sgrida anche Linn perché disturba “Pappa” desideroso di pace e silenzio.
Ingmar Bergam fa i conti con l’avvicinarsi di quella morte di cui erano intrisi i suoi film. E fu regista fino all’ultimo, dando le disposizioni da seguire rigorosamente alla sua morte. Pianificò puntigliosamente ogni frame del suo funerale, scrisse e modificò il testamento, decise il luogo in cui voleva essere sepolto e diede anche disposizioni per esumare la salma di Ingrid e farla riposare accanto a lui.

 

Se poi volete leggere altre opere di Linn Ulmann vi consiglio il romanzo “Prima che tu dorma”
-Mondadori-

Anche qui l’autrice racconta la storia di una famiglia norvegese attraverso le vicende di tre generazioni. Voce narrante è quella di Karin che una sera racconta una storia al nipotino Sander, figlio della sorella Julie.
E’ l’avvio di ricordi e pensieri che imbastiscono i rapporti della sua famiglia.
Più che una saga familiare è la narrazione delle tante difficoltà e differenze caratteriali che possono rendere difficile la convivenza tra le pareti domestiche e non solo. Linn Ulmann scava a fondo nell’animo dei personaggi e ci regala un romanzo che, per tematica e modo di affrontare questioni e sentimenti profondissimi, ci rimanda a famosi film del padre, come “Scene da un matrimonio” o “Fanny e Alexander”
A partire dal nonno emigrato in America negli anni 30 e il suo matrimonio con la nonna June; poi la madre Anni, irresistibile ma infelice e alcolizzata, con punte di pazzia. Dotata di una bellezza mozzafiato, ma anche egocentrica e decisamente balzana.
Vivere con lei è difficile se non impossibile, tant’è che il marito abbandona la famiglia quando Karin è ancora piccola; ma continua il legame forte con le figlie -suoi “cuori gemelli”- anche se in modo sporadico.

Poi c’è la sorella maggiore Julie che ha paura dei sentimenti e si relega in un matrimonio stentato, nella falsa speranza di trovarvi la sicurezza che va cercando.
Non manca anche una zia sui generis: è l’ultraottantenne Selma (sorella minore della nonna June), perennemente arrabbiata con la vita e con tutti quelli che le capitano a tiro, a partire dai parenti. Fuma 40 sigarette al giorno, beve come una spugna e sembra che a tenerla in vita sia un’ insondabile e profondissima ira. Tanto per darvi un’idea del personaggio, quando morì la sorella June, lei festeggiò con una bottiglia di cognac. Le due si detestavano dopo un episodio sgradevole capitato quando erano giovani e vivevano ancora in America.
Karin scava nei complessi rapporti di amore ed affetto della sua famiglia, intrecciando ricordi e fantasia; ma parla anche molto di se stessa, dei suoi sogni e delle aspettative deluse, della sua irrequietezza e le difficoltà nel costruire legami solidi.

La passione per la libertà. Ricordi e riflessioni

LIBRI / Pier Franco Quaglieni, noto storico e giornalista, fondatore nel 1968 del Centro Pannunzio con Arrigo Olivetti e Mario Soldati, ha fatto propria e portato avanti per una vita la battaglia per la libertà e per la tolleranza (che altro non è se non il rispetto della libertà altrui).

Definito da Gramellini un «liberale del Risorgimento nato nel secolo sbagliato. Per nostra fortuna.», da alcuni anni presenta al pubblico una panoramica di insigni personaggi italiani del ‘900, con il duplice obiettivo di riconoscere loro meriti troppo spesso taciuti e di indicarli ad esempio per le nuove generazioni. Lascito che diventa necessità impellente con il progressivo scadere del dibattito politico, l’aumento della veemenza e dell’intolleranza nei social, la riduzione progressiva degli spazi dedicati alla libera cultura.

Nel primo capitolo di questa panoramica, Figure dell’Italia civile(2016) l’autore tratteggia i maestri e gli amici che hanno costituito i pilastri del pensiero liberale, e non solo, del ‘900, in parte per averli studiati, in parte per averli conosciuti o averne condiviso le battaglie. Einaudi, Calamandrei, Rossi, Bobbio, Montanelli, Ciampi, Spadolini, Pannella, solo per citarne alcuni, emergono non solo come pensatori, ma nella loro piena umanità, con le loro passioni, le loro incertezze, le loro battaglie che hanno fatto dell’Italia il paese che è oggi. Nel 2018, con Grand’Italia, questa Antologia di Spoon River si arricchisce di altri insigni personaggi, anche non strettamente legati all’idea liberale: Saragat, Gramsci, Eco si affiancano a Guareschi, Martini Mauri, Sartori, Zanone e tanti altri. Nella varietà delle posizioni, si ricostruiscono i contesti politici, i dibattiti, le polemiche, anche molto accese, dei decenni passati. Il dar voce a posizioni anche contrastanti è scelta imprescindibile, non solo per amore di verità storica, ma anche perché, ricordando Gobetti, solo attraverso il confronto le idee poterono e possono proseguire.

Oggi viene alla luce un terzo capitolo La passione per la libertà. Ricordi e riflessioni che, se da un lato integra i lavori precedenti, dall’altro apre a nuove tematiche. Sempre nella duplice accezione di dar loro un riconoscimento e di indicarli quale esempio alle nuove generazioni, trovano spazio personaggi più vicini ai nostri giorni quali Daverio, Biondi, Ostellino o Pansa di cui tutti ricordiamo le opere ed in alcuni casi i forti dibattiti che hanno suscitato (e suscitano). Si arricchisce così questa poliedrica storia del ‘900, rivista con le prese di posizione di molti dei suoi protagonisti, spesso in aperta antitesi tra loro. Solo la profonda conoscenza, unita all’onestà intellettuale ed al rigore storico di Quaglieni, poteva presentare i passaggi fondamentali del secolo, non in modo lineare come un qualsiasi manuale scolastico, ma attraverso le scelte dei suoi artefici. Ritroviamo i dibattiti sull’intervento in Libia nel 1911 o nella Grande Guerra, le posizioni sull’avvento del fascismo e sulla sua caduta, con la conseguente guerra civile, ma anche l’esodo giuliano-dalmata e le foibe. Più recentemente il brigatismo, i dibattiti sulla scuola, i temi sempre divisivi dell’aborto e del divorzio. Tra le tante tematiche ne cito una, illuminante per l’equilibrato modo di porla. Riprendendo la strage delle Fosse Ardeatine, l’autore ricorda una delle vittime, Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo, capo del Fronte Militare clandestino, arrestato per delazione, torturato in modo disumano, che mai parlò tradendo i suoi compagni, insignito di medaglia d’oro della Resistenza. Tacque eroicamente, nonostante fosse stato contrario ad atti terroristici, quale quello di via Rasella che causò la rappresaglia, a cui per poco scampò Pannunzio. Chi invece compì l’attentato, non si consegnò per evitare la strage e, dopo la guerra, ottenne onori e riconoscimenti, sotto la protezione di Amendola. L’aspetto più interessante di questo racconto, è il ritratto che l’autore delinea, alcune pagine dopo, dello stesso Amendola. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, nonostante le responsabilità per via Rasella, il giudizio su Amendola è distaccato e complessivamente positivo. Questo esempio è significativo della personalità e dell’opera di Quaglieni, la capacità, più unica che rara, di mantenere un giudizio equilibrato, scevro di preconcetta faziosità o di umana emotività: storico nel senso più puro del termine. Una perla rarissima, rispetto all’involgarimento cui siamo purtroppo abituati.

Ne La passione per la libertà, l’autore va oltre al ruolo di storico e docente che caratterizzava i primi libri, affiancando quello del giornalista che interviene e partecipa a dibattiti attuali: non a caso è anche una delle firme più autorevoli de il Torinese. Trovano così posto nel volume alcune prese di posizione, anche fortemente polemiche, su temi odierni come l’esclusione di Casa Pound dal Salone del Libro, la lapide sui disertori al Vittoriano, il negazionismo sulle foibe, il revisionismo sul Risorgimento. Anche quando entra nel dibattito, però, ha la capacità di ascoltare e vagliare le tesi opposte, prendendo seccamente le distanze da chi dimostra un’intolleranza o una faziosità che non gli sono mai appartenute.

In quest’ultimo lavoro poi, sono presenti (e colpiscono chi lo conosce e ne apprezza da tempo le opere) alcuni tratti spiccatamente personali, da ricordi di infanzia, ad album di famiglia ad aneddoti personali di alcuni dei personaggi ricordatiche svelano un aspetto più intimo del professor Quaglieni. Conclude il volume Riflessioni sulla laicità tra Cristianesimo edIslam e il magistero del Cardinal Ravasi, più che un capitolo, di fatto è un breve saggio che ripercorre in modo esaustivo, tra Matteucci, Bobbio, Croce, Abbagnano, Pera la difficile convivenza tra liberalismo e religione, nelle varie declinazioni tra anticlericalismo, laicismo e laicità. Argomento di grande rilevanza, sia perché il Cristianesimo è alla base della cultura occidentale ed i rapporti con esso sono stati fondamentali tanto per il Risorgimento, quanto per l’antifascismo; sia perché lascia trapelare un avvicinamento dell’autore, in età matura, ad un sentimento religioso che in passato, forse, non sentiva così vicino. Questo, al di là di titoli e riconoscimenti formali, rende l’autore ancora più umano ed il libro ancora più interessante.

Paolo Vieta

 

“L’orto fascista” Romanzo / 9

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XXXIV

Il Commissario l’aveva accompagnata sino alla porta continuando a ripetere: “Mi tenga a sua completa disposizione. Mi faccia sapere. Io qui sono ai suoi ordini. Mi faccia sapere, per favore. E ossequi al signor Podestà. I miei rispetti a lei a al suo signor marito. E buon viaggio, buon ritorno a casa. E tu, Giovanni” disse rivolgendosi all’autista, “fa’ tutto quello che ti chiede la signora, la porti dove vuole andare. E non andare veloce, sii prudente, che non possiamo far correre alcun pericolo alla signora. Hai capito? Hai capi- to? E allora rispondi, perdio! Hai salutato la signora? Sei sempre il solito villano. Insomma signora ricordi sempre: al suo servizio e rispetti al signor Podestà.”
Aprì la porta della Fiat 1500. Aiutò Lucia a sistemarsi sul sedile posteriore sostenendola per un braccio e, dopo un rapido saluto fascista, chiuse la porta e fece cenno all’autista di partire.
Finalmente Lucia poteva rilassarsi ed iniziare a pensare quale comportamento tenere con il marito e con il Parroco.
Il Commissario sicuramente avrebbe mantenuto il segreto. Ne aveva tutto l’interesse. Il Parroco ancora più del commissario.
Tuttavia, mentre con il primo non avrebbe più avuto contatti, se non cercandoli, con il secondo le occasioni di un incontro sarebbero state continue. Che dire al marito? Dargli una preoccupazione in più, ora che ne aveva già tante dopo la morte del tedesco? E poi, in fin dei conti, quello che era successo era stato sgradevole, sgradevolissimo ma privo di conseguenze. Lei era stata violentata moralmente, ma fisicamente non le era successo nulla.

E il marito cosa avrebbe potuto fare? Chiedere il trasferimento del commissario e forse anche quello del prete? Con il rischio di dover mettere tutto in piazza, perdendo prestigio lui e onore lei.
Quello che più desiderava era arrivare a casa. Si sentiva sporca dentro e fuori. Fare un bel bagno l’avrebbe aiutata a pulirsi solo esternamente, ma era già qualcosa.
Si lasciò cullare dall’andatura della comoda auto che, lentamente e con estrema prudenza, affrontava le nume- rose curve della strada che correva lungo le sponde del lago d’Iseo.
Giunta a Pisogne, ricordò l’avventura con il Manucelli, il Segretario Provinciale che sperava di farla sua ma che si era rimediato solo una notte di febbre e di brividi. Ricordò tutti i particolari, tutti i preparativi predisposti dal Manucelli e vanificati dai sintomi di quella strana malattia che lo perseguitava. E se tutto fosse andato, in- vece, come predisposto? Adesso lei come si sentirebbe? Non volle darsi una risposta anche perché non riusciva, tra quei ricordi, a togliersi dagli occhi lo strano sguardo di quello che avrebbe potuto diventare il suo amante mentre lei lo accudiva. Lo sguardo non del fiero combattente fascista, ma piuttosto quello di un cucciolo d’uomo bisognoso di affetto ed assistenza. “Da donna di pia- cere a crocerossina” pensò e le venne da sorridere. Finalmente, superata la salita che portava al paese, la Fiat 1500 giunse a Breno. La donna indicò all’autista il per- corso per raggiungere la sua abitazione e finalmente il viaggio ebbe termine.
Lucia ringraziò Giovanni, si complimentò per la guida e lo pregò di non scendere dall’auto per non dare sospetti. Aperta la portiera se ne andò.
Usò le chiavi per entrare e quasi si scontrò col marito che stava uscendo per andare ad una delle ormai giornaliere sedute comunali.
I saluti furono frettolosi. Lucia disse di essere stanchissima e con un gran mal di testa. Il Podestà non si dichiarò in pensiero per il suo ritardo, ed essendo atteso a una riunione che sarebbe stata importantissima, le diede un breve bacio sulla guancia ed un arrivederci a domani.
Dopo un lungo bagno, Lucia si scaldò una grossa tazza di latte, sperando che le propiziasse il sonno.
Si mise a letto. Domani sarebbe stato, dopo una buona notte di riposo, il giorno per prendere le giuste decisioni.

 

XXXV

Pompeo era stato ordinato sacerdote a 24 anni. Tutti passati nella menzogna. Aveva iniziato il “mestiere” di prete come quello di un qualsiasi impiegato, senza una vera fede e senza seguire i buoni insegnamenti che gli erano stati impartiti. Il Vangelo era solo una guida da seguire per convenienza e per non creare problemi con i suoi superiori ai quali si rivolgeva sempre con falsa e viscida deferenza, pronto, in ogni occasione, a rispettare i loro desideri.
Aveva trovato apprezzamento presso il Vescovo che gli aveva permesso dapprima un breve periodo passato come coadiutore in uno piccolo paese della bassa bresciana, ad aiutare un vecchio Parroco un po’ rimbambito, poi, dopo la trasferta in Spagna – che aveva sollecitato come una missione pericolosa contro gli atei comunisti – di diventare Parroco.
Prima in una parrocchia di Cremona, ove aveva trascorso 10 anni, e poi, con sollievo dei propri parrocchiani che certo non lo amavano, era arrivato a Breno.
Ora, a 40 anni, cercava disperatamente di non fare un esame di coscienza per non sentirsi quello che in effetti era: un povero disgraziato. Ma gli ultimi accadimenti ave- vano sgretolato questo muro che aveva da tempo costruito tra lui e la sua coscienza. E fu così che quella notte dovette prendere atto di quanto aveva peccato. Di non aver mai amato il proprio prossimo, di non essere stato un pastore per le pecorelle che gli erano state affidate, di aver pensato solamente ai suoi egoismi e ai suoi vizi.

Si girava e rigirava nel letto che era diventato troppo duro e, gli pareva, pieno di spine. La testa in fiamme; un sudo- re, a volte caldo e a volte ghiacciato, gli bagnava tutto il corpo. Dapprima pensò che tutto dipendesse da un improvviso attacco cardiaco ma poi capì che era il rimorso ad agitare la sua mente e a provocargli queste reazioni. Pensò a Cristo, là sulla croce a pagare per i peccati degli altri, soprattutto per i suoi. Troppi! Aveva bisogno di una riconciliazione, aveva bisogno, finalmente, di aprire all’amore quel suo cuore così mala- to di presunzione, egoismo, falsità. Passò in rassegna i comandamenti e ammise di averli disubbiditi tutti, dal primo all’ultimo, più volte. Ebbe, improvvisamente, un sincero desiderio di redenzione, quasi fosse stato vera- mente fulminato da Dio che gli aveva impresso nella mente, tutte insieme e contemporaneamente, le malefatte che aveva compiuto.
Senza accorgersene si trovò inginocchiato a lato del letto a pregare. Non tanto per chiedere perdono a Dio, ma per domandare la grazia che lo rinsavisse, che gli facesse inizia- re una nuova vita. In remissione dei peccati, certo, ma soprattutto per poter dare agli altri, a tutti gli altri, l’amo- re che, come fratelli, meritavano. Mettersi al loro servizio. Passò tutta la notte a pregare e meditare, bagnando le coperte del letto, ove aveva appoggiato la testa, con le lacrime della vergogna prima, e con quelle della speranza poi. Era talmente rapito dai suoi pensieri, da questo nuovo stato di grazia che non aveva mai conosciuto, che si accorse solo dopo qualche minuto del bussare insistente alla porta della camera.
“Chi è?” chiese con amarezza dovendo abbandonare quella nuova gradita situazione.

“Sono l’Elvira, signor Parroco. Devo parlarle con urgenza. E’ successa una cosa gravissima. Devo dircela, per favore”. “Preparami un caffè, per piacere, che mi vesto e vengo subito”.
– Per piacere?- pensò l’Elvira che aveva sempre solo ricevuto ordini sgarbati dal suo Parroco. – Deve stare vera- mente male o ha perso la testa – e corse in cucina a preparare il caffè.
Don Pompeo arrivò dopo qualche minuto, spettinato, mezzo vestito e senza neppure le ciabatte.
“Oh, signor Parroco” iniziò la donna. “Mi fa piacere che stia meglio perché c’è bisogno di lei in paese. E’ successa una cosa terribile! Quelli della Muti e i todeschi questa notte hanno arrestato almeno 25 tra uomini e donne. Li hanno portati tutti nella casa del Salvetti, sa quella che c’è sulla strada per Bienno. Li hanno messi giù in cantina e li mazzano tutti se non viene fuori il colpevole della morte del todesco. In paese sono tutti terrorizzati. Anche il Podestà, mi ha detto il don Arlocchi, che tra l’altro ci vorrebbe parlare, non sa come comportarsi. Tutti spetta- no lei che quelli della Muti la rispettano e, come prete, mi scusi sacerdote, la devono stare a sentire”.
“Va bene, va bene” rispose il Parroco. “Un po’ di calma, mica si prendono 25 persone e le si ammazzano subito. Daranno un po’ di tempo… Per favore, vai dal don Ar- locchi e digli se può venire. Ma adesso che ore sono? Le sei e mezza. Vai quando finisce la messa, non disturbarlo prima che se no si spaventa ancora di più”.
Andando verso il bagno, per lavarsi, un’idea lo colpì. Dio, nella sua immensa bontà, aveva creato subito una situazione nella quale lui avrebbe potuto agire iniziando una nuova esistenza.
– Grazie, Padreterno. Te ne sono grato ma per favore gui- dami tu. Come tu sai io non ho molta esperienza nel fare le cose buone! – E, forse per la prima volta, da anni, gli venne da sorridere.

 

XXXVI

In paese era arrivato uno Sturmbannführer delle SS con 6 militi. Avevano requisito l’albergo Fumo, buttando fuori anche due vecchietti che da tempo vivevano a pensione.
A riceverli era stata una Benedetta tremante che aspetta- va, ancora e con grande terrore, di conoscere la sua sorte. Nella grande camera da pranzo avevano spostato i tavoli, lasciando una gran parte dello spazio per una scrivania con poltrona riservata al Comandante. Questi era un trentenne magro magro, con due baffetti alla Führer sotto un grande naso. Pochi ciuffi di capelli e occhiali con spesse lenti. Non ricordava affatto la tanta decantata razza ariana se non per la durezza dei modi, evidenziata da un frustino da cavallerizzo che teneva sempre in mano e che usava, nei momenti di maggior tensione, colpendosi il palmo aperto della mano sinistra. Stivali lucidissimi, la divisa nera sempre impeccabile e il cappello con il teschio completavano la sua immagine spietata e lugubre. Appena installatosi nell’albergo aveva fatto cercare un interprete. La scelta era caduta sulla figlia del miglior avvocato di Breno, tale Annetta Duchi che, avendo studiato per anni in Svizzera, conosceva il tedesco abbastanza bene. Era una giovane bella donna: alta, bionda con due luminosi occhi azzurri. Lei sì, l’immagine della “sacra” razza ariana. La donna, di sicura fede fascista, aveva accettato con entusiasmo quello che, più che un invito, era stato un vero e proprio reclutamento.
Attraverso Annetta aveva contattato il Comandante della locale Brigata Muti, ponendo subito in chiaro che a comandare, nella ricerca del o dei colpevoli della morte del militare tedesco, sarebbe stato lui. Volle un resoconto dettagliato di quanto era stato fatto sino ad allora e, dimostrandosi assai insoddisfatto, aveva accusato l’italiano di assoluta inefficienza, inettitudine e, quasi, di connivenza con il nemico. Chiese chi potesse essere considerato avversario del Regime sia in paese che nei dintorni.
“Voglio al più presto una lista dei sospetti: nomi, cogno- mi e indirizzi” tradusse Annetta. “Al più presto” aggiunse la donna, “vuol dire entro 5 ore”, facendo quindi se- gno al Tenente della Muti che poteva andarsene.
Convocò quindi il Maresciallo dei Carabinieri al quale contestò l’inefficienza sua e dei suoi militari che non avevano impedito a dei delinquenti comuni di essere in circolazione.
“Voi siete esonerato dall’inchiesta. Non mi fido delle vostre capacità e di quelle dei vostri uomini. Tenetevi, comunque, a mia disposizione” tradusse ancora Annetta che cominciava a prendere gusto alla posizione che rico- priva, quasi che i maltrattamenti e gli ordini li impartisse veramente lei.
Anche il Maresciallo dei Carabinieri era sistemato. Avrebbe anche convocato il Podestà facendo quindi sapere a tutti che il comando affidatogli non aveva limi- ti e che poteva agire prendendo qualsiasi decisione.

 

Da tutti pretendeva rispetto e ubbidienza assoluta: che questo fosse chiaro sia a Breno che in tutta la valle. Dopo qualche ora, con in mano i nominativi dei sospetti e con l’aiuto della Muti, organizzò una retata che avrebbe avuto luogo nel corso della notte successiva con la cattura di 18 uomini, che facevano parte della lista dei sospetti sovversivi, e la loro carcerazione.
Ritenendo che le carceri del paese fossero insicure e trop- po vicine al centro del paese – non adatte a coprire le urla di chi aveva programmato di interrogare sotto tortura – su indicazione del Comandante della Muti provvide alla requisizione di una vecchia casa, isolata e lontana dal paese qualche centinaio di metri, sulla strada che conduce a Bienno. La costruzione, alta due piani, presentava quattro locali per piano e delle ampie cantine ove sarebbero stati ospitati i prigionieri. Il proprietario, tale Bettino Salvetti, terrorizzato, aveva, a richiesta, consegnato immediata- mente le chiavi, mostrandosi quasi felice gli fosse data occasione di collaborare con le forze di occupazione. – Se vinceranno loro – pensò – si ricorderanno della mia collaborazione. Se vinceranno gli altri, potrò sempre dire di essere stato costretto con la forza a consegnare le chia- vi e, forse, potrò anche ricevere un piccolo rimborso per il danno subito! –
Nel corso della notte sei squadre, composte da un solda- to del gruppo comandato da Franz, da una SS e da un’appartenente alle Brigate Muti, percorsero il paese nel massimo silenzio e, al termine di un’azione, assoluta- mente ben congegnata, all’alba avevano catturato i 18 abitanti del paese presumibili collaboratori nell’uccisione del soldato tedesco e li avevano portati, imbavagliati e incappucciati, nelle cantine della casa del Salvetti. A guardia dell’improvvisata prigione due militari al piano terra e due SS munite di mitragliatore alle finestre del- l’abbaino, con l’ordine di sparare su qualsiasi persona si avvicinasse con fare sospetto o minaccioso.
L’interprete fu convocata per le 16 di quella giornata per presenziare e collaborare agli interrogatori.

 

XXXVII

Don Arlocchi arrivò in parrocchia tutto trafelato. Non era neppure passato dalla propria abitazione per bere il suo amato caffellatte e questo lo innervosiva un po’. Ma era preoccupato per il Parroco, che sapeva essere rientrato la sera prima da Brescia in precarie con- dizioni fisiche e, soprattutto, per quanto era avvenuto nel corso della notte.
– Diciotto persone, mamma mia! – non aveva smesso di pensare neppure celebrando la messa. – Diciotto persone, molti padri di famiglia. Li conosco tutti, tutte brave persone. Quelli giovani, a pensare, o li ho battezzati io o insieme al Parroco. Tutti bravi ragazzi. Potranno mica ucciderli. Oh Signur, oh Signur! Pensaci Tu con la tua immensa bontà. Mica lascerai che si distruggano 18 famiglie. Non è possibile, non è possibile. E poi il sangue ne chiamerebbe altro. Guarda te: da quella bravata che è costata la vita del soldato tedesco adesso si parla di 18 possibili vittime. Dove andremo a finire? Se da 1 a 18, poi quanti, quanti altri: 180, 200… no, no, Signore! Prendi me piuttosto, che sono vecchio e stanco e non ho quasi più forze per adorar- ti e servirti. Ma non lasciare che si distruggano tutte queste famiglie. Ti prego, ti prego…” “Signor Parroco, signor Parroco, ha sentito cosa è successo. Oh beato il Signore! Ma potevamo aspettarci una cosa simile? Questa è una maledizione. Non doveva mica succedere. A proposito… lei come sta, che mi hanno detto che è tornato da Brescia indisposto? Non c’ha mica una bella cera se è per quello. Cosa si è preso, una infreddatura che ha gli occhi lucidi. Se posso fare qualche cosa, me lo dica. Ma torniamo a noi. Ha sentito 18, e dicono in giro che li vogliono ammazzare tutti. Dicono per rappresaglia. Cosa possiamo fare, signor Parroco? Perché fare dobbiamo fare di sicuro qualche cosa e subito. Vero signor Parroco?” “Don Arlocchi, un po’ di calma” disse don Pompeo con il tono di voce più rassicurante possibile. “Cerchiamo di ragionare sui fatti. Per quello che so io, sono andati a prelevare dei parrocchiani scelti, probabilmente su informazione della Muti, tra quelli che ritengono i loro peg- giori nemici. Sono andati a prendere quelli che avrebbe- ro potuto o hanno partecipato all’uccisione del tedesco. Vogliono trovare notizie per prendere i colpevoli. Ci saranno, prima di arrivare ad una decisione, degli inter- rogatori, forse delle torture. Ma secondo me per ora di fucilazioni non se ne è ancora parlato. Dobbiamo trova- re una soluzione per salvarli tutti, dobbiamo cercare di ingannarli e forse… forse… una certa idea io ce l’ho. Va- da, don Arlocchi, vada e cerchi di stare più sereno possi- bile. Si fidi di me, e mi tenga informato di qualsiasi novi- tà.” Poi, quasi fosse impegnato mentalmente in altri argomenti, con un tono di voce assente continuò: “Fratello, la prego, faccia come se io fossi ancora malato. Le affido la messa delle 8 e le confessioni di tutta la giorna- ta. E preghi, preghi per me, soprattutto perché Dio mi illumini e mi faccia ragionare nel migliore dei modi. Vada, vada che, io so, c’è ancora il suo caffellatte che la aspetta. Sa… le nostre perpetue sono delle pettegole e si raccontano tutte le nostre piccole stranezze. E grazie, don Arlocchi, grazie per quello che so ha sempre fatto per me, che farà per me e per questa nostra parrocchia” e lo abbracciò, lasciandolo trasecolato.
– Quasi un testamento spirituale, mi è sembrato quasi un testamento spirituale! E poi quel “fratello”: mica gli ho mai sentito usare una parola come quella e… non vorrei sbagliarmi, l’ha pronunciata con affetto, quasi commosso. Ma cosa mi sta succedendo? Da un po’ di tempo tutte cose nuove e così strane. Oh Signur, oh Signur aiutami tu! Tutti mettono un fardello sulle mie povere spalle, ma io mica so se riuscirò a reggerlo. Anche tu Madonnina dammi una mano! E così sia. –

 

 

XXXVIII

Don Pompeo rientrò nel suo studio e si inginocchiò davanti al crocefisso. Si sentiva veramente un’altra persona. Stava vivendo quelle ore, così complicate sia per la sua situazione personale che per quella della sua comunità, con una serenità che non aveva mai conosciuto
e che non si immaginava neppure potesse esistere. Pregò a lungo, quindi uscì e si recò al centralino telefonico. Fece chiamare il numero riservato dell’Ovra che non appariva, per ovvie ragioni, sull’elenco. Chiese del commissario e, senza nessun preambolo, lo avvisò che avrebbe cercato un appuntamento con le SS per impor- tanti comunicazioni e che sarebbe stato lieto se anche lui potesse presenziare all’incontro. Lo pregava di tenersi li- bero per il pomeriggio e che più tardi gli avrebbe comunicato l’orario che avrebbe convenuto con i tedeschi.
Si recò all’albergo Fumo e, non avendo trovato alcun tede- sco, si portò al comando della locale brigata Muti. Trovò il Passera, il Comandante, e lo incaricò di far sapere urgentemente allo Sturmbannführer che voleva incontrarlo, possibilmente alle ore 14, per importanti comunicazioni. Il Passera, che si rendeva conto di aver ricevuto un incarico importante ma sapeva altrettanto bene di non capi- re una sola parola di tedesco, ritenne giusto passare dalla casa di Annetta, caricarla in macchina ed andare a cerca- re il tedesco presso la nuova casa requisita. Aveva paura dello Sturmbannführer ed evitava, se possi- bile, di incontrarlo. Giunto alla casa del Salvetti, scaricò Annetta e rimase in macchina ad attendere la risposta. Aspettò quasi un’ora e quando Annetta riapparve la trovò sconvolta ma non ebbe il coraggio di chiederne la ragione. La donna, nervosamente, gli comunicò che il te- desco aveva accettato e aspettava il Parroco alle 14 all’albergo Fumo. Quando la vettura si fermò davanti alla pro- pria abitazione, Annetta fu presa da una crisi di pianto, scese precipitosamente senza neppure salutare e si infilò di corsa nel portone.
Don Pompeo, avuta dal Passera la conferma dell’ora del- l’appuntamento, richiamò l’Ovra di Brescia e decise con il commissario di incontrarsi qualche minuto prima delle quattordici davanti all’albergo. No, non gli avrebbe dato nessuna anticipazione su quanto voleva comunica- re all’ufficiale tedesco, disse al commissario prima di interrompere la comunicazione.
Ora che aveva preso la decisione e fissato l’appuntamento con il tedesco, non poteva più tornare indietro e gli era venuta una gran fame. Si ricordò che non mangiava dalla mattina precedente e decise di far ritorno in parrocchia. Era quasi mezzogiorno e sperava che l’Elvira avesse preparato qualcosa per pranzo. Rimase deluso non trovando la donna. Aprì la credenza, si versò un bicchiere di vino, tagliò un pezzo di mascherpa, una fetta di pane e si sedette a tavola. Finì il povero pranzo con una pera che proveniva dal brolo dell’avvocato Duchi. Più che il sapore, tutte le volte che ne mangiava una, lo sorprendeva il profumo. Scrisse su un biglietto, che lasciò al centro del tavolo per l’Elvira: “Vado a riposare, svegliami alla una. Grazie”.Lasciò in bella evidenza le poche stoviglie sporche perché la cameriera capisse che aveva già mangiato e se ne andò in camera. Era proprio stanco, si stese vestito sul letto e si addormentò immediatamente.

 

XXXIX

Alle 13,50 il Parroco era davanti all’albergo Fumo dove era parcheggiata la Fiat 1500 dell’Ovra di Brescia. Il commissario gli fece cenno di salire e don Pompeo si accomodò sul sedile anteriore. Nessuno dei due ebbe il coraggio, dopo un frettoloso saluto, di fare riferimento agli accadimenti del giorno precedente.
Don Pompeo, che guardava davanti a sé verso il muro dell’albergo temendo di incontrare lo sguardo dell’altro, disse solamente: “Vi ringrazio di essere venuto. Ho deciso di parlare con lo Sturmbannführer perché so chi ha commesso l’attentato alla loro macchina e voglio chiudere la faccenda. Vi prego, ora andiamo, prima che io perda il coraggio.” Ciò detto scese dalla vettura, e, seguito da un commissario sempre più perplesso, attraversò il breve tratto di piazza che li separava dall’ingresso dell’albergo e vi entrò. Nella vecchia sala da pranzo trovarono l’ufficiale tedesco, l’Hauptmann Reserve Franz, due SS e, con grande mera- viglia di Pompeo, Annetta.Le presentazioni furono veloci. Lo Sturmbannführer guardò male il commissario ma non avanzò alcuna obiezione per la sua presenza. Vi fu un minuto di imbarazza- to silenzio e poi il prete prese la parola.“Scusi se mi permetto, ma voi siete cristiano?”“Certo” si affrettò a tradurre la risposta Annetta. “Pro-fondamente cristiano, al contrario di tanti italiani che usano il cristianesimo solo per salvaguardare i propri interessi”.
– Cominciamo bene – pensò il prete ma fece finta di non aver capito l’offesa.“Ieri sera” riprese don Pompeo, “mentre ero in confessionale ho ricevuto la visita di due uomini, padre e figlio pro- venienti da un paese qui vicino. Si sono dichiarati colpe- voli dell’attentato e della morte del vostro soldato. Hanno affermato che questi aveva messo incinta la loro figlia e sorella ma non era disposto ad ammetterlo. La sera dell’attentato il vostro soldato aveva dato appuntamento alla ragazza sull’auto, perché voleva appagare, ancora una volta, i suoi turpi desideri sessuali. I due uomini avevano per- so il lume della ragione e, usando dei candelotti di dina- mite, avevano fatto saltare in aria l’auto ed ammazzato l’odiato seduttore della ragazza. Questo è tutto quello che posso raccontare. Mi è sembrato giusto mettervi al corrente dell’accaduto perché l’uccisione non è stata un delitto politico, ma solo l’opera di un padre e di un fratello offe- si nella loro dignità. Una cosa terribile e obbrobriosa ma, comunque, un fatto strettamente personale. Ho inviato uno scritto, riportando quanto vi ho raccontato, ai miei superiori, ritenendo doveroso sapessero di questa mia azione e decidessero se e quanto ho sbagliato. Sono pronto a subirne le conseguenze”.

Nella stanza cadde un profondo silenzio, interrotto solo dall’ansimante respiro dello Sturmbannführer che cresceva sia per rumorosità che per velocità.
Franz non credeva una parola della versione data dal prete ma si sentì improvvisamente sollevato dal fatto che non avrebbe dovuto dare spiegazioni quando, prima o poi, gli avrebbero chiesto come mai il suo compagno di stanza fosse andato, munito di coperta, a passa- re la notte nell’auto.
Anche il commissario non credeva una parola della versione data dal prete, ma si sentì improvvisamente sollevato dal fatto che l’attentato, da strettamente politico, si stesse sgonfiando finendo, all’italiana, in una questione di sesso.
La stessa Annetta non credeva una parola della versione data dal prete – chi voleva fare sesso in valle, dove di sesso se ne intendevano, essendo uno dei pochi svaghi possibili, non era sicuramente costretto a farlo in macchina potendo sempre trovare ospitalità da amici o amiche consenzienti – ma si sentì improvvisamente coinvolta in una storia così drammatica ma così romantica.
L’ufficiale delle SS, che a causa della respirazione forzata cominciava ad avere le labbra imbiancate di saliva schiumosa, riuscì a riprendere un poco di calma. Con voce anonima disse:
“I nomi dei due! Voglio i nomi dei due. Adesso, subito!” Terminò la frase urlando e alzandosi di scatto dalla poltrona sulla quale era seduto. Nell’alzarsi perse il frustino che aveva in grembo e, raccoltolo, iniziò a frustarsi violentemente il palmo della mano sinistra.
“Voi avete detto di essere cristiano, signor Sturmbann- führer, e quindi sapete che un sacerdote non può dire a nessuno il nome della persona che, in confessionale, gli ha rivelato un’azione peccaminosa compiuta” rispose il sacerdote che, dopo il suo, sperava credibile racconto, aveva riacquistato una serena calma. “Si dice il peccato ma non il peccatore. Come si suol dire” continuò con tono quasi scherzoso. Il commissario che aveva raccolto notizie dal prete sui comportamenti dei suoi concittadini con nome, cogno- me ed indirizzo di chi li aveva compiuti, quasi scoppiò a ridere, ma riuscì a trattenersi. – Se il tedesco ci crede, per me va benissimo – pensò.
“Questo lo dite ora, prete. Ma troveremo, e come lo troveremo, il sistema per farvi parlare. Per ora vi dichiaro in arresto e poi vedremo”. Si rivolse quindi, con un ringhio, alle due SS presenti che si avventarono sul povero don Pompeo e, presolo per le braccia, lo trascinarono fuori dal- l’albergo. Caricatolo in macchina lo trasportarono d’urgenza nella casa ove erano stati imprigionati i 18 cittadini. “Non voglio che si sappia nulla di quanto abbiamo sentito in questa stanza, traducete!” si rivolse ad Annetta. Quindi, sempre infierendo sul palmo della sua mano sinistra abbandonò, a lunghi passi, la stanza.

