LIFESTYLE- Pagina 69

… Quando un buon “Aglianico del Vulture” si trasforma in un bel “Nebbiolo d’Alba”

“Facce da scuola” / 9

Quarant’anni fa, a Vallette … I “migliori” anni della mia scuola

Gianni Milani

Inizi ’80. Era di domenica. Penso settembre – ottobre. Tempo di vendemmia, su quelle colline di Langa che ci accoglievano in tutta la loro stupefacente, magica bellezza. Con tutta la combriccola “vallettara” s’era arrivati a Mango, cuore di Granda, paese di superbo Moscato e “del partigiano Johnny” di fenogliana memoria. Insegnanti in “fantozziana” gita fuori porta. Appresso come sempre c’eravamo portati anche il “saggio”, ma “buontempone” più di tutti noi, don Ruggero, magistrale docente di Religione, punto saldo di riferimento per tutta la “Levi”, ragazze e ragazzi, e tutti noi colleghi compresi. Inizi anni ’80, dicevamo. A Mango s’era prenotato in un Ristorante di cui non ricordo il nome, dal panorama mozzafiato su un mare di colline da cui non avresti mai staccato gli occhi, a pochi metri dal possente Castello (secolo XIII) dei Marchesi di Busca. Gruppone da dieci, uno più uno meno. Insegnanti e un bidello (pardon, “assistente di palestra”, come rettificava lui). Lo scopo, ovviamente, mangiare e bere bene. Ma anche divertirsi e soprattutto, quella domenica, giocare un tiro mancino al povero Francesco, il Francesco Sarracino, insegnante di Educazione Artistica e ottimo pittore (a casa conservo una sua rigorosissima incisione dedicata ai danni terribili, a cose e a persone, causati dal terremoto dell’Irpinia del novembre dell’’80), da poco arrivato a Torino, con tutto l’ingombrante carico di nostalgia per la sua Basilicata e, in specifico, per la sua Rionero in Vulture. A Torino … e in Vallette, poi!. Lui così attento, scrupoloso e rispettoso. Di tutto e di tutti. E, soprattutto, di quell’Istituzione “Scuola”, così importante per lui, uomo integro del Sud, e così poco rispettata – pur se in fondo amata – dai nostri ragazzotti di via delle Magnolie. Schcreanzati (con tanto di h alla pronuncia), lo si sentiva gridare per ogni “sgarro” ai principi di una scuola che deve educare – comiziava a dito alzato – ed esigere il massimo rispetto da parte di tutti. E lì, invece! Ottimo insegnante. Bravo giovane. Lo prendemmo tutti a ben volere, nel nostro gruppo di colleghi “giocherelloni” a tempo perso, per strappargli, ogni tanto almeno, qualche risata e fargli per un po’ posare a terra quella cupa “saudade” per il suo paesello. Scoppiò perfino (dietro, sempre alla nostra regia) una bella “simpatia” fra lui e una giovane collega, anche lei arrivata dal Sud. Aveva un solo difetto, il Sarracino. Tutto in Piemonte e a Torino era per lui “brutto, sporco e cattivo”. L’inferno. In Basilicata, invece, regnava il paradiso! Non parliamo della cucina. Quello era proprio il suo tasto dolente. Ogni giorno era una lamentosa, ridicola, insopportabile litania. Quella piemontese? Ma per carità! Vuoi mettere il “Piatto del Brigante” o i “Ravioli con la ricotta” o i “Cavatelli con cime di rape”? Quanto mi mancano! Atroché “Bagna cauda” o “Agnolotti” o “Brasato”. E i nostri “Mustacciuoli” e i “Calzoncelli”, non c’è “Bunet” che tenga! Non c’è proprio paragone! Ragazzi, non se ne poteva più. Non si poteva toccare il tema “cucina” che, subito, esplodeva il “rosario” dei migliori piatti lucani.

E poi, l’Aglianico del Vulture, il “Barolo del Sud”, ma che Barolo! E’ l’“Aglianico” il miglior vino rosso d’Italia, se non del mondo! Uno sfinimento! E noi si esplodeva “alla Carosone”, accerchiandolo con un ‘O sarracino, ‘o sarracino, bellu guaglione, ‘o sarracino, ‘o sarracino, tutt’e ffemmene fa ‘nnammurà … Schcreanzati, (sempre con l’h), gridava e sorrideva lui. Quella domenica, in quel di Mango avevamo studiato per lui un piano niente male. Se domenica andiamo al Ristorante – aveva proposto lui qualche giorno prima – vi porto una mia bottiglia di Aglianico e lì faremo il confronto con i vostri Dolcetti, Barbere o Nebbioli. Voglio proprio vedere! Affare fatto! Ed eccoci al Mango. Interno Ristorante. Gentile, paffuta ristoratrice: Ah, suma bin ciapà. No, bei fioi, pos nen felu … esageruma nen. E il più piemontese del gruppo ma madama a l’è mach ‘na marminela, uno scherzo. Va là va là è solo uno schcherzo, ribadiva in italiano-riminese il Ghinelli, braccia rubate alla Riviera, emigrato a insegnare Lettere alle Vallette di Torino. Ommi, pòvra dòna si rassegnò la simpatica ristoratrice. Che, nel giro di qualche minuto, ritornò con due (dico due) bottiglie di rosso, sistemate come le avevamo raccomandato. Cambio di etichette. All’“Aglianico” del Sarracino aveva sorapposto quella di un “Nebbiolo d’Alba” da favola. E viceversa. Si mangiò alla grande. E tutto strettamente alla piemontese con gran finale di “Bunet” e “Moscato”. Devo ammetterlo – sorrise un po’ sforzato il buon Sarracino – anche se non siamo dalle mie parti si è proprio mangiato e BEVUTO proprio bene!  BEVUTO, sottolineò a voce alta con amichevole ghigno, ripensando al tragicomico inizio pasto. Eh già, ricordate lo scambio di etichette? Un bel brindisi, aveva gridato il calabro cosentino di Paola Franco Molinaro alzando un calice di rosso. Assaggiamo questo Aglianico. In alto i calici. Strepitoso! Gridò il Francesco. E adesso proviamo questo bel Nebbiolo. Calice al naso, buon profumo, gusto … Però, non male. Ma non come l’Aglianico. E lì, scoppiò una risata corale che fece sobbalzare tutti i clienti. Via le etichette! Sarracino sbiancò. Il suo “Aglianico” era diventato “Nebbiolo d’Alba” e il “Nebbiolo” scoprì essere il suo “Aglianico. Quello da noi affidato alla simpatica, paffuta ristoratrice. Povero! Si sedette, stranito e accennò appena Schcreanzati!!! E noi a canticchiare ‘o sarracino, ‘o sarracino, … La giornata finì a tarallucci e vino. E grappini (tanti) di Langa. Che contribuirono forse a riconciliare Francesco con il mondo. La nostra amicizia si sostituì e si affiancò poi, nei giorni e negli anni successivi, ai Grappini, agli Aglianici e ai Nebbioli e il buon Francesco imparò a trovare del “buono” anche in quel piccolo quadrato di territorio subalpino chiamato “Vallette”. Le nostre “Vallette”.

Gianni Milani

La vigilia di Natale e il tesoro del Fontegno

 

L’inverno non era ancora neve ma nell’aria, da giorni, si avvertiva la sua presenza. Da nord, il vento freddo soffiava con più vigore e le nuvole, nel cielo ingrigito, si rincorrevano veloci.

Il bosco era silenzioso. Solo qualche passero infreddolito cinguettava senza molta convinzione. Affacciandosi dal Belvedere, lo sguardo si perdeva sull’intero perimetro del lago d’Orta. E di fronte, più alta e massiccia, la vetta del Mottarone chiudeva all’occhio l’orizzonte. A Natale mancava ormai poco. Eppure, nonostante il clima di festa, l’aria che si respirava quando un abitante di Quarna Sopra incontrava uno di Quarna Sotto, diventava improvvisamente gelida.


I volti diventavano scuri e gli sguardi truci. Non un saluto, non un cenno. Solo indifferenza e, soprattutto, insofferenza. Era una vecchia storia che si trascinava da molto, troppo tempo. Tra Giovanni e Carletto non correva buon sangue. E lo stesso si poteva dire per Berta e Giuditta o per Silvano e Luciana. Insomma, per farla breve: gli abitanti di Quarna Sopra non andavano per niente d’accordo con quelli di Quarna Sotto. E viceversa. Non c’era modo di farli ragionare. Ogni pretesto, anche il più banale, faceva scattare la scintilla del dissidio. Bastava un nonnulla per litigare, discutere, polemizzare. E ci si accusava a vicenda, senza risparmiarsi. Ciò che contava era dividersi, guardandosi di traverso. Non era una novità. Accadeva puntualmente da almeno due secoli. Tutto era nato nella notte della vigilia di Natale del 1809, dalla chiesa parrocchiale di Santo Stefano, a meno di quarantott’ore dalla festa che la celebrava, quand’era sparita la pentola di polvere d’oro custodita nella cripta a fianco dell’altare. Il furto aveva costernato l’intera comunità. Tutti i quarnesi erano rimasti a bocca aperta, attoniti. Era un fatto doppiamente grave. Vuoi per il gesto sacrilego compiuto poco prima della messa di mezzanotte, probabilmente tra il tardo pomeriggio e le prime ore della sera, complice il buio. Vuoi per il valore non solo venale della pentola e del prezioso metallo che, in migliaia e migliaia di pagliuzze dorate, era stato raccolto nei fiumi della zona e dell’alta Val Sesia dai cercatori d’oro che n’avevano pazientemente setacciato i letti in lungo e in largo. Il frutto del lavoro e della devozione d’intere generazioni si era volatilizzato in un battibaleno. Il furto, ovviamente, aveva lasciato una ferita che non era ancora rimarginata. Un pesante atto d’accusa aveva diviso in due, come una mela spaccata a metà, le Quarne visto che le due comunità si rinfacciavano l’accaduto. “Sono stati quelli di sotto”, dicevano quelli di Quarna Sopra. “ Ma, siete matti? Sarete ben stati voi a nasconderla, così da incolparci. Vergognatevi..!”, ribattevano gli abitanti di Quarna Sotto. Un filo d’odio ormai divideva le due comunità che pure, un tempo, erano abbastanza unite. C’erano stati screzi, qualche battibecco e persino delle scazzottate quando gli animi più accesi e le gole più arse si ritrovavano per la bevuta di fine settimana alla locanda della Luna Nuova. La “notte della pentola rubata”, come ormai era ricordata, aveva dato uno scossone tremendo, dividendo le due comunità. Da allora si stava come su di un confine tra paesi in guerra. Una guerra senza armi e senza atti di violenza ma non meno cruenta se si prestava attenzione agli stati d’animo e si pesavano le parole.

Da sempre i curati avevano cercato di mitigare i dissapori, tentando di riunire i quarnesi. A onor del vero, con scarsi risultati. Anche il vecchio parroco di Santo Stefano, don Giulio Leoni, testardo e cocciuto, continuava da anni in quest’opera che, per ottenere un risultato positivo, necessitava di un vero e proprio miracolo. Il suo punto di vista ( che era stato, in precedenza, più o meno, lo stesso degli altri parroci ) era piuttosto semplice e al tempo stesso abbastanza chiaro: perché non unire le forze e tentare di venire a capo del misterioso furto? Perché non mettere da parte le polemiche, smettendola di guardarsi in cagnesco, e cercare una intesa? Appelli che regolarmente cadevano nel vuoto. Pareva non vi fossero orecchie disposte ad ascoltarli e animi talmente induriti dalla diffidenza da sembrare rinsecchiti come delle vecchie prugne. Certo che dopo quasi due secoli di tracce utile non ve n’erano, semmai ve ne fossero state, nemmeno una e il caso non poteva essere annoverato tra quelli freddi, come si diceva in gergo, ma andava rubricato tra quelli ormai del tutto ghiacciati. Eppure le preghiere e le invocazioni di don Giulio toccarono il cuore di due ragazzini, Mirco e Maria Rita. Il ragazzo abitava con i suoi genitori a Quarna Sopra, in via dei Gelsomini. Maria Rita, viceversa, era nata e viveva in via alle Motte, a Quarna Sotto. Entrambi frequentavano la quinta elementare alla De Amicis di Omegna, scuola che aveva avuto tra i suoi alunni più celebri il piccolo Gianni Rodari. I due erano molto amici e soffrivano per quel muro invisibile fatto di rancori e incomprensioni che divideva le due Quarne. Don Giulio l’avevano conosciuto frequentando, come lupetti degli scout, l’oratorio del capoluogo cusiano dove il prelato quarnese insegnava catechismo. Ascoltata la storia della pentola trafugata, decisero di provare a fare luce una volta per tutte su quell’evento che aveva sconvolto irrimediabilmente il quieto vivere dei due paesini abbarbicati sul monte Castellaccio. Seguendo i consigli del vecchio prete iniziarono le ricerche e, in pochi giorni, raccogliendo con discrezione testimonianze e racconti dei più anziani d’entrambi i paesi, riuscirono a trovare una piccola, minuscola traccia. Frugando tra le vecchie carte impolverate dell’archivio della parrocchia, misero gli occhi sul testamento di un’anziana contadina che probabilmente nessuno aveva letto visto che non comparivano eredi. Nel documento, vergato con mano incerta da qualche amanuense sotto dettatura di Cesira Nardini, oltre al lascito delle povere cose ( un tavolo, due sedie, alcuni strumenti da lavoro, una gerla e dodici scudi d’argento ) alla parrocchia di Santo Stefano, a cui l’anziana donna era devota, c’era dell’altro. E si trattava di una vera e propria rivelazione. In una parte aggiunta al testamento si narrava del vecchio Osvaldo Strimpellino, una figura conosciutissima. L’Osvaldo era stato, a suo tempo, sergente maggiore dell’esercito di Napoleone, accompagnando l’ex caporale corso in tante campagne e battaglie sui campi d’Europa. In virtù di questa sua esperienza nella Grand’armée, era stato incaricato dalla comunità di Quarna di far rispettare le leggi e di tutelare gli interessi degli abitanti del piccolo paese. A quei tempi di Quarna ce n’era una sola e, si pensava, indivisibile. Cesira Nardini era stata sua moglie. Morto il marito, sentendo ormai vicino anche lo scoccare della sua ora, dettò la memoria per non portarsi il segreto nella tomba. Ma di quale segreto si parlava? Mirco e Maria Rita non ci misero molto a scoprirlo: si trattava proprio della pentola d’oro. Cos’era accaduto?  La sera della vigilia di Natale del 1809 Osvaldo si stava incamminando verso la chiesa per accendere le due fiaccole che avrebbero illuminato il piccolo cortile esterno. Il vespro era già passato e nel buio ormai fitto i riflessi delle torce facevano danzare le ombre lungo i muri, complice una lieve brezza gelata. Dalla strada vecchia si udirono voci che parlottavano sommessamente. Osvaldo incuriosito si avvicinò al muretto e guardò sotto. Una mezza dozzina di loschi figuri, intabarrati in lunghi mantelli neri, stavano accordandosi su come rubare la pentola d’oro. Dall’inflessione della parlata si coglieva che venivano dalla bassa, forse da Gozzano o da Borgomanero. Erano arrivati fin lì a dorso di mulo, salendo da Omegna dopo aver costeggiato le sponde del lago d’Orta per tutta la sua lunghezza. Osvaldo, udite le parole di quei brutti ceffi, non esitò un attimo. Non potendo da solo affrontare quella compagnia di canaglie, decise di agire d’astuzia. Il modo migliore per salvare il tesoro dei quarnesi era metterlo al sicuro, prelevandolo dalla cripta e nascondendolo. E così fece. Poco più tardi, appostatosi nell’ombra, vide i ladri andarsene arrabbiati e senza bottino. Tornando verso casa, con le orecchie che gli fischiavano ancora per le male parole e le imprecazioni di quei loschi figuri, raccontò tutto a sua moglie, facendole giurare di non dire mai nulla. Per sua grande sfortuna Osvaldo cadde in un burrone proprio la sera stessa, scivolando su di una lastra di ghiaccio mentre stava per recarsi dal curato per raccontare anche all’uomo di chiesa l’accaduto. La moglie, per il gran dolore che le fece perdere parte del senno e un poco per ignoranza, non se la sentì di raccontare a nessuno ciò che il marito gli aveva confessato. Solo nel suo testamento decise di raccontare cos’era accaduto. Ma a chi sarebbe interessato tutto ciò? Lo scrivano pensò al delirio di una vecchia che aveva le rotelle fuori posto e per carità scrisse quanto aveva udito senza però prestarvi credito. Così nessuno seppe che la pentola d’oro, causa di tutte quelle polemiche che avevano occupato lo spazio di due secoli, cementando le divisioni tra Quarna Sopra e Quarna Sotto, era stata calata da Osvaldo in fondo al vecchio pozzo della chiesa della Madonna del Fontegno. In quel luogo, a meno di venti metri sotto un braccio d’acqua, lungo il sentiero che da Quarna Sopra scendeva verso Cireggio, la pentola giaceva indisturbata da quasi duecento anni. Con il Natale alle porte la grigia cappa che incombeva sul paese si era spezzata e dal cielo la neve scese lieve, a larghe falde. Si rinnovava l’atmosfera di magia di quei giorni. I bambini giravano su se stessi con  le facce rivolte al cielo e le bocche aperte; ogni fiocco che si depositava  sulle lingue aveva un sapore particolare, emettendo una sorta di lieve crepitio. Era uno dei suoni dell’infanzia, uno dei ricordi di attesa felice che non avrebbero mai dimenticato. Erano quasi le otto di sera del 24 dicembre quando Mirco e Maria Rita, accompagnati da Don Giulio, dal sindaco di Quarna Sopra e dal maresciallo dei carabinieri, raggiunsero il vecchio pozzo. Bastò meno di un’ora per recuperare la vecchia pentola. Tutto l’oro brillò davanti ai loro occhi, illuminato dalle torce elettriche, rivelando il prezioso fardello  che il vecchio Osvaldo aveva calato con una corda in fondo al pozzo. La pentola fu riportata nella chiesa di Santo Stefano pochi minuti prima dello scoccare della mezzanotte. La notizia si sparse in un baleno. Per tutta la notte vi fu un via vai di persone che s’incontravano, parlavano, si davano grandi pacche sulle spalle, abbracciandosi. Si rideva e si piangeva, in quella notte di Natale. E ci s’interrogava sulla stupidità che aveva diviso per tanto, troppo tempo le due comunità. Per fortuna, di fronte alle invidie e all’insensibile testardaggine dei grandi, c’erano stati due bambini curiosi che non si erano arresi.

 

 Marco Travaglini

 

 

A proposito del Natale…

“Ho sempre pensato al Natale come ad un bel momento.
Un momento gentile, caritatevole, piacevole e dedicato al perdono.
L’unico momento che conosco, nel lungo anno, in cui gli uomini e le donne
sembrano aprire consensualmente e liberamente i loro cuori, solitamente chiusi”
(Charles Dickens)

 

 

Lo sapevate che la storia del nostro Salvatore e il 25 dicembre non sono proprio originali perché in realtà si sono ripetute nei secoli prima dell’avvento di Gesù? Horus, in Egitto 3000 anni prima di Cristo, nasce il 25 dicembre dalla vergine Isis-meri, la sua nascita è annunciata da una stella proveniente da est, e tre re giunsero a salutare la sua nascita.     Aveva 12 discepoli che viaggiavano con lui ed eseguiva miracoli come curare i malati, camminare sull’acqua, era conosciuto come, Il figlio di Dio, l’Agnello di Dio, ecc. ecc., tradito fu crocifisso e sepolto per tre giorni, poi resuscitò. Sui muri del Tempio a Luxor ci sono immagini dell’Annunciazione, Immacolata Concezione, Nascita ed Adorazione di Horus, con Kneph, lo “Spirito Santo” che impregna la vergine; e con l’infante e la presenza di tre re, o magi, che portavano doni. Virishna nel Medio Oriente, 1200 anni prima di Cristo, nacque da madre vergine per immacolata concezione: quando nacque il tiranno di allora fece uccidere tutti i bambini suoi coetanei. Angeli e pastori presenziarono alla sua nascita in una grotta; compì miracoli come la trasformazione dell’acqua nel vino e resuscitò i morti; fu crocifisso alla fine in mezzo a due ladroni e resuscitò dopo tre giorni. Attis di Frigia 1200 aC, nato dalla vergine Nana il 25 dicembre, crocifisso e poi resuscitato….e tanti altri ancora…. Ci sono quindi tanti salvatori nati il 25 dicembre, per lo più da una vergine, che hanno effettuato miracoli, sono morti su croci, alberi, oggetti fatti di legno, poi sono risorti, e presentano tra loro delle somiglianze impressionanti. La domanda sorge spontanea: perché queste caratteristiche? Una spiegazione si basa sull’effettivo movimento degli astri ed è quella che gli studiosi ed archeologi chiamano l’antico culto del sole. Il 25 dicembre segna l’effettiva nascita del sole. La “stella d’oriente” che dà il messaggio della venuta del Dio, non è altro che Sirio, che il 24 dicembre di ogni anno, si allinea con le tre stelle più brillanti della cintura di Orione :“I tre Re”.    La linea retta descritta idealmente da queste 4 stelle indica esattamente il punto dell’orizzonte dove il sole sorgerà il 25 dicembre. Ecco da dove viene l’allegoria della stella che, insieme ai tre re che la “seguono”, indica il punto dove il sole (cioè la divinità del Sole) nascerà. Il 22 dicembre la “morte” del Sole si realizza completamente quando raggiunge il punto più basso nel cielo. Il Sole è morto sulla croce, morì per 3 giorni per poi risorgere e nascere di nuovo: da qui l’idea di crocifissione, morte per 3 giorni e resurrezione che è comune a tante divinità del Sole come Gesù.  Gli Apostoli sono le 12 costellazioni dello Zodiaco, assieme ai quali Gesù, essendo il Sole, viaggia. La madre vergine del Dio Sole è un tema anch’esso popolare in tutte le religioni dell’antichità: secondo il “mito solare”, infatti, il Sole nacque sotto la costellazione della VergineL’oro, l’incenso e la mirra, infine, erano i doni che gli antichi facevano al sole poco dopo la sua rinascita, in quanto con la sua nuova “luce” avrebbe promesso grano, raccolti e cibo nuovamente a sufficienza.

 

 M a u r i z i o  P l a t o n e

 

 

 

La Cotoletta alla piemontese conquista i ristoranti

La Cotoletta alla Piemontese è indubbiamente la novità culinaria dell’anno e in particolare della cucina piemontese. Il piatto ideato da Mino Giachino, il grande sostenitore della TAV, sta  rilanciando il consumo della carne di razza piemontese e dei formaggi tipici delle nostre vallate alpine.  Aumentano i ristoranti che l’hanno inserita nel menu in Città e nelle località di montagna. Accompagnata da un bicchiere di Nebbiolo giovane e dai grissini della collina piemontese sta trovando il suo spazio e incuriosisce piemontesi e turisti.

Nella foto il manifesto affissione nei ristoranti firmato dall’assessore regionale alla agricoltura Protopapa

La colazione di Natale al Caffè San Carlo

A un anno dall’apertura , per il bar- caffé da sempre considerato uno dei  più rappresentativi della storia  di Torino, la pastry chef Andre Celeste Allione, ha realizzato due speciali brioches che raccontano il  dolce Natale sabaudo
 
Eleganza che fa rima con Torino, soprattutto nelle sue espressioni dolciarie , che accompagnano da secoli la regalità con cui, tuttora, la città si presenta ai suoi cittadini e ai turisti  che la apprezzano.
L’identitá sabauda che si respira in ogni angolo della cittá, soprattutto nelle zone centrali, si percepisce in modo particolare nel locale che si é dato nuova vita , poco più di anno fa, e che ha restituito a piazza San Carlo – ” il salotto di Torino – , quella luce ” gastronomica  ” che, nel tempo, i torinesi hanno visto affievolirsi proprio lì.
Il Caffè San Carlo, per la colazione delle feste ( ma non solo), propone due speciali brioches: una, la più elegante, come le signore di Torino e che, come delle care amiche, fanno compagnia in maniera sommessa ma con tante storie da raccontare e da ascoltare con attenzione,  la “Carla” ; l’altra, un vero e proprio alberello di natale, ma non da allestire con addobbi e luci, bensì da assaporare in tutte le sue gustose preparazioni.
A proposito della  Carla la pastry chef ci racconta : ” All’inizio la Carla non aveva questo nome, ma era in via di definizione. É nata con il nuovo San Carlo, per identificare l’essenza e la sontuosità informale del posto. Abbiamo pensato che il caffè rappresenta la colazione di tanti  : per questo, doveva trovare una collocazione di gusto fra lo sfogliato – la brioche, appunto,  che accompagna spesso il caffè – e il ripieno. Lo sfogliato è incassato alla francese ed è impastato con una ricchezza di ingredienti leggermente diverso dalle classiche brioches: miele, burro,  tante uova e zucchero di canna. Lo stampo che abbiamo deciso di utilizzare é sicuramente più grande e diverso rispetto al lievitato tradizionale ; e lo abbiamo pensato come da ” condivisione” ( anche se tanti la mangiano da soli…) , da dividere con piú persone.  L’interno é tutto da scoprire ed é tanto: crema pasticcera  e caramello al caffè, dove lo zucchero lo lavoriamo di piu per dare quel gusto leggermente amaro, in contrasto col dolce delle creme. Le farciture vengono preparate fresche giornalmente, così come la Carla e la selezione di croissant classici. 
L’altra novità per la colazione delle feste, firmato Caffè San Carlo, è il coloratissimo ” Alberello di Natale”, non solo da vedere, ma soprattutto da mangiare : buono,  leggero , una gioia per gli occhi e per il palato.
Col mio staff  – racconta sempre la pastry chef – , abbiamo deciso di dare una veste natalizia anche alla proposta per i lievitati: così, si é arrivati alla realizzazione di una brioche a forma di albero di natale, con lo stesso impasto che utilizziamo per i croