Una suggestiva immagine della Consolata di Torino, inviataci dalla lettrice Giovanna Seghesio.
I teatri torinesi: Teatro Macario
Torino e i suoi teatri
1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.
8 I teatri torinesi: Teatro Macario
Per tutto il 2020 un’istallazione, progettata dallo studio di architettura di Loredana Iacopino, ha caratterizzato l’ampio e regale spazio di Piazza Castello. La struttura è stata ideata per festeggiare i primi vent’anni dall’apertura del Museo Nazionale del Cinema e la nascita di Film Commission Torino Piemonte; si tratta di un’opera composta da diversi pilastri specchiati, in cui fanno capolino iconici attori e attrici che hanno interpretato i loro film in ambienti torinesi e dintorni. Tra i volti antichi, stampati in bianco e nero sulle superfici riflettenti, compaiono un “facciotto” rotondo, due grandi occhi spalancati ed un ciuffetto sbarazzino di capelli neri. Ironia della sorte: negli ultimi anni sono diverse le occasioni in cui la città della Mole ha esaltato e riconosciuto l’importanza del comico torinese Erminio Macario, personaggio burliero e geniale che tanto ha dato al capuluogo, ma che in cambio non ha ricevuto granché.
Non sempre dietro ai sorrisi dei grandi “clown” si celano vite altrettando ilari, ma il pubblico giudicante vuole solo divertirsi e difficilmente si interessa di chi si è adoperato affinché tutto andasse per il verso giusto. La vicenda di Erminio Macario si riflette nel suo omonimo teatro, anche conosciuto come “La Bomboniera”, situato in via Santa Teresa, un tempo uno dei cuori pulsanti dell’intrattenimento torinese ed oggi solamente una logora saracinesca tirata giù.
La storia di Erminio è tutta torinese. Egli nasce nella nostra città il 27 maggio 1902, in una piccola soffitta di via Botero, ed è ultimogenito di una famiglia umile ma numerosa. Frequenta poi la scuola Petacchioni, la stessa che aveva ispirato la stesura del celebre romanzo “Cuore”, scritto dal ligure De Amicis e pubblicato nel 1886.
La primissima esibizione di Macario avviene nel 1913, sul palcoscenico dell’oratorio Don Bosco della Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice; in questa occasione Erminio riveste un ruolo marginale ne “Il sacrificio di un innocente”, ma ha così l’opportunità di scoprire, già in giovane età, la sua vera vocazione.
Nel 1917 il futuro attore si inserisce nel mondo del lavoro e ricopre un impiego alla FIAT come operaio tuttofare, egli stesso ricorderà in seguito così quel turbolento momento della sua vita: “feci tutti i mestieri; se non imparati almeno iniziati”.
Nell’anno successivo Erminio continua a dimostrare la sua versatilità e il suo essere “resiliente” – per utilizzare un termine molto in voga in questo periodo – questa volta però sfrutta i suoi talenti per gestire una piccola filodrammatica di sua proprietà, situata in San Donato, all’interno della quale egli svolge tutte le mansioni, da costumista a cassiere, da primo attore a regista.
L’anno della svolta è il 1924, quando il giovane Macario si imbatte nel cavalier Molasso, coreografo, ballerino e celebre impresario. Caso vuole che quest’ultimo fosse alla ricerca di nuovi volti per lo “spettacolo di balli e pantomime” che si sarebbe tenuto di lì a poco al tetro Romano. Macario ha così il suo primo ingaggio a 15 lire al giorno: esordisce con “Sei solo stasera?” a cui segue “Senza complimenti!”.
La fortuna sorride al genio torinese e nel 1925 la carriera di Erminio è positivamente segnata dall’incontro con Isa Bluette, famosissima soubrette, che lo scrittura come “comico grottesco” all’interno della sua compagnia. Macario fa ormai parte “del giro buono” del teatro, non solo di Torino, ma italiano. A segnare la sua affermazione definitiva all’interno della scena della recitazione è lo spettacolo “Valigia delle indie” di Ripp e Bel-Ami (pseudonimi di Luigi Miaglia e Anacleto Francini), eseguito al teatro Odeon.
Il destino però non è sempre benigno e, una volta arrivato all’apice del successo, Macario è costretto a fronteggiare il funesto periodo della crisi del 1929. Erminio si ritrova così a sgomitare nuovamente per non cadere nel “dimenticatoio”, si sposta tra San Remo, Milano e Roma, ma alla fine torna fiducioso tra le braccia della sua amata Torino. Questa volta a venirgli in soccorso è Umberto Fiandra, il direttore della compagnia teatrale La Stabile del teatro Rossini. Macario si dedica così al teatro dialettale, occasione che si rivela una mossa decisamente strategica, poiché da una parte egli riesce a superare la crisi economica senza perdite irreparabili, dall’altra ha l’opportunità di collaborare con i grandi protagonisti della prosa.
Arrivano gli anni Trenta e una nuova ondata di positività colpisce la cittadinanza, si ha di nuovo voglia di ridere. Tra il 1932 e il 1933 Erminio – con un gesto tra il coraggioso l’incosciente – investe 12.000 lire, che all’epoca erano una somma assai ingente, per fondare la sua seconda compagnia teatrale, per la quale sceglie come sede principale il Teatro Maffei, meglio noto con l’appellativo “Bal tabarin”. Lo spettacolo di debutto è “Pelle di ricambio”; il successo non tarda a sostenere l’attività, ma la Seconda Guerra è ormai alle porte e il 20 novembre 1942 un bombardamento distrugge lo stabile, costringendo lo stoico Erminio a ricominciare ancora una volta quasi da zero.
Nel dopoguerra Macario si dedica principalmente al cinema. Tra i suoi maggiori successi vi sono “Come persi la guerra”, primo film comico neorealista, scritto da Monicelli e Benvenuti, Pinelli e Steno e “Il monello della strada”, in cui Erminio riveste il ruolo del primo anti-eroe del cinema italiano.
Il comico decide di espandere ancora le sue attività e si occupa, sempre nel dopoguerra, della rivista “Votate per Venere”, che riscuote grande successo anche a Parigi.
Negli anni Cinquanta Macario è fra i maggiori industriali dello spettacolo italiano: la media giornaliera di incasso è un milione.
Tra gli anni 1958 e 1963 il torinese lavora in ben sette film a fianco di colossi della pellicola come Totò, Peppino e Fabrizi; nel 1965, invece, partecipa alla riedizione della commedia musicale “Febbre Azzurra”, campione d’incasso della stagione.
Negli anni Settanta, Erminio si riavvicina al teatro, recitando in dialetto piemontese ed esaltando sempre più la sua ormai nota “Maschera Macario” che altro non è che il suo stesso volto, bonario, espressivo e soprattutto tanto amato dal grande pubblico. In questi anni ottiene grande successo la rivisitazione del famoso testo piemontese “Le miserie ‘d Monsù Travet”, eseguito con Lo Stabile di Torino presso il Teatro Alfieri. Dopo una vita trascorsa sui palcoscenici di altri, Macario decide che è ora di averne uno tutto suo. Sul finire degli anni Settanta inizia la realizzazione de “ La Bomboniera”, situata al numero 10 di via Santa Teresa e inaugurata ufficilamente nel 1977, con la commedia di Molière “Sganarello medicosifaperdire”.
E così Erminio, con la determinazione di chi non si è mai arreso, riesce a concretizzare il suo sogno più grande: avere un teatro tutto suo.
Tutte le storie però sono destinate ad avere un finale, e la vicenda di Erminio non può fare eccezione. Il 26 marzo 1980 il comico torinese smette per sempre di ridere, i funerali si svolgono la mattina del 28 marzo presso la chiesa di via San Dalmazzo, dopo la funzione la salma viene trasportata al Cimitero Monumentale di Torino, dove ancora oggi riposa.
Dopo la scomparsa, Torino non gli dedica nessuna via, piazza o monumento, in anni più recenti solo alcuni comuni come Grugliasco o Trofarello hanno avuto dei rimorsi di coscienza e hanno inserito il nome dell’attore all’interno della propria struttura urbana.
Il Teatro Macario è diretto negli anni Novanta da Pier Giorgio Gili e dopo la dipartita di quest’ultimo la struttura viene convertita in discoteca, il “Theatrò”.
Tuttavia, senza la forza d’animo dello storico fondatore, anche tale attività fallisce, le saracinesche si abbassano e i torinesi ci passegiano frettolosi accanto, dimentichi del fragore che un tempo caratterizzava quel quartiere. A portare avanti la memoria della vita e delle opere di Erminio Macario sono soprattutto i figli, aiutati dai parenti più stretti e dagli amici più vicini. Nel 2002, in occasione del centenario della sua nascita, viene fondata l’Associazione Culturale Erminio Macario “MacarioCult”.
Attualmente vi è stato un tentativo di rianimare gli impolverati spazi dell’ ex “Bomboniera”, si tratta della recente Galleria D’Arte “This is not Torino”, che ha deciso di aprire proprio in via Santa teresa 10, nella speranza di riabilitare, attraverso l’arte, uno dei luoghi storici della città.
Incrociamo le dita, come si suol dire, e dimostriamoci cittadini attivi, partecipiamo all’impresa di questa galleria anticonformista, che si vuole proporre più come “cantiere” che come luogo di esposizione.
Cari lettori e cari torinesi, prendiamo parte compatti a tali iniziative, poiché sappiamo bene che di Torino è facile innamorasi, ma difficilmente Torino si innamora a sua volta.
Alessia Cagnotto
Un dolce al cucchiaio o una deliziosa e sana crema spalmabile per la merenda dei vostri bambini.
Pochissimi ingredienti golosi, pochissimi minuti di preparazione. Provatela, è perfetta per tutti.
Ingredienti
1 banana matura
1 avocado maturo
50gr. di cioccolato fondente
2 cucchiaini di miele (facoltativi)
Pelare l’avocado e la banana, frullarli nel mixer o schiacciarli bene con una forchetta. Sciogliere il cioccolato con poco latte e unirlo alla frutta. Unire a piacere il miele.
Conservare in frigo e servire fresca.
Paperita Patty
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce.
Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Emmeline Pankhurst, colei che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan. Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere. (ac)
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2. Gina Lombroso: quando le donne fanno scienza
Nell’articolo precedente ho voluto ripercorrere, per sommi capi, la storia delle “Venusiane”, (se vogliamo seguire la leggenda secondo cui le donne vengono dal pianeta “Venere” e gli uomini da “Marte”), e sottolineare le numerose battaglie e inauditi sforzi che esse hanno coraggiosamente affrontato in passato e che continuano a fronteggiare a testa alta nell’eterna sfida della vita quotidiana. Moltissime sono state le protagoniste femminili che hanno dato il loro contributo rivoluzionario per modificare il mondo negli ambiti più svariati, dalla politica alla cultura, dalla letteratura alla scienza. Anche Torino ha avuto le sue paladine coraggiose, le quali hanno lasciato una forte impronta nel tempo, si pensi, ad esempio, a quanto hanno contribuito le Madame Reali per lo sviluppo delle arti e la magnificenza della città, promuovendo costruzioni di chiese, palazzi e residenze. In tempi più recenti le donne torinesi si sono messe in luce anche per il loro intelletto, infatti proprio di Torino era Maria Fernè Veledda, seconda donna laureata del Regno d’Italia in Medicina, nel 1878, e, sempre torinese, è stata la brillante Rita Levi Montalcini, nota per le scoperte nel campo delle neuroscienze, ma che ci ha lasciato anche pensieri profondi e illuminanti sulla condizione femminile, su cui, forse, dovremmo soffermarci a meditare ogni tanto. Un’ultima considerazione in chiave poetico-esoterica sulla nostra città, da sempre divisa in due, in cui alla sfera maschile rappresentata dal Po, ha sempre fatto da contraltare una lunare sfera femminile, silenziosa ma non meno importante, rappresentata dalla Dora. Non a caso a Torino è una delle poche città in cui sorge una chiesa specificatamente dedicata alla Grande Madre: ognuno ne tragga le proprie conclusioni. Le vicende sono molte e bisogna pur scegliere e da qualche parte iniziare. Con piacere mi accingo a raccontare la storia di alcune donne torinesi, con l’intento che le loro vicende possano ispirare la nascita di altre storie.
Gina Lombroso nasce a Pavia nel 1872 da Nina De Benedetti e Cesare Lombroso. La famiglia appartiene ad una alta e colta borghesia legata alle tradizioni ebraiche, in cui è centrale la figura del padre, Cesare, celebre antropologo, sociologo e filosofo, padre della moderna Criminologia. Già da adolescente Gina partecipa al lavoro scientifico del padre in veste di segretaria e collaboratrice, seguendo la corrispondenza e affiancandolo nel lavoro redazionale della celebre rivista l’“Archivio di psichiatria”, fondata nel 1880. Fondamentale per la crescita di Gina è la figura di Anna Kuliscioff, ospite frequente del salotto di casa Lombroso. E’ grazie all’influenza di Anna che Gina si avvicina agli ideali socialisti, che si concretizzeranno poi in alcuni studi svolti insieme alla sorella Paola, su temi quali la condizione di vita degli operai, il problema dell’analfabetismo e gli scioperi. Sempre nello stesso periodo Gina collabora alle riviste “Critica sociale” e “Il socialismo”. Nel 1895 Gina si laurea in Lettere presso l’Università di Torino e, successivamente, si iscrive alla Facoltà di Medicina. Pubblica poi alcuni saggi, tra i quali “L’atavismo nel delitto” e “L’origine della specie”. Nel 1901 conclude gli studi di medicina a pieni voti discutendo una tesi intitolata “I vantaggi della degenerazione” davanti ad una commissione che includeva l’igienista Luigi Paliani e il Fisiologo Angelo Mosso. L’argomento della tesi si dimostra estremamente rilevante per il dibattito scientifico dell’epoca, tant’è che verrà approfondito in un volume dallo stesso titolo pubblicato nel 1904. La giovane Lombroso affronta il tema della degenerazione in modo nuovo, avvicinandosi all’ottica biologica con una prospettiva sociologica. I caratteri della degenerazione vengono letti non tanto come un progressivo deterioramento dell’umanità, quanto come la capacità di adattamento dell’uomo alla conseguenze dell’industrializzazione, con particolare attenzione alla relazione uomo-ambiente.
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Dopo la laurea prosegue la sua attività di ricerca con il ruolo di assistente volontaria nella clinica psichiatrica dell’Università di Torino, tale incarico verrà portato avanti fino a i primi anni del matrimonio avvenuto nel 1901 con Guglielmo Ferrero, collega di Cesare Lombroso, con cui egli aveva collaborato per scrivere nel 1893 la monografia “La donna delinquente, la prostituta, la donna normale”. Sempre in questo periodo Gina svolge studi clinici sulla pazzia morale, sull’epilessia e sulla criminalità, non tralasciando mai l’intensa collaborazione con la rivista del padre. Nel 1907 segue il marito in un viaggio in sud America, visitando carceri, scuole e manicomi. Le sue riflessioni su tale esperienza verranno stampate l’anno successivo in un volume intitolato “Nell’America meridionale (Brasile Uruguay Argentina)”. Gina, per non farsi mancare nulla, è anche studiosa di lingue straniere, e, grazie a tale competenza, rimane a stretto contatto con l’ambiente scientifico internazionale oltre che italiano. Alla morte del padre, nel 1909, Gina si dedica con affetto alla risistemazione e ripubblicazione delle opere paterne, nell’intento di mantenerne vivo il pensiero nella comunità accademica. Nel 1916 lascia Torino e si trasferisce con la famiglia a Firenze, qui la sua casa diviene sede di incontri e scambi con l’ambiente intellettuale cittadino. Tra i frequentatori più assidui i Salvemini e i Rosselli. In questi anni la Lombroso si dedica allo studio della condizione femminile, teorizzando l’“alterocentrismo” della donna, cioè un innato altruismo fondato biologicamente e legato alla “missione” della maternità. Nei numerosi scritti su tale argomento, Gina intende negare la convinzione imperante dell’inferiorità femminile, in nome di una forte differenziazione dei sessi, che dovevano essere concepiti non in un rapporto gerarchico ma in uno di “complementarietà”. Nel 1917 pubblica l’“Anima della donna”, testo che vede diverse traduzioni e ristampe in Italia e all’estero; nello stesso anno fonda con Amalia Rosselli e Olga Monsani la “Associazione divulgatrice donne italiane”(ADDI) con lo scopo “indurre la donna italiana a prendere parte allo sviluppo scientifico, sociale, politico, filosofico del paese”. A seguito delle persecuzioni politiche da parte del Regime, nel 1930 Gina e il marito Guglielmo sono obbligati a trasferirsi a Ginevra, rimanendo però in contatto con l’ambiente antifascista. Durante l’esilio, Gina approfondisce la problematica del rapporto uomo-macchina, affrontando gli sviluppi della nuova epoca industriale in una prospettiva sociologica. In “Le tragedie del progresso” e “Le retour à la prosperité”, di fronte alle profonde trasformazioni introdotte dalla industrializzazione, viene messa in discussione la fiducia positivista in un progresso indefinito.
La storia di Gina non ha un lieto fine, l’amore per la scienza che dalla giovinezza l’accompagna non riesce a salvarla né a riportarla a casa. Gli anni dell’esilio vedono la morte del figlio Leo Ferrero, giovane poeta e intellettuale. Gina Lombroso morirà nel 1944 due anni dopo il marito, assistita dalla sorella Paola che l’aveva raggiunta nella città Svizzera. L’ignoranza violenta della guerra ogni tanto vince e l’oscurantismo allarga di un po’ la sua ombra, ma non dobbiamo dimenticarci che “senza cultura e la relativa libertà che ne deriva, la società, anche se fosse perfetta, sarebbe una giungla.” (Albert Camus). Gina ha contribuito a estirpare le erbacce, anche da lontano.
Alessia Cagnotto
Un contorno sfizioso realizzato con le cipolline borettane piccole e dolci dalla classica forma schiacciata. Si preparano facilmente con pochi ingredienti, si possono consumare sia calde che fredde, ideali per accompagnare carni o formaggi.
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Ingredienti
500gr.di cipolline borettane
60ml.di acqua
2 cucchiai di zucchero di canna
2 cucchiai di aceto di vino bianco
Burro, olio, sale qb
1 foglia di alloro
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Pulire le cipolline, togliere la prima pelle, lavarle e lasciarle in acqua fresca per circa mezz’ora poi, scolarle, asciugarle e rosolarle con una noce di burro ed un filo di olio. Aggiungere lo zucchero, l’aceto, la foglia di alloro e l’acqua. Mescolare bene e lasciar cuocere per 30 minuti poi, far ridurre il sugo a caramello, mescolare, lasciar intiepidire e servire a piacere.
Paperita Patty
Alessandra Macario ci propone questa immagine che ritrae la Mole avvolta dalla nebbia ai Giardini Reali di Torino.
Magnifica Torino / Il Monviso visto dal Lago Fiorenza e la via Lattea. Foto di Giampaolo Gigli. Un tramonto suggestivo dietro la Mole, di Vincenzo Solano.
PENSIERI SPARSI
Torino tra architettura e pittura
1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
1) Filippo Juvarra
Stiamo lentamente avanzando verso la primavera, le giornate si fanno poco a poco più luminose e più tiepide e la natura che ci circonda presto inizierà a sgranchirsi, intorpidita dal lungo sonno invernale. Non rimane che incrociare le dita e sperare che l’arrivo della bella stagione porti con sé anche la possibilità di fare qualche passeggiata in più, anche se muniti ovviamente di mascherina, outfit ormai egualmente essenziale e indispensabile. Nella speranza che questi pensieri possano trasformarsi in realtà, mi piace immaginare di poter organizzare un’uscita didattica con i miei studenti alla scoperta delle bellezze barocche di Torino; ribadisco infatti il concetto che l’arte vada insegnata nel modo più concreto possibile, invitando i ragazzi a guardare le architetture dal vivo -nel limite del possibile ovviamente- e non solo sulle pagine dei libri o attraverso la LIM, convincendoli a toccare colori e materiali, e se anche se ci si sporca un po’ non è un problema. È così che mi piacerebbe poter spiegare alle mie classi il “Barocco”, portando i ragazzi a passeggiare per le vie del centro, fermandoci a commentare e a chiacchierare tra piazza Castello e Piazza Vittorio, desidererei poterli condurre alla Palazzina di Caccia di Stupinigi o alla Basilica di Superga, rendendo loro lo studio un’esperienza concreta e trasformando delle nozioni prettamente storico-artistiche in un autentico ricordo di vita.
Sono consapevole di quanto sia utopico il mio pensiero, non solo per la drammatica situazione pandemica che pone ovvi divieti e limitazioni alle nostre abitudini quotidiane, ma anche perché il tempo scolastico pare trascorrere a ritmi insostenibili, le lezioni si susseguono e le ore non sono mai abbastanza per stare al passo con i programmi ministeriali. Non mi dilungo poi su quanto sia diventato complicato a livello burocratico organizzare attività sia dentro che fuori le aule.
Facciamo un gioco, facciamo finta che quanto appena premesso non sia del tutto vero, e fingiamo di poter organizzare un tour della Torino barocca. Prima di tutto occorre mettere in evidenza la personalità che più di tutte ha contribuito alla trasformazione dell’aspetto del capoluogo piemontese, si tratta di Filippo Juvarra, nato a Messina in una famiglia di orafi e cesellatori, è stato scenografo, disegnatore e architetto, la sua formazione è stata decisamente “pratica”, volta a migliorare le qualità tecniche artigianali.
Filippo Juvarra, (1678-1736), arriva a Torino nei primi anni del Settecento. Quando l’architetto messinese mette piede nel territorio si trova circondato da cantieri, lavori di ammodernamento e di ristrutturazione urbanistica, tutti interventi volti a rendere la città esteticamente degna del ruolo di capitale che le era stato decretato da Emanuele Filiberto nel 1563. In questo senso era risultato essenziale il contributo di Guarino Guarini, al servizio dei Savoia a partire dalla seconda metà del Seicento; all’architetto si deve infatti l’edificazione di vari edifici, tra cui la chiesa di San Lorenzo e la realizzazione della Cappella della Sacra Sindone.
E’ tuttavia con Juvarra che la città acquista effettivamente un nuovo aspetto, degno delle idee innovative che investono il Settecento.
Nel 1714 Vittorio Amedeo II di Savoia chiama a suo servizio l’artchitetto siciliano e lo nomina “primo architetto del re”, grazie a questo titolo Juvarra ottiene immediata visibilità all’interno dell’ambiente artistico e la sua ben più che meritata fama viene riconosciuta in poco tempo anche in territori stranieri. Egli infatti intraprende molti viaggi durante la sua vita, lavorando in Austria, Portogallo, Londra, Parigi e Madrid, città in cui morì improvvisamente nel 1736.
La sua formazione avviene prevalentemente a Roma, dove frequenta lo studio di Carlo Fontana e ha l’occasione di studiare dal vivo le opere classiche, rinascimentali e barocche, soffermandosi soprattutto sugli esempi di Michelangelo, come attestano i numerosi schizzi sui quali era solito appuntare le sue osservazioni. A Roma Juvarra esordisce anche in qualità di scenografo, come attestano i fondali che egli realizza per il teatrino del cardinale Ottoboni, al cui circolo arcadico era strettamente legato. I fogli juvarriani del periodo romano evidenziano i suoi molteplici interessi: progetti per architetture e apparati effimeri, capricci scenografici e vedute equiparabili a quelle del Vanvitelli, con cui in effetti Juvarra era entrato in contatto.
Juvarra esercita la sua opera come architetto soprattutto in Piemonte, più precisamente a Torino e dintorni. Egli non solo progetta chiese e residenze reali ma si occupa anche di riorganizzare interi quartieri periferici; lavora sullo spazio urbano e si conforma ai dettami dell’urbanistica torinese, riuscendo tuttavia a creare nuovi punti focali, quali i “Quartieri Militari” nei pressi di porta Susa, la facciata principale di Palazzo Madama (che di conseguenza rinnova anche l’aspetto di Piazza Castello), le chiese di San Filippo Neri, Sant’Agnese del Carmine, e, soprattutto, la Basilica di Superga, che si erge sulla collina e determina un nuovo confine visivo della città. Decisamente degni di nota sono anche i suoi interventi extraurbani, come dimostrano i nuclei architettonici nei pressi di Venaria, Rivoli e Stupinigi.
Tutte le sue costruzioni si inseriscono nell’ambiente in modo armonioso e studiato, ogni cantiere viene soprinteso con rigorosissimo controllo dallo steso architetto messinese; per ogni progetto egli recupera sapientemente il proprio ricco bagaglio culturale, riuscendo di volta in volta a riplasmare e innovare i modelli di riferimento in senso moderno e suggestivo, secondo una razionalità e una sensibilità del tutto settecentesche.
Continuiamo il gioco e immaginiamo di poterci fisicamente spostare per il territorio alla ricerca delle realizzazioni architettoniche di Juvarra. Partiamo da Palazzo Madama: per la ristrutturazione di tale edificio Juvarra parte da modelli francesi, (fronte posteriore di Versailles), e romani, (palazzo Barberini), e arriva però a una soluzione originale: conferisce unità alla parete grazie all’utilizzo di un unico ordine corinzio sopra l’alto basamento a bugnato piatto e sottolinea la zona centrale dell’ingresso con colonne aggettanti e lesene plasticamente decorate. Il palazzo, classicheggiante nella netta spartizione degli elementi, risulta settecentesco nelle ampie finestre attraverso le quali una ricca luce illumina adeguatamente i vani interni. Nella realizzazione dello scalone d’onore, opera unica nel suo genere, Juvarra fa invece affidamento alla sua esperienza teatrale: lo spazio che la gradinata marmorea occupa è uno spazio scenografico. La struttura si presenta di grande impatto visivo ma al contempo è calibrata e misurata, le decorazioni, segnate da delicati stucchi a forma di conchiglie e ghirlande floreali, aderiscono alla scalinata e si amalgamano all’architettura, rendendo più incisivo l’effetto della luce che trapassa le vetrate.
Immaginiamo ora di prendere un pullman e di allontanarci dei rumori della città. La nostra direzione è la verdeggiante collina torinese, dove ci aspetta uno dei simboli della città subalpina. La Basilica di Superga, edificata tra il 1717 e il 1731, svolge una duplice funzione, essa è sia mausoleo della famiglia Savoia, sia edificio celebrativo dedicato alla vittoria ottenuta contro l’esercito francese nel 1706. L’edificio svetta su un’altura, la posizione è tipica dei santuari tardobarocchi, soprattutto di area tedesca. L’impianto centralizzato con pronao ricorda il Pantheon, la cupola inquadrata da campanili borrominiani, invece, si ispira a Michelangelo. Nonostante i modelli di riferimento, sono del tutto assenti quelle tensioni tipiche del Buonarroti o dell’arte barocca: il nucleo centrale ottagonale si dilata nello spazio definito dal perimetro circolare del cilindro esterno, perno di tutto l’edificio; da qui si protendono con uguale lunghezza il pronao arioso e le due ali simmetriche su cui si innestano i campanili. Quest’ultima parte è in realtà la facciata del monastero addossato alla chiesa che su uno dei lati corti fa corpo con essa. L’edificio si estende nello spazio e asseconda l’andamento della collina, e diventa un nuovo e interessante punto di osservazione per chi si trova a guardare verso le alture torinesi.
Impossibile non ricordare la tragedia di Superga, avvenuta il 4 maggio 1949, alle ore 17.03, quando l’aereo su cui viaggiava il Grande Torino si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della Basilica, provocando trentuno vittime. Certi luoghi assorbono tristezza e per quanto siano architettonicamente belli, rimangono velati di malinconia e accoramento. Sempre rimanendo sul nostro iniziale filone dell’ipotetico tour scolastico, immagino che mi sarei allontanata dalla Basilica riferendo ai miei allievi una certa superstizione: meglio non visitare la chiesa in compagnia della propria metà, pare infatti che porti sfortuna alla coppietta innamorata.
Saliamo sul nostro pullman e dirigiamoci ora verso un’altra meta.
Nella Palazzina di Caccia di Stupinigi (1729-1733), troviamo un oscillamento tra la tradizione francese e la pianta italiana a forma di stella. Qui ritorna il motivo della rotonda, ma da essa fuoriescono quattro bracci a formare una croce di sant’Andrea, schema su cui Juvarra medita fin dagli anni giovanili. Il nucleo centrale e centralizzato costituisce il punto focale di un disegno vasto e articolato: esso è preceduto da una corte d’onore dal perimetro mistilineo, che si innesta nell’ambiente naturale e per gradi conduce fino al palazzetto vero e proprio; lungo il perimetro della corte d’accesso si dispongono le costruzioni dedicate ai servizi. L’impianto del grande salone richiama precedenti illustri, ma il tutto è trasfigurato in senso rococò, grazie ai ricchi stucchi, alle elaborate pitture, agli arredi e al particolare cadere della luce sui dettagli preziosi delle decorazioni artistiche e artigianali. La muratura esterna è scandita da una successione di lesene piatte nettamente profilate. Tutta la struttura della Palazzina risulta raffinata e in studiato rapporto dialettico con la natura che la circonda; le numerose finestre che si trovano su tutto il perimetro contribuiscono a dare un senso di generale leggerezza, controbilanciando l’impatto visivo dato dalle dimensioni imponenti dell’edificio.
Siamo alla fine del nostro gioco immaginato e ci manca ancora una meta per terminare la lezione sul Barocco.
Le chiese juvarriane presentano soluzioni architettoniche originali, soprattutto la chiesa del Carmine (1732-1735), dove le alte gallerie aperte sopra le cappelle si rifanno ad uno stile nordico e medievale. In queso edificio (che si trova in via del Carmine angolo via Bligny) l’impianto tradizionale a navata unica con cappelle lungo i lati è rinnovato dalla riduzione del muro delimitante la navata a una ossatura essenziale di alti pilastri di ribattutta e dalla sapiente modulazione della luce che, piovendo dall’alto fra i pilastri, si diffonde nella navata e nelle cappelle. Lo storico dell’arte Cesare Brandi così descrive l’elaborata chiesa del Carmine: “L’invenzione appare così una felice contaminazione coll’architettura del teatro e aggiunge un segreto senso di festa e di leggerezza all’ardita struttura della chiesa che solo nella volta, appunto a somiglianza di un teatro, ha una superficie unita, e quasi un velario teso sugli arredi delle grandi pilastrate.”
Ecco, il tour fantastico è terminato, e così anche l’articolo che concretamente sto scrivendo: come nelle favole realtà e immaginazione si mescolano, si sovrappongono e si uniscono, in una sorta di “kuklos” che alla fine fa quadrare tutto.
D’altronde sognare è gratis. Per ora.
Alessia Cagnotto
Un primo piatto alternativo alla ricetta tradizionale, ma altrettanto gustoso e sostanzioso.
Ideale per servire un piatto completo ricco di verdura.
Ingredienti
Sfoglia fresca all’uovo con spinaci
250gr. di ricotta morbida
500gr. di spinaci freschi
150gr. di formaggio Taleggio
500ml. di besciamella morbida
50gr. di grana grattugiato
Sale, pepe, noce moscata.
Lavare e cuocere gli spinaci, lasciarli raffreddare, strizzarli e tritarli grossolanamente con il coltello. In una terrina mescolare la ricotta con un pizzico di sale, pepe e noce moscata, aggiungere poi gli spinaci ed il Taleggio tagliato a cubetti. Preparare la besciamella. Ungere con poco burro una pirofila da forno, stendere un velo di besciamella e uno strato di sfoglia per lasagne. Distribuire sopra un poco di crema di spinaci e parmigiano. Proseguire gli strati fino ad esaurimento degli ingredienti.
Cuocere in forno a 180 gradi per 25 minuti poi, pochi minuti sotto il grill fino a doratura. Lasciar riposare pochi minuti prima di servire.
Papperita Patty