LIFESTYLE- Pagina 95

Quando la notte si mangia le stelle

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Con passo deciso ma non frettoloso, ci si accompagnava agli altri avventori giù ai “Quattro Cantoni”. Lì, tra un bicchiere e un piatto di polenta “concia” accompagnato dai pesciolini in carpione ( una vera “mazzata” per il fegato, soprattutto alla sera, ma era quello che passava il convento e non era bello dire di no quando l’oste – il Luisin – era in vena di “offrire” il merendino fuori-orario) s’inanellavano ricordi, ritratti ed aneddoti

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Quando la notte si mangia le stelle e si fa nera come l’inchiostro, è segno che il tempo cambia. Le nuvole, scure e cariche di pioggia, riempiono il cielo formando una coltre spessa. “E’ notte di fiaschi e di chiacchiere da osteria”, diceva Ugo Pollastri, titolare della pescheria di Feriolo, prendendomi sotto braccio. E così, con passo deciso ma non frettoloso, ci si accompagnava agli altri avventori giù ai “Quattro Cantoni”. Lì, tra un bicchiere e un piatto di polenta “concia” accompagnato dai pesciolini in carpione ( una vera “mazzata” per il fegato, soprattutto alla sera, ma era quello che passava il convento e non era bello dire di no quando l’oste – il Luisin – era in vena di “offrire” il merendino fuori-orario) s’inanellavano ricordi, ritratti ed aneddoti. Prendevano forma e si animavano i personaggi più conosciuti. Ad esempio, il Tino Bagutti ed il suo “Motom”. Tino era stato tra i primi, subito dopo la seconda guerra mondiale, ad aver tra le mani quel ciclomotore robusto ed economico ( una specie di piccola motocicletta), di buone prestazioni ed elevata affidabilità, pur essendo confinato nei limiti di cilindrata dei più classici “cinquantini”. Il Motom, creato dal fantasioso ingegner Battista Falchetto, un ex-progettista della Lancia, in collaborazione con gli industriali De Angelis Frua , venne presentato al salone di Ginevra del 1947 con il mome di Motomic ( era l’abbreviazione di “Moto Atomica”..). Come lo teneva il Bagutti era uno spettacolo: sempre lucido, in ordine.

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Dietro al sellino aveva applicato una coda di volpe che, nelle intenzioni, doveva svolazzare davanti agli occhi dei passanti quando transitava la rombante motocicletta. In realtà, la coda restò quasi sempre giù, moscia, tristemente penzolante. Il Motom, infatti, andava a passo d’uomo sulla salita che dall’incrocio sopra il circolo di Oltrefiume saliva – tra due file di alberi – verso la Tranquilla. Tino Bagutti teneva molto “all’assetto del pilota”: guidava in posizione da corsa,proteso in avanti sul manubrio, vestito di pelle nera con cuffia di cuoio ed un paio di enormi occhialoni. Noi, all’epoca ragazzini, gli correvamo appresso, lo affiancavamo, lo guardavamo e lo sorpassavamo. Lui, umiliato, ci guardava digrignando i denti ma non ci diceva mai nulla. Non usciva nemmeno una sillaba dalla sua bocca anche se non era difficile intuirne i pensieri bellicosi. Così, lo ribattezzammo “il centauro della volpe triste”. E lui, con qualche ragione, non ci ringraziò. Un altro personaggio che veniva evocato spesso era il Balloni. Il nome non lo ricordo bene: forse si chiamava Alberto o Gilberto o qualcosa del genere. Comunque, era un bel personaggio. Era stato militare nella “Légion étrangère”,da giovane. Con la Legione aveva combattuto in Indocina, partecipando alla tragica battaglia di Dien Bien Phu, nel 1954. Era un uomo d’azione, sprezzante del rischio.Si definiva un “fascista-comunista”. La sua famiglia era stata dalla parte del Duce durante il ventennio ed alcuni avevano combattuto sotto le insegne della Repubblica di Salò. Lui, negli anni che seguirono alla Liberazione, continuò a coltivare il mito dell’ uomo forte e dell’ordine“. Dove aveva fallito il Duce, c’è sempre la possibilità che andasse bene a Stalin”, diceva ad alta voce, quando alzava un po’ il gomito, a riprova che “nel vino c’è la verità”.L’ideologia, non era opposta? L’ideologia, per lui, non c’entrava un tubo. “Ciò che conta è la dittatura. Qui ognuno fa i cavoli suoi e non risponde a nessun altro che ai propri interessi. Ed allora, caro mio, ci vuole ordine, disciplina. Un tempo era il fascismo a far rigare diritti questi lazzaroni, ora ci potrebbe pensare il comunismo”. Quel “ci potrebbe” veniva espresso in forma dubitativa poiché aveva scarsa considerazione dei comunisti locali ed italiani in genere. “Gente troppo democratica, troppo perbene. Vogliono cambiare le cose con le elezioni, con il consenso. Non capiscono che qui ci vuole lo schioppo e non il voto. Quelli lì son molli, si perdono dietro alle parole quando invece c’è bisogno di agire, di tirar fuori le palle”. Lo diceva mettendo in mostra un sorrisetto sardonico, enigmatico, sotto i baffetti radi. Non capivi mai se scherzasse o se facesse sul serio. Sono tanti anni che è trapassato ma, pensandoci, ho sempre più la convinzione che incarnasse davvero, a modo suo, il paradosso dell’essere un “fascista-comunista”.

