LIFESTYLE- Pagina 91

Tonno di coniglio, tradizione monferrina

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Una ricetta della cultura contadina, tipica del Monferrato.

Una ricetta antica dal sapore delicato ed aromatico riproposta oggi anche nei ristoranti piu’ raffinati. Si chiama cosi’ perche’ la carne del coniglio, dopo la cottura, sara’ conservata sotto’olio a macerare con aglio ed aromi e diventera’ tenera e saporita proprio come… il tonno.

 

Ingredienti

 

1 kg. di coniglio intero

1 carota

1 cipolla

1 costa di sedano

6 spicchi di aglio

2 chiodi di garofano

2 bacche di ginepro

1 mazzetto di salvia

4 foglie di alloro

1 rametto di rosmarino

1ciuffo di prezzemolo

Olio evo

Sale, pepe q.b.

 

Lavare bene il coniglio in acqua e aceto. Tagliare a pezzi la carota, il sedano e la cipolla, metterli in una pentola con due litri di acqua, unire tutti gli aromi (tranne la salvia e  l’aglio), il pepe, il sale, portare a bollore, aggiungere il coniglio e cuocere per circa 90 minuti. A cottura ultimata, lasciar raffreddare e spolpare la carne a pezzi non troppo piccoli. Pelare gli spicchi di aglio, lavare e asciugare la salvia. Prendere un contenitore, preferibilmente in vetro, versare dell’olio sul fondo, fare uno strato di coniglio con foglie di salvia e aglio, aggiungere altro olio e proseguire con gli strati sino ad esaurimento degli ingredienti, coprire il tutto con altro olio. Lasciare riposare in frigo per almeno 48 ore. Servire a temperatura ambiente decorando a piacere.

Paperita Patty        

La Tilde che parla ai colombi in piemontese e… un po’ in latino

Diario minimo urbano … Vedere e ascoltare per credere

Gianni Milani

L’orario più o meno è sempre quello. E lo stesso dicasi per il luogo. Metà mattina, al centro del giardino che attraverso per andare al mio solito bar, dal mio solito barista per la mia solita colazione … Caffè, brioche ai frutti di bosco o se non c’è all’arancia o – ultima richiesta, ma non meno meritevole – strudel di mele con pasta sfoglia … Se ci passate a tempo, prima ancora di vederla, sentirete arrivare con un roboante strider d’ali, pari a una “flottiglia aerea” in missione bellica, un gruppone affamato di colombi o piccioni (unica differenza il colore delle piume, grigio verde/blu per i piccioni, generalmente bianco per i colombi) che ben sanno attorno a chi effettuare l’atterraggio – è proprio il caso di dirlo – di fortuna. Al centro della “pista”, la loro grande amica, generosa dispensatrice di cibo che, subito, apre il carrello della spesa e dispensa a man larga le leccornie sicuramente più idonee ai suoi protetti con le ali. Granaglie e quant’altro. Lei sa bene cosa dare loro in pasto. Non le solite briciole di pane o di brioches in caduta libera dai tavolini dei bar con dehors esterni ancora resistenti al freddo invernale. E credo sappia anche bene delle ordinanze comunali che disciplinano le modalità di alimentazione dei piccioni in città, individuando aree apposite, una ventina a Torino (quasi tutte aree-parco), ma tutte lontane per le sue deboli gambe.

E allora … Certo non se la sente di lasciare a stomaco vuoto i suoi animaletti. Che paiono per lei essere unico rattoppo a una vita di quotidiana  solitudine. Indifferente agli improperi che le arrivano dalle solite madamin sedute a cianciare sulle panchine – sverniciate, imbrattate, indecorosi siti graffitari dimentichi delle loro originarie utilità – e che, a volte, senza astio la rimbrottano: ma Tilde (ecco il suo nome) lassa perde, lur lì a portu mac ‘d malattie. E questo è pur vero. Ma lei continua imperterrita. Di età possiamo definirla diversamente giovane. Sempre sola e, fra le labbra, un via vai continuo di sigarette. Cappottone nero, sciarpone grigio, pantofoloni imbottiti e colbacco di pelliccia o  (più facile) simil-pelliccia nero: Tilde è una perfetta, impeccabile madamin d’antan. Sempre sola, mai che si fermi a parlare con qualcuno. Unici suoi interlocutori, quei beati, starnazzanti e tubanti piccioni o colombi. E con loro parla. Eccome! E per tutti ha un nome e tutti sembrano riconoscerla. Al passo, prima ancora che alla vista. Fa nen parei, Clementina, non essere così ingorda, ce n’è per tutti! Il più recente incontro proprio ieri mattina. Mi sono seduto anch’io, giornale sotto le natiche, su una panchina. Spiavo incuriosito, armeggiando, per non dar nell’occhio, con il telefonino.

E ne ho scoperte delle belle. Intanto Clementina anche ieri s’è dimostrata fra le più insaziabili. Ma, quasi al par suo, ho scoperto esserci anche la Graziella, la Totina sempre attaccata alla Cate e poi, fra i maschietti (come farà a capirne il sesso?) quel gadan del Berto e poi Fredo (tses propi ‘n balòs), e Tromlin (che bërlicafojòt ca tses!). E così con tanti altri. Incredibile! Li aveva battezzati tutti. E tutti sembravano rispondere alle sue “cazziate” e ai suoi complimenti. Chissà in “piccionese” come avranno chiamato lei, la Tilde? Perché di sicuro, quando la vedevano arrivare, si passavano con il loro classico “gru gru” la voce … arriva la Tilde … arriva la Tilde, finalmente si mangia! Sulla panchina meno sporca del giardino, osservavo, spiavo e sempre più mi sentivo “basito”. Fuori dai giochi, come tutto il resto di quel piccolo delimitato mondo: le madamin che spettegolavano, i cani al guinzaglio che innaffiavano ciò che resta dei miseri o degli strapieni e incolti “tappeti verdi”, il pakistano seduto sulle cassette di frutta, in un misero cono di sole, a vendere i giornali del mattino e qualche bimbo, con nonni annessi, nel malconcio spazio–giochi lasciato lì, senza mai la soddisfazione di qualche new entry (qualche passatempo un po’ meno agé) da anni e anni.

E non basta. Dopo una mezz’oretta di quello spettacolo, davvero curioso, la stridula, aggraziata vocina di Tilde ha profferito “verbo” che mi ha letteralmente stravolto e sconvolto … Giùsep fa nen l’ambrojon … e gnanca vuiautri … Réddite quae sunt Caésaris Caésari … Come dire, per chi non sa di latinorum: date a Cesare quel che è di Cesare … e adesso basta, ci vediamo domani!… Stesso posto, stessa ora! Aggiunsi mentalmente io. Incredulo. La Tilde parlava ai suoi “piccioncini” in piemontese e un po’ anche in latino! Sì, sì avete capito bene … in latino! E mentre se ne andava pian pianino, mani al carrello della spesa senza rivolgere un bé a nessuno, riprendendosi addosso il valigione della sua triste solitudine e, in bocca, l’ennesima sigaretta, i suoi “protetti” per un po’ la seguivano (quasi a proteggerla) sempre in modalità “flottiglia aerea” per poi, “rotte le righe”, lanciarsi alla ricerca di altri improvvisati (quelli sì, nocivi) street food. Io? Basito. Riconciliato con il pigro grigiore di un mattino qualunque. Ad maiora, Tilde. Qualche volta mi piacerebbe sedermi con te sulla “mia” panchina, “a giornal protettivo”, per scambiare insieme due chiacchiere. Per scoprire (scusa la curiosità) la tua storia. I tuoi rifiuti rancorosi al mondo e, di contro, il tuo grande amore per la Totina, la Cate o per quel bërlicafojòt del Tromlin.

Gianni Milani

Il ristorante ambito dai vip torinesi

SCOPRI – TO  Alla scoperta di Torino

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Poco fuori dal centro di Torino Diego e Ruggero Bravo circa 12 anni fa crearono il ristorante “Fratelli Bravo”; entrando l’atmosfera è molto famigliare, tovaglie a quadretti bianche e rosse, calde luci, vino e pane ai tavoli e sulle mura tante maglie appese di tantissimi giocatori della Juve e qualcuna anche del Toro, tutte rigorosamente autografate.
I due fratelli forti di una sana passione per la cucina in pochissimi anni hanno fatto crescere il locale al punto che oggi, con i suoi 70 coperti, è quasi sempre pieno, in tutte le stagioni. Il ristorante ha diverse piccole stanze per preservare al meglio l’intimità dei propri ospiti. La cucina, utilizzando materie prime rigorosamente di alta qualità, propone un menù che di base rispetta la tipica tradizione piemontese, i loro cavalli di battaglia sono la carne cruda battuta al coltello con la salsa calda al tartufo e i plin al sugo d’arrosto. Tra le altre specialità troviamo il vitello tonnato, il maialino con nocciole d’Alba, il risotto Carnaroli con salsiccia di Bra e Barbera D’Asti, il filetto di fassona con aceto balsamico caramellato e numerosi dolci tra cui il tortino al cioccolato con cuore caldo accompagnato da crema al mascarpone e un po’ meno tipici ma pur sempre d’altissima qualità i cannoli siciliani con ricotta fresca e gocce di cioccolato.
Non solo tradizione torinese quindi, molteplici, durante l’anno, sono i piatti della cultura italiana ad esempio romana e del sud, come i bucatini alla carbonara o il risotto al nero di seppia con basilico e crema di burrata.
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QUANDO TORO E JUVE SI INCONTRANO (NON È SEMPRE DERBY)
Ebbene sì, spesso dai Fratelli Bravo tra i clienti è facile riconoscere i calciatori sia della Juve che del Toro. Morata con la moglie Alice Campello nel periodo in cui vivevano a Torino erano grandi amanti di questo ristorante come sono di casa calciatori come Marchisio e la moglie, Dybala, Chiellini, Bonucci, Belotti e moltissimi altri. Anche Cristiano Ronaldo con la compagna Georgina in alcune importanti occasioni sceglievano i Fratelli Bravo come la calciatrice juventina Cecilia Salvai che lascia il segno del suo passaggio firmando la sua maglia dai fratelli Bravo.
Diego e Ruggero Bravo in un’intervista di Gianluca di Marzio raccontano un aneddoto, ovvero di quando hanno dovuto rifiutare una prenotazione ad Allegri per non aver più posto; nonostante ciò Allegri comprese e rimandò la cena prenotando in anticipo. Non è bello dover rifiutare la clientela qualunque essa sia, ma è grande la soddisfazione di avere un così alto consenso ed una grande richiesta. I titolari ricordano poi con tristezza il compianto Sinisa Mihajlovic quando festeggiò quI i sui quarantotto anni.
Non solo calciatori, tra gli appassionati della cucina dei Fratelli Bravo sono anche le due ex Miss Italia torinesi Cristina Chiabotto e Edelfa Chiara Masciotta.
Nonostante il locale sia così celebre i costi restano nella media e la qualità è sempre alta, la gentilezza dei ragazzi in sala e i loro scrupolosi consigli permettono di sentirsi coccolati dall’inizio alla fine del pranzo o della cena. Questo dimostra che la passione è l’amore per il proprio lavoro portano spesso grandi risultati e che se si vuole resistere nel tempo bisogna preservare sempre la qualità dei prodotti e l’attenzione ed il servizio ai clienti. Torino è da sempre una città molto attenta e critica, proprio per questo i locali devono soddisfare alti requisiti perché se qualcosa nasce e cresce a Torino ed è amato dai suoi cittadini allora può sicuramente fare successo anche fra i turisti della città sabauda. Altri locali sono nati e cresciuti con grande consenso a Torino e magari andremo a trovarli prossimamente, intanto buon pranzo e buona cena a tutti dai Fratelli Bravo ma… ricordatevi di prenotare.
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NOEMI GARIANO

Le gastroenteriti del gatto

IL TORINESE… CON LA CODA

Eccoci oggi a parlare delle gastroenteriti nel gatto. Come nel cane abbiamo accennato alle malattie virali che colpiscono l’apparato gastroenterico, così nel gatto ricordiamo che uno dei virus più pericolosi per il gattino, che cause forme di diarrea molto gravi, è il parvovirus, o virus della panleucopenia felina. E’ una malattia iperacuta, che determina abbattimento, anoressia, febbre, diarrea e un abbassamento drammatico dei globuli bianchi. L’intervento deve essere tempestivo.
Come già scritto nelle nostre prime rubriche, per questa malattia esiste la vaccinazione. Infatti il parvovirus è uno dei tre virus per cui si vaccinano i gattini, insieme al calicivirus ed all’herpesvirus, questi due invece responsabili di patologie respiratorie.
Esistono poi altri virus, responsabili di forme più lievi di gastroenteriti, tra questi vale la pena citare il virus della FIV ed  il coronavirus. Quest’ultimo  vive nell’intestino del 70% della popolazione mondiale felina,ed è appunto responsabile di blande forme di diarrea. Solo in alcuni casi, e non se ne conosce la ragione per cui questo avvenga, può mutare e diventare responsabile di una patologia molto grave: la peritonite infettiva felina,o FIP.
A questa malattia dedicheremo una rubrica apposta.
Come il cane, anche il gatto può soffrire di forme di intolleranze alimentari, forme infiammatorie, che possono esitare in linfomi intestinali, ed altre forme tumorali.
Anche nel gatto, esistono banali forme di dismicrobismo legate a fattori di stress, la cui unica cura è l’ausilio di probiotici intestinali.
In ogni caso, rivolgersi al proprio veterinario è sempre la scelta migliore.
Dott.ssa Federica Ferro
Dott. Stefano Bo

La felicità non è una meta

Se chiedessimo a dieci persone cosa sia la felicità o, peggio, se siano felici otterremmo sicuramente dieci risposte diverse ma, sicuramente, su un punto concorderebbero quasi tutti: se non hanno già raggiunto la felicità la raggiungeranno facendo questo o diventando quello o acquistando una certa cosa.

Nell’accezione originale del termine la felicità è un sentimento, positivo, quando raggiungiamo un obiettivo, o, come dice wikipedia, quando riteniamo soddisfatti i nostri desideri.

E’ evidente che se così fosse noi saremmo soddisfatti per il tempo necessario a godere l’oggetto acquistato (o regalato), il traguardo di studi o lavorativo raggiunto ma subito dopo, per una caratteristica tutta umana, subentrerebbe nuovamente l’insoddisfazione; questo è tanto più valido quanto più la nostra civiltà è industrializzata, moderna, tecnologica.

Chi di noi sia stato in Paesi meno agiati, come la Repubblica Dominicana, il Kenya, la Costa d’Avorio o Capo Verde, per citarne solo alcuni, avrà notato come gli indigeni siano sempre allegri, felici pur non disponendo di nulla, né abitazioni che da noi sarebbero normali, né soldi, né automobili di lusso e talvolta neppure la salute; hanno, però, una filosofia di vita che li porta a considerare positivamente ciò che incontrano quotidianamente:  la natura, un mare stupendo, la salute per cagionevole che sia, il lavoro, i figli, essere vivi.

Dall’altra parte del pianeta, invece, riteniamo di essere più fortunati, tecnologici, moderni e, quel che è peggio, civilizzati ma abbiamo perso il vero benessere, la felicità, la gioia.

Inseguendo la felicità ci ispiriamo al vicino di casa che saltella di gioia ammirando l’auto nuova per la quale ha rinunciato a qualche anno di ferie o al collega che brinda alla promozione ottenuta: siamo sicuri che siano realmente felici? E ora che uno soffrirà ogni volta che compare una riga sulla carrozzeria o trova un’ammaccatura, anche lieve, da parcheggio e l’altro sentirà il peso delle maggiori responsabilità e dovrà fermarsi di più in ufficio saranno ancora felici? Io dico di no, perché hanno idealizzato il concetto di felicità considerandolo una meta, un obiettivo da raggiungere anziché un sentimento da provare, da sentire mentre raggiungi quotidianamente la meta prefissata.

C’è chi subordina la propria felicità all’incontro con la propria anima gemella: nobile intento vanificato però dalle numerose insidie che ogni giorno, accoppiati e singoli, incontrano sul loro percorso: stress, scadenze, malattie cosicché, dopo un tempo più o meno lungo, occorre cercare nuovamente la felicità.

Appare quindi evidente come la felicità non possa e non debba essere considerata come una meta da raggiungere ma come uno stato d’animo che deve accompagnarci durante il conseguimento di ogni obiettivo, sia esso lavorativo, sentimentale, familiare, personale, ecc.

Soprattutto non dobbiamo in alcun modo pensare che ciò che rende felice qualcuno possa rendere felice, ipso facto, anche noi;in primis perché non siamo sicuri che tizio sia realmente felice, poiché spesso le persone fingono una soddisfazione che non hanno, un risultato che è fasullo solo per generare invidia, per non ammettere il proprio fallimento. In secondo luogo, perché ogni persona è diversa da un’altra per carattere, educazione, gusti personali, cultura e così via e ciò che ad una persona provoca gioia, felicità ad un’altra può essere indifferente o addiritturafastidiosa.

Molti miei amici amano la barca, trascorrere una vacanza in navigazione, soprattutto in barca a vela: io provai quarant’anni fa a conseguire la patente nautica ma trascorsi l’intera giornata spalmato sul fondo della barca a causa del mal di mare; è evidente che non potrei mai essere felice in quella circostanza, né al pensiero di aderire ad un viaggio simile.

Da quando mi occupo di coaching mi scontro, idealmente, con le tesi propugnate da alcuni colleghi che ti invitano a indagare sui motivi per cui non si è felice, a diventare padrone di sé stessi, a eliminare ogni causa di insoddisfazione con un generico corso o training, uguale per tutti, che ti farà recuperare gli anni persi.

Non entro nel merito della metodica, ma mi permetto di obiettare che, essendo ognuno di noi diverso dagli altri, e credendo io nella dottrina olistica (dal greco ὅλος = tutto, intero) non si può pensare di aiutare una persona a incontrare la felicità e condurla con sé  mentre viaggia alla ricerca di questo o quello se non si valutal’insieme di sentimenti, emozioni, problemi, esperienze e limiti mentali che un individuo porta con sé.

Anni fa il mio amico Gaetano Capitano scrisse per i cantanti Fabi, Silvestri e Gazzé, la canzone “Il Dio delle piccole cose”: ecco, io credo che anche nelle piccole cose si possa trovare il divino, che anche da esse si possa partire con la felicità come compagna di viaggio all’inseguimento dei propri obiettivi.

Quando ci apprestiamo a fare un viaggio con un amico o un parente verso un certo luogo, questi sono i nostri compagni di viaggio mentre la meta è il luogo dove ci stiamo dirigendo; allo stesso modo la felicità sarà la nostra compagna di viaggio (e se siamo intelligenti viaggeremo sempre con lei) mentre il luogo sarà ciò che vogliamo raggiungere in sua compagnia.

Perciò mi sento di suggerire a tutti di trovare la felicità nella quotidianità, in ciò che a noi fa stare bene; chi di noi si pone la tristezza o l’infelicità come obiettivo? Credo nessuno: al massimo è un sentimento, però negativo; perché allora non cerchiamo la felicità e, con essa, proseguire il nostro cammino?

Sergio Motta

Chef Scardina debutta a “La Pista”

Ha riaperto La Pista, il ristorante sul tetto del Lingotto a Torino.

Lo chef Fabrizio Tesse ha concluso la sua consulenza il 31 dicembre per proseguire alcuni personali progetti. Il Gruppo Gerla ringrazia chef Tesse per il percorso gastronomico fatto insieme e dà il benvenuto ad Alessandro Scardina.

Giovane e deciso, lo chef Alessandro Scardina, in arrivo da Villa La Bollina a Serravalle Scrivia, vanta un percorso professionale internazionale di oltre 15 anni tra Inghilterra, Australia, Grecia, Spagna e Scandinavia. Ed è proprio dalla sua esperienza nei ristoranti più blasonati di tutto il mondo che arrivano i sapori che si ritrovano nella cucina di Scardina, una cucina che abbraccia la tradizione ma che spinge sull’acceleratore dell’innovazione, una cucina mai monotona o ripetitiva, che osa e azzarda, stupisce e sperimenta.

Tocchi fusion ed esotici, influenze giapponesi e peruviane, vanno ad amalgamarsi con preparazioni classiche e materie prime di qualità, rigorosamente stagionali, per una varietà di suggestioni capace di declinare in chiave contemporanea anche la tradizione più pura.

La proposta culinaria pensata da chef Alessandro Scardina per il ristorante La Pista, gestito da Gerla 1927, prevede tre menù che ben si adattano a tutti i tipi di esigenze e palati. Il primo è Trust, il menù più coraggioso e stravagante, molto estero ed estroso, contemporaneo e personale, come un “atto di fiducia” verso lo chef, sicuro di riuscire a conquistare il commensale con i suoi accostamenti ricercati e inediti. Alcuni esempi? Granchio e rafano, manzo e ricci, merluzzo e mais, banane e bacon… Il secondo menù è Botanic World, cinque portate completamente vegetariane caratterizzate da preparazioni attente e abbinamenti vegetali inaspettati, come kale e mango acerbo, patata e cocco, primo fiore e Kombucha. Il terzo, immancabile, è Radici, Gli Essenziali, un menù che celebra la tradizione e la cucina piemontese con qualche variazione di prodotto, come il vitello tonnato fatto con il sotto filetto alla brace invece del girello, per un sapore più intenso e gustoso. Immancabili e molto amati dallo chef gli Agnolotti del Plin, rigorosamente con pasta solo tuorli e ripieno ai tre arrosti: coniglio, manzo e maiale.

Ad accompagnare Alessandro Scardina nella sua nuova avventura sul tetto del Lingotto una brigata salda e coesa, all’interno della quale spiccano il sous chef Daniele Lo Grasso, Davide Sterrantino, maître e sommelier, Mattia Dagnelli vice maître di sala e Evi Polliotto, pastry chef.

La Pista – Via Nizza 262, Torino – Tel. 011.19173073

www.ristorantelapista.com

Mariolino e la guida dell’uomo “col cappello”

Da qualche anno possiedo una barca. E’ la Lampreda, cedutami a poco prezzo dal vecchio Lino Sgambarolli, costretto a buttar l’ancora sulla terraferma a causa dei reumatismi e della sciatica che l’hanno piegato in due.

La “sua” Lampreda era la terza di una serie. Diventata mia, riverniciata di bianco e d’azzurro, si è guadagnata il titolo di quarta. Lino mi aveva lasciato piena libertà. “Il nome deve essere quello che più ti piace. Non c’è l’obbligo di tener lo stesso e lo puoi cambiare, tanto lei – che la si chiami per nome o no –  volterà la prua dove decidi tu, manovrando il timone o il colpo di remi. Ma se ti garba chiamarla come l’ho chiamata io, fai una cosa: ribattezzala “quarta”, così la storia va avanti”. Mi raccontò che prima di lei c’erano state altre due Lamprede. La prima, messa in acqua, sul finire degli anni trenta s’inabissò nell’agosto del 1944 davanti alla Punta di Crabbia, dov’era ormeggiata. Un aereo tedesco, volando sul lago in appoggio a un rastrellamento contro i partigiani del Mottarone, tanto per sfogare la sua rabbia impotente visto che i partigiani se ne stavano nascosti nei boschi, la  colpì a morte con una raffica di mitraglia , sventrandole entrambe le fiancate. La seconda barca era stata bagnata nel maggio del 1947, dopo quasi tre anni durante i quali Lino fu costretto ad una lontananza forzata dal lago, minatore prima e scalpellino poi in terra di Francia, dalle parti di Lione. I magri guadagni lasciavano ben poco alla speranza di metter qualcosa da parte ma quei quattro franchi in croce e qualche lira racimolata vendendo un boschetto di castagni dalle parti di Brolo gli bastarono per l’acquisto di una modesta ma robusta lancia da lago. Per trent’anni Lino e la sua barca hanno attraversato in lungo e in largo il Cusio, pescando in ogni dove, con ogni tempo e in tutte le stagioni dell’anno. Fatto salvi, ovviamente, i periodi di ferma. Dalle rive lo salutavano, nei mercati si vendevano i suoi pesci ( almeno finché l’ammoniaca, il cromo e gli altri veleni non trasformarono, a poco a poco, l’acqua in aceto), nelle osterie capitava di ascoltare le sue storie al modico prezzo di un quartino di barbera del Monferrato. A metà degli anni ’80, una massiccia immissione di carbonato di calcio,  riportò l’acqua ad un valore accettabile di acidità. Quella grande pastigliona di bicarbonato fece digerire il lago, tanto che i pesci – dopo tanto boccheggiare – tornarono a respirare e Lino si rimise a pescarli con la sua Lampreda ( la seconda, appunto). Giunta alle soglie del pensionamento forzoso, dopo più di trent’anni di onesta navigazione, figli e nipoti gli fecero una grande sorpresa, regalandogli un gioiello di barca, uscita fresca, fresca  dai cantieri navali di Solcio, sul lago Maggiore. La forma aguzza, slanciata; il fasciame di legno liscio e brillante, gli scalmi d’acciaio inossidabile, lucidi come i pomelli della stufa dell’osteria dove andava a far bisboccia. Un bijoux che si è goduto per poco. Lino è stato un gran vogatore che solo negli ultimi anni si è arreso al motore. Io non ho la sua tempra e seppur non disdegnando d’infilare i remi negli scalmi e darci dentro a bracciate regolari, uso frequentemente il motore. Al calare della sera, tiro in secca la barca nei pressi dell’ex Canottieri, dalle parti dell’Ospedale della Madonna del Popolo. A volte la ricovero da Mariolino, alla Bagnera di Orta. Una soluzione abbastanza comoda, dato che possiede uno sgabbiotto, chiuso con catena e lucchetto, dove si possono ritirare remi e motore. A far la guardia c’è Lupo, il cane di Mariolino: un bastardino bianco e nero che tira fuori i denti e ringhia proprio come un lupo quando s’avvicina un estraneo. “ Il tuo motore è come in banca, lì dentro”, rassicura Mariolino. Non ne dubito affatto. Lupo  esegue l’incarico come un mastino. E se il suo padrone gli dice di star di sentinella ( proprio così..”di sentinella” ) si può scommettere che lui ci mette una grinta sufficiente a scoraggiare i malintenzionati. Mariolino è fortunato ad avere, come “migliore amico dell’uomo” quel cagnetto. Sono sempre insieme, anche quando Mariolino guida la sua vecchia NSU Prinz. Lupo guarda fuori dal finestrino laterale, ringhia alle auto, abbaia alle luci colorate del semaforo, scodinzola quando si passa davanti all’osteria dove la signora Maria spesso gli “allunga” un cartoccio d’avanzi. Il problema è che  Mariolino, con la sua guida da “uomo col cappello”,  fa venire i brividi gelati lungo la schiena. Avete presente quella categoria di automobilisti che, con il loro stile di guida, fanno dannare l’anima? Se si ha la sventura di incontrarne uno così, magari su una strada stretta e tutta curve, o – peggio – essere costretti a stargli dietro mentre arranca sui tornanti, non ci sarà alcun bisogno di usare la tenaglia per strapparvi dalla gola il peggior campionario di accidenti, riversandoglielo addosso. Perché quando si mette al volante un “uomo col cappello” sono guai seri. Non superano mai i trenta all’ora, viaggiano a centro strada, frenano in continuazione, pigiano continuamente il clacson. Impermeabili a tutto: impettiti, con gli avambracci tesi e le mani intente a strangolare il volante. In più, come un distintivo, l’immancabile copricapo ben calcato sulla nuca. In casi come questi il vero malcapitato sei tu, povero diavolo, costretto a guidare a passo d’uomo, alternando il piede da un pedale all’altro: acceleratore ,freno, frizione. Cambio. Freno, acceleratore. Attento a non tamponarlo,  roso dall’indecisione sull’eventuale sorpasso. Manovra, quest’ultima, caldamente sconsigliata: l’uomo col cappello può decidere di svoltare da un momento all’altro, senza preavviso e, dunque, senza mettere la freccia. L’assoluta certezza che lo anima è proporzionale all’incapacità che manifesta impugnando il volante. Dunque, mai sottovalutare chi guida con il cappello. Non conviene contraddirlo. Non mettetegli fretta, armatevi di pazienza e fatevene una ragione. Ecco, Mariolino è uno di questi. L’ esatto contrario del mito futurista della velocità. Più lento della lentezza ma senza alternativa: prendere o lasciare. Si vede proprio che chi nasce uomo d’acqua fa fatica a muoversi con quattro ruote sulla terraferma.

Marco Travaglini

Shopping per Torino con l’influencer Rita Capparelli

Rita Capparelli è una delle influencer più seguite e apprezzate nel mondo dei social network, della moda e non solo. Con il suo stile minimal e un po’ parisienne, sa come valorizzare i suoi outfit con semplicità e praticità, puntando sulla qualità e non sulla quantità. Oggi ci ha concesso una chiacchierata esclusiva, in cui ci ha svelato i suoi negozi preferiti a Torino, i suoi capi indispensabili, i suoi trucchi per lo shopping e la sua opinione sulla moda sostenibile.

Seguiteci in questo viaggio alla scoperta del suo mondo e dei suoi consigli!

1. Ciao Rita, grazie per il tuo tempo con noi, sappiamo che tu sei molto affeate nel mondo dei social network,nella moda e non solo.
Oggi vorremmo soffermarci su Torino e la moda. Sei un esempio è un punto di riferimento in quanto a stile e vorremmo chiederti quali sono i negozi in cui abitualmente vieni colpita dalle collezioni?!

Grazie a voi per aver pensato a me. Devo dire che col passare del tempo sto cercando di investire più sulla qualità che sulla quantità. Il posto che frequento di più e dove sogno ad occhi aperti più spesso è la Rinascente, qui segnalo Sandro Paris e Bash Paris tra i miei preferiti. Per la maglieria adoro i cashmere di Falconeri, ma aspetto con ansia l’arrivo di Uniqlo in città, perché anche i loro sono pazzeschi. Per i jeans, gli affari migliori li ho fatti ai mercatini vintage del weekend, trovando Levi’s vintage anche a 20€!


2. Cosa privilegi generalmente nelle tue scelte di stile? Completi ? Camicie?

Ho uno stile minimal/ un po’ parisienne, mi piacciono le cose semplici e pratiche: potessi scegliere tre pezzi di cui non mi stancherei mai: jeans, camicia bianca e trench (o in alternativa, blazer).

3. Dove consiglieresti di fare gli acquisti se parliamo di boutique?

Senza dubbio, Twinset, Marella e Motivi


4. Se invece ci rivolgessimo ai fast fashion?

I miei preferiti sono Kiabi e Primark


5. Qualcuno sostiene che un bel vestiario faccia acquistare maggior autostima per il proprio quotidiano, tu sei d’accordo?

Assolutamente sì! Vestirsi bene secondo me aiuta a sentirsi subito meglio, io anche se so che passerò la giornata a casa non rinuncio mai a skincare, trucco leggero e vestirmi carina.


6. Cosa non dovrebbe mancare nell’armadio di una torinese?

Un cappotto con una composizione lana di almeno il 70% perché qui fa freddo per davvero ahhaahah


7. Parliamo di shopping online. Secondo te è più gratificante rispetto agli acquisti in negozio?

Purtroppo dal covid in poi, ho iniziato a preferire lo shopping online. Me ne sto sul divano anche alla sera, e ho tutto a portata di schermo, posso filtrare per colore, prezzo, taglia. Niente caos, niente file. Ovviamente questo non vale per tutto, se dovessi fare un acquisto importante, un capospalla o una borsa, in quel caso vince l’esperienza in negozio.


8. Collezione invernale del momento e nuova collezione ’24 primaverile in arrivo. Hai qualche consiglio?

Andare a rubare le cravatte al fidanzato o al papà, perché sarà un must have del prossimo autunno. In particolare quella sottile e nera da portare con camicia bianca.


9. Moda Sostenibile. Cosa ne pensi?

Penso che essere drastici ed eliminare di punto in bianco il fast fashion dalla nostra vita sia difficile, ma a piccoli passi possiamo cambiare le nostre abitudini di shopping e anzi dovremmo farlo! Si al vintage e second hand, che oltre a fare bene all’ambiente adesso è pure cool!


10. Torino secondo te sta diventando una città dove la moda Sostenibile sta trovando terreno fertile?

Secondo me si, Torino è una città pronta ad accogliere la moda sostenibile: è piena di mercatini vintage e second hand tutti i weekend, ma anche ricca di appuntamenti come il Bite Market, o i pop up del Capo Vintage, negozio cardine nel panorama vintage a Torino.

Grazie a Rita Capparelli per il tempo trascorso con noi e i suoi magnifici consigli.

Cristina Taverniti