 

(continua…)

 

La luna e i falò, il capolavoro di Cesare Pavese riproposto in un romanzo a fumetti

LIBRI / La luna e i falò è uno dei capolavori della letteratura del ‘900, uno dei libri di formazione per intere generazioni che, attraverso la narrazione dell’Italia contadina e della società tra le due guerre mondiali e la Resistenza, hanno scoperto il senso e il valore del ritorno, della memoria e della ricerca di sé stessi.

 La luna e i falò, grazie al bellissimo adattamento in graphic novel a opera di Marino Magliani e Marco D’Aponte ( edizioni Tunué,2021) ci viene riproposto attraverso le immagini e i testi dei due autori ( che per Tunué avevano già pubblicato nel 2014 il romanzo a fumetti Sostiene Pereira, reinterpretando il famoso libro di Antonio Tabucchi. Molto bella e interessante anche la prefazione della giovane scrittrice torinese Marta Barone che arricchisce e completa il volume. Com’è noto il protagonista, Anguilla, all’indomani della Liberazione torna al suo paese nelle langhe dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell’amico Nuto, ripercorre i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. Le immagini delle colline illuminate dal chiarore della luna, del casotto sulla Gaminella e della strada che va verso Canelli, di Santo Stefano Belbo e della festa della Madonna d’agosto prendono vita e colore nelle pagine di questo graphic novel dove tra i vigneti e i campi si incrociano i destini, con l’infanzia che assume il volto di Cinto- il bambino zoppo e solo –  e la saggezza quello di Nuto. La luna e i falò è il viaggio di Pavese alle origini, la ricerca di se stesso. E’ l’ultimo romanzo, il suo testamento letterario. Scrisse, a proposito: “E’ il libro che mi portavo dentro da più tempo e che ho più goduto a scrivere. Tanto che credo che per un pezzo – forse sempre – non farò più altro. Non conviene tentare troppo gli dèì”. Gli autori dell’adattamento a fumetti dell’ultimo romanzo edito in vita di Pavese, come viene sottolineato dalla casa editrice, “compiono un’operazione molto interessante. Trattandosi di un romanzo in moltissime parti autobiografico integrano all’interno della storia di Anguilla la storia stessa di Pavese, alternando le due realtà con tavole a colori e in bianco e nero”. La luna e i falò, scritto tra il 18 settembre e il 9 novembre del 1949 venne  pubblicato nell’aprile del 1950. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, Cesare Pavese sceglieva di terminare la propria esistenza “nella stanza d’un albergo nei pressi della stazione; volendo morire nella città che gli apparteneva come un forestiero” , come scrisse Natalia Ginzburg. Sul comodino della stanza 346 dell’hotel Roma di piazza Carlo Felice a Torino era posata una copia dei “Dialoghi con Leucò”  su cui lo scrittore aveva lasciato una raccomandazione “Non fate troppi pettegolezzi”, un epitaffio che invitava il mondo a rispettare la sua scelta di andarsene prematuramente e di farlo in silenzio, in punta dei piedi, con quel riserbo tutto piemontese che ha sempre contraddistinto la sua vita. A 71 anni dalla sua scomparsa i messaggi e i valori che le pagine dei romanzi e dei racconti di Pavese ci trasmettono continuano a essere attuali nella loro straordinaria semplicità e immediatezza, a partire da quello del profondo legame con la terra dove si nasce, quel legame che non si spezza mai e che ciascuno di noi porta dentro di sé perché “avere un paese vuol dire non essere soli sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Perché avere un paese, avere delle radici, un luogo al quale aggrappare i propri pensieri, nel quale rifugiarsi anche nei momenti più difficili come quello che abbiamo vissuto, come quello che stiamo vivendo, significa sapere di appartenere a una comunità con la quale potremo continuare a lottare. Cesare Pavese ha amato molto il Piemonte, le Langhe, le grosse colline nelle quali ambientò i suoi romanzi più belli, trasportando il lettore tra borghi e vigneti, falò e sentieri, tra la sua gente. Anche il  graphic novel di Marino Magliani e Marco D’Aponte è un’opera che aiuta a riscoprire uno degli  interpreti più rilevanti della letteratura del Novecento. La lapide posta sulla tomba che custodisce i resti mortali del poeta, trasferiti dal cimitero monumentale di Torino al camposanto di Santo Stefano Belbo nel settembre del 2002, riporta queste parole “Ho dato poesia agli uomini”, una frase struggente che testimonia la forza e l’immortalità dell’arte.

Marco Travaglini

Un terreno ancora inesplorato: il rapporto di Ezra Pound con la musica

LIBRI / Nel volume di Mattia Rossi

Ezra Pound, poeta e critico americano, che visse a lungo in Italia (e vi morì nel 1972 a Venezia) è conosciuto soprattutto per la sua opera letteraria e per la sua ammirazione per il fascismo e Benito Mussolini. Quasi sconosciuto ai più, invece, è il rapporto che ebbe con la musica. ‘Ezra Pound e la musica – Da Omero a Beethoven’, libro edito per i tipi di Eclettica Edizioni nella collana Secolo Breve di Mattia Rossi ha l’indubbio merito di riscoprire questo legame che per l’autore americano non fu secondario, anzi per Pound il rapporto tra la poesia e la musica era fondamentale ed irrinunciabile. La prima riga del breve saggio poundiano, ‘Il verso libero ed Arnold Dolmetsch’ del 1917, che Rossi riporta integralmente, è emblematica: “La poesia è una disposizione di parole disposte in musica’. Nell’excursus di questo rapporto tra le due arti, che durerà per tutta la vita dello scrittore, vengono approfondite le varie fasi di approccio alla Musa, dallo studio della musica sacra, alle recensioni di Pound come critico musicale prima, come saggista musicale poi, alle sue composizioni, all’organizzazione dei concerti a Rapallo, con gli ‘Amici del Tigullio’, all’importante e decisivo ruolo avuto nella riscoperta di Vivaldi. E sullo sfondo c’è la figura di Olga Rudge, violinista, molto amata dal poeta (che gli diede una figlia, Mary, tutt’oggi vivente e custode della memoria del padre). Il libro, che si concentra esclusivamente sulla figura di Pound nel suo rapporto con la musica, tralasciando ogni altro aspetto, è ricco di riferimenti alla cultura italiana ed internazionale del Novecento e costituisce un ottimo stimolo di approfondimento anche per chi non dotto o profondo conoscitore del mondo musicale.  Mattia Rossi, in questo scritto, unisce la capacità comunicativa diretta propria del giornalista con la conoscenza della materia del critico musicale. Ha, infatti pubblicato studi ed articoli specialistici sul canto gregoriano, sulla musica trobadorica, sulla musica nella Commedia di Dante in diverse testate nazionali ed internazionali.

Massimo Iaretti

 

 

Torino tra architettura e pittura. Giuseppe Penone

Torino tra architettura e pittura

1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)

9) Giuseppe Penone (1947-)

La verità è che con l’inizio della bella stagione in classe non ci resisterebbe nessuno, né gli allievi, né tanto meno gli insegnanti. La primavera è tutta una poesia, il sole tiepido penetra attraverso le finestre e invade le aule, il venticello che al mattino è ancora freddo si fa piacevole brezza dalla tarda mattinata in poi, i colori della natura si accendono e tutto diventa un irresistibile richiamo per uscire all’aria aperta. Inutile dirlo, il ritorno di Persefone scuote gli animi degli studenti esattamente come il gasatore infervora le molecole dell’acqua e la rende frizzante; gli scolari diventano sensibilissime palline da ping-pong, guizzano tra i banchi appena trovano una scusa sostenibile e ormai il cambio d’ora non ha nulla da invidiare all’intervallo. È come se il mondo fuori emettesse dei richiami a ultrasuoni, che entrano nelle nostre menti impercettibilmente: uscire, uscire, uscire…
Ma è proprio nelle situazioni d’emergenza che vengono “le idee luminose”. Così ho pensato di trasformare questo irrefrenabile sentire primaverile in una riflessione costruttiva riguardo al rapporto “uomo-natura”. Certo tale titolazione è a dir poco vasta e si presta a diramarsi in diversi ambiti, dalla letteratura all’arte all’educazione civica, si può riflettere altresì sull’importanza dell’ecologia o su quanto l’ambiente che ci circonda influisca sul nostro stato mentale.
Le considerazioni sono tantissime e i ragazzi, quando si tratta di argomenti che li interessano sul serio, si dimostrano motivati oratori.
Da un punto di vista artistico-letterario si può affermare che l’argomento “uomo-natura” è antico come il mondo. Agli albori del tempo, in epoca preistorica, la condizione naturale e ambientale è aspetto costitutivo delle primissime pratiche artistiche, le pitture rupestri, ad esempio, dimostrano come l’uomo delle caverne sia riuscito a tramutare la mera materialità in manifestazione creativa, con lo scopo di sondare ciò che lo circondava.

Non solo, si pensi ai miti classici e a quanto la natura sia stata fonte d’ispirazione per aedi e filosofi; la civiltà greca “in primis”, attraverso la “cosmogonia”, tramuta gli Dei in elementi della natura, così la Terra diventa Gea, il mare Poseidone, il vento Eolo e via discorrendo.
Già solo con questa più che semplificata premessa si comprende che l’argomento è sconfinato e fitto di diramazioni e incisi.
Proviamo ora a restringere leggermente il campo e focalizziamo l’attenzione sull’ambito iconografico. Con l’epoca rinascimentale il paesaggio – e dunque la natura- acquista una sua propria importanza, lo sfondo diventa ambientazione scenografica, gli elementi raffigurati si fanno sempre più realistici e dettagliati e si caricano di significati simbolici che concorrono alla narrazione del soggetto scelto. Giusto per proporre un esempio concreto, per Leonardo da Vinci (1452-1519), uomo rinascimentale per eccellenza -su cui non provo nemmeno a dilungarmi in questo contesto perché ne verrebbe fuori un inciso chilometrico- la natura è un costante oggetto d’indagine; per l’artista lombardo l’ambiente va studiato e raffigurato con attenzione, esso ha la stessa importanza delle figure che ricoprono il ruolo di protagoniste, così come si evince dalla “Vergine delle Rocce” (1483–1485), opera nella quale la vegetazione è raffigurata con precisione scientifica, i fiori e le piante paiono illustrazioni botaniche e la resa dell’atmosfera confluisce nel risultato ultimo dell’aspetto delle figure, non più nette e contornate da una linea scura, ma sfumate, attraverso un sapiente uso della colorazione e della luce.

Con il trascorrere dei secoli la rappresentazione dell’ambiente acquista sempre più importanza, nel Seicento nasce il genere del paesaggio, nel Settecento invece si diffondono nuove correnti pittoriche quali il “vedutismo” e il “paesaggismo”. È però con il Romanticismo che il contesto naturale si afferma definitivamente come soggetto autonomo delle opere d’arte. A caratterizzare la poetica romantica vi sono due concetti principali: il “sublime” e il “pittoresco”. Entrambe le tematiche trovano la loro espressione nella natura e nel suo duplice aspetto, da un lato “locus amoenus” virgiliano, dall’altro manifestazione spettacolare ma spaventosa, “l’orrido che affascina” di Foscolo e Leopardi. I massimi esponenti del Romanticismo sono gli inglesi Turner e Constable e il tedesco Caspar David Friedrich. Questi pittori indagano in maniera simbolica il rapporto “uomo-natura”, arrivando però a conclusioni molto differenti, per Constable l’ambiente naturale è rassicurante, fonte di religiosità e tranquillità, al contrario per Friedrich e Turner la natura è qualcosa di irrefrenabile, devastante, stupefacente, che pone l’essere umano di fronte ai propri limiti. Una delle tele che meglio esprime il sentire dell’artista tedesco è “Il mare di ghiaccio” (1823–1824), in cui è raffigurata una nave che soccombe sotto la pressante e inesorabile forza delle calotte polari che dominano la scena e si ergono a protagoniste del dipinto.
Il Novecento si pone sempre come discorso a parte, le due guerre fanno sì che gli artisti sviluppino un’ottica pessimistica e disillusa, anche nei confronti della natura, non più confortevole ma maligna. Questo sentimento di totale scoramento sarà alla base dei filoni letterari della distopia e della fantascienza, particolarmente apprezzati negli anni Settanta. Nessuna corrente artistica però si è incentrata sul rapporto “uomo-natura” quanto la “Land Art”. Siamo negli anni Sessanta e in ambito artistico nasce un modo nuovo di affrontare l’argomento: gli artisti non si limitano ad illustrare o dipingere l’ambiente, essi agiscono direttamente sulla natura e sul territorio, creando opere altamente impattanti, caratterizzate dalla precarietà dell’essere e continuativamente soggette alle variazioni climatiche. Altra peculiarità di queste creazioni è quella di non poter essere viste nella loro interezza con un semplice sguardo, è necessaria infatti una prospettiva aerea o un elevato luogo d’osservazione per osservarle completamente, poiché si tratta in genere di opere enormi, che si estendono per lunghissimi tratti di territorio.
Ha eseguito anche lavori inscrivibili al settore della “Land Art” l’artista di cui vorrei parlarvi oggi nello specifico, personaggio parimenti conosciuto come “artista degli alberi”, la cui ricerca è tutta sviluppata intorno alla tematica “uomo-natura”.