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C’era poi il Gùstin, al secolo Aurelio Gustavino. Abilissimo nel fare affari, si era fatto un nome per la capacità di contrattare l’acquisto del riso giù nella “bassa”, tra le risaie del novarese e del vercellese. Portava con se una stadera, una bilancia per la “pesata” a braccio, utilissima per misurazioni che non superassero i 15-20 chili. “A trattare era un mago. Li faceva su con la galla, li infiocchettava con la sua parlantina che alla fine non capivano più niente. Ah, che roba: li fregava sul peso e loro – per la paga – lo ringraziavano anche, al Gùstin”, diceva l’Ennio, con ammirazione. Il meglio di se, però, lo dava nell’acquisto delle uova dalla sciura Marianna. La frase che accomapgnava il lesto movimento delle mani nel contare le uova sembrava quasi uno scioglilingua: “Quatar e quattr’ott , e quatar che fan vott, e quatar dudas..la va ben, Marianna?”. E Marianna annuiva, consegnando sedici uova al prezzo di dodici. “Bisognerebbe tirar su un monumento all’abilità ed alla faccia tosta del Gùstin, cari miei”, sentenziava l’Alfredo. Non aveva torto. Da giovane, nei paesi attorno a Milano, il Gùstin chiedeva l’elemosina con fare dimesso. Guardava, supplicante, negli occhi le vecchie signore, sussurrando loro con un filo di voce: “Fate la carità ad un pover uomo che in una mano ha cinque dita e nell’altra tre e due”. Un po’ di denaro l’aveva raccolto, insieme a cibo, vestiti e qualche legnata sul groppone. Ma gli “incidenti di percorso” non lo dissuasero dal mettere a frutto la sua fantasia. Così passavamo le serate di pioggia all’osteria dei “Quattro Cantoni”. Fuori, la notte si era ormai mangiata le stelle; dentro, tra il fumo del camino e dei sigari e le chiacchiere degli amici, si “lustravano” i ricordi, quasi fossero le pentole della Maria dell’osteria dei Gabbiani.

La morte come inizio della vita

Parlare di morte in questo periodo, in cui parte del mondo celebra la nascita del Salvatore, può sembrare quanto meno controcorrente.

In realtà, poiché nessuno ha la certezza di cosa vi sia dopo la morte, cosa succeda quando un individuo cessa di vivere e la sua anima, il suo spirito vitale, abbandona il corpo dobbiamo affidarci alla fede e credere compiendo, appunto, un atto di fede magari comportandoci in vita in modo da meritarci il dopo migliore.

Abbiamo visto come la concezione del dopo morte cambi enormemente nel corso dei secoli a seconda delle culture e delle epoche considerate.

Nell’antichità greco-romana si riteneva che i defunti richiedessero cure funerarie specifiche al fine di ricevere la protezione dei loro antenati, in assenza della quale si credeva che gli spiriti vagassero sulla Terra. Quando nel XXIV libro dell’Iliade Achille, per vendicare la morte dell’amico Patroclo, trascina il cadavere del nemico Ettore intorno alle mura di Troia, suscita nella società l’indignazione perché la profanazione dei morti era considerata un atto sacrilego.

Per i norreni la destinazione nell’aldilà dipendeva da modo in cui si moriva: morire in battaglia permetteva di accedere al Walhall tra gli einherjar insieme a Odino fino al momento del ragnarǫk(destino ultimo, fine del Creato); morire di malattia o di vecchiaia comportava, invece, la discesa nell’Hel, gli inferi.

Con l’arrivo del cristianesimo, a partire dal VI secolo, si è plasmata una diversa coscienza collettiva relativamente alla morte. Nel secolo scorso, complici due conflitti mondiali e la guerra in Vietnam, la morte era vista come un tabù, un argomento da non affrontare. La globalizzazione e la diffusione dei social hanno permesso di incontrare culture e credo diversi, permettendo una diversa comprensione di ciò che avviene dopo la morte.

In Europa nei confronti della morte e del defunto vi sono atteggiamenti diversi. In Germania il decesso è una parte della vita. Un retaggio cristiano ormai, però, superato anche da parte del Vaticano consente la cremazione ma obbliga a inumare o tumulare i resti cremati in un cimitero.

‍In Croazia, invece, analogamente a quanto avviene nell’Islam la sepoltura deve avvenire entro il giorno successivo al decesso. Icongiunti e chi lo desidera si riuniscono in una veglia notturna nella casa del defunto cosicché questo non resti, solo, al buio. Ilcorteo funebre segue un ordine preciso: in testa c’è la croce, seguita dagli uomini, dalle corone, dal sacerdote, dal defunto, dalla sua famiglia e, per ultime, le donne. In Italia dove la cremazione è consentita da anni, c’è ancora qualche ostacolo sollevato dalla Chiesa che ammette il deposito delle ceneri solo nel cimitero o altro luogo consacrato, ma non accetta che le si portino a casa degli eredi o vengano disperse.

Ma come è considerata la morte dalle varie culture? In Asia, complici le diverse etnie e religioni presenti (Islam, Cristianesimo, Ebraismo, Buddismo, Confucianesimo, Shintoismo, Induismo e Taoismo), sono molto diverse tra di loro le credenze sul “dopo vita”; quasi ovunque è vista come una transizione e l’approccio migliore per elaborare il lutto è accettarlo come un accadimento naturale, un evento normale della vita. In India, invece, la morte è percepita come il passaggio da una identità ad una nuova, più o meno importante a seconda di come ci si è comportati in vita(karma).

In Cina parlare dei defunti è tabù, perché si teme di invocare la sfortuna. Pur considerando il decesso come un evento inevitabile, è caldeggiata la pratica di alcune tecniche quali il Tai Chi Chuan o il Feng shui nella convinzione di prolungare la vita.‍

Il trattamento riservato ai defunti dipende da alcuni fattori quali, ad esempio, età o ceto. Nella cultura cinese gli anziani ricevono il giusto rispetto, anche per i morti. Ciò include il lavaggio e la vestizione del corpo, la preparazione della casa per il funerale e il rispetto del galateo funebre. Ad esempio, il rapporto con il defunto determina cosa si può indossare al funerale. Il colore dell’abito è via via più scuro allo stringersi del grado di parentela: per il coniuge o il figlio sarà nero, per un nonno blu scuro, poi grigio chiaro e così via.

Anche in Africa le usanze risentono delle molteplici culturepresenti. Nel Ghana, ad esempio, gli Ashanti ritengono che la morte sia il momento di transizione tra una vita e quella successiva. Come in altre culture, il trattamento riservato al defunto dipende dal modo in cui muore o, meglio, da come sia vissuto: una morte improvvisa non riceverà molta considerazione a differenza di una persona che muoia di vecchiaia, alla quale verranno tributati onori.

Rispetto ad altre culture, dove i riti funebri sono solitamente tristi, presso gli Ashanti si celebra la vita dei defunti. Il funerale è un saluto comunitario durante il quale si tributa l’ultimo saluto offrendo ai defunti cibo, bevande e musica, proseguendo il trattamento iniziato ante mortem con l’unzione degli infermi.

E che dire dei funerali a New Orleans (Louisiana)? Uscito dalla chiesa, il corteo con il feretro passa nei luoghi più importanti per il defunto, permettendo così a parenti ed amici di tributare l’ultimo saluto. Giunti sul luogo di sepoltura, i musicisti suonano a marciani molto lentamente, ma al ritorno dal cimitero che il ritmo assume diventa un crescendo incalzante, con i partecipanti che ballano al ritmo della musica; si credeva, infatti, che tale confusione nella strada avrebbe disorientato lo spirito del defunto, al punto di non fargli trovare la strada di casa dove avrebbe causato problemi ai suoi cari.

Sempre più persone si avvicinano alla morte in modo sereno, distaccato; pensate soltanto al suicidio assistito che sta raccogliendo sempre più fautori come unica alternativa alla sofferenza incurabile di una patologia incurabile. Nonostante le resistenze ovvie di alcuni esponenti religiosi, sempre più persone ritengono che suicidarsi non sia andare contro i disegni divini decidendo noi quando lasciare questa valle di lacrime ma sia, al contrario, una scelta legittima di chi vuole decidere del proprio destino.

Siamo tutti concordi nel ritenere la morte un evento certo, ineluttabile anche se non ne conosciamo la data né il modo in cui avverrà: perché, quindi, non accettarla con serenità, sia per noi stessi che quando accade a chi ci è caro, preparando per tempo ogni cosa (comprese le incombenze burocratiche) per ridurre al minimo i problemi a chi ci sopravvive?

Sicuramente, temere la morte significa soltanto caricarsi di emozioni negative, che non possiamo risolvere razionalmente perché è la paura di un dopo sconosciuto, temuto dal quale non si torna indietro.

Personalmente consiglio di vivere in pace con sé stessi e con gli altri, rinunciando a quei comportamenti che possono essere comodi o utili in questa vita ma sono oggettivamente dannosi per gli altri, agendo nel rispetto delle altre persone, degli animali e della natura in genere; sono certo che un tale comportamento non possa in alcun modo e secondo nessun credo essere di ostacolo ad un dopo vita dignitoso.

Sergio Motta

Un decalogo per proteggere gli animali dai botti

 IL PERICOLO ARRIVA ANCHE DALLE LANTERNE CINESI

Anche gli animali selvatici soffrono per le esplosioni dei petardi, e sono le vittime più numerose. Anche le lanterne cinesi possono essere letali

 

 

L’inizio dell’anno è alle porte riproponendo il solito problema delle esplosioni di petardi e fuochi artificiali. Per informare i proprietari di cani e gatti su come comportarsi per metterli in sicurezza durante la notte di Capodanno, l’Organizzazione internazionale protezione animali (Oipa) ha realizzato un video-decalogo per evitare morti, ferimenti e smarrimenti dei quattro zampe terrorizzati.

Non è raro che gli animali, impauriti, scappino dai giardini e dai cortili perdendosi o finendo investiti. Animali più anziani o cardiopatici possono morire d’infarto. E anche la fauna selvatica, uccelli e animali dei parchi e dei boschi, spaventata dal frastuono e dalle improvvise luci si disorienta schiantandosi contro alberi, muri, vetrate, cavi elettrici o finendo sotto le auto. Anche le “lanterne cinesi”, fatte spesso volare in occasione del Capodanno, possono causare il ferimento e la morte di animali. Si sono verificati diversi casi di selvatici e domestici ustionati, strangolati, o morti per emorragia interna dopo aver ingoiato il metallo tagliente dello scheletro delle lanterne. Il loro volo incontrollato è inoltre molto pericoloso in quanto facile innesco di incendi boschivi.

Alcuni Comuni italiani hanno già emesso ordinanze per vietare l’utilizzo di petardi per i festeggiamenti del Capodanno, ma sono sempre troppi coloro che non rinunciano a questa anacronistica tradizione anche per l’esiguità dei controlli volti a reprimere chi non rispetta le regole.

«Per evitare che l’ultimo giorno dell’anno si trasformi in dramma o tragedia per gli animali, abbiamo stilato un decalogo con le regole e suggerimenti per mettere in sicurezza e rassicurare il proprio familiare con la coda (v. video e infografica in calce). L’inizio del nuovo anno dovrebbe essere una gioia per tutti, non motivo di terrore e angoscia», spiega il presidente dell’Oipa, Massimo Comparotto. «Allo stesso tempo, facciamo appello alle forze dell’ordine affinché considerino una priorità i controlli finalizzati a far rispettare le ordinanze, non minimizzando le conseguenze, dirette e indirette, di una condotta irresponsabile da parte di chi maneggia i petardi».

Ecco i punti del decalogo Oipa

1.    Teniamo gli animali il più lontano possibile dai festeggiamenti e dai luoghi in cui i petardi vengono esplosi

2.    Non lasciamoli soli, potrebbero avere reazioni incontrollate e ferirsi. Stiamo loro vicini, mostrandoci tranquilli e cercando di distrarli

3.    Non lasciamoli in giardino. Teniamo in casa o in un luogo protetto gli animali che abitualmente vivono fuori per scongiurare il pericolo di fuga

4.    Teniamo alto il volume di radio o televisione, chiudendo le finestre e le persiane

5.    Lasciamo che si rifugino dove preferiscono, anche se si tratta di un luogo che normalmente è loro vietato

6.    Durante le passeggiate teniamoli al guinzaglio, evitando anche di liberarli nelle aree per gli animali per evitare fughe dettate dalla paura

7.    Facciamo visitare l’animale da un veterinario comportamentalista affinché valuti la possibilità di una terapia di supporto

8.    Evitiamo soluzioni fai da te somministrando tranquillanti, alcuni sono addirittura controindicati e fanno aumentare lo stato fobico

9.    Organizzare una “gita fuori porta” per trascorrere il Capodanno in luoghi lontani dai centri urbani e dai rumori forti e improvvisi

10. Chiediamo al nostro Comune un’ordinanza contro i botti e sensibilizziamo l’opinione pubblica su quanto questi inutili rumori possano essere dannosi per gli animali domestici e selvatici

Guarda il video-decalogo su Youtube

“Sì Virginia, Babbo Natale esiste”. Una storia vera diventata leggenda di Natale

“Caro direttore, ho otto anni. Alcuni dei miei piccoli amici affermano che Babbo Natale non esiste. Mio papà mi ha detto: “Se lo vedi scritto sul Sun, sarà vero”. La prego di dirmi la verità: esiste Babbo Natale?”.

1897, Manhattan –Virginia O’Hanlon vuole disperatamente continuare a credere nel grande mistero di Babbo Natale, ma, al tempo stesso,è costretta a scontrarsi con la razionalità di un mondo cinico che vuole spogliare di poesia la festa più magica dell’anno. Per risolvere il dubbio si rivolge al padre, il medico legale Philip O’Hanlon che le suggerisce di scrivere al direttore del Sun. La risposta è affidata a un editoriale che porta la firma di un veterano del giornalismo: Francis Pharcellus Church. Il giornalista, che aveva seguito la guerra di secessione americana, era venuto a contatto con le sofferenze, le ingiustizie, gli odi, ma soprattutto con la mancanza di fede che si era diffusa in gran parte della società. La domanda di Virginia, in tutta la sua disarmante e apparente semplicità racchiude speranze e desideri di generazioni di bambini e di generazioni di adulti che sono stati e continuano a essere, dentro di sé, fanciulli, chiede alla società di riflettere su uno dei misteri che se svelati, se distrutti, se rivelati, se sviliti, porterebbe con sé la morte del sogno e apre un dibattito sull’eterna dicotomia tra il credere e non credere. L’editoriale di Church rappresenta non solo una grande lezione di giornalismo, ma una riflessione su un mondo incapace di andare oltre l’apparenza delle cose e di percepire la realtà se non attraverso la pura razionalità, ma soprattutto di abbandonarsi a un atto di fede, accettando di credere in qualcosa che non si può vedere, che non si può esperire attraverso i sensi. “Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano)”scriverà nel 1943, quasi 46 anni dopo l’editoriale di Church, Antoine de Saint Exupery nella dedica del suo capolavoro, pubblicato proprio negli Stati Uniti. Solo i bambini o solo chi, crescendo è riuscito a conservare dentro di sé lo spirito del fanciullo, è in grado di continuare a vedere con il cuore. L’articolo di Church non rappresenta soltanto una risposta chiara e articolata alla domanda di Virginia, ma mostra a tutti i lettori quanto sarebbe triste, spoglio e senza prospettive un mondo senza misteri, senza atti di fede, senza sentimenti. “Virginia, i tuoi amici si sbagliano. Sono stati contagiati dallo scetticismo tipico di questa era piena di scettici. Non credono a nulla se non a quello che vedono. Credono che niente possa esistere se non è comprensibile alle loro piccole menti. Tutte le menti, Virginia, sia degli uomini che dei bambini sono piccole. In questo nostro grande universo, l’uomo ha l’intelletto di un semplice insetto, di una formica, se lo paragoniamo al mondo senza confini che lo circonda e se lo misuriamo dall’intelligenza che dimostra nel cercare di afferrare la verità e la conoscenza. Sì, Virginia, Babbo Natale esiste. Esiste così come esistono l’amore, la generosità e la devozione e tu sai che abbondano per dare alla tua vita bellezza e gioia. Cielo come sarebbe triste il mondo se Babbo Natale non esistesse! Sarebbe triste anche se non esistessero delle Virginie. Non ci sarebbe nessuna fede infantile, né poesia, né romanticismo a rendere sopportabile la nostra esistenza. Non avremmo altra gioia se non quella dei sensi e della vista. La luce eterna con cui l’infanzia riempie il mondo si spegnerebbe. Non credere in Babbo Natale! E’ come non credere alle fate! Puoi anche chiedere a tuo padre che mandi delle persone a tenere d’occhio tutti i comignoli del mondo per vederlo, ma anche se nessuno lo vedesse venire giù, che cosa avrebbero provato? Nessuno vede Babbo Natale, ma non significa che non esista. Le cose più vere del mondo sono proprio quelle che né i bimbi né i grandi riescono a vedere. Hai mai visto le fate ballare sul prato? Naturalmente no, ma questa non è la prova che non siano veramente lì. Nessuno può concepire o immaginare tutte le meraviglie del mondo che non si possono vedere. Puoi rompere a metà il sonaglio dei bebè e vedere da dove viene il rumore, ma esiste un velo che ricopre il mondo invisibile che nemmeno l’uomo più forte, nemmeno la forza di tutti gli uomini più forti del mondo potrebbe strappare. Solo la fede, la poesia, l’amore possono spostare quella tenda e mostrare la bellezza e la meraviglia del mondo. Ma è tutto vero? Ah, Virginia, in tutto il mondo non esiste nient’altro di più vero e durevole. Nessun Babbo Natale? Grazie a Dio lui è vivo e vivrà per sempre. Anche tra mille anni, Virginia, dieci volte diecimila anni da ora, continuerà a far felici i cuori dei bambini”. La risposta di Church è diventata parte integrante delle tradizioni di Natale degli Stati Uniti, è stata tradotta in venti lingue e The Sun, fino alla sua chiusura nel 1950, l’ha ristampata ogni anno in occasione del Natale. La storia realmente accaduta di Virginia si è trasformata, con il tempo, in qualcosa di non dissimile dalla visita dei tre fantasmi a Scrooge: una leggenda, un racconto, un canto che, insieme a tanti altri, si rievoca, si rilegge e che contribuisce a rendere speciale il Natale. In fondo, la bellezza di questa festività è racchiusa nell’abbandonarsi, anche solo per ventiquattro ore alla fede, nel credere al ripetersi della nascita di un Bambino che cambierà il mondo, nel credere a un Vecchio che porta i regali, nel credere che possano diffondersi ovunque la pace, la gioia, la speranza. Illusioni? Fantasie? Utopie? Forse. Ma anche potenti strumenti per rendere la vita di ciascuno di noi migliore.

Barbara Castellaro

… Quando un buon “Aglianico del Vulture” si trasforma in un bel “Nebbiolo d’Alba”

“Facce da scuola” / 9

Quarant’anni fa, a Vallette … I “migliori” anni della mia scuola

Gianni Milani

Inizi ’80. Era di domenica. Penso settembre – ottobre. Tempo di vendemmia, su quelle colline di Langa che ci accoglievano in tutta la loro stupefacente, magica bellezza. Con tutta la combriccola “vallettara” s’era arrivati a Mango, cuore di Granda, paese di superbo Moscato e “del partigiano Johnny” di fenogliana memoria. Insegnanti in “fantozziana” gita fuori porta. Appresso come sempre c’eravamo portati anche il “saggio”, ma “buontempone” più di tutti noi, don Ruggero, magistrale docente di Religione, punto saldo di riferimento per tutta la “Levi”, ragazze e ragazzi, e tutti noi colleghi compresi. Inizi anni ’80, dicevamo. A Mango s’era prenotato in un Ristorante di cui non ricordo il nome, dal panorama mozzafiato su un mare di colline da cui non avresti mai staccato gli occhi, a pochi metri dal possente Castello (secolo XIII) dei Marchesi di Busca. Gruppone da dieci, uno più uno meno. Insegnanti e un bidello (pardon, “assistente di palestra”, come rettificava lui). Lo scopo, ovviamente, mangiare e bere bene. Ma anche divertirsi e soprattutto, quella domenica, giocare un tiro mancino al povero Francesco, il Francesco Sarracino, insegnante di Educazione Artistica e ottimo pittore (a casa conservo una sua rigorosissima incisione dedicata ai danni terribili, a cose e a persone, causati dal terremoto dell’Irpinia del novembre dell’’80), da poco arrivato a Torino, con tutto l’ingombrante carico di nostalgia per la sua Basilicata e, in specifico, per la sua Rionero in Vulture. A Torino … e in Vallette, poi!. Lui così attento, scrupoloso e rispettoso. Di tutto e di tutti. E, soprattutto, di quell’Istituzione “Scuola”, così importante per lui, uomo integro del Sud, e così poco rispettata – pur se in fondo amata – dai nostri ragazzotti di via delle Magnolie. Schcreanzati (con tanto di h alla pronuncia), lo si sentiva gridare per ogni “sgarro” ai principi di una scuola che deve educare – comiziava a dito alzato – ed esigere il massimo rispetto da parte di tutti. E lì, invece! Ottimo insegnante. Bravo giovane. Lo prendemmo tutti a ben volere, nel nostro gruppo di colleghi “giocherelloni” a tempo perso, per strappargli, ogni tanto almeno, qualche risata e fargli per un po’ posare a terra quella cupa “saudade” per il suo paesello. Scoppiò perfino (dietro, sempre alla nostra regia) una bella “simpatia” fra lui e una giovane collega, anche lei arrivata dal Sud. Aveva un solo difetto, il Sarracino. Tutto in Piemonte e a Torino era per lui “brutto, sporco e cattivo”. L’inferno. In Basilicata, invece, regnava il paradiso! Non parliamo della cucina. Quello era proprio il suo tasto dolente. Ogni giorno era una lamentosa, ridicola, insopportabile litania. Quella piemontese? Ma per carità! Vuoi mettere il “Piatto del Brigante” o i “Ravioli con la ricotta” o i “Cavatelli con cime di rape”? Quanto mi mancano! Atroché “Bagna cauda” o “Agnolotti” o “Brasato”. E i nostri “Mustacciuoli” e i “Calzoncelli”, non c’è “Bunet” che tenga! Non c’è proprio paragone! Ragazzi, non se ne poteva più. Non si poteva toccare il tema “cucina” che, subito, esplodeva il “rosario” dei migliori piatti lucani.

