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Torino e i suoi musei. Museo Lombroso – antropologia criminale

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Torino e i suoi musei / Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lombroso – antropologia criminale
10 Museo della Juventus

 

9 Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso

Che Torino sia “città misteriosa” è ormai appurato. La meta che vi propongo oggi può rientrare sotto questo aspetto “tenebroso”, infatti è del Museo Cesare Lombroso che vi voglio parlare.
Il Museo di Antropologia Criminale espone gli studi che Cesare Lombroso (Verona 1835-Torino 1909) eseguì tra l’Ottocento e il Novecento: fanno parte della raccolta preparati anatomici, disegni, schizzi, fotografie, corpi di reato, e le particolari produzioni artigianali degli internati dei manicomi e delle carceri.
Non deve essere stato semplice per la famiglia di Cesare accettare che il celebre studioso organizzasse la sua prima esposizione di “scheletri e armi del delitto” proprio nella sua stessa casa. Chissà se fu proprio la signora Lombroso a spostare, l’anno successivo, nel 1877, un pezzo alla volta, gli attrezzi del mestiere del marito in Via Po 18, dove si trovava lo studio.
Superati i probabili battibecchi familiari, Cesare espose nel 1884 due vetrine ricolme di crani, maschere, fotografie criminali e altri oggetti a dir poco inquietanti, all’ Esposizione Generale di Antropologia Italiana.

Il tempo passa e il materiale si accumula, ecco nuovamente il problema di dove contenere questa raccolta in continua crescita. Nel 1896, quella che poi diverrà la collezione del Museo, viene esposta in via Michelangelo 26, sotto la supervisione dell’amico e assistente Mario Carrara, il quale provvede a riordinare la miriade di oggetti in sei sale differenti, arricchendola a sua volta con reperti inerenti agli sviluppi della polizia scientifica e della medicina legale.
Gli appassionati studi di Lombroso e di Carrara devono sopportare un periodo di dimenticanza, fino alla riscoperta avvenuta intorno agli anni Settanta del Novecento, in occasione della fortunata mostra “La scienza e la colpa”.

Solo nel 2001 la collezione riesce a trovare una sistemazione definitiva presso il Palazzo degli Istituti Anatomici, inserendosi nel progetto “Museo dell’Uomo”, che prevedeva una sede comune per i musei di Anatomia Umana, Antropologia Criminale, Antropologia ed Etnografia (ora in via Accademia Albertina); nella stessa residenza venne poi affiancato il simpatico Museo della Frutta.
Ogni tanto trovo la scusa per andarci, al Museo Lombroso, non è eccessivamente grande e non richiede chissà quanto tempo, certo tutto dipende dagli intenti personali e dalla relatività dei termini “tanto tempo”. Incominciamo dunque la visita.
Nella prima sala sono accompagnata dal sonoro di un dialogo immaginario tra due individui che discutono sugli studi di Lombroso; le voci cadono su alcuni mobili e macchinari che sono scenograficamente disposti per riprodurre lo studio del criminologo. Ciò che i due protagonisti dicono è importante per capire il contesto sociale in cui Cesare opera e per comprendere le valide riflessioni che vengono affrontate sul progresso e sui suoi limiti.

Nella seconda sala mi ritrovo in un luogo a metà tra scienza e fantascienza, una moltitudine di strumenti tecnici per rilevazioni morfologiche e funzionali dimostrano la tesi lombrosiana, per cui follia, delinquenza e genialità sono fenomeni quantificabili e oggetto di studio con metodo scientifico.
Impattante è la terza sala: l’ambiente ricorda i musei di antica concezione, teche e pavimento scricchiolante, decisamente i miei preferiti. Qui facciamo conoscenza con Cesare Lombroso in persona, solo un po’ più magro di com’era in realtà: per volontà testamentaria il suo scheletro è esposto nel Museo, sorridente come i teschi dei tesori dei pirati, guarda i visitatori, come se non volesse smettere di continuare ad osservare e a studiare, sempre alla ricerca di nuove prove a favore della sua tesi.

Superato – credo, non ci è dato saperlo- l’esame di Cesare, possiamo dedicarci a guardare la numerosa rassegna di reperti umani, maschere mortuarie, corpi di reato, manufatti carcerari e manicomiali, nonché ritratti di criminali che ornano le pareti. Non c’è che dire, un po’ si accappona la pelle davanti a quei volti cerati, costretti ad essere esangui per sempre. In questa sala ci sono gli oggetti che più mi affascinano, si tratta dei mobili realizzati da Eugenio Lenzi, uno dei tanti sfortunati reclusi nel manicomio di Lucca. Sono mobili senza definizione, abilmente intarsiati e scolpiti, con una dovizia di particolari che solo un matto avrebbe potuto concepire. Tutte le volte che li osservo non posso che domandarmi: se fossero esposti alla GAM o al Castello di Rivoli, sarebbero giudicati allo stesso modo o diventerebbero magicamente opere di inestimabile valore artistico?
Mi prendo il mio tempo prima di proseguire, quegli oggetti hanno il potere d’incantarmi e tutte le volte scopro dettagli nuovi che mi fanno rimanere a bocca aperta. Qualcuno mi osserva, mi sento giudicata e proseguo verso la quarta sala. Mi trovo di fronte a dei teschi tagliati e a qualche scheletro, le didascalie mi ricordano che questa stanza spiega la teoria atavica di Lombroso, il quale sosteneva che il criminale regredisse ad una sorta di condizione primitiva dello stadio evolutivo; un video ricorda, a chi se lo fosse dimenticato, che la malformazione cranica della fossetta del teschio Villella è solo una variabilità individuale, non un fondamento scientifico.

La quinta sala è dedicata agli abiti realizzati da Giuseppe Versino, internato a Collegno, e altri oggetti creati da persone affette da disturbi mentali. Il binomio “genio-follia” è presente da sempre nella storia dell’uomo e nella storia dell’arte, si pensi all’ iconica e stereotipata figura di Vincent Van Gogh (1853-1890), artista inequiparabile, internato nel manicomio di Saint Remy, dopo essersi amputato l’orecchio e dove realizzò 150 opere in soli 53 giorni. Del resto proprio questo luogo mi fa venire in mente che la “lista dei pazzi” è decisamente ampia: Fancisco Goya (1746-1828) era affetto da encefalopatia, (causata da intossicazione da piombo presente nei colori), la malattia lo portò alla sordità e a disturbi di personalità; lo stesso Michelangelo (1475-1564) secondo alcune fonti era piuttosto schizofrenico, come dimostrerebbero le ricerche di Gruesser collegabili allo studio dei volti realizzati dal Buonarroti.

Particolarmente attinente è la vicenda del pittore Richard Dadd (1817-1886), che uccise il padre con un coltello a serramanico perché lo aveva scambiato per un principe delle tenebre, nemico della divinità che Richard adorava, Osiris, a cui aveva anche dedicato un piccolo santuario in una camera in affitto a Londra. Non c’è bisogno di spiegazioni per personaggi allucinati come Ensor, ( 1860-1949) e Munch,( 1863-1944). Forse tra tutti l’ “oscar della follia” va a Jackson Pollock, artista maledetto per eccellenza, consumato da alcool e droghe, riformato dall’esercito per problemi psichici, morto a soli 44 anni in un tragico incidente stradale, la stessa signora Guggenheim di lui aveva detto: “quest’uomo ha dei seri problemi, la pittura è senza dubbio uno di questi”. L’elenco è ancora lungo ed è costituito da grandi nomi quali Francis Bacon, (1909-1992), l’autodistruttivo e tormentato Jean Michel Basquiat (1960-1988) e la triste Camille Claudel (1864-1943), artista brillante, allieva e amante di Rodin. Camille soffrì di depressione con manie di persecuzione e venne internata per volere della madre, in tal modo è come se fosse morta due volte in solitudine: sola, perché rinchiusa in manicomio e sola, perché nemmeno un familiare partecipò al suo funerale.

Continuando nel percorso espositivo, alla sala 6 si trovano le uniche tracce di vite anonime e maledette: graffiti e incisioni sugli orci per l’acqua dei detenuti del carcere di Torino. La sala 7 presenta il modellino del carcere di Filadelfia e la ricostruzione di una cella ottocentesca, qui si affronta la problematica della detenzione, divenuta nel corso dell’Ottocento architrave dei sistemi penali.
Sono quasi alla fine della visita e nuovamente incontro Lombroso, ma se prima era solo un silenzioso scheletro scrutatore, ora è una voce incorporea che mi parla come dall’Aldilà: è un discorso immaginario che ripercorre l’esperienza di studio, i pensieri, i dubbi che attanagliarono il grande pensatore, umanizzandolo e quasi tramutandolo in un normale “figuro” della bella époque torinese.

Uscendo, attraverso un lungo corridoio che mi riassume i punti principali della mostra: qui ho l’opportunità di rabbrividire ancora una volta alla vista della forca, proprio quella un tempo situata al “rondò” la piazza che ancora oggi in città così si chiama. Giustamente, a mio parere, perché il passato va studiato e compreso, ricordato e contestualizzato: se cancelliamo gli errori che abbiamo commesso, come possiamo correggerli e non ripeterli?

Alessia Cagnotto

Tagliata di manzo sfiziosa con verdure grigliate

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Deve il suo nome al taglio che si pratica a fine preparazione; viene servita tagliata a fettine dal cuore rosa nappate con il fondo di cottura

La tagliata di manzo e’ un piatto semplice, delizioso, succulento e appagante. Si ottiene con una rapida cottura della carne. Deve il suo nome al taglio che si pratica a fine preparazione; viene servita tagliata a fettine dal cuore rosa nappate con il fondo di cottura.

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Ingredienti:

600gr. di sottofiletto di manzo spesso 5 cm. (pezzo intero)

3 zucchine

1 melanzana

1 cespo di radicchio di Treviso

sale, pepe, olio evo, prezzemolo q.b.

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Togliere la carne dal frigo almeno un’ora prima della cottura. Affettare le verdure e grigliarle. A fine cottura condire con olio, sale, pepe e prezzemolo.  Procedere con la cottura della carne. Scaldare molto bene la bistecchiera, a fuoco vivace, cuocere la carne su ogni lato per circa cinque minuti in modo che si formi una bella crosticina e l’interno rimanga al sangue. Lasciar riposare due minuti, tagliare a fettine sottili, condire con sale, pepe e olio evo. Servire su un tagliere accompagnato dalle verdure grigliate. Gustatela appena pronta.

 

Paperita Patty

 

UniTo: quando interrogavano Calvino

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Torino e la Scuola

“Educare”, la lezione che ci siamo dimenticati
Brevissima storia della scuola dal Medioevo ad oggi
Le riforme e la scuola: strade parallele
Il metodo Montessori: la rivoluzione raccontata dalla Rai
Studenti torinesi: Piero Angela all’Alfieri
Studenti torinesi: Primo Levi al D’Azeglio
Studenti torinesi: Giovanni Giolitti giobertino
Studenti torinesi: Cesare Pavese al Cavour
UniTo: quando interrogavano Calvino
Anche gli artisti studiano: l’equipollenza Albertina

 

9 UniTo: quando interrogavano Calvino

Lo dico subito: tengo molto al tema di questo articolo e non medierò in nulla la mia passione per l’autore che andrò ad affrontare quest’oggi per la mia rubrica sugli studenti torinesi. Si tratta di uno scrittore che purtroppo a scuola non viene approfondito e che rischia, a mio parere, di non essere sufficientemente conosciuto.
Sto parlando di Italo Calvino, nato nel 1923 a Santiago de Las Vegas, (Cuba), da genitori italiani, entrambi docenti universitari di materie scientifiche. In seguito, nel 1925, la famiglia si trasferisce a Sanremo, dove Italo trascorre l’adolescenza e compie il primo ciclo di studi, infine, nel 1941, si trasferisce a Torino per frequentare l’Università di Agraria. Nel 1943 entra nella brigata comunista Garibaldi. Dopo la guerra, nel ’45, Calvino lascia la Facoltà di Agraria e si iscrive a Lettere e nello stesso anno aderisce al PCI. Alla Facoltà di Lettere di Torino si laurea nel 1947 con una tesi su Joseph Conrad. A Torino entra in rapporto con Natalia Ginzburg e Cesare Pavese a cui sottopone i suoi racconti. Inizia a collaborare con il quotidiano “l’Unità” e con la rivista “Il Politecnico” di Elio Vittorini. Nel frattempo si afferma la celebre casa editrice torinese Einaudi (fondata nel ‘33 da Giulio Einaudi), all’interno della quale collaborano Pavese e Vittorini, di cui Calvino è diventato ormai grande amico. Grazie a Pavese viene pubblicato nel 1947 il primo romanzo di Italo “Il Sentiero dei nidi di ragno”. Le sue doti di scrittore non possono passare inosservate, così due anni più tardi esce una prima raccolta di racconti “In ultimo viene il corvo” (1949), seguito da una moltitudine di altri successi. Nel ‘57 lascia il PCI, e nello stesso periodo collabora con diversi giornali, tra cui “Officina”, rivista fondata da Pier Paolo Pasolini, e dirige con Vittorini la rivista “Menabò”.

Dopo i successi lavorativi, nel 1962, Calvino incontra l’amore, conosce infatti Esther Judith Singer, una traduttrice argentina con cui si sposa – a Parigi- nel 1964. Italo rimane con la compagna nella capitale francese fino al 1980, anno in cui si trasferisce a Roma e pubblica “Palomar”. Nel 1984 lascia Einaudi e passa a Garzanti. Nel 1985 riceve il riconoscente invito da parte dell’Università di Harvard a tenere una serie di conferenze. Italo accetta e inizia a preparare le sue lezioni, ma, purtroppo, viene colto da un ictus improvviso nella sua casa a Roccamare, presso Castiglione della Pescaia. Muore pochi giorni dopo a Siena, nella notte tra il 18 e il 19 settembre. I testi tuttavia vengono pubblicati postumi nel 1988 con il titolo “Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio.” Per quel che mi riguarda, Calvino l’ho scoperto per caso, curiosando tra i molti libri che a casa ci sono sempre stati, giocando a leggere titoli che mi suggerivano storie elaborate e fantasiose. Ricordo una copertina sul verde, leggermente consunta, avvolgeva delle pagine ingiallite: era la trilogia de “I nostri antenati”. È stata una delle prime opere che ho letto con attenzione e totale trasporto, ho da subito amato lo stile lineare e lucidissimo dell’autore, il suo modo semplice di raccontare con misurato rigore, le parole fluide che si dispongono quasi in automatico a comporre le frasi, come pezzi di un puzzle che per forza così si devono incastrare.

Leggere Calvino è bello. Lasciarsi trasportare dalle trame dei suoi racconti è un’esperienza avvolgente, completa, rilassante, ma anche occasione di riflessione, perché Italo non è solo maestro della narrazione, ma anche uomo di grande cultura e forbito pensatore. Calvino tuttavia, prima di diventare un grande fra i grandi, fu uno studente fra gli studenti, e viene un po’ da sorridere all’idea di immaginarselo di fronte all’Università, intento a rivedere gli appunti e a ripassare per gli esami, mentre sfoglia velocemente i propri libri. E fa ancora più meraviglia immaginarselo lì, forse lievemente impaurito, in attesa di essere interrogato da qualche professore per cui provava magari timore reverenziale. Certamente di professori che incutevano, diciamolo pure, “paura” all’Università di Torino ne sono passati molti, e la storia dell’istituzione è decisamente antica. Le origini dell’Università degli Studi Torino risalgono ai primi anni del XV secolo. Dopo la morte improvvisa di Gian Galeazzo Visconti alcuni docenti delle Università di Pavia e Piacenza proposero a Ludovico di Savoia-Acaia la creazione dello “Studium Generale” di Torino, in quanto sede vescovile e crocevia della rete di collegamenti tra la Francia, la Liguria e la Lombardia. La nuova Università nacque ufficialmente nel 1404 con la bolla di Benedetto XIII, papa di Avignone.
Dal 1443 fino all’inaugurazione del prestigioso palazzo di via Po vicino a Piazza Castello nel 1720, l’Università ebbe sede nel modesto edificio acquistato e ristrutturato appositamente dal Comune all’angolo tra via Dora Grossa, l’attuale via Garibaldi, e via dello Studio (poi via San Francesco d’Assisi).

L’Università torinese, pur non competitiva rispetto alle altre grandi Università italiane, era comunque di grande rilievo, non dimentichiamo che Erasmo da Rotterdam vi conseguì la laurea in Teologia nel 1506. Particolarmente floridi per l’Università furono gli anni delle riforme di Carlo Alberto (1831-1849). Il periodo albertino è caratterizzato dallo sviluppo di alcuni istituti, dalla creazione di nuovi e dalla presenza sul territorio di docenti di prestigio, quali ad esempio Augustin Cauchy, matematico e ingegnere francese, o Pier Alessandro Paravia, letterato e mecenate italiano di grande fama. Nel corso degli anni molte furono le innovazioni e le modifiche che i vari corsi subirono, per esempio, nel 1844 le Facoltà di Medicina e di Chirurgia furono nuovamente riunite e riformate, mentre nel triennio 1846-48 si provvide, tra forti contrasti e resistenze, a riformare la Facoltà di Scienze e Lettere che il 9 ottobre 1848 cessò di esistere. Si istituirono due Facoltà separate, una di “Belle Lettere e Filosofia” e l’altra di “Scienze Fisiche e Matematiche”, quest’ultima tra l’altro poteva vantare nomi di docenti illustri quali Avogadro, Bidone, Plana, Giulio, De Filippi, Sobrero, e Menabrea. Continuando per una più che rapida carrellata storica, è necessario ricordare un altro momento storico cruciale, non solo per la storia della Scuola, ma per la Storia con la “S” maiuscola. La riforma Gentile, varata nella prima metà del 1923, che riconobbe 21 Università e inserì quella di Torino tra le dieci a carico dello Stato. Siamo durante il ventennio fascista, periodo in cui l’Ateneo torinese cercò di mantenere la massima autonomia didattico-scientifica. Quando il regio decreto del 28 agosto 1931 stabilì che i docenti avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo alla monarchia, ma anche al regime fascista, in tutta Italia solo 12 insegnanti su oltre milleduecento rifiutarono di prestare il giuramento, perdendo così la cattedra. Tre di questi erano membri del corpo docente dell’Università di Torino: Mario Carrara, Francesco Ruffini e Lionello Venturi. Nell’ultimo secolo la Facoltà di Lettere ebbe insegnanti come Luigi Pareyson, Nicola Abbagnano, Massimo Mila. A Giurisprudenza insegnarono Luigi Einaudi e Norberto Bobbio. Molti tra i protagonisti della vita politica italiana del Novecento si formarono all’Università di Torino, come Gramsci e Gobetti, Togliatti e Bontempelli.

Alla fine degli anni Sessanta la nuova (e attuale) sede del “Palazzo delle Facoltà Umanistiche”, noto anche oggi come “Palazzo Nuovo”, trovò spazio nella moderna costruzione di Via Verdi. Nel 1998 è stata fondata l’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Nel 2012 è stato inaugurato il “Campus Luigi Einaudi”, nuovo polo accademico con funzione di sede unica per i corsi di studio nell’ambito delle Scienze giuridiche, politiche ed economico-sociali. L’identità dell’Università degli Studi di Torino è costituita dal sigillo, il cui primo esemplare risale al 1615. Vi è rappresentato un toro, che indica lo stretto legame dell’Ateneo con la città di Torino, adagiato su tre libri, che alludono alle prime tre Facoltà dello “Studium” torinese: Teologia, Leggi, Arti e Medicina. Il toro ha la testa volta all’indietro verso un’aquila ad ali aperte che poggia sulla groppa dell’animale. L’aquila fissa il sole, simbolo della sapienza, ed è coronata, perché è il re degli uccelli ed è anche insegna dell’imperatore che, con diploma del 1412, aveva confermato la bolla papale di fondazione, risalente al 1404. Sui tre libri sono incise una crocetta, un fermaglio e un altro segno indistinto. Questa la legenda: “SIGILL(um) UNIVERS (itatis) AUGUSTAE TAURINORUM”. Il logo divenne emblema dell’Università dal 1925.

Dopo questo breve “excursus” possiamo focalizzarci nuovamente sul nostro studente per oggi prediletto.
“Gli artisti usano le bugie per dire la verità” dice V, personaggio mascherato da Grey Fox, disegnato da David Loiyd, protagonista di “V per Vendetta”, una serie di fumetti scritti da Alan Moore, allo stesso modo – se mi è permesso l’ardito accostamento tra l’autore italiano e il mondo fumettistico inglese- Calvino usa le sue narrazioni favolistiche come spunto per un’ardita riflessione sull’esistenza e sulla condizione dell’uomo contemporaneo.  L’autore occupa un posto di primo piano non solo nella storia della narrativa ma anche nel nostro panorama culturale italiano, sia per i suoi lucidi interventi di critico militante, sia per la centralità del suo ruolo di collaboratore nella politica editoriale della casa editrice “Einaudi”, dove ha lavorato per trent’anni.
Calvino sostiene una concezione impegnata del lavoro intellettuale e della letteratura, tanto che nel 1955 scrive nel suo saggio “Il midollo del leone”: “Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura come educazione di grado e di qualità insostituibile”.

La produzione di Calvino, per la varietà di innovazioni fantastiche e per le diverse modalità narrative, non trova eguali in nessun altro autore del Novecento. Il tema costante della sua produzione è la condizione storica dell’uomo, il suo stare al mondo, argomentazione a lui cara sia nei primi scritti, fino al suo ultimo libro “Palomar” (1983) in cui porta avanti una lucida e disincantata analisi della condizione dell’essere umano, che si interroga e che vuole capire se stesso e l’universo in cui vive.
La multiforme produzione calviniana è solitamente divisa in “fasi”: “neorealistica”, “allegorico-fiabesca” e “fantascientifica”. È utile però ribadire che tali classificazioni, che sono elastiche e strumentali, non vanno intese come un’ordinata successione cronologica, con modalità narrative specifiche che si concludono definitivamente una dopo l’altra; è infatti caratteristica preminente in Calvino la coesistenza, spesso anche all’interno dello stesso testo, di atteggiamenti contrastanti, che però egli riesce sapientemente a mediare.

Il suo essere narratore peculiare è evidente già dal suo primo romanzo, edito nel 1947, titolato “Il sentiero dei nidi di ragno”, un testo inseribile all’interno del filone neorealistico. Il libro affronta la tematica della Resistenza, argomento caro a molti altri suoi contemporanei, ma che Calvino espone secondo la sua ottica innovativa e inaspettata, così il lettore si trova catapultato non in un “semplice” romanzo storico, ma in una sorta di “favola a lieto fine”. Protagonista del romanzo è Pin, un bambino maturato velocemente, costretto a conoscere la violenza e la durezza della vita per strada. La vicenda ci è raccontata attraverso il suo sguardo di fanciullo cresciuto, che certo si inserisce nelle vicende degli adulti, ma che comunque non riesce a comprendere del tutto.
La dimensione favolosa e fantastica è di certo la più autentica per Calvino, come dimostrano i romanzi “Il visconte dimezzato” (1952), “Il barone rampante” (1957) e “Il cavaliere inesistente” (1959). Tali opere, conosciute come la trilogia de “I nostri antenati”, fanno capo al genere del racconto filosofico, filone letterario che in Italia non ha mai conosciuto particolari apprezzamenti. Va però detto che, se nel racconto filosofico l’intento è dimostrativo e raziocinante, in Calvino dominano il gusto per l’invenzione e il fantastico. In questi testi favolistici vi è però una sorta di “doppio fondo”, un messaggio nascosto, che il lettore accorto scova se si sofferma a pensare tra un capoverso e l’altro. Si tratta di tre romanzi allegorici sulla condizione dell’uomo contemporaneo, “alienato”, impossibilitato a raggiungere la completezza (come dichiara l’autore stesso nella presentazione editoriale de “Il visconte dimezzato”). Oltrepassiamo la gradevolezza della “fabula” e soffermiamoci dunque sul motivo di fondo del racconto di colui che è “dimidiamento dell’uomo contemporaneo, mutilato, incompleto, nemico a se steso”, o sul principio enunciato dal Barone: “chi vuol guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria” oppure sulla vicenda di Agilulfu, che è solamente un’armatura vuota, metafora dell’essere umano deprivato della sua irripetibile individualità, ridotto a “funzione”, usato come mezzo e non pensato come fine. Favole certo, ma con un “Ὁ μῦθος δηλοῖ ὅτι” (o mythos deloi oti: “la favola insegna che”, di esopica memoria) da non sottovalutare.

L’interesse per la condizione umana è altresì evidente ne “Le Cosmicomiche” e in “Ti con zero” (1967). Si tratta di opere inscrivibili alla fase “fantascientifica”, in cui l’autore attinge alla fisica quantistica, alla genetica e alla biochimica per sottoporre a discussione una moltitudine di problematiche scientifiche. Qfwfq è l’impronunciabile nome dell’entità protagonista, vecchia quanto il mondo e con la stessa memoria del mondo. È proprio tale improbabile personaggio ad analizzare un microcosmo lontano dal nostro, esistente prima della nascita del concetto di spazio e di tempo, nel quale però sono già presentati i conflitti, le tensioni e le dinamiche interpersonali che si incontrano nel mondo di oggi. Anche in questo romanzo psichedelico vi è una riflessione celata all’interno del tessuto narrativo, e l’interrogativo costante è “L’uomo non cambia e i suoi problemi sono immutabili e insolubili”? Al lettore l’ardua sentenza.
L’autore ci coinvolge continuamente e ci esorta a rimuginare, a trarre le giuste conclusioni, ma da sommo Maestro com’è, intanto che aspetta ne approfitta per darci ancora una lezione, che forse ci spiazza e ci costringe ad ingoiare quella minuscola frase che stavamo faticosamente formulando. Nell’opera “Le città invisibili” egli scrive: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abbiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce fatale a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”. E la domanda rimane aperta: “la favola insegna che?”

Alessia Cagnotto