SOMMARIO: Il giorno della memoria attraverso il racconto di Guareschi – Paolo Macchi Cacherano di Bricherasio – Lettere
C u l i c c h i a non cessa mai di stupire. U. A.
Le torte salate sono apprezzate per la loro versatilità. Molto facili e veloci da preparare sono ottime servite tiepide o fredde, stuzzicanti e fantasiose
Ideali per un aperitivo con amici, una cena veloce, un antipasto o un pic nic, le torte salate sono molto apprezzate per la loro versatilita’. Molto facili e veloci da preparare sono ottime servite tiepide o fredde, stuzzicanti e fantasiose. Un must per tutte le stagioni.
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Ingredienti:
2 rotoli di pasta sfoglia rotonda
½ kg. di spinacini freschi
1 fetta di prosciutto cotto (100gr.)
250gr. di ricotta piemontese
100gr. di taleggio
1 uovo intero, 4 tuorli
1 spicchio di aglio
50gr.di parmigiano grattugiato
sale, pepe,burro, noce moscata q.b.
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Lavare gli spinacini, saltarli in padella con una noce di burro e l’aglio, lasciar raffreddare. In una ciotola mescolare il prosciutto e il taleggio tagliati a dadini, aggiungere il parmigiano, l’uovo intero, gli spinacini, sale, pepe e un pizzico di noce moscata. Stendere la pasta sfoglia in una teglia rotonda foderata di carta forno,bucherellare il fondo, disporre il ripieno, coprire con la ricotta, fare 4 fossette in ognuna delle quali sistemare il tuorlo. Coprire con la sfoglia rimanente, saldare bene i bordi, spennellare con poco latte e cuocere in forno per 35-40 minuti a 200 gradi. Servire tiepida.
Paperita Patty
Magnifica Torino / Le Ogr in notturna
Un perfetto connubio di morbidezza e friabilita’, semplice e irresistibile.
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Ingredienti
1 confezione di pasta sfoglia pronta quadrata
500ml. di latte fresco intero
4tuorli
100gr. di zucchero
40gr. di maizena
1 bustina di vanillina
1 limone
Zucchero a velo
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Preparare la crema pasticcera. Portare ad ebollizione il latte aromatizzato con la buccia di limone grattugiata, lasciar intiepidire e filtrare. Lavorare i tuorli con lo zucchero, unire la vanillina, versare il latte a filo sempre mescolando. Cuocere la crema a bagnomaria per circa 10 minuti. Lasciar raffreddare, aggiungere il succo di ½ limone senza mai smettere di mescolare. Disporre una base di sfoglia su un piatto da portata, coprire con la crema pasticcera, mettere la seconda sfoglia, ricoprire con la crema. Disporre l’ultima sfoglia, spolverizzare di zucchero a velo, guarnire a piacere. Servire fresca.
Paperita Patty
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https://www.piemonteitalia.eu/it/enogastronomia/ricette/tagliatelle-ai-funghi
“Ragioniere, buongiorno. Anche oggi, il solito?”. Così lo salutava ogni mattina, dal lunedì al sabato, il signor Alfredo. All’anagrafe Alfredo Tichetti, di professione bigliettaio addetto allo scalo della Navigazione Lago Maggiore, in servizio all’imbarcadero di Baveno.
E il “solito” non era una consumazione al bar ma semplicemente il biglietto del battello che da Baveno lo portava in giro per il lago. A volte verso Intra dove, dopo gli scali all’Isola Madre, a Pallanza e a Villa Taranto ( ma solo d’estate), aveva a disposizione un quarto d’ora scarso per imbarcarsi sul traghetto che faceva la spola con Laveno, sulla sponda lombarda del Verbano. A volte verso le isole Pescatori e Bella, Stresa, Santa Caterina del Sasso e la parte bassa del Maggiore, verso Angera e Arona. Il ragioniere era Teobaldo Lucciconi di anni sessantasei, celibe. Per quelli che lo conoscevano era semplicemente “il ragioniere”, tant’è che il suo nome non lo usava più nessuno e, se non fosse scritto sui registri del municipio, avrebbe potuto anche pensare di cancellarlo. Lucciconi era stato ragioniere contabile, impiegato alla filiale bavenese della Banca d’Intra al n. 5 di corso Giuseppe Garibaldi, a pochi passi dal piazzale dell’imbarcadero e dei moli d’attracco dei battelli e dei motoscafi. Aveva passato più di trent’anni dietro a quello sportello, intento a contare i soldi degli altri, a darne e riceverne. In tutto quel tempo gli sono passati davanti agli occhi i fatti privati e pubblici, le gioie e le tristezze di diverse generazioni. Altro che il confessionale del prete, su alla parrocchiale! Era in banca che ci si scambiava un saluto e si ricevevano confidenze, dovendo anche dare – se richiesto – qualche utile consiglio. Ma giunto al tempo della pensione, non ci pensò un minuto di troppo. Si levò le mezze maniche e, sempre con garbo (il che non guasta mai), salutò tutti e se ne andò senza rimorsi. Non che stesse male, anzi: aveva degli amici sinceri lì, e in fondo era stata la sua famiglia per tanto tempo. Vivendo da solo si era affezionato a quell’ambiente ma, come in tutte le cose, cercava di non vivere di ricordi e malinconie. Così aveva pensato che, dopo tanti anni passati tra casa e ufficio, ufficio e casa, era venuto il momento di prendere un poco d’aria fresca, guardandosi intorno. E sul lago di cose da vedere ce n’erano davvero tante. Così, a volte a piedi e altre utilizzando i mezzi pubblici (dal treno alla corriera passando, ovviamente, dal battello), iniziò a girare i paesi del lago su entrambe le sponde, la piemontese e la lombarda senza tralasciare la parte più a nord, in territorio elvetico, dedicandosi a frequentare le amicizie e a ripercorrere, con la memoria, le tante storie dei tipi originali con cui ha avuto a che fare. E vi possiamo assicurare che sono tanti che nemmeno vi immaginate. Ma soprattutto ebbe occasione e tempo per riscorire Baveno e le sue frazioni. ” Ma guarda tu”, pensava “E chi l’avrebbe mai detto che vivevo in un posto così bello e non ci avevo quasi mai fatto caso”. Era una delle sue riflessioni ricorrenti da quando era andato in pensione. Per tanti, troppi anni era stato “preso” dal lavoro e non alzava quasi mai lo sguardo sopra lo sportello. Arrivava in banca al mattino presto, portandosi da casa la “schisceta”. Eh, sì. Voi come la chiamate? Baracchino, pietanziera, gamelin, gavetta, gamella? Da noi quella pentolina di metallo a strati, con un coperchio ben chiuso per evitare perdite, indispensabile per scaldare su un termosifone un poco di pasta avanzata del giorno prima, una minestra di verdura o una fetta di carne, era la schisceta. Del resto da single, come si usa dire al giorno d’oggi, cosa andava a casa a fare? Non aveva nessuno ad aspettarlo o che cucinasse per lui e allora gli avanzi della sera prima erano più che sufficienti per mettere insieme un pasto economico da consumare sul posto di lavoro. Usciva di casa che era buio e ritornava a sera inoltrata perché spesso si fermava a dare una mano al direttore nel disbrigo dei conti e delle chiusure di cassa. Eh, un tempo non si guardava mica l’orologio. Prima il lavoro, poi il lavoro e poi ancora la famiglia. E lui che era praticamente tutta la sua famiglia quando andava a casa si fermava qualche minuto ad accarezzare il gatto della signora Maria, la vecchia lavandaia che abitava in cima a quel rione che chiamavano “il baeton”. Si faceva accarezzare perché gli dava sempre qualche pelle di salame, crosta di formaggio e cotiche avanzate. Il Tigre (si chiamava così per il pelo rosso striato di grigio e non certo per il carattere intraprendente visto che stava sempre sdraiato al sole, sullo zerbino di casa, a ronfare) manifestava la sua riconoscenza sfregandosi alle gambe con un sonoro ron-ron. Le giornate del ragioniere scorrevano così, senza troppe emozioni e senza andar di fretta. Poteva permetterselo, facendo una vita tanto regolare da far invidia a un orologiaio svizzero. Ogni giorno gli capitava di veder gente correre qua e là, sempre indaffarata, quasi avessero addosso tutti l’argento vivo. E lui? Niente. Si era guadagnato il diritto alla flemma. Gli capitava, come accade a tutti, qualche episodio dove la frenesia prendeva il sopravvento e bisognava darsi da fare ma erano, per fortuna, momenti piuttosto rari. Così, pur non mancando ai suoi doveri, cercava di tenere un passo che fosse, come dire, il più lento e ragionato possibile. E, bene o male, ci riusciva. Al Circolo Operaio bavenese ci andava soprattutto il lunedì mattina, giorno di mercato, dopo aver bighellonato tra le bancarelle. Gli piaceva quel brulicare di persone che chiacchieravano e contrattavano le merci esposte con un vociare che metteva allegria. Quando c’erano i turisti, dalla tarda primavera alla fine dell’estate, era una vera e propria babele di lingue. Sarà stato perché pativa la solitudine o perché gli piaceva iniziare una nuova settimana con un poco di movimento dopo l’ozio domenicale, ma far due passi al mercato era proprio divertente. Non che ci andasse per comprare qualcosa. Gli capitava raramente e solo per alcuni capi di vestiario. Per i generi alimentari andava in uno dei due piccoli supermercati.
Anzi, per non far torto a nessuno, stava ben attento a fare la spesa sia in uno che nell’altro. Così, pensava, nessuno ne avrà a male. Tanto più che al giorno d’oggi i prezzi sono più o meno uguali e anche la qualità non si discosta di molto. Ma, compere a parte, il mercato lo metteva di buon umore. Confessava che rimpiangeva quando era in centro, occupando la piazzetta tra le scuole elementari, il retro del municipio e pure la via principale che costeggiava la scalinata della chiesa. In seguito, per non intralciare il traffico e agevolare la viabilità, venne spostato sul viale del ponte che attraversava il torrente Selvaspessa tra Baveno e Oltrefiume, piò meno all’altezza del punto dove in passato c’era la vecchia passerella. Era sì più funzionale al traffico ma anche più decentrato e, quindi, un po’ più scomodo. Comunque, ora che era in pensione, quella passeggiata era piacevole e, terminato il giro verso le dieci e mezza, si avviava pigramente alla volta del Circolo. Passava sotto il ponte della ferrovia, svoltando a destra sul viale alberato e scendeva a fianco della stazione ferroviaria proprio davanti all’entrata dell’imponente Casa del Popolo. Fuori, nella bella stagione, c’era sempre qualcuno che si sfidava sui campi da bocce, mentre gli altri avventori si dividevano tra coloro che sbirciavano la partita, leggevano il giornale commentando i fatti del paese o si lasciavano prendere la mano dal turbinio delle carte da ramino o da scopa. E lui, il ragioniere, dopo aver chiesto un bicchiere di spuma o, più raramente, una cedrata, rispondeva di buon grado ai quesiti di natura finanziaria che gli venivano posti. Del resto, come gli aveva detto il cavalier Borloni dandogli una pacca sulla schiena, anche se a riposo “si è sempre ragionieri, no?”.
Marco Travaglini
La primavera stava per lasciare, senza grandi rimpianti, il passo all’estate. Grandi nuvole nere s’addensavano sulla vetta delle montagne. L’aria si fece elettrica, segno che il temporale stava per scatenarsi. Audenzio Remolazzi , intento a falciare il fieno nel prato, guardò il cielo che si faceva sempre più scuro e s’affretto a raccogliere quant’aveva tagliato per evitare che la pioggia imminente facesse marcire il maggengo.
Tra sé e sé disse : “Ah, quando il monte mette il cappello, conviene lasciare la falce e metter mano al rastrello”. E diede voce anche a Bartolo che stava riposandosi appoggiato con la schiena al tronco di un melo. “Oh.. Sacrebleu”, fece quest’ultimo, stirandosi. “Ho dormito come un sasso Colpa della frittata con le cipolle che è come una droga; mi piace ma mi crea un peso sullo stomaco che chiama l’obbligo di un riposino”. Guardò il cielo e borbottò: “Secondo me, Audenzio, è un temporale varesotto, poca acqua e gran casotto”. Tanto rumore per nulla, dunque? Nel dubbio, per non saper leggere e scrivere, s’impegnarono entrambi a rastrellare il fieno per poi raccoglierlo nel covone che andava coperto con una cerata. Ma più che dal cielo e dal temporale, il rumore più forte veniva dalla strada che saliva verso la Contrada delle Ciliegie. Stava passando una moto Guzzi, guidata dal proprietario, tal Arturo Brilli. Pareva un aeroplano intento a rullare sulla pista prima del decollo.” Guardalo là, l’Arturo. Sta passando con la sua moto taroccata che fa un gran fracasso e poca strada. Guarda che scia di fumo che lascia! Per me gli manca qualche rotella in testa. Va sempre in giro colorato come l’Arlecchino di carnevale, cantando a squarciagola le canzoni d’osteria. Ah, no c’è più religione. Son diventati tutti matti”.
Audenzio Remolazzi, in pensione dopo quasi quarant’anni passati in fabbrica, era fatto all’antica. Scuoteva la testona per mostrare tutto il disappunto per le abitudini di quel “ragazzaccio” che non aveva nessuna voglia di lavorare e, giunto ormai alla soglia dei quarant’anni, non riusciva a smettere di essere quel che era: un pelabròcch, un buono a nulla. Da una settimana i suoi vecchi genitori erano partiti per il mare della Liguria con il viaggio organizzato da Don Goffredo per i pensionati della parrocchia e lui che faceva? Se la spassava, avanti e indietro, a zonzo. “E’ proprio vero il proverbio: via il gatto, ballano i topi. Eh,sì. E quel topo lì, in assenza dei suoi che lo frenano un po’, si scatena a ballare giorno e notte”. Remolazzi, appena mi ha visto uscire dal bosco con in mio bastone da passeggio, ha subito attaccato bottone anche con me. “Ma l’ha visto l’Arturo, quella canaglia? Pensi che ieri sera dava del tu al prevosto come se fossero vecchi amici. Io glielo avevo detto a don Goffredo, di non dargli troppa confidenza. Eh sì, che glielo avevo detto; la troppa confidenza fa perdere la riverenza. Ma lui, uomo di chiesa sempre in giro a cercar di salvare anime, niente. Mi ha risposto di aver pazienza, di aver fiducia che il “ragazzo, crescendo, capirà come comportarsi”…Ha capito? Deve ancora crescere, quel furfante del Brilli.
Roba da matti”. A dire il vero era difficile dar torto a Remolazzi ma che si poteva fare? Se non erano riusciti i suoi genitori a “raddrizzarlo” fin da piccolo, figurarsi ora che aveva passato i quaranta e aveva la testa più matta che mai. Tra l’altro, aveva il vizio di bere. Era uno di quelli che – per far in fretta a tracannare – stanno sempre con la bottiglia “senza buscion”, senza tappo. Pensate che una volta si era preso una sbornia tale che scambiò la barca a remi di suo padre per un motoscafo e gridò a tutti che gli avevano rubato il motore. Si recò persino al commissariato dei Carabinieri per sporger denuncia, picchiando pugni sul tavolo e urlando come una bestia, tanto che al povero maresciallo Valenti e al suo fido aiutante, il brigadiere Alfio Romanelli, non restò altra soluzione che sbatterlo in gattabuia per qualche ora, finché gli si diradassero i fumi dell’alcool. Visto che nei circoli, nei bar e nelle osterie del paese e dei dintorni si guardavano bene dal dargli da bere perché esagerava e dava in escandescenze, il Brilli, tenendo fede – ironia della sorte – al suo stesso cognome, pigliava il treno o il battello e andava a “tracannare” in altri lidi, cambiando destinazione di volta in volta.
A chi cercava di moderarlo, come è capitato talvolta anche a me, rispondeva che “Quando c’è la sete, la gamba tira il piede”. Un modo per dire che, pur di soddisfare il proprio bisogno, non contava la distanza. Il maresciallo Valenti era stato testimone di un altro episodio. Un sabato sera, di turno con una pattuglia per i consueti controlli sul rettilineo che porta dal paese a quello confinante, più o meno all’altezza della seicentesca chiesa della Madonna del Carmine, incrociò il motocarro di Giovanni Guelfi con a fianco Arturo. La cosa strana era che quel motocarro era privo del vetro anteriore e in quelle condizioni non avrebbe potuto circolare. Il mezzo del Guelfi, a causa del gelo di quell’inverno che tutti ricordavano tar i più rigidi degli ultimi anni, aveva subito dei danni e il più serio tra questi era l’aver sottovalutato la crepa che, in meno di un amen, aveva provocato la rottura in mille pezzi del vetro. Pur essendo ormai sul finire della primavera, non aveva ancora provveduto a sostituito. Andava in giro così, faccia al vento, evitando di circolare nei giorni di pioggia. Quella sera, appena videro l’Alfetta dell’Arma sul ciglio della strada, imprecarono alla sfortuna. Guelfi voleva fare una inversione a “u“ e tornare indietro.
Fu Arturo adavere, tuttavia, una brillante idea: far finta che il vetro fosse al suo posto, integro. E come? Con il più semplice degli accorgimenti: facendo finta di pulirlo con un fazzoletto. Così passarono, con noncuranza, davanti agli attoniti carabinieri. Mentre Giovanni guidava, fischiettando il ritmo di una polka, Arturo s’impegnò a “pulire” l’inesistente vetro con un grande fazzoletto bianco. Il maresciallo Valenti, a bocca aperta, se li vide passare davanti al naso con il fazzoletto svolazzante e i capelli scompigliati dal vento. Il dubbio che l’avessero fatto apposta, con quel candido fazzoletto che – agitato in aria – sembrava v
oler far “marameo” ai tutori dell’ordine, non abbandonò mai il maresciallo. Ma volete mettere l’alzata d’ingegno, il tocco d’artista, la prova di disperato e incosciente “coraggio”? Così la raccontò, scuotendo la testa, Audenzio Remolazzi. Nel frattempo, con l’aiuto di Bartolo, avevano raccolto e messo al sicuro il fieno. Appena in tempo per evitare il peggio, considerato che non si trattò di un “temporale varesotto” ma di un acquazzone in piena regola.
Marco Travaglini
GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA
Martedì. Al Magazzino di Gilgamesh suona Max Altieri & Friends.
Mercoledì. All’Osteria Rabezzana è di scena il trio Paolo Porta 3. Al Blah Blah si esibiscono i Traitrs+ Secret Folder.
Giovedì. Alla Divina Commedia sono di scena i DAG. All’Hiroshima Mon Amour suonano i Selton. All’Off Topic si esibiscono i Viito. Al Blah Blah suonano gli Electric Wires. Al Cafè Neruda si esibisce il trio di Alberto Marsico.
Venerdì. Al Folk Club è di scena Dena Derose. Al Blah Blah suonano i Meganoidi. Al Magazzino di Gilgamesh è di scena Giulia Impache. Alla Divina Commedia suonano i Noi Duri 2.0. All’Hiroshima Mon Amour si esibisce Whitemary. Al Circolo Sud suona Skulla.
Sabato. Al Blah Blah sono di scena Let Them Fall & No More Extasy. Alla Divina Commedia si esibiscono i Dogma. Al Circolo Sud suona Roncea.
Domenica. Al Blah Blah è di scena la The Andy Mcfarlane Two Man Orchestra.
Pier Luigi Fuggetta
Chi se lo aspettava, questo temporale. Quando abbiamo messo in acqua la barca, verso le nove, il cielo era sereno. Qualche nuvola sopra le Quarne e un po’ di vento di tramontana da nord-ovest. Il callo del Giacinto non dava problemi e, a suo dire, quel suo barometro molto personale non l’aveva mai tradito. Eppure, sentendo la radio, le previsioni non erano poi così buone. Infatti, alle 7,20 in punto, avevo sentito al “Gazzettino Padano” il mattinale del Centro Geofisico Prealpino di Varese. “ Il vento, dal monte al piano, può portare improvvisi sbalzi di temperatura che, in casi eccezionali, potranno determinare fenomeni temporaleschi nella fascia prealpina di nord-ovest”, aveva detto l’erede del professor Furia, imitando la sua inconfondibile voce un po’ raspa. Non c’era giornata che, almeno per me, non s’aprisse con le loro previsioni atmosferiche.
Tra l’altro il nostro metereologo, classe 1924, seduto alla sua scrivania dalla quale ogni santo giorno alla sette della mattina dettava ai lombardi e ai piemontesi dei laghi le previsioni del tempo, non aveva perso un colpo fino alla fine dei suoi giorni. Preciso come un orologio svizzero anticipava le evoluzioni del meteo, concludeva il suo intervento augurando ai radioascoltatori “pensieri positivi, nonostante il tempo“. La sua scomparsa ci aveva resi più soli e tristi anche se il servizio continuava con chi aveva raccolto la sua eredità. Stando a quanto avevo sentito alla radio, ero perplesso ma mi sono fatto convincere da Giacinto che aveva già ottenuto il consenso di Giuanin. Così, in tre, ci siamo mossi dall’imbarcadero di Oira, remando a turno. La barca era quella di Giacinto: la “Carpa Dorata”. Eravamo davanti alla Qualba, la nostra acqua Alba, famosa per il colore e la limpidezza delle sua acque e qualcosa già non andava. Il cielo si stava rannuvolando sulle nostre teste. “Se vègn nìul vérs Bagnèla tò su l’umbrèla”, si raccomanda sempre il signor Barzaccheri, altro noto metereopatico in grado di avvertire la pioggia che, come tutti sanno, arriva quasi sempre da ovest, dall’alpe Sacchi. Dunque, stiamo in campana: se il cielo si rannuvola dalle parti di Bagnella e Brolo, conviene tenere a portata di mano l’ombrello perché non si sa mai. E’ quello che sta accadendo e noi siamo in barca, non sulla terraferma. Giuanin mostra uno sguardo preoccupato e anche Giacinto non è più così baldanzoso. Sta per scoppiare un temporale di quelli che ti raccomando e, per quanto ci si possa dar da fare coi remi, non saremo mai a riva in tempo per schivarlo. L’aria sta diventando elettrica, carica. S’avverte persino pizzicare sulla pelle. Il cielo ha cambiato ancora umore: la nuvolaglia da bianco sporco è diventata grigio piombo, con alcune striature nere come la pece. L’abbassarsi improvviso della pressione atmosferica sembra volerci comprimere, schiacciandoci sul fondo della barca. L’acqua inizia a muoversi.
Le onde si fanno sempre più veloci e aggressive. Mamma mia, questo che soffia è il Marescon, la peggior inverna che ci possa essere. Le raffiche violente hanno scacciato la tramontana e percorrono il lago come una scopa, spazzandone la superficie. Il tuono annuncia il lampo e il lampo saetta la sua energia scaricandosi in acqua, a qualche centinaio di metri da noi. Uno, due, dieci lampi secchi come una bastonata. Giacinto mormora le sue preghiere, preoccupato soprattutto per la barca che non ha ancora finito di pagare. Giuanin, passato dalla paura all’eccitazione, s’alza in piedi e canta come un ossesso: “Turbini e tempeste io cavalcherò, volerò tra i fulmini per averti.. Meravigliosa creatura, sei sola al mondo; meravigliosa paura di averti accanto..”. Roba da finire insieme ai matti; ci mancavano solo le canzoni della Giannini, in mezzo a questo bordello! Uno trema, l’altro canta e io mi metto ai remi prima che venga giù l’ira di Dio. Quello del callo che non sbaglia mai, Giacinto, mormora “Santa Barbara e San Simòn, vardén da la lòsna e dal tròn” ( Santa Barbara e San Simone, guardateci dal fulmine e dal tuono, ndr). L’altro, matto come un cavallo, canta come un juke box e dalla Nannini è passato a Cuori in Tempesta per poi finire con Bréva e Tivàn di Davide Vandesfroos. Gli piace, la trova indicata e non smette di ulularla al vento: “E la barca la dùnda e la paar che la fùnda, che baraùnda vèss che in mèzz al laagh… Ma urmài sun chè… in mèzz al tempuraal, tuìvess föe di bàll che a mi me piaas inscì…”.
Il ritmo del mio vogare è quasi da gara. Noncurante della fatica, con il cuore che mi scoppia nel petto e il fiato corto, approdo a Ronco di Pella, sfinito. Il cielo si è rotto e l’acqua scende a secchiate sul lago che ha preso il colore dell’incudine che il fabbro tiene in bottega. In breve la pioggia si trasforma in grandine e i goccioloni diventano cicchi ghiacciati grandi come noci. Siamo al riparo, sotto al tettoia della signora Erminia. Peccato non sia in casa. La sua ospitalità, in casi come questi, è graditissima. La “Carpa Dorata”, ormeggiata alla belle e meglio, non può ripararsi e subisce l’ingiuria della grandine. Giacinto piange come un bambino e maledice quel callo che lo ha tratto in inganno. “Quando torniamo a Omegna me lo vado a far raschiare via, questo giuda traditore”, mormora tra le lacrime. Io ho i brividi perché, oltre ad essere bagnato fino alle ossa mi sento stanco come un asino. L’unico eccitato è Giuanin che canticchia ancora, ma sottovoce. I nostri sguardi poco amichevoli l’hanno quasi convinto a dare un taglio a tutta quell’allegria senza ragione.
Marco Travaglini