Si tratta di Giuseppe Penone (1947-), originario di Garessio, un non troppo grande comune piemontese, in provincia di Cuneo. Penone si forma a Torino presso l’Accademia Albertina di Belle Arti, dove conosce Giovanni Anselmo (934)-) e Michelangelo Pistoletto (1933-), con i quali, a partire dal 1967, entra a far parte del movimento dell’ “Arte povera”.
L’anno successivo, nel 1968, espone con successo alcune sue sculture al “Deposito d’Arte Presente”; i suoi lavori sono realizzati con materiali poco convenzionali quali piombo, rame, cera, pece, legno, in essi è implicata l’azione naturale degli elementi, come esemplifica “Scala d’acqua: corda, pioggia, sole”.
L’artista è da sempre interessato a sondare le possibilità che ha l’uomo di interagire con la natura circostante, in tal senso sono celebri gli interventi che porta avanti nei boschi di Garessio, con il preciso scopo di intervenire nel processo di crescita degli alberi (“Alpi marittime”, 1968). In questa situazione l’artista decide di “lasciare un segno” del suo passaggio ed esegue dei calchi realistici delle proprie mani e braccia, dopodiché li installa su alcuni piccoli tronchi. Con il passare del tempo gli alberi crescono, ma tale crescita è sensibilmente e inevitabilmente modificata dalla presenza degli arti bronzei di Penone, che stringono e affondano nella corteccia come corpi estranei artificiali di cui la pianta non può liberarsi.
L’arte di Penone non è univoca, egli ricorre anche alla “performance”, alla “body art” e all’ “arte ambientale”, ma se possono cambiare le modalità d’azione, rimane invariata la sua prerogativa di studiare e approfondire il rapporto “uomo-natura”, sotto forma di un costante dialogo complesso tra “io e mondo”. Alla tematica ambientale fanno riferimento alcune sue opere che si avvicinano alla poetica della “Land Art”, come i lavori che egli esegue per le personali al Kunstmuseum di Lucerna (1977), al Museum of Modern Art di New York (1981) o al Musée d’art moderne de la Ville di Parigi (1984) o ancora ai grandi alberi in bronzo destinati ad alcuni spazi pubblici come il “Pozzo di Münster” del 1987, il “Faggio di Otterloo” (1988), l’“Albero delle vocali” inaugurato nel 2000 alle Tuileries di Parigi o l’“Elevazione” a Rotterdam del 2000.

Alla base delle creazioni di Penone vi è l’idea che la scultura non sia un’operazione legata alla vista, bensì al tatto; l’artista stesso, infatti, mentre scolpisce, aderisce e si immerge nel materiale dell’oggetto che sta lavorando e tale aderenza comporta dei cambiamenti nell’oggetto stesso. A sostegno di tale tesi, Penone riporta questo esempio: “Se noi prendiamo in mano una tazzina, è questa tazzina ad essere una scultura. Tuttavia nel momento stesso in cui la nostra mano afferra la tazzina, essa prende la forma di quest’ultima. Quindi possiamo affermare che solamente in quel momento la mano può essere considerata una scultura”.
Da qui nasce la riflessione che con l’impronta di una mano si possa intervenire sulla crescita di un albero: l’idea si concretizza e nascono i vari calchi in bronzo e acciaio che entrano in contatto diretto con i tronchi e diventano specchio della relazione “uomo-natura”, “io-mondo” che caratterizza tutta la ricerca artistica di Penone. Da questa particolare visione e da questa peculiare tipologia di intervento artistico si sviluppa il processo che lo porta a studiare le prerogative proprie della materia e insite all’interno di un albero.
Tra i lavori più conosciuti vi sono le numerose versioni di “Alberi”. Si tratta di travi di legno di diverse lunghezze che l’artista ha pazientemente intagliato e scavato con lo scopo di mettere in evidenza, all’interno della trave stessa, la forma naturale dell’albero. Lo scavo deve avere una precisa profondità, in relazione ad uno degli anelli che corrisponde all’età della pianta, la quale riemerge dal legno, più giovane e con i rami, individuabili grazie a nodi. L’altra parte della trave però viene lasciata intatta, sia per mostrare l’intervento dell’artista, sia lo sviluppo naturale della crescita dell’albero.
Dagli anni Ottanta in poi Penone si dedica a elaborare sculture in bronzo, che sono in realtà calchi di parti di alberi, nelle quali spesso inserisce elementi vegetali viventi. A questa categoria appartiene lo spettacolare “Giardino delle sculture fluide” (2003-2007) realizzato al parco della Venaria Reale.

Un’altra opera decisamente interessante si trova a Rivoli, presso il Museo di Arte Contemporanea. Si tratta dell’installazione “Soffi”, in cui l’artista indaga il momento dell’inspirazione. L’osservatore si trova di fronte a un ambiente completamente rivestito di foglie di alloro profumate, al centro di tale ambientazione, posizionato sulla parete centrale, è visibile un polmone in bronzo dorato. La scultura quindi entra nel corpo di noi visitatori, nel momento stesso in cui respiriamo e inaliamo gli odori: attraverso l’azione del respirare l’artista pone delle riflessioni sui confini dello spazio e della forma e si conferma interessato non solo alla rappresentazione dell’oggetto quanto più all’evocazione di una suggestiva immagine poetica.
Non posso avviarmi a concludere senza citare un’altra scultura, presente proprio a Torino, precisamente di fronte all’ingresso della GAM (Galleria d’Arte Moderna). Si tratta di “In limine”, opera ideata con lo scopo di creare un segno che indichi il passaggio dalla spazialità della Città a quella sacrale del Museo. È un blocco di marmo, materia che proviene dal sottosuolo, che sostiene un albero, cresciuto a contatto con la pietra, sradicato e fuso in bronzo, posizionato di traverso, apparentemente instabile. Le parti più volatili dell’albero, le sue foglie, si protendono a cercare la luce e attraverso il processo della fotosintesi si oppongono alla forza di gravità. Lo stesso Penone così commenta l’installazione: “La vita segreta della materia risiede nel movimento dei fluidi. Le vene sono la traccia di un’esistenza che si sviluppa nel corpo delle cose, appare nel marmo, nelle radici, nella scorza, nei rami, nelle foglie e nell’uomo”.
Cari lettori, sinceramente non so quanto mi abbiate prestato attenzione, ma non vi rimprovererò, capisco che la bella stagione porti via la concentrazione e induca a pensare alle tanto agognate vacanze. Soltanto, fingendo che il bianco del foglio che segna la fine del pezzo possa metaforicamente essere paragonato al suono della campanella, e possa dunque destarvi dai vostri pensieri leggeri, mi permetto un ultimo commento: guardatevi sempre intorno con stupore, la vera arte sta nell’imparare a meravigliarsi sempre.

 

Alessia Cagnotto

 

 

Chi è Alberto Bertone, presidente e ad di Acqua Sant’Anna

Rubrica a cura di Progesia Management Lab

 

Inserito nel 2020 tra i 10 top manager di BusinessPerson of the Year nella categoria Food stilata dal magazine Fortune, Alberto Bertone è un imprenditore lungimirante. Fondatore, Presidente e Amministratore Delegato di Acqua Sant’Anna Spa, anche su consiglio del padre, da giovane diversifica il business nel settore dell’edilizia residenziale e industriale – tradizione di famiglia – per cimentarsi in quello delle acque minerali e nel 1996 fonda l’azienda Acqua Sant’Anna.

Con 20 milioni di bottiglie prodotte ogni giorno, oggi il marchio è leader in un mercato composto da circa 300 etichette e dominato dalle multinazionali, inoltre è la terza realtà imprenditoriale del Piemonte. Oltre alla leggerezza e alle proprietà organolettiche di quest’acqua che scorre nella Valle Stura, a Sant’Anna di Vinadio (CN), una delle leve del successo dell’azienda è l’innovazione. Da subito Bertone ha investito nella tecnologia automatizzando le linee di produzione; attento all’ambiente e alle tematiche green prima che diventassero una moda ha scelto una logistica che si avvale del trasporto su nave e su rotaia, più efficiente e a minore impatto ambientale, e la movimentazione delle merci avviene con dei robot a guida laser elettrici. Anche dal punto di vista del marketing e della comunicazione Sant’Anna è stata un precursore ed ha lanciato sia una campagna pubblicitaria con l’immagine del neonato, sinonimo di qualità superiore, sia una comparativa in cui confrontava le caratteristiche della sua acqua con quelle dei competitor. In 25 anni di attività l’azienda del beverage ha investito ingenti somme nella ricerca raggiungendo ottimi risultati. Ma l’attenzione non finisce qui: lo stabilimento è stato ristrutturato con materiali ecocompatibili, il calore dei macchinari di produzione è impiegato per il riscaldamento del sito e degli uffici e i camion usati sono alimentati a LNG, i migliori in termini di autotrasporto sostenibile, abbattimento delle emissioni in atmosfera e dal punto di vista acustico.

Ripercorriamo la storia e i successi di Acqua Sant’Anna?

“Il mio è stato un inizio quasi casuale. Appartenendo ad una famiglia di costruttori lavoravo con mio padre e avevo fatto diverse operazioni immobiliari, ma del mondo dell’acqua non sapevo nulla. Poiché volevamo diversificare abbiamo deciso di entrare nel settore e abbiamo scelto l’acqua delle Fonti di Vinadio. Abbiamo chiesto la concessione, aperto lo stabilimento e siamo partiti. I primi due anni sono stati complicati: abbiamo costruito il capannone e fatto gli impianti, ma al momento di iniziare non avevamo vendite. Dopo un primo momento in cui con mio padre abbiamo pensato di cedere le quote ai soci, lui mi disse che se fosse stato giovane non avrebbe mollato. Ha saputo pungermi nel vivo e così ho proseguito. Avevo 29 anni e giravo l’Italia in macchina per far conoscere il prodotto fino a quando dopo circa 10 anni è diventato leader del mercato.
Un passo decisivo è stata la scelta di far analizzare la nostra acqua all’ospedale Sant’Anna di Torino, che ha constatato che i bimbi che la bevevano avevano dei benefici. Abbiamo così ottenuto il certificato di acqua per bambini, un attestato di qualità superiore.

Crescendo molto negli anni abbiamo deciso di diversificare e il primo lancio è stato SanTHE’ Sant’Anna, oggi tra il terzo e il quarto posto in Italia con una crescita del 30% all’anno. Nel 2019 abbiamo invece lanciato la linea Sant’Anna Fruity Touch al limone, ai frutti rossi e al lime, zenzero e guaranà: nel mondo questo tipo di prodotto ha grande successo, ma in Italia mancava e stiamo facendo promozione per farla crescere”.

Tecnologia, innovazione e sostenibilità sono le vostre keywords? 

“Ogni azienda che guarda al futuro deve pensare a questi temi. La tecnologia serve per essere efficienti, l’innovazione coincide con il modificarsi per fare sempre meglio, anche perché la competizione è sempre più forte, e la sostenibilità è fondamentale per tutti noi che abitiamo su questo pianeta. La tecnologia è stata determinante perché man mano che crescevamo dovevamo reperire personale, ma nella nostra zona era difficile e così abbiamo trasformato i punti di debolezza in punti di forza robotizzando tutta l’azienda. In questo modo abbiamo raggiunto costi bassi in termini di mano d’opera ed un’efficienza superiore: un plus rispetto ai concorrenti. Ci tengo però a sottolineare che il personale che lavora con noi è del territorio e vive l’azienda come fosse propria. Siamo molto uniti e ci sentiamo una grande famiglia. L’innovazione, ma anche la capacità di avere un pensiero divergente, ci ha permesso inoltre di ovviare ad un altro problema: Vinadio è lontano dalle principali città italiane e per la logistica abbiamo puntato sui treni e sulle navi riuscendo così a distribuire i nostri prodotti ad un costo basso. Tutto questo lavoro, portato avanti con costanza, ci ha permesso di diventare leader in Italia e siamo orgogliosi del risultato raggiunto, anche se ovviamente non ci fermiamo”.

Ci presenta Bio Bottle, la bottiglia biodegradabile? 

“È realizzata con un biopolimero di origine vegetale che non contiene petrolio. Siamo stati il primo marchio al mondo a lanciare nel mass market una bottiglia di acqua minerale da 1,5 litri biodegradabile e compostabile nei siti di compostaggio che in 80 giorni torna a far parte della natura. Abbiamo creduto molto in questo progetto, anche se le persone non si dimostrano così interessate. Purtroppo si parla molto di ecosostenibilità, ma al lato pratico si agisce poco”.

Anche Sant’Anna Beauty è un’idea innovativa. Di cosa si tratta?

“Si tratta di acque funzionali in pratiche dosi pronte da bere, studiate nei nostri laboratori, che oltre a dissetare fanno bene alla pelle. C’è quella che contiene acido ialuronico e zinco e quella al collagene idrolizzato e zinco. L’acido ialuronico si trova naturalmente nel nostro organismo e preserva l’idratazione dei tessuti e la lubrificazione delle articolazioni, ma negli anni diminuisce drasticamente, mentre lo zinco protegge le cellule dallo stress ossidativo e contribuisce al mantenimento dello stato fisiologico della pelle. Bere quest’acqua fa bene a tutti, ma soprattutto a chi non è più giovane. Il collagene invece è la più importante proteina strutturale della pelle perché garantisce tono ed elasticità. Da giovani la sintesi del collagene è maggiore della sua degradazione e quindi la pelle rimane liscia. L’avanzare dell’età, le cattive abitudini e gli inquinanti ambientali portano ad una maggiore distruzione del collagene con la conseguente formazione di rughe. Studi scientifici hanno dimostrato che l’assunzione del collagene idrolizzato ha un effetto benefico sull’aspetto e sull’elasticità della pelle, in particolare sulla riduzione delle rughe e sulla formazione delle linee sottili”.

Di recente ha proposto una cauzione sulle bottiglie in plastica per incentivare il riciclo. Approfondiamo il tema? 

“Nella mia vita ho fatto alcune battaglie sul tema della sostenibilità e l’ultima di queste è legata al riciclo della plastica. Dobbiamo fare qualcosa di concreto per salvaguardare l’ambiente e a mio parere toccare nel portafoglio i consumatori è sicuramente una leva. Per questo vorrei convincere il Governo a far applicare una cauzione sull’acquisto di qualsiasi tipo di contenitore alimentare per evitare di trovare rifiuti per terra. Se applichiamo un piccolo costo aggiuntivo di 5-10 centesimi su tutti i contenitori, le persone saranno incentivate a restituirli per recuperare la cauzione oppure a raccogliere quelli dispersi per portarli nei centri di raccolta che possono essere posizionati nei centri commerciali, nei parcheggi o nei grossi condomini, favorendo così il corretto riciclo dei diversi imballaggi. Questo metodo è già in uso in alcuni paesi del mondo e ha raggiunto ottimi risultati”.

 

 

IL FOCUS DI PROGESIA

 

La storia dell’Acqua Sant’Anna inizia negli anni ’90, quando la famiglia Bertone decide di portare sulle tavole degli italiani un’acqua minerale che nasce a circa 2000 mt di altezza nelle valli sopra Vinadio, il cui nome è legato al Santuario Sant’Anna, protettrice delle mamme, luogo di culto cristiano più alto d’Europa, alla cui fonte i pellegrini sono soliti dissetarsi.

Il successo dell’azienda, oltre alle qualità intrinseche del prodotto, dovute alla sua origine – l’altitudine delle sorgenti, la purezza dell’aria, la conformazione delle rocce granitiche che filtrano naturalmente l’acqua – si è consolidato grazie ad alcune importanti iniziative di marketing, innovative per il momento storico in cui sono nate.

Quando l’Acqua Sant’Anna ottiene la certificazione di qualità da parte dell’ospedale Sant’Anna di Torino come acqua particolarmente adatta per i bambini, l’azienda decide di fare leva su questo argomento commerciale e così che per la prima volta su una bottiglia di acqua minerale compare la foto di un neonato: una semplice immagine che consente di far capire immediatamente all’acquirente il “valore” del prodotto, anche senza leggere in modo approfondito l’etichetta.

Un altro strumento di marketing che l’azienda ha iniziato fin da subito ad utilizzare con successo è la pubblicità comparativa, che consiste nel mettere a confronto in modo diretto le caratteristiche dei propri prodotti con quelli dei concorrenti.

Questo tipo di pubblicità è molto usato negli Stati Uniti, mentre è stato sempre poco utilizzato in Italia e Acqua Sant’Anna è stato uno dei primi marchi italiani a farne uso, facendo leva su alcune caratteristiche oggettive di qualità, per ottenere un vantaggio rispetto ai principali competitor.

In particolare sono state utilizzate delle tabelle per mettere a confronto alcuni dati chimico-fisici delle acque minerali dai quali emergeva che Sant’Anna aveva il residuo fisso più basso di tutte le concorrenti e anche la presenza di sodio, di nitrati e la durezza erano inferiori.

Quest’iniziativa ha dato un importante vantaggio competitivo ad Acqua Sant’Anna, ma ha anche avuto il merito di insegnare ai consumatori a leggere con attenzione le etichette sulle bottiglie, aumentando la consapevolezza dell’importanza di conoscere le caratteristiche chimiche e fisiche dell’acqua, per orientarsi nella scelta tra i diversi prodotti presenti sul mercato.

 

Coordinamento e Focus: Carole Allamandi

Intervista: Barbara Odetto

www.progesia.com

“L’orto fascista” Romanzo / 8

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

XXIX

Il Podestà aveva convocato la Consulta Municipale per le 8 e 30. I sei membri erano stati svegliati all’alba dal vigile del comune che era andato a casa loro a consegna-
re la convocazione. Il Bertoli voleva consultarsi non sapendo bene come comportarsi in questa drammatica occasione. Aveva pen-sato di esporre la bandiera a mezz’asta al balcone del municipio, ma non sapeva se questa soluzione sarebbe apparsa troppo servile nei riguardi dei tedeschi. In fin dei conti si era in guerra e la morte di un soldato era, pur- troppo, cosa normale. Neppure il Segretario del Fascio aveva, almeno per ora, avanzato richieste in tal senso. Era deciso ad effettuare, insieme ai suoi aiutanti, una visita al Comandante della guarnigione tedesca per porgere le sue condoglianze e per mettersi a disposizione per i funerali e il trasporto della salma, o meglio di quello che rimaneva di Bernd, che era stata temporaneamente portata nella camera mortuaria dell’ospedale. Era molto timoroso per la possibile reazione che Franz avrebbe potuto avere nei suoi confronti e, per questo, il fatto di presentarsi in gruppo, poteva rendere la cosa meno imbarazzante. Non che temesse di essere insultato, ma che il Comandante potesse avere frasi di violento rimprovero verso i brenesi, questo era da aspettarselo.
Quando il gruppo di amministratori si riunì, vi furono violente discussioni. Chi voleva non solo l’esposizione della bandiera a mezz’asta ma anche che venissero pro- clamati tre giorni di lutto cittadino. Chi, invece, era con- vinto che si doveva lasciare passare il fatto sotto silenzio, con la sola “ufficiale” presenza del Sindaco e della Consulta con la bandiera del paese all’eventuale funerale. La parte strettamente politica doveva essere lasciata agli organi del Fascio che, sicuramente, sapevano, meglio di loro, come trattare con i tedeschi. Alla fine fu da tutti accettata quest’ultima soluzione, anche se qualcuno evidenziò il proprio personale dissenso. Non sapendo dove trovare Franz, si recarono all’albergo Fumo. La vettura, o meglio quello che restava della vettura, era stato rimosso e portato al garage Slanzi. Le macchie di sangue, miste all’olio del motore, erano state rico- perte da un alto strato di segatura. La buca, provocata dall’esplosione, era ancora aperta. Ad alcune finestre del- le case che davano sulla piazza si stava lavorando per sostituire i vetri rotti dallo spostamento d’aria.
L’unica cosa che impressionò Sindaco e consiglieri era che le strade e la piazza Mercato fossero assolutamente vuote. I negozi erano aperti ma nessun brenese era in circolazione, quasi che si temesse una ritorsione da parte dei tedeschi.
Trovarono il Comandante nella piccola hall dell’albergo, circondato dai suoi subalterni. Pallido, con la divisa sporca e stropicciata, le mani che si muovevano, scompostamente, dai capelli alle ginocchia, dalle ginocchia ai gomiti, e poi di nuovo ai capelli. Quasi un tic nervoso. Non si alzò dalla poltrona nella quale era seduto. Si limitò a stringere la mano al Podestà e a fare un cenno con la testa ai consiglieri. Sussurrò un “danke” e poi, a congedarli, girò la testa di lato come a guardare qualcosa che non c’era.
Imbarazzati i sette uomini salutarono i militari e, non sapendo cos’altro fare, girarono sui tacchi e se ne andarono.

 

XXX

Col passare delle ore in paese cresceva la preoccupa- zione. Ormai si sapeva che lunghi convogli di carri, abitualmente usati per il trasporto degli animali e con le porte piombate, partivano da varie stazioni italiane per la Germania. Non si sapeva ancora dei campi di sterminio ma il modo con il quale venivano trattati i deportati non lasciava presagire nulla di buono. Si raccontava di centinaia di persone prelevate in vari paesi della penisola dove era stato dato aiuto o ospitalità ai partigiani. A Breno era stato ucciso un tedesco e sicuramente la rappresaglia non sarebbe tardata. Il mistero su chi avesse compiuto quell’atto, e soprattutto le modalità con cui si era verificato, lasciavano tutti perplessi. La sparizione del Russì era passata inosservata anche per- ché l’uomo non era stato visto in giro neppure i giorni precedenti all’attentato. Tutti sapevano che quello strano personaggio a volte spa- riva dalla circolazione per settimane intere, da solo o con qualche donna, per passare il tempo negli alpeggi vicino a Bazena o verso il Passo del Maniva. L’Ovra non si era mossa, ufficialmente non avendo ricevuto ordine da parte dei tedeschi di farlo. La situazione era particolarmente scabrosa e quindi, se possibile, era meglio defilarsi. Del tutto discretamente don Cappelletti era stato invitato a Brescia. Avevano anche preso contatto, ancor più segretamente, con il Podestà di Breno perché convincesse sua moglie, Lucia, a recarsi a Brescia alla loro sede. A volte, si era pensato, i bambini sanno più cose di quelle che dovrebbero e qualche frase compromettente avrebbero potuto lasciarsela scappare. Coinvolgere qualche maestra e soprattutto la signora Lucia, così fedele al Regime, avrebbe potuto portare qualche frutto. Due giorni dopo l’attentato partirono per Brescia, all’in- saputa l’uno dell’altra, il Parroco e la maestra. Il prete, come quasi sempre, era riuscito ad ottenere un passaggio su un veicolo di servizio. La maestra, molto più modestamente, era partita per la città con il “Gamba de legn”. Per la maestra signora Lucia era una emozione nuova andare a Brescia. Infatti tutti gli abitanti della Val Camonica, quando dovevano andare in città per qualche acquisto importante o per qualche visita medica specialistica, si recavano a Bergamo, città più facilmente e più velocemente raggiungibile. Lucia conosceva pochissimo Brescia. Le avevano detto che la sede dell’Ovra era in una strada che partiva da Piazza Tebaldo Brusati e, giunta alla stazione di Brescia, con il solito abituale ritardo, non se l’era sentita di chiedere come raggiungere la piazza rischiando di perdere ulteriore tempo. Aveva quindi deciso di noleggiare una carrozzella trainata da uno scheletri- co cavallo senza dare, per non suscitare curiosità, l’indi- rizzo al quale era diretta, ma chiese al cocchiere di por- tarla in piazza Brusati.

