LIFESTYLE- Pagina 92

Wild: la profumazione che racchiude l’essenza del Parco Gran Paradiso

Selvaggio come le vette sferzate dal vento. Forte come gli alberi secolari che odorano di resina, foglie, gemme e corteccia. Accogliente come il profumo dei fiori e dei frutti che nascono spontanei. Questo è Wild, il profumo d’ambiente del Parco Nazionale Gran Paradiso, una sinfonia olfattiva che racconta la natura pura, libera e forte del più antico Parco Nazionale italiano.

Ideale per la casa o per i luoghi di studio e di lavoro, Wild è l’essenza intesa come aroma, ma anche come sintesi di quell’anima selvatica e affascinante che caratterizza la Natura di questo grande territorio a cavallo tra Piemonte e Valle d’Aosta (più di 700 Km²), primo Parco nazionale istituito nel 1922.

La sinfonia olfattiva creata dalla Maître Parfumeur Salvina D’Angelosi compone di Foglie di Violetta, Bacca Rosa, Frutti Rossi, Nocciola e Betulla per le note di testa, Mirra, Lavanda, Genziana, Rosa, Geranio, Artemisia e Ciliegio per quelle di cuore e Cuoio, Ambra Bianca, Patchouli, Vetiver e Legno di Frassino per le note di fondo. Il profumo alpino e balsamico di Wild esplode nell’aria riecheggiando in un’energia sensoriale di note morbide, ambrate, nomadi, legnose e selvagge che si diffondono concentrate in un bouquet di viole, rose e aromi di timo e quercia dolce. Il suo sentore di montagne verdi, vette dentate, selve, pascoli e cielo blu infonde infine serenità e pace non solo nell’ambiente, ma anche nella persona.

La fragranza nasce da uno studio condotto dal Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università degli Studi di Torino che ha avuto l’incarico di analizzare 218 specie tra piante aromatiche, officinali e fiori autoctoni adatti ad uso cosmetico forniti dall’Associazione LE TERRE DEI SAVOIA e presenti sul territorio Alpino all’interno del PNGP. Di queste ne sono state individuate circa 15 che la Maître Parfumeur ha sapientemente abbinato ad altre specie per dare vita a questa sinfonia olfattiva il cui senso è proprio l’invito a cercarla dal vero questa Natura incontaminata, visitando e soggiornando in una delle 5 valli che solcano un’area protetta a circa 2 ore dal capoluogo piemontese.

Essentiàlia – The Scent Experience, format di coinvolgimento sensoriale che nasce da un’intuizione del Gruppo YEG! – ha creato con la Maître Parfumeur il Scent Logo del Parco Nazionale Gran Paradiso e ha collaborato con Artefatto per la produzione di Wild. Artefatto, in qualità di concessionario, ha infine effettuato la commercializzazione del profumo che è disponibile nei formati 100 ml accompagnato da bastoncini di rattan la cui porosità favorisce un’effusione più omogenea e completa delle essenze rispetto ad altri tipi di legno, spray 50 ml e spray 15 ml.

La profumazione nasce grazie ad un progetto di ricerca durato 2 anni che ha avuto come partner numerosi soggetti pubblici e privati all’interno del Fondo Europeo di sviluppo regionale Interreg Alcotra, il piano integrato tematico a favore della biodiversità sulle Alpi occidentali che collegano l’Italia alla Francia Biodiv’ALP e PROBIODIV che promuove la biodiversità e gli habitat come fattori di sviluppo dei territori e mette in atto una governance per la valorizzazione e la tutela attiva e partecipativa transalpina. Per definire la brand personality del Parco e fornire informazioni utili alla Maître Parfumeur è stato infine sottoposto un questionario ad un panel di 150 persone selezionate dal PNGP alle quali è stato chiesto per associazione di idee che cosa per loro il Gran Paradiso effettivamente rappresentasse.

Wild è stato presentato a Palazzo Birago, sede istituzionale della Camera di commercio di Torino, alla presenza dei relatori Bruno Bassano Direttore del PNGP e Guido Bolatto Segretario Generale Camera di commercio di Torino. La scelta della location è legata al fatto che la CCIAA da sempre promuove e incentiva lo sviluppo dell’economia locale proprio come il PNGP intende fare con questo prodotto che sarà commercializzato sul territorio nei centri di informazione, in alcuni negozi e tramite E-commerce sul sito del Parco Nazionale Gran Paradiso.

Bruno Bassano, Direttore del PNGP, sottolinea: “Questo progetto, che nasce da una ricerca su numerose specie aromatiche del Parco, porta con sé la tradizione per cui ogni nostra azione, anche di sviluppo, si basa su un concreto approccio scientifico. E sarà attraverso questa fragranza che le persone ricorderanno e ameranno questo territorio di una bellezza profonda, a volte duro e severo, non sempre per tutti”.

Guido Bolatto, Segretario Generale Camera di commercio di Torino, afferma: “La collaborazione dell’ente camerale con il Parco Nazionale Gran Paradiso è attiva da tempo: dalla nascita del Marchio di Qualità Gran Paradiso, progetto sorto per garantire al consumatore la qualità dei prodotti, alle celebrazioni per i 90 anni di istituzione del Parco. Una sinergia che rinnoviamo anche in questa occasione di valorizzazione del territorio che può trasformarsi in un’opportunità commerciale per le imprese”.

Il povero tarabuso

 

L’immagine che avevamo davanti agli occhi era davvero inquietante. Una costruzione enorme, mostruosa, capace di imporre la sua presenza su quella campagna piatta e uniforme, dove le zolle di terra scura si erano raggrinzite per la gelata notturna. Finalmente capivamo perché il povero Tarabuso, airone stellato dal richiamo cupo e cavernoso, non riusciva a riprodursi in questa landa. Lo disturbava la presenza della centrale elettronucleare Enrico Fermi di Trino. Nonostante fosse ormai chiusa dal 1990, il volatile cercava di starle il più lontano possibile. E come dargli torto se nutriva diffidenza per quell’impianto che nei primi anni sessanta disponeva del reattore più potente al mondo? Ovviamente non disponendo di una cultura ambientale si affidava alle sue percezioni e quest’ultime, come un segnale di pericolo, suggerivano di stare alla larga da quell’affare, E tutto ciò influiva sulla sua vita, in tutti i sensi, al punto da inibirne l’impulso sessuale, minacciando la continuità della specie in quei luoghi.

Povero Tarabuso, e poveri anche noi che non eravamo per nulla convinti che quella centrale fosse mai stata un buon affare. Così, per non farci rodere il fegato dai pensieri, finivamo per tentare di comprometterlo ai tavoli della trattoria Belvedere. Lì, dietro al bancone del bar, troneggiava la signora Luigina, una matrona dalle prorompenti grazie. Eravamo talmente affascinati da quella bellezza rurale che una sera, complici alcuni bicchieri in più di rosso, sostituimmo la quarta lettera dell’insegna con una “esse”, rendendo ancor più esplicita la nostra folgorata ammirazione per l’ostessa. E, in particolar modo, per una sua caratteristica fisica che suscitava in noi sentimenti e pulsioni opposte a quelle del povero airone represso. La nostra compagnia dell’epoca era alquanto varia. C’era Francesco, diffidente per natura. Non prestava facilmente ascolto e ancor meno elargiva la sua fiducia. Ripeteva spesso, quasi fosse un monito: “Apri l’occhio, gesuita”. E così i suoi interlocutori venivano iscritti d’ufficio alla Compagnia di Gesù a prescindere dai loro sentimenti religiosi. C’era poi Giovanni, un tipo molto particolare. Spesso se ne stava in disparte, manifestando scarso interesse a stare in compagnia, chiacchierare, andare al cinema o a qualche festa. Era taciturno e d’indole parsimoniosa. Un sabato decidemmo di organizzare una scampagnata per il pomeriggio del giorno dopo e concordammo cosa portare in dotazione alla compagnia. In breve stabilimmo a chi sarebbe toccato portare il pane, chi il formaggio o il salame, chi un fiasco di vino. Solo Giovanni stava zitto. Parlò solo quando venne sollecitato (“E tu, Giovanni, cosa porti?”), rispondendo con noncuranza: “Io porto mio fratello”. Ariberto, nato e cresciuto nelle case torinesi della barriera di Milano, era un tontolone, un pezzo di pane, un gariboja. In piemontese per indicare uno sciocco si usa dire “a l’é furb coma Gariboja”. Non si tratta certamente un epiteto lusinghiero poiché non si segnala la destrezza di chi se la cava con l’imbroglio ma bensì la dabbenaggine dell’individuo. Gianluigi, professore di storia e grandissimo scassatore di scatole, ci ha raccontato che il nome Gariboja risale ad un francese originario della Borgogna, tale Jean Gribouille, personaggio popolare in Francia e molto simile al nostro Bertoldino, altro bell’esempio di credulone. Oltralpe fu protagonista del romanzo La Sœur de Gribouille scritto nel 1862 da Sophie Rostopcina, contessa di Ségur. Importato da noi in Piemonte il buon Gariboja è diventato l’emblema di una ingenuità spinta ai confini della stoltezza, tant’è che vi sono moltissime espressioni che lo riguardano. Si diceva che nascondesse i soldi in tasca degli altri per timore di essere derubato (così se qualcuno li rubava non erano più soldi suoi), che la paura di bagnarsi sotto la pioggia lo induceva a nascondersi nell’acqua o che tentasse di spaccare le noci con le uova. Anche sul commercio aveva le sue idee come, ad esempio, quella di acquistare le uova a dodici soldi la dozzina per rivenderle a un soldo l’una, immaginando di ottenere un guadagno sulla quantità. Per questo l’essere furbo come Gariboja non era propriamente un complimento. Fatto sta che una sera, uscendo dall’osteria dopo aver ecceduto un tantino con le libagioni, ci avviammo sul sentiero che attraversava i campi fino a raggiungere l’alta recinzione che circondava la centrale.