E poi, l’Aglianico del Vulture, il “Barolo del Sud”, ma che Barolo! E’ l’“Aglianico” il miglior vino rosso d’Italia, se non del mondo! Uno sfinimento! E noi si esplodeva “alla Carosone”, accerchiandolo con un ‘O sarracino, ‘o sarracino, bellu guaglione, ‘o sarracino, ‘o sarracino, tutt’e ffemmene fa ‘nnammurà … Schcreanzati, (sempre con l’h), gridava e sorrideva lui. Quella domenica, in quel di Mango avevamo studiato per lui un piano niente male. Se domenica andiamo al Ristorante – aveva proposto lui qualche giorno prima – vi porto una mia bottiglia di Aglianico e lì faremo il confronto con i vostri Dolcetti, Barbere o Nebbioli. Voglio proprio vedere! Affare fatto! Ed eccoci al Mango. Interno Ristorante. Gentile, paffuta ristoratrice: Ah, suma bin ciapà. No, bei fioi, pos nen felu … esageruma nen. E il più piemontese del gruppo ma madama a l’è mach ‘na marminela, uno scherzo. Va là va là è solo uno schcherzo, ribadiva in italiano-riminese il Ghinelli, braccia rubate alla Riviera, emigrato a insegnare Lettere alle Vallette di Torino. Ommi, pòvra dòna si rassegnò la simpatica ristoratrice. Che, nel giro di qualche minuto, ritornò con due (dico due) bottiglie di rosso, sistemate come le avevamo raccomandato. Cambio di etichette. All’“Aglianico” del Sarracino aveva sorapposto quella di un “Nebbiolo d’Alba” da favola. E viceversa. Si mangiò alla grande. E tutto strettamente alla piemontese con gran finale di “Bunet” e “Moscato”. Devo ammetterlo – sorrise un po’ sforzato il buon Sarracino – anche se non siamo dalle mie parti si è proprio mangiato e BEVUTO proprio bene!  BEVUTO, sottolineò a voce alta con amichevole ghigno, ripensando al tragicomico inizio pasto. Eh già, ricordate lo scambio di etichette? Un bel brindisi, aveva gridato il calabro cosentino di Paola Franco Molinaro alzando un calice di rosso. Assaggiamo questo Aglianico. In alto i calici. Strepitoso! Gridò il Francesco. E adesso proviamo questo bel Nebbiolo. Calice al naso, buon profumo, gusto … Però, non male. Ma non come l’Aglianico. E lì, scoppiò una risata corale che fece sobbalzare tutti i clienti. Via le etichette! Sarracino sbiancò. Il suo “Aglianico” era diventato “Nebbiolo d’Alba” e il “Nebbiolo” scoprì essere il suo “Aglianico. Quello da noi affidato alla simpatica, paffuta ristoratrice. Povero! Si sedette, stranito e accennò appena Schcreanzati!!! E noi a canticchiare ‘o sarracino, ‘o sarracino, … La giornata finì a tarallucci e vino. E grappini (tanti) di Langa. Che contribuirono forse a riconciliare Francesco con il mondo. La nostra amicizia si sostituì e si affiancò poi, nei giorni e negli anni successivi, ai Grappini, agli Aglianici e ai Nebbioli e il buon Francesco imparò a trovare del “buono” anche in quel piccolo quadrato di territorio subalpino chiamato “Vallette”. Le nostre “Vallette”.

Gianni Milani

A proposito del Natale…

“Ho sempre pensato al Natale come ad un bel momento.
Un momento gentile, caritatevole, piacevole e dedicato al perdono.
L’unico momento che conosco, nel lungo anno, in cui gli uomini e le donne
sembrano aprire consensualmente e liberamente i loro cuori, solitamente chiusi”
(Charles Dickens)

 

 

Lo sapevate che la storia del nostro Salvatore e il 25 dicembre non sono proprio originali perché in realtà si sono ripetute nei secoli prima dell’avvento di Gesù? Horus, in Egitto 3000 anni prima di Cristo, nasce il 25 dicembre dalla vergine Isis-meri, la sua nascita è annunciata da una stella proveniente da est, e tre re giunsero a salutare la sua nascita.     Aveva 12 discepoli che viaggiavano con lui ed eseguiva miracoli come curare i malati, camminare sull’acqua, era conosciuto come, Il figlio di Dio, l’Agnello di Dio, ecc. ecc., tradito fu crocifisso e sepolto per tre giorni, poi resuscitò. Sui muri del Tempio a Luxor ci sono immagini dell’Annunciazione, Immacolata Concezione, Nascita ed Adorazione di Horus, con Kneph, lo “Spirito Santo” che impregna la vergine; e con l’infante e la presenza di tre re, o magi, che portavano doni. Virishna nel Medio Oriente, 1200 anni prima di Cristo, nacque da madre vergine per immacolata concezione: quando nacque il tiranno di allora fece uccidere tutti i bambini suoi coetanei. Angeli e pastori presenziarono alla sua nascita in una grotta; compì miracoli come la trasformazione dell’acqua nel vino e resuscitò i morti; fu crocifisso alla fine in mezzo a due ladroni e resuscitò dopo tre giorni. Attis di Frigia 1200 aC, nato dalla vergine Nana il 25 dicembre, crocifisso e poi resuscitato….e tanti altri ancora…. Ci sono quindi tanti salvatori nati il 25 dicembre, per lo più da una vergine, che hanno effettuato miracoli, sono morti su croci, alberi, oggetti fatti di legno, poi sono risorti, e presentano tra loro delle somiglianze impressionanti. La domanda sorge spontanea: perché queste caratteristiche? Una spiegazione si basa sull’effettivo movimento degli astri ed è quella che gli studiosi ed archeologi chiamano l’antico culto del sole. Il 25 dicembre segna l’effettiva nascita del sole. La “stella d’oriente” che dà il messaggio della venuta del Dio, non è altro che Sirio, che il 24 dicembre di ogni anno, si allinea con le tre stelle più brillanti della cintura di Orione :“I tre Re”.    La linea retta descritta idealmente da queste 4 stelle indica esattamente il punto dell’orizzonte dove il sole sorgerà il 25 dicembre. Ecco da dove viene l’allegoria della stella che, insieme ai tre re che la “seguono”, indica il punto dove il sole (cioè la divinità del Sole) nascerà. Il 22 dicembre la “morte” del Sole si realizza completamente quando raggiunge il punto più basso nel cielo. Il Sole è morto sulla croce, morì per 3 giorni per poi risorgere e nascere di nuovo: da qui l’idea di crocifissione, morte per 3 giorni e resurrezione che è comune a tante divinità del Sole come Gesù.  Gli Apostoli sono le 12 costellazioni dello Zodiaco, assieme ai quali Gesù, essendo il Sole, viaggia. La madre vergine del Dio Sole è un tema anch’esso popolare in tutte le religioni dell’antichità: secondo il “mito solare”, infatti, il Sole nacque sotto la costellazione della VergineL’oro, l’incenso e la mirra, infine, erano i doni che gli antichi facevano al sole poco dopo la sua rinascita, in quanto con la sua nuova “luce” avrebbe promesso grano, raccolti e cibo nuovamente a sufficienza.

 

 M a u r i z i o  P l a t o n e

 

 

 

La Cotoletta alla piemontese conquista i ristoranti

La Cotoletta alla Piemontese è indubbiamente la novità culinaria dell’anno e in particolare della cucina piemontese. Il piatto ideato da Mino Giachino, il grande sostenitore della TAV, sta  rilanciando il consumo della carne di razza piemontese e dei formaggi tipici delle nostre vallate alpine.  Aumentano i ristoranti che l’hanno inserita nel menu in Città e nelle località di montagna. Accompagnata da un bicchiere di Nebbiolo giovane e dai grissini della collina piemontese sta trovando il suo spazio e incuriosisce piemontesi e turisti.

Nella foto il manifesto affissione nei ristoranti firmato dall’assessore regionale alla agricoltura Protopapa

La colazione di Natale al Caffè San Carlo

A un anno dall’apertura , per il bar- caffé da sempre considerato uno dei  più rappresentativi della storia  di Torino, la pastry chef Andre Celeste Allione, ha realizzato due speciali brioches che raccontano il  dolce Natale sabaudo
 
Eleganza che fa rima con Torino, soprattutto nelle sue espressioni dolciarie , che accompagnano da secoli la regalità con cui, tuttora, la città si presenta ai suoi cittadini e ai turisti  che la apprezzano.
L’identitá sabauda che si respira in ogni angolo della cittá, soprattutto nelle zone centrali, si percepisce in modo particolare nel locale che si é dato nuova vita , poco più di anno fa, e che ha restituito a piazza San Carlo – ” il salotto di Torino – , quella luce ” gastronomica  ” che, nel tempo, i torinesi hanno visto affievolirsi proprio lì.
Il Caffè San Carlo, per la colazione delle feste ( ma non solo), propone due speciali brioches: una, la più elegante, come le signore di Torino e che, come delle care amiche, fanno compagnia in maniera sommessa ma con tante storie da raccontare e da ascoltare con attenzione,  la “Carla” ; l’altra, un vero e proprio alberello di natale, ma non da allestire con addobbi e luci, bensì da assaporare in tutte le sue gustose preparazioni.
A proposito della  Carla la pastry chef ci racconta : ” All’inizio la Carla non aveva questo nome, ma era in via di definizione. É nata con il nuovo San Carlo, per identificare l’essenza e la sontuosità informale del posto. Abbiamo pensato che il caffè rappresenta la colazione di tanti  : per questo, doveva trovare una collocazione di gusto fra lo sfogliato – la brioche, appunto,  che accompagna spesso il caffè – e il ripieno. Lo sfogliato è incassato alla francese ed è impastato con una ricchezza di ingredienti leggermente diverso dalle classiche brioches: miele, burro,  tante uova e zucchero di canna. Lo stampo che abbiamo deciso di utilizzare é sicuramente più grande e diverso rispetto al lievitato tradizionale ; e lo abbiamo pensato come da ” condivisione” ( anche se tanti la mangiano da soli…) , da dividere con piú persone.  L’interno é tutto da scoprire ed é tanto: crema pasticcera  e caramello al caffè, dove lo zucchero lo lavoriamo di piu per dare quel gusto leggermente amaro, in contrasto col dolce delle creme. Le farciture vengono preparate fresche giornalmente, così come la Carla e la selezione di croissant classici. 
L’altra novità per la colazione delle feste, firmato Caffè San Carlo, è il coloratissimo ” Alberello di Natale”, non solo da vedere, ma soprattutto da mangiare : buono,  leggero , una gioia per gli occhi e per il palato.
Col mio staff  – racconta sempre la pastry chef – , abbiamo deciso di dare una veste natalizia anche alla proposta per i lievitati: così, si é arrivati alla realizzazione di una brioche a forma di albero di natale, con lo stesso impasto che utilizziamo per i croissant tradizionali. 
All’interno una crema di zabaione, arricchita con perle croccanti al caramello salato così da dare croccantezza;  il colore verde –  a ricordare l’albero, appunto –  utilizzato nella sfogliatura della pasta matta che compone il prodotto. Per finire l’addobbo, sono state realizzate tante piccole palle di natale ” commestibili” a base di cereali”
 
 
Chiara Vannini