Don Cappelletti, nel frattempo, era a colloquio con il solito funzionario dell’Ovra. Cercava di indorare il più possibile le poche e vaghe notizie che aveva da riferire e di mostrarsi più ossequiosamente disponibile a tutte le raccomandazioni che gli venivano propinate per cercare di non perdere l’abituale ricompensa. “Andate” disse alla fine il funzionario e, facendo il solito segnale al sottoposto che era venuto a prelevare il prete, soggiunse “e buon divertimento!” Don Cappelletti, raggiunta la solita stanza e sedutosi sul letto, cominciò a spogliarsi. Lucia, giunta alla porticina contrassegnata dal numero civico che le era stato detto, si guardò velocemente intorno, augurandosi che nessuno dei passanti la notasse, e suonò il campanello. Le venne ad aprire un giovane pallido ed allampanato che, vedendola, ebbe una strana espressione di meraviglia. “Sei nuova tu?” chiese facendola entrare. Lucia rimase meravigliata dal tono di voce e dal fatto che questi le si rivolgesse col tu. – Ma guarda te che gnocca che si becca quello stronzo di prete – pensò il giovane che la prese, con poca delicatezza, per un braccio e la guidò sino ad una porta in fondo ad un buio corridoio.“Entra” le disse ancora, lasciandole il braccio e riavviandosi verso l’ingresso. Lucia, sempre più imbarazzata, rimase un attimo ferma davanti alla porta. Poi si fece coraggio e la aprì. La stanza era semibuia. Dall’unica finestra filtrava una scarsa luce a causa delle persiane chiuse. “Entra, dai, e spogliati, che ho fretta!” disse una voce che giungeva da un posto imprecisato della stanza. Una voce scostante ma imperiosa che fece trasalire la donna. – Io questa voce la conosco! – si disse tra sé e sé, ma non riusciva a ricordare a chi appartenesse.
Quell’ordine finì di farle perdere la poca lucidità che le era rimasta. Si mise a tremare tutta impaurita e non riuscì ad evitare di iniziare a fare quanto le era stato ordinato. Non riusciva bene a vedere cosa ci fosse nella stanza. Intravide una seggiola sulla quale depositò i vestiti e la biancheria intima mano a mano che se la toglieva. Intravide anche un grande letto al centro della stanza ma non capì se fosse occupato da qualcuno. Quando ebbe finito di spogliarsi si rese conto della grottesca situazione nella quale si trovava e, per proteggere la propria nudità, non ebbe migliore idea di quella di precipitarsi nel letto e coprirsi con il lenzuolo. Sempre tremando e ad occhi chiusi, rimase ferma in posizione supina in attesa che qualcosa avvenisse. Ma fu un attimo: una mano fredda e sudaticcia si posò in mezzo alle sue cosce cercando di divaricarle. Non fu difficile perché la donna, ormai in stato di semi incoscienza, subiva tutto passivamente.
Qualcuno le stava montando sopra con l’intento di penetrarla, ma quando il suo viso e quello del suo violentatore si trovarono a poca distanza, la stessa voce di prima si mise ad urlare. “Madonna mia, ma non è possibile. Oh Signore, oh Signore, cosa sto facendo!” In quel mentre la porta si aprì e la luce venne accesa. Una donna molto prosperosa ed alquanto volgare entrò nella stanza, guardò verso il letto e scoppiò in una sonora risata. “Guarda, guarda questo sporcaccione” disse la donna con profondo accento emiliano. “Adesso non gliene basta più una, vuol fare l’ammucchiata! Purscel!” e si rimise a ridere.

Lucia, ritornando in sé, iniziò ad urlare. “Aiuto, aiuto, aiutatemi, per favore!”. Nel contempo pensava: – Perché non svengo. Madonna, per favore, fammi svenire! – A quelle urla il vano della porta si riempì per la presenza del giovane allampanato, del funzionario e di altri tre o quattro poliziotti. Tutti rimasero bloccati, allucinati dalla situazione e impreparati a gestirla. L’unica a non aver perso il controllo era la prostituta, abituata alle situazioni boccaccesche, i veri casini. Si rivolse agli uomini che erano fermi sulla porta: “Via, via, non c’è niente da vedere!” e li spinse fuori dalla stanza. Poi rivolgendosi a don Cappelletti gli disse: “Tu, fuori dalle palle. Per oggi hai scopato abbastanza. Prendi i tuoi vestiti e vattene.” Il prete, anche lui meccanicamente, si alzò dal letto e, presi biancheria e tonaca, si diresse verso la porta. Prima di usci- re si girò verso Lucia. Fu allora che questa lo riconobbe. Un lamento di bestia ferita le sgorgò dal profondo dei pol- moni e un pianto isterico cominciò a scuoterla tutta.

 

XXXI

Le due donne rimasero sole nella stanza. La prostituta si avvicinò a Lucia che continuava a singhiozzare mentre il corpo si rannicchiava su sé stesso in posizione fetale. La donna si sedette sulla sponda del letto e incominciò ad accarezzare il viso della maestra con affetto materno, mentre dalle sue labbra usciva un suono leggero e musicale, una cantilena rassicurante, come quando
le mamme cullano i loro piccoli. A poco a poco i singhiozzi si diradarono, il corpo sembrò distendersi e quando il respiro divenne regolare, Lucia, prostrata, si addormentò.
La donna continuò ad accarezzarla, le prese delicatamente il viso, se lo pose in grembo e cominciò a cullarla. Quando fu certa che Lucia dormisse profondamente, uscì dalla stanza e chiese di parlare con il funzionario. Questi, dopo aver somministrato una strigliata e, forse, qualche calcio nel sedere al poliziotto che aveva aperto la porta a Lucia, si era rintanato nel proprio ufficio cercando di decifrare l’accaduto: quali conseguenze avrebbe potuto avere su di lui e cosa fare della moglie del Podestà di Breno. Sapeva che questi era molto ben ammanicato con camerati in alto luogo. Per colpa di quel deficiente di un sottoposto, avrebbe potuto avere la carriera stroncata o, ancor peggio, ritrovarsi con l’ordine di un temutissimo trasferimento in Sardegna.
Quando gli comunicarono che la prostituta voleva con- ferire con lui, la fece immediatamente accomodare nel suo ufficio e la ascoltò con atteggiamento deferente. Fu assolutamente d’accordo che poteva rimanere accanto a Lucia sino al suo risveglio e ordinò a un suo collaborato- re di recarsi al vicino casino per giustificarne il ritardo.

 

XXXII

Nel frattempo don Cappelletti, rivestitosi frettolosa- mente, aveva raggiunto l’uscita e se ne era andato sbattendo la porta. In strada si era messo a correre in direzione della stazione ferroviaria. La sua mente sconvolta nemmeno si accorgeva della curiosità che suscitava nelle persone che incontrava e che, qualche volta, nella foga della corsa, urtava. Giunto in stazione ebbe la fortuna di trovare il treno in partenza, vi salì, cercò uno scompartimento vuoto, si se- dette nel posto vicino al finestrino e si abbassò il cappello sugli occhi fingendo di dormire. Ebbe la fortuna che sul treno ci fossero pochi passeggeri e che nessuno andasse a sedersi vicino a lui. Anche il controllore, pensando dor- misse, passò oltre. E fu davvero una fortuna perché il prete, nella fretta, non si era neppure lontanamente preoccupato di acquistare il biglietto. Cercava di ricostruire quanto era avvenuto, ma non riusciva a mettere insieme neppure due minuti delle ulti- me ore. Continuava a pensare alla maestra, non capiva cosa ci facesse a Brescia, in quel triste posto, in quel letto ove era entrata, sembrava, consenziente. Che avesse una doppia vita? Che, malata di masochismo, accettasse come sofferenza di prostituirsi più o meno a pagamento? Cosa sarebbe successo adesso, quando in qualche modo la cosa si sarebbe risaputa? O da una parte o dall’altra qualcuno avrebbe parlato. Come avrebbe potuto giustificare il suo comportamento sessuale e, soprattutto, il suo coinvolgimento con la poli- zia politica? Sentiva un gran freddo e un tremore interno come quando si è aggrediti da una febbre violenta. Rimase fermo, rannicchiato al suo posto sino a quando il treno non giunse – in un periodo brevissimo, almeno gli sembrò – a Breno.
Scese velocemente e, senza rispondere ai saluti che qual- che parrocchiano gli rivolgeva, quasi di corsa si diresse verso la casa parrocchiale. Entrato si rivolse bruscamente alla sua perpetua: “Elvira, una tazza di vino caldo! Portamela in camera. Sto male, anzi, sto malissimo. Sono ammalato, molto ammalato. Lasciami il vino sul comodino e poi non di- sturbarmi più. Starò malissimo anche domani. Quindi, dopo, vai dal don Arlocchi e digli che mi deve sostituire questa sera ai Vespri e domani mattina alla messa delle otto. E di non prendere impegni per i prossimi giorni perché io non so quando starò meglio”. “Le devo chiamare il medico, signor curato?” chiese, premurosa, l’Elvira.

“Allora non mi stai a sentire!” rispose strillando il prete. “Ho detto che non voglio vedere nessuno, non voglio parlare con nessuno. Insomma! Dillo anche al coadiutore. Che non gli venga in mente di venirmi a trovare!” Tracannò il bicchiere di vino caldo, si infilò la camicia da notte ed entrò nel letto. Mise la testa sotto il cuscino e cercò di calmarsi. Doveva ragionare, assolutamente. O forse era meglio che cercasse di dormire, di annegare i pensieri nel sonno per qualche ora e tentare di riprender- si sia mentalmente che fisicamente? Però non riusciva né ad addormentarsi né a calmarsi. Si ritrovò a pensare a quando era bambino e viveva con i genitori in una piccola casa insieme ai tre fratelli minori.
A otto anni era già stufo di quella vita. Il padre alla sera era perennemente ubriaco; la madre, stravolta dalla fatica, per cena non riusciva quasi mai a trovare il necessario per sfamare lui ed i tre fratellini. Nonostante l’età, era un bambino molto sveglio, intelligente ed acuto. Sapeva ragionare come un adulto ed era, soprattutto, furbissimo. Gli sarebbe piaciuto diventare maestro, forse perché desi- derava apprendere, forse anche perché il suo subcosciente gli suggeriva che quella del maestro non era una gran professione ma dava comunque uno stipendio sicuro e la possibilità di vivere rispettosamente. Tuttavia la sua fami- glia non avrebbe mai trovato i soldi per farlo studiare.
L’unica alternativa era quella di tentare di farsi prete. Ci pensò a lungo e poi, per studiata convenienza e senza sentire alcuna vocazione, espresse alla mamma il desiderio di entrare in seminario.
Lei, entusiasta, sia perché, almeno a quei tempi, un figlio in seminario dava sempre lustro, e soprattutto perché si eliminava una bocca da sfamare, era andata con lui a parlarne col Parroco.
Da quel giorno don Pompeo aveva iniziato a mentire con sé stesso e con tutti quelli che lo circondavano. Al Parroco fece credere di essere veramente attratto dalla vita religiosa e che sentiva che Gesù lo voleva con lui. Inventò anche uno strano sogno che raccontò al Parroco ed alla mamma. Si trovava in mezzo a una folla di gente miserabile. Nello zainetto aveva una mela e un panino con il formaggio. Aveva molta fame ma, impietosito da chi stava sicuramente peggio di lui, aveva donato la mela a una donna incinta e poi, preso il panino, ne aveva strappato dei piccoli bocconi che aveva cominciato a distribui- re. Più ne distribuiva più il panino si ingrossava ed era così riuscito a sfamare tutti. Alla fine, dalla folla gli veni- va incontro un bambino, scalzo e vestito miseramente. Gli sorrideva, lo prendeva per mano e lo conduceva in un bellissimo giardino pieno di fiori e di frutti. Fu allora che egli aveva riconosciuto in lui Gesù Bambino. Da quella notte, continuò a raccontare Pompeo, il suo più grande desiderio fu di mettersi al servizio degli altri. Il Parroco rimase impressionato da quelle parole e assicu rò la mamma che ne avrebbe parlato con i suoi superiori e con il Direttore del vicino seminario. L’ingresso al seminario avvenne un triste giorno di novembre. Cadeva una fine pioggerellina gelata che inzuppava la povera giacchetta ed il cappellino che Pompeo indossava. Il Parroco, che lo stava accompagnando a quel- la che sarebbe stata per lungo tempo la sua nuova dimo- ra, era munito di un grosso e largo ombrello di colore verde, ma non si era preoccupato di riparare il suo gio- vane parrocchiano che gli trotterellava alle spalle cercando di tenere il suo passo spedito.
In quella stagione il seminario sembrava ancora più te- tro. All’interno regnava un silenzio che rimbombava contro le alte volte dei larghi corridoi. Raramente da un’aula giungeva la voce di un docente infervoratosi su qualche argomento o intento a sgridare un allievo di- stratto o ignorante.

 

Pompeo ebbe la tentazione di girarsi, abbandonare Parroco e seminario e, correndo, ritornare a casa maledicendo quanto si era inventato. Ma non ne ebbe il tempo. Erano arrivati davanti alla porta dell’ufficio del Rettore e il Parroco, presolo per un braccio, lo spinse all’interno facendolo inginocchiare da- vanti al vecchio prete che dirigeva con polso, anche tro po rigido, docenti e scolari.“E dunque tu vorresti servire Dio abbandonando i piaceri del mondo?” Il Rettore si rivolse a Pompeo quasi continuando un discorso iniziato prima dell’ingresso del bambi- no. Non ricevendo alcuna risposta, anche perché il ragazzo stava pensando a quali potessero essere i piaceri del mondo che desiderava abbandonare, avendo sino ad allora conosciuto solo povertà e solitudine, il vecchio prete riprese: “Qui avrai tempo per studiare e meditare sulla tua scelta, per rafforzare la tua fede e per capire se effettivamente sei destinato ad essere un ministro di Dio, a seguire il Vangelo ed a predicare la Buona Novella. Vedremo, vedremo.” Poi, rivoltosi al Parroco: “Parroco, vi faremo sa- pere. Ci auguriamo che il ragazzo abbia le giuste qualità e una vera vocazione. Sarebbe triste dovervi richiamare per venire a riprendere la vostra pecorella.” Si alzò dall’imponente poltrona sulla quale era seduto, porse la mano al Parroco che, fatto un cenno di saluto al bambino, si girò e lasciò la stanza. Il Rettore si infilò la stola, prese per le spalle Pompeo guidandolo verso un inginocchiatoio. Si sedette sulla poltrona accanto e invitò il bambino a confessarsi. Non aveva molti peccati da ammettere un bambino di otto anni che aveva vissuto in una povera casa. Non aveva commesso peccati di gola, non potendo trovare in casa dolci o preli- batezze sconosciute; era troppo giovane per praticare quel- li della carne; nessun motivo di invidia verso gli altri ragazzi poveri come lui; bestemmie nemmeno a pensarlo, tanto erano orribili quelle che il padre lanciava dal baratro delle sue sbronze. Eppure la confessione durò oltre un’ora. Il vecchio prete, appigliandosi ad ogni occasione che il bambino gli dava, fosse una insicurezza o un dubbio, scavava nell’animo del nuovo seminarista per conoscerne la vera natura. Alla fine non era riuscito a capire molto della sua indole ed era, comunque, alquanto perplesso. Tutte le risposte del bambino sembravano studiate non per apparire migliore ma per ingraziarsi l’affetto e la considerazione di chi lo stava esaminando.
Infatti il piccolo Pompeo aveva capito subito che quella non era una vera confessione, ma un esame che doveva assolutamente superare se voleva rimanere in seminario. E sapeva che la prima impressione sarebbe rimasta a lungo nella mente del Rettore e avrebbe potuto condizionare la sua vita nei prossimi anni.
Vi erano solo due altri bambini in seminario: uno suo coetaneo ed uno di un anno più grande. Studiava con loro anche se Pompeo era molto meno preparato. Il maestro però lo aveva preso in simpatia e cercava di aiutarlo in tutti i modi con estrema pazienza. La vita del seminario gli apparve subito gradevole. La sveglia alle sei non lo disturbava, essendo la stessa ora alla quale si svegliava a casa; al freddo della camerata e dei bagni era abituato. Lo disturbava un poco la comodità del letto: il materasso di lana era troppo morbido per lui, che a casa dormiva su un saccone ripieno di foglie secche di granoturco. Finita la messa, tutti si recavano in refettorio dove, in vere tazzine, veniva servito del latte caldo e pane in abbondanza.

Il primo giorno Pompeo ritenne che quello fosse l’unico pasto sino alla cena. Si riempì di pane e di latte. Scolò anche le tazze di qualche vicino che, ormai sazio, non aveva finito di bere il latte freddato. Non essendo il suo stomaco abituato a tali scorpacciate dovette correre, nel corso della giornata, molte volte alla latrina in preda ad una violenta dissenteria.
A parte le lunghe ore trascorse a pregare in cappella, dove si annoiava mortalmente, e quelle passate ad ascoltare la vita dei santi, il resto della giornata era piacevole. Ap- prendere era un suo grande desiderio; il mangiare, anche se il cuoco sembrava mettercela tutta per rovinare qualsiasi pietanza, era abbondante; i momenti di svago brevi ma abbastanza divertenti.
Pompeo era sempre vigile nell’eseguire gli ordini del Prefetto e di tutti i maestri e professori: voleva suscitare la migliore impressione possibile ed evitare punizioni a volte dolorose, come quando si era costretti a rimanere inginocchiati, per lunghi periodi, sul pavimento cosparso di lenticchie secche.
Approfittando del fatto che aveva destato tra i convittori simpatia, riusciva spesso a intrufolarsi nei pensieri re- conditi anche dei ragazzi maggiori di lui e a riceverne confessioni indiscrete. Dopo averle ricevute, Pompeo, lasciato passare un certo periodo di tempo per non scoprirsi, trovava la scusa per riportarle agli insegnanti. Non sfacciatamente, da spia, ma da amico preoccupato di chi gli aveva fatto le confidenze. Questi gradivano le notizie che potevano permettere un più approfondito controllo sui ragazzi ed il più delle volte lo incitavano a continua- re ad informarli. Pompeo, in cambio di questo metodo che usava tradendo gli amici, ebbe, se non riconoscimenti, almeno la benevolenza dei superiori. Continuò per anni questo modo di fare, affinandolo. Riusciva sempre meglio ad entrare nelle confidenze degli altri seminaristi e a riportare maggiori dettagli della loro vita interiore. Tanti ragazzi furono puniti o costretti a lasciare il semi- nario in conseguenza delle confidenze fatte a Pompeo. La cosa era particolarmente importante soprattutto quando si parlava di un argomento vietatissimo: il sesso. Tale argomento era, allora molto più di oggi, l’ossessio- ne di tutti gli insegnanti di tutti i seminari. L’opera più malefica del diavolo! E per questo di grande attrattiva. Almeno a parole. E di parole sull’argomento se ne spen- devano molte anche tra i compagni di Pompeo che, ad ascoltare quei discorsi, traeva un certo piacere. Un’anticipazione di quello che avrebbe provato più avanti nella sua vita di confessore.

 

 

XXXIII

Lucia si svegliò solo alle quattro del pomeriggio. Le girava leggermente la testa e non riusciva a capacitarsi di dove fosse. Si accorse di essere nuda sotto le lenzuola e questo la sconvolse.
Accanto al letto vi era una sconosciuta che le stava accarezzando, le sembrò con affetto, i capelli e il viso. Improvvisamente ricordò. Il suo arrivo all’ufficio dell’Ovra, la strana accoglienza ricevuta, di essersi spogliata e, nuda, di essersi infilata nel letto già occupato da quel visci- do verme del Parroco, le sue mani sudaticce che la tocca- vano, il viso sopra il suo mentre cercava di violentarla. Ricominciò a tremare mentre la donna continuava ad accarezzarla, a sorriderle. Un dolce suono, forse una nenia, usciva dalle sue labbra. Dove era adesso? Era stata rapita per essere trasportata… dove? Era stata venduta come schiava? Dove era? Doveva assolutamente saperlo ma non riusciva ad articolare un suono, una parola per chiederlo. Finalmente la donna le parlò con un forte accento emiliano. “Stai tranquilla, è finito tutto. Adesso Carla, che sarei io, ti aiuta a rivestirti per tornare alla tua casa. A proposito, hai un marito, dei figli? Dove abiti?” “A Breno” rispose Lucia, grata a quella donna che si stava occupando di lei e sembrava la volesse proteggere. “Sono sposata, sì, ma non ho figli. Non te ne andare, non lasciarmi sola, ti prego!” supplicò quando la donna si alzò diretta verso la porta. Questa si voltò e le sorrise di un sorriso dolcissimo, nonostante i lineamenti tutt’altro che delicati.
“Non ti preoccupare, non ti lascio. Prendo solo i tuoi vestiti dalla seggiola dove li hai lasciati”. Aiutò Lucia a vestirsi, commentando, per metterla a suo agio, la finezza della biancheria intima e l’eleganza del tailleur grigio fumo che dava, così bene, risalto alle sue forme. Finalmente un sorriso apparve sul viso della giovane donna, grata per l’affetto dimostrato nei suoi con- fronti e anche per quel tanto di civetteria, tutta femminile, così sensibile agli apprezzamenti. Quando Lucia si fu rivestita, la prostituta, che per una volta nella sua vita si sentiva importante, padrona di prendere delle decisioni, aprì la porta della camera e, affacciatasi in corridoio, urlò in direzione del piantone: “Ehi tu, pelandrone! Chiama subito il commissario e che si spicci a venire”.
Questi arrivò veramente di corsa, si genuflesse, quasi, davanti alla maestra. Entrò nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle.

Imbarazzatissimo, rosso in viso e leggermente tremante si rivolse a Lucia con un “Non so cosa dire, non so proprio cosa dire. Quale sia il mio imbarazzo ed il mio dolo- re, lei non può credere. Qualsiasi cosa possa fare mi dica e la farò. Qualsiasi, veramente qualsiasi”. Lucia non aveva né voglia né coraggio di guardarlo in faccia, ma doveva farlo. Doveva riuscire a capire che tipo di uomo fosse e se si poteva fidare di lui. “Commissario, io desidero solo che nulla si sappia. Qui oggi non è successo nulla. Lei capirà: io non posso perde- re la mia reputazione per una brutta avventura mal gestita. Io qui sono parte offesa e come tale devo essere trattata con il massimo rispetto. Le farò sapere le mie decisioni e lei, se è un uomo di onore, ad esse si atterrà scrupolosamente. Uno scandalo non gioverebbe neppure a lei né ai suoi diretti superiori. La prego, mi faccia chiamare un carrozza che voglio raggiungere la stazione al più presto”. “Per carità, signora!” rispose il commissario inchinando- si nuovamente. “Ho messo a sua disposizione la nostra macchina di servizio e un autista. Si faccia portare dove vuole e la tenga al suo servizio per tutto il tempo necessario.” Poi, sempre più premuroso: “Posso offrirle, che so, un caffè, un cordiale, qualsiasi cosa, signora?” La prostituta lo stava guardando con un sorrisino malizio- so sulle labbra. La divertiva vedere quell’uomo, considera- to potente, tutto servile e spaventato. Quando il commissario se ne accorse, si rivolse a lei con voce arrogante:
“E tu cosa ci fai ancora qui? Saluta, ringrazia la signora e togliti dai piedi!” Lucia rimase dapprima meravigliata dalla trasformazione del tono di voce del commissario e poi si infuriò per i modi villani e prepotenti. “Non si permetta di usare questo tono arrogante con questa signora!” urlò. “Né io, né lei, soprattutto lei, abbiamo la gentilezza e la bontà d’animo di questa don- na. La rispetti e, per favore, le chieda scusa!” Carla, a quelle parole, stava per mettersi a piangere tanto era la commozione e la gioia. Fu ancora più felice quando, dopo le scuse del commissario, Lucia le si avvicinò, la abbracciò con molto calore e le diede due affettuosi baci sulle guance. “Grazie” le sussurrò all’orecchio mentre gli occhi le tornavano lucidi. Quei momenti, per Carla, furono tra i più belli della sua vita.

(continua…)