Francesco, guardando Ariberto, disse: “Apri l’occhio, gesuita. Guarda là, che spreco. Tutto quel cemento e il resto dei macchinari dovevano servire alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare con un unico reattore da 260 megawatt di potenza. Capito che roba,eh? L’hanno costruita dal 1961 al 1964, entrò in esercizio nel 1965 passando all’Enel, l’ente nazionale di energia elettrica che si era formato solo due anni prima, che la gestita fino al 1987, anno di cessazione del servizio dopo l’incidente di Černobyl dove esplose un reattore spargendo una nube radioattiva su una parte dell’Europa”. “Mi ricordo, boia d’un boia. Non si poteva più neanche mangiare l’insalata a foglia larga e bisognava lavare tutto due o tre volte”, intervenne Ariberto, dandosi una manata sul ginocchio. “Eh, sì.. l’insalata. Apri l’occhio, gesuita. Ma se tu la verdura non l’hai mai mandata giù perché ti faceva strozzare? Hai sempre mangiato solo riso, pasta, pollo e salame. Ma dai, fatti furbo!”. Francesco concluse il suo discorso ricordando i tre referendum contro il nucleare e, per sottolineare con più forza il suo punto di vista, fece la pipì sul pilone del cancello. Quello che per molto tempo fu considerato reato in quanto rientrava negli “atti contrari alla pubblica decenza” quando venivano imbrattate le cose altrui o si espletassero i propri bisogni contro edifici pubblici, suggerì a tutta l’allegra combriccola di emulare il gesto dell’amico. E così, più leggeri pure più allegri, ci avviammo verso le rispettive abitazioni dedicando un ultimo pensiero al povero tarabuso che, inibizioni sessuali a parte, certamente senza averne consapevolezza, aveva dimostrato di possedere molto prima di Greta Thumberg e dei Friday for Future una coscienza ambientale di tutto rispetto, un evidente e insopprimibile desiderio di pace e, forse, un desiderio inespresso a favore di una diversa politica energetica. In fondo apparteneva alla nobile famiglia degli aironi e non era certamente un gariboja.

Marco Travaglini

L’on. Figurelli e l’imprevisto

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Ma, Castagnetti che fine ha fatto?“. Anselmo Ruspanti lo chiese, con sguardo interrogativo, ad Albano Galavotti che a sua volta, allargando le braccia, lasciò intendere che lui non ne aveva la più pallida idea.

Forse la Marietta ci può essere d’aiuto”, intervenne Flavio Rizzato, più noto come “cìaparatt”, grazie all’abilità con cui liberava cantine e solai dalla presenza dei roditori. E infatti Marietta, abituata a farsi gli affari di tutti in paese, s’affrettò ad informare i tre che lo “spelafil”, l’elettricista Giuseppe Castagnetti, era andato per funghi  alle “Cascine” e, probabilmente da lì era salito al monte Vago. “Oh, Madonna! Ma è diventato matto? E adesso? Come facciamo a metter su l’impianto elettrico dato che i fili li ha lui?”. Carmine Degrelli, che aveva sentito tutto, diede voce alla preoccupazione dei presenti. Senza l’elettricista non c’era modo di collegare il cavo elettrico alla batteria da camion che Galavotti portava nel baule della sua “giardinetta”, una Fiat 1100 familiare color caffelatte. E senza il collegamento elettrico le “trombe” dell’impianto di amplificazione sarebbero rimaste mute e l’onorevole Figurelli non poteva fare il suo comizio. “Bisogna inventarsi qualcosa perché tra poco arriva e se vede in che stato siamo conciati, s’incazza come una belva e poi, apriti cielo..”, lamentò Anselmo che, in quel momento, rappresentava la massima autorità sul campo, in quanto responsabile del PCI per i comuni della sponda occidentale del lago. Per l’onorevole Figurelli, dopo i discorsi  in piazza  Motta a Orta e al circolo operaio di Lavignino ad Armeno, quello in piazza Marconi ad Ameno era il terzo e penultimo appuntamento del giorno, prima di passare da Omegna e risalire la valle Strona fino a Luzzogno per l’ultimo appuntamento, sul calar della sera. Tutto era programmato con precisione poichè d’autunno il sole tramontava prima e alla sera in pochi sarebbero usciti di casa per andare a sentire Figurelli, nonostante fosse conosciuto e ben stimato. Un ritardo ad Ameno avrebbe compromesso il resto della giornata. E non andava per niente bene. Mentre Galavotti stava armeggiando attorno alla batteria per capire cosa si potesse fare spuntò da un vicolo, allegro e fischiettante, il Castagnetti. “Giuseppe, testa di legno, dove ti eri cacciato, eh?”, l’apostrofò Ruspanti, rosso in volto. Per tutta risposta l’elettricista mostrò il cestino di vimini  che portava a tracolla, colmo di sanissimi porcini. Per un attimo i presenti temettero che Anselmo volasse addosso allo “spelafil” ma l’intervento provvidenziale di Flavio, il  “cìaparatt”, riportò tutti alla realtà: “Non c’è tempo da perdere. Tra poco arriverà l’onorevole e bisogna essere pronti. Dai, Giuseppe, corri a prendere i cavi mentre noi prepariamo il resto”. Detto e fatto, quando il sidecar guidato da Paulin Nobelli entrò in piazza, con l’onorevole seduto nel carrozzino ,l’allestimento era completato: impianto collegato, microfono funzionante, due bandiere rosse posizionate ai lati di un piccolo leggio. Figurelli, da esperto oratore, sapeva “tenere” i comizi. E quando capitava su di una piazza, una piccola folla s’accalcava e spesso non si trattava solo di sostenitori. Talvolta anche i curiosi s’intrattenevano perché i comizi erano vissuti come degli spettacoli, per  di più se si svolgevano  all’ aria aperta e l’oratore di turno era capace di catturare l’attenzione degli astanti. In quel caso raccoglieva  più di un applauso. Ma, prima di ogni altra cosa, il saper affrontare e risolvere gli imprevisti  rappresentava un’arte che disponeva di pochi maestri e di moltissimi intenditori. Tra i primi senz’altro s’annoverava il Figurelli. Così, quando nel bel mezzo del suo appassionato discorso sopraggiunse una grande auto bianca che si fermò sul ciglio della piazza, lui non tradì nessuna emozione o turbamento, infilando frasi e concetti con proprietà di linguaggio.Lo stesso non si potè  dire del pubblico che guardò con stupore quell’auto, una sfavillante e lussuosa Cadillac Eldorado in versione berlina, bianca come il latte. Un modello di quel genere, con le pinne posteriori che la rendevano unica e le sue dimensioni inusuali in lunghezza e larghezza, era impossibile non notarlo. Quando poi dalla vettura scese un signore di mezza età, fasciato in un abito di alta sartoria, con un bastone dal pomello d’avorio pronunciando con voce sonora il nome di battaglia dell’onorevole quand’era partigiano ( “Cippo!”), sulla piazza cadde il  silenzio. Figurelli lo guardò dritto negli occhi e, allargando le braccia, gli andò incontro  gridando a sua volta: “Amico mio!”. I due parlarono fitto per una decina di minuti sotto gli sguardi increduli e curiosi del pubblico.Poi, salutato l’onorevole con una vigorosa stretta di mano, lo sconosciuto signore risalì sulla Cadillac e proseguì per la via che portava fuori dal paese guidando lentamente e restando a centro strada, attento a non rovinare la carrozzeria di quel gioiello. L’onorevole Figurelli, a sua volta, riprese il comizio dal punto in cui l’aveva interrotto e nel breve di un quarto d’ora terminò tra applausi e grida d’approvazione.Salutato il pubblico, prima di risalire sul sidecar che Paulin aveva già messo in moto,venne avvicinato da Ruspanti e Galavotti che chiesero lumi sull’episodio. Chi era quell’uomo? Come mai si conoscevano?La risposta di Figurelli li lasciò di stucco: “Cari compagni, non ho proprio la benchè minima idea. Non l’avevo mai visto prima d’ora anche se mi ha parlato di un suo prossimo viaggio a Roma quasi fossimo grandi amici. Ho persino il sospetto che  mi abbia scambiato per un altro anche se si è rivolto con il mio nome di battaglia che però è noto a tutti. Io, comunque, non mi sono fatto scappare l’occasione: uno così, con un macchinone tale, fa sempre scena in paesi piccoli dove noi comunisti siamo visti con un pò di sospetto”. Ecco cosa significava, in concreto, saper dominare gli imprevisti.

Marco Travaglini

Contro il logorio della vita moderna. Carosello e i sogni degli italiani

Era il 3 febbraio del 1957 quando la televisione mandò in onda la prima puntata di Carosello portando nelle case degli italiani che possedevano  quella scatola magica con tubo catodico la “réclame”.

 

Nei pochi esercizi pubblici dotati di televisore le trasmissioni rappresentavano un evento che richiamava l’attenzione di molti avventori. C’era persino chi si portava la sedia da casa per potersi godere in santa pace gli spettacoli come Lascia o raddoppia, condotta da un giovanissimo Mike Buongiorno. Ovviamente anche la prima puntata di Carosello incuriosì tutti. Partito con un ritardo di un mese sulla data annunciata il programma fu frutto un compromesso tra la dirigenza della televisione pubblica e i rappresentanti delle maggiori imprese del paese che avevano intravisto l’incredibile potenzialità comunicativa del mezzo televisivo per le loro attività commerciali. L’idea di produrre filmati con brevi scenette venne suggerita dalla Rai per evitare eventuali critiche da parte di chi, pagando il canone, non avrebbe gradito la pubblicità in tv. La produzione di questi cortometraggi fu demandata all’industria cinematografica nazionale garantendo, nel rispetto di regole precisa, un buon livello d’inventiva e qualità. Per quasi vent’anni, fino al 31 dicembre del 1976 – quando toccò a Raffaella Carrà, con un certo aplomb, fare l’annuncio di commiato – furono davvero in tanti a non perdersi una sola delle puntate che andavano quotidianamente in onda dalle 20,50 alle 21,00. Per i più piccoli era diventato un appuntamento ormai tradizionale, quasi proverbiale: immediatamente dopo Carosello, “tutti a nanna”. Edmondo Berselli, nell’introduzione a “Tutto il meglio di Carosello”, pubblicato da Einaudi nel 2008 con tanto di allegato dvd, raccontò così l’attesa di quell’evento: “Alle nove di sera, dopo il telegiornale, apertosi l’allegro sipario della sigla con maschere, trombe e mandolini, passano nel bianco e nero della Rai i carburanti della Shell e la potente benzina italiana Supercortemaggiore, la famosissima macchina per cucire Singer, ornamento e risorsa di tutte le operosità domestiche, il Cynar a base di carciofo efficace contro il logorio della vita moderna, i favolosi e galeotti cosmetici di l’Oréal di Parigi: così che a rivedere i prodotti presentati nella primissima messa in onda di Carosello si ottengono già diversi segnali sulla veloce modernizzazione a cui l’Italia si preparava”.

Un fenomeno di costume, con le sue furbizie e le ingenuità che nel tempo portarono la pubblicità a perdere la propria innocenza. Solo due volte, venerdì santo a parte, l’appuntamento giornaliero con quelli che nel tempo diventarono i “consigli per gli acquisti”  fu sospeso: quando a Dallas, il 22 novembre del 1963, fu assassinato il presidente Kennedy e il 12 dicembre del 1969 quando una bomba provocò la strage di Piazza Fontana a Milano. La sera dell’annuncio della chiusura di Carosello, lasciò attoniti molti telespettatori. Le parole della Carrà, nonostante fossero state pronunciate con grazia nella sera di San Silvestro del ‘76, fecero l’effetto di una sentenza capitale. Il Carosello non c’era più? E perché mai? Il mercato della pubblicità si stava trasformando in senso più moderno e dinamico? I produttori stavano diventando insofferenti verso i limiti di tempo imposti da questa modalità di reclamizzare i loro prodotti? Era difficile farsi una ragione, immaginare che il “logorio” della modernità travolgeva anche slogan come “Ullallà, è una cuccagna”, “Non è vero che tutto fa brodo”, “Omsa, che gambe”, “Ho un debole per l’uomo in Lebole”, “A scatola chiusa compro solo Arrigoni”. I filmati di Carosello portavano la firma di grandi registi come Sergio Leone, i fratelli Taviani, Ermanno Olmi e molti attori famosi prestavano la loro faccia degli sketch televisivi, da Totò a Gilberto Govi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Aldo Fabrizi, Tino Scotti, il grande Eduardo De Filippo.

I personaggi erano entrati a far parte dell’immaginario collettivo di una nazione, protagonisti di una indemoniata sarabanda. Calimero, piccolo e nero con l’olandesina della Mira Lanza stava insieme a Cimabue (“fai una cosa né sbagli due”) mentre la linea di Cavandoli senza pronunciare una parola  cercava la titina dentro una pentola a pressione della Lagostina. Unca Dunca, uscito dalla penna di Bruno Bozzetto, sognava la Riello mentre l’Omino coi baffi preparava un caffè con la moka Bialetti a Lancillotto e ai cavalieri della tavola rotonda. Il caffè, ovviamente, era offerto dalla torinese Lavazza e lo portavano Carmencita e il suo “caballero misterioso”. Da un angolo della strada balzava fuori, con i confetti Falqui, Tino Scotti che muovendo i baffi  suggeriva  come bastasse “la parola”. Nel gran bailamme di Carosello restavano impresse frasi celebri: “E che, ci ho scritto Jo Condor?”, “E la pancia non c’è più”. grazie all’Olio Sasso, “Gigante buono, pensaci tu”, “Miguel-son-sempre-mi” e il suo merendero, la famiglia degli Incontentabili alla ricerca di un elettrodomestico che li accontentasse. Ubaldo Lay, fasciato nel suo impermeabile da tenente Sheridan sorseggiava un’aperitivo Biancosarti mentre discuteva con Cesare Polacco nei panni del calvo ispettore Rock della Brillantina Linetti. Il sorriso smagliante di Carlo Dapporto (si lavava i denti con la Pasta del Capitano) era rivolto all’attore Franco Cerri, l’uomo in ammollo che vedeva lo sporco andar via dalla sua camicia a righe mentre la biondissima svedese Solvi Stubing invaghiva tutti sussurrandoci “chiamani Peroni, sarò la tua birra”.  C’era Virna Lisi che “con quella bocca può dire ciò che vuole”, mentre Ernesto Calindri stava perennemente seduto al  suo tavolino in mezzo al traffico caotico a bersi un estratto di carciofo (il Cynar) “contro il logorio della vita moderna”. Come si poteva rinunciare a quel motivetto della sigla (“Tatataratararatarara..”) che accompagnava l’apertura del sipario del teatrino in una festa di trombe e mandolini ?

Il paese per qualche tempo si avvitò in una disputa tra chi denunciava gli effetti dell’educazione di massa al consumo e chi, all’opposto, metteva in risalto l’arte della pubblicità e la “pubblicità come arte”. Nell’estate del 1976, dalle pagine del Corriere della Sera Enzo Biagi anticipò un “coccodrillo” per Carosello. Scrisse : “ Mostrava un mondo che non esiste, un italiano fantastico, straordinario: alcolizzato e sempre alla ricerca di aperitivi o di qualcosa che lo digestimolasse; puzzone, perennemente bisognoso di deodoranti e detersivi, sempre più bianchi; incapace di distinguere fra la lana vergine e quell’altra, carica di esperienze; divoratore di formaggini e scatolette, e chi sa quali dolori se non ci fossero stati certi confetti, che, proprio all’ora di cena, venivano a ricordare come, su questa terra, tutto passa in fretta”. Carosello era nato da un compromesso fra il mercato e le famiglie, fra la narrazione e lo slogan, proponendo un mondo immaginario, irreale ma al tempo stesso ironico, disincantato. E questo giustifica un ragionevole filo di nostalgia.

Marco Travaglini

 

Eye Yoga contro la stanchezza degli occhi

ESERCIZI CON BENEFICI ANTIAGING

Giornate passate a lavorare davanti al computer, ad usare gli smartphone, a guardare la televisione, diverse ore circondati da schermi di ogni tipo  sottopongono i nostri occhi a tensione e sforzi eccessivi. Le nostre vite girano,e lo faranno sempre di più, intorno a questi dispositivi “magici” che ci supportano nel lavoro e che accompagnano, con svaghi di vario genere, la nostra vita personale assicurandoci divertimento, vetrine social ecomunicazione. Non si torna indietro, la tecnologia rappresenta il futuro, lo smart working è oramai una modalità di lavoro consolidata, i nostri passatempi  sono gestiti da device sempre più potenti e totalizzanti. Considerato quindi che, con ottima probabilità, non potremo più fare a meno di questi aggeggimonopolizzanti, è necessario trovare soluzioni efficaci per proteggere la salute dei nostri occhi preservandolidalle conseguenze, spesso fastidiose, create da questa  tecnolife quotidiana.

Tra i metodi più apprezzati per alleviare la stanchezza e l’affaticamento dei muscoli e dei recettori oculari troviamo l’Eye Yoga, una tecnica di rilassamento che attraverso una serie di semplici esercizi permette di allentare lo stress dei nostri bulbi. Non serve nessuna abilità particolare come nello Yoga completo, non abbiamo bisogno di praticare posizioni che richiedono attitudine e allenamento, questo stretching degli occhipuò essere eseguito in una posizione comoda, nel luogo per noi più funzionale e confortevole.

Ma quali sono gli esercizi di Eye Yoga da fare per alleviare lo stress a cui sono sottoposti i nostri occhi? Come devono essere praticati?

Sicuramente è necessario eseguirli senza lenti a contatto né occhiali, in una posizione comoda, accompagnati da respirazione profonda, tutti i giorni per qualche minutoal giorno in una situazione di tranquillità e senza fretta.

Il primo esercizio si chiama trataka (prende il nome da un metodo trantrico di meditazione e purificazione yogica) e consiste, da seduti con la schiena appoggiata, nel guardare la fiamma di una candela  senza sbattere le palpebre per almeno 3/5 minuti, senza preoccuparsi delle lacrime che scenderanno che in realtà hanno una azione purificante e che, sempre secondo la filosofia yoga, sonoin grado di eliminare anche brutti pensieri. Alla fine dell’esercizio è necessario aprire e chiudere di seguitogli occhi per qualche secondo.

Il secondo esercizio, lo spostamento della messa a fuoco, oltre ad allenare i muscoli oculari, migliora la capacità di concentrazione.

Sempre da seduti,  si cerca di allungare il più possibile la mano sinistra con il pollice verso l’alto. Si focalizza lo sguardo sul pollice, senza muovere il collo il mento, mentre il braccio si sposta da destra a sinistra e viceversa. Questo esercizio, da fare lentamente, va ripetuto 4/5 volte.

L’esercizio seguente, la rotazione degli occhi, previenel’affaticamento degli occhi.

Seduti con la schiena dritta si inizia facendo un respiro profondo. Si  procede guardando lentamente il soffitto, cercando di mantenere il più possibile la concentrazione,  si va avanti ruotando entrambi gli occhi in modo da guardare del tutto a destra, poi di nuovo in alto, poi a sinistra e verso il basso per finire dritto davanti a séfacendo un nuovo profondo respiro. E’ da ripetere qualche volta prima di cambiare direzione e muovere gli occhi nell’altro senso.

Infine il quarto esercizio, il palming, serve per calmare e rilassare i nostri occhi.

Si comincia riscaldando le mani strofinandole per poi appoggiare delicatamente entrambi i palmi sugli occhi con i polpastrelli sulla fronte. Si inspira lentamente, cercando di liberare la mente, e mentre si guarda nell’oscurità delle proprie mani si effettuano circa 10-14 respiri in un minuto.Ripetere per diversi minuti mentre si inspira ed espira profondamente.

Questi pratica, che ovviamente non deve essere considerata una terapia o una cura per patologie oculari specifiche, è utilizzata in diverse scuole di Yoga orientali e da qualche tempo è stata importata in occidente. L’Eye Yoga consentein sostanza, dopo diverse ore di faticoso “screen time”, di allungare ed allenare i muscoli degli occhi rendendoli più forti e resistenti, inoltre favorisce  il naturale effetto lifting dello sguardo e, attraverso un azione anti-stress generale,aiuta ad allentare la tensione e le diverse  conseguenzefisiche fastidiose come mal di testa.

Maria La Barbera 

I consigli della consulente di immagine

SCOPRI – TO  Alla scoperta di Torino
Nel panorama torinese molti sono coloro che si avvalgono di un consulente di immagine per migliorare il proprio look, sia uomini che donne, perché vedersi meglio equivale a sentirsi meglio.
Oggi scopriamo qualche consiglio di stile con Lidia Randaccio consulente di immagine e hair-dresser di Torino.
D: Lidia raccontaci qual è il tuo mestiere nel dettaglio?
R: Aiuto le persone a vedersi meglio, si parte da uno studio di armocromia, ovvero capire quali colori armonizzano maggiormente il volto della persona in base alle sue caratteristiche.
D: Se però noi amiamo un colore possiamo comunque utilizzarlo senza svalorizzarci?
R: Si la tecnica è quella o di metterlo lontano dal viso o mixarlo con colori che invece ci valorizzano, in linea di massima quando scopri cosa ti sta bene difficilmente opti per altro.
D: A proposito di colori possiamo però capire come abbinarli tra loro grazie al Cerchio di Itten che troviamo anche online facilmente.
R: Si esatto è uno strumento molto semplice da usare ci aiuta nelle combinazioni. La regola principale è che i colori opposti sulla ruota possono essere abbinati creando un effetto “wow” contrastante come un viola con il giallo per esempio. Se vogliamo rimanere più classici andiamo ad abbinare i colori del cerchio vicini fra loro come il rosso con il viola o il giallo con il verde oppure in gradazione un arancione più intenso con uno più chiaro.
D: Se vogliamo abbinare più colori?
R: Vale la stessa regola, io consiglio insieme a queste combinazioni di usare molto anche i colori neutri come il beige, il color panna e il nero, avendoli però in palette! Il nero è elegante e chic ma ricordiamoci che non illumina quindi non è adatto a tutti i giorni.
D: Quanto è importante sentirsi bene anche in casa non solo fuori?
R: Tantissimo, bisogna percepirsi in ordine sempre, puntando su stoffe morbide e colori delicati come l’azzurro del mare o il colore corda. In modo da sentirci bene anche in casa.
D: Qual è il look perfetto per una giornata al mare?
R: Pantalone morbido in lino, top, cappello di paglia enorme e occhiali.
D: D’inverno?
R: Sciarpe, cappelli e tantissimi cappotti stilosi.
D: Perché è importante l’armocromia anche per gli uomini?
R: Perché l’uomo a differenza delle donne usa ancora meno cose, quindi, è fondamentale che siano perfette per lui, soprattutto la cravatta che è vicina al viso.
D: Sappiamo che tu fai anche consulenze di body-shape e anche di “armadio” che cosa significa?
R: E’ una consulenza che ti aiuta a riscoprire i tuoi vestiti, riuscire a renderli funzionali anche se magari il cliente non li metteva da anni, è una bella rivoluzione per salvare tante cose in un’epoca in cui spesso siamo portati a gettare.
D: E’ quindi fondamentale prendersi cura anche della parte estetica per aiutarci a stare meglio all’interno?
R: Assolutamente sì, quando ci piacciamo e ci amiamo lo trasmettiamo, vestirci bene ci da sicurezza e ci fa rapportare con gli altri in modo differente ottenendo così risultati più performanti. Inoltre, gli stessi tessuti che abbiamo addosso riescono a influenzare come ci sentiamo ecco perché è importante saper scegliere!
Noemi Gariano

Dal 27 al 30 giugno la Festa patronale di Volpiano


Musica e stand gastronomici in piazza Italia

Da giovedì 27 domenica 30 giugno, a Volpiano in piazza Italia, si svolge la Festa patronale dei Santi Pietro e Paolo, con musica dalle 21, gli stand enogastronomici regionali e lo stand della Pro Loco.

Il programma si apre giovedì 27 alle 21 con Gabriel Giusty Djvenerdì 28 in consolle c’è Danilo Djsabato 29 alle 21 Vascollection con le canzoni di Vasco Rossi e alle 22.30 la consegna della Costituzione ai Coscritti 2006; la festa si chiude domenica 30 con alle 10 la processione e alle 11.15 la messa, alle 21 si balla con Ornella’s Group e alle 23.30 vengono eletti Miss Mister Coscritti 2006.

Stealthing

Se chiediamo alle persone cosa sia la violenza sessuale, riceveremo come risposta “il sesso praticato senza consenso”, “lo stupro” o “l’atto sessuale compiuto su minori o su disabili psichici”. Difficilmente parleranno dello stealthing.

Di cosa si tratta? Non è altro che l’atto di sfilarsi il preservativo senza avvisare il partner ricevente, eiaculando nel partner o su di esso, ma comunque in modo non concordato.

Perché questo atto è così grave? I motivi sono molteplici; innanzitutto comporta rischi non indifferenti per il ricevente: gravidanza indesiderata e rischio di trasmissione di malattie non vanno sottovalutati.

Poi, pur ammesso che il partner ricevente sia protetto da entrambi i rischi, è pur sempre un comportamento che non rispetta le richieste e, dunque, avviene senza il consenso.

Immaginate che un estraneo, seduto accanto a voi al bancone di un pub o al tavolo in una mensa, beva al vostro bicchiere senza chiedervi il permesso: come vi comportereste? A parte cambiare il bicchiere per non entrare in contatto con la saliva (ed i germi) altrui, vi sentireste violati, privati di un qualcosa solo vostro.

Potete dunque immaginare ricevere il liquido seminale di una partner, ancor più se è occasionale, convinti che il rapporto terminasse come era iniziato, come avevate concordato magari infilandogli voi la protezione.

Al di là dell’aspetto puramente sessuale, saltano all’occhio almeno due fattori: il primo è non curarsi del prossimo, perché potremmo essere portatori di una MTS a nostra insaputa; il secondo, pensiamo unicamente al nostro piacere senza considerare la volontà del partner.

Questo comportamento è in realtà lo specchio della nostra società dove la violenza, tanto psicologica quanto fisica, aumenta quotidianamente a tutti i livelli, dove l’egoismo è la parola d’ordine in ogni ambito e ciò che il nostro comportamento può determinare negli altri non ci interessa minimamente.

Per fortuna, lo stealthing, in Italia ed in molti altri Paesi, è considerato reato esattamente come spiare una donna sotto le gonne con una telecamera o mentre si cambia in un camerino o toccandole le natiche sull’autobus.

Finché ci saranno, però, padri (ammesso che siano loro i padri: mater sempre certa, pater numquam) che insegnano ai figli che le donne sono oggetti, individui da usare come giocattoli, ci saranno sempre adulti affetti da deficit cognitivo che tratteranno le donne come meri oggetti di piacere, colf, geishe, sarte, cuoche del tutto gratuite e così via.

Molti uomini, frequentatori di prostitute, pagano ben più della tariffa richiesta pur di praticare un rapporto senza precauzioni, sfruttando il bisogno economico della ragazza dettando le regole perché dalla parte del più forte: pago, quindi obbedisci.

E’ evidente che, rispetto a pochi decenni fa, la nostra società sia notevolmente decaduta, non soltanto per ciò che concerne il rispetto delle persone, ma anche (e, direi, soprattutto) il rispetto di sé stessi; è nella natura umana pensare che ogni disgrazia, ogni malattia capitino agli altri, che non riguardino noi: basta vedere come i giovani affrontano i rischi della guida dopo aver bevuto, i parkour, le prove di coraggio più insensate. Qualcuno rimpiange la naja come momento in cui i giovani passavano dalla fase di ragazzo a quella di uomo, dove si iniziava a vivere autonomamente senza la mamma che ti rimbocca le lenzuola ma con un superiore (come è nella vita di tutti i giorni) che ti punisce se sbagli.  Venendo meno questa fase importante dello sviluppo psicologico dell’individuo (che, allora, era riservata al sesso maschile) ecco che tutto ciò che ne consegue viene a galla nel peggiore dei modi.

L’aumento vertiginoso delle violenze di genere (da entrambe le parti), le liti condominiali e stradali scaturite da eventi risibili, l’insofferenza degli studenti nei confronti dell’istituzione scuola e la violenza dei genitori nei confronti del corpo docente e dei pazienti nei confronti del personale ospedaliero sono solo alcune, iconiche, forme di questa mancanza di rispetto che la società mostra e attua nei confronti degli altri individui.

Salvo poi assistere a repentini ripensamenti quando ci si rende conto di aver infastidito la persona sbagliata. Un proverbio messicano, citato nel film “Per un pugno di dollari”, recita “Quando l’uomo con il fucile incontra l’uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è un uomo morto.”, ma lo stesso può dirsi quando un cretino incontra un campione di arti marziali o uno armato o, talmente ubriaco, cade durante il litigio e muore.

Purtroppo, i genitori sono spesso troppo impegnati per fare bere la loro parte, i media preferiscono investire in programmi che attirino audience anziché in quelli che insegnano a vivere e la maggior parte delle persone è assorta nel seguire le sirene degli influencer per salvaguardare i propri neuroni.

Sergio Motta

Carlo Alberto re del Vermouth

Carlo Alberto – il vermouth nato a Torino nel 1837, di proprietà di Compagnia dei Caraibi – celebra da protagonista laVermouth di Torino® Week 2024, la kermesse dedicata all’icona dell’aperitivo organizzata dal Consorzio del Vermouth Torino, con unadegustazione guidata presso lo store Dispensa (Galleria Subalpina, 9), mercoledì 26 giugno, dalle ore 19:00. 90 minuti dedicati alla degustazione di Carlo Alberto, il vermouth naturalmente low-alcol, proposto liscio e miscelato.
Nato per accompagnare i primissimi aperitivi nei salotti torinesi durante quella che viene presto rinominata come l’Ora del Vermouth, questo vino fortificato piemontese ha saputo conquistare i palati di tutto il mondo diventando oggi con Carlo Alberto la quintessenza dell’aperitivo capace di farsi apprezzare sia liscio che miscelato. Un’icona del bere bene che sa di tradizione ed esalta il genius loci con una bottiglia ispirata all’architettura torinese fatta di archi, portici e colonne ricordando Palazzo Madama e la Gran Madre, in un viaggio nel tempo tra storia e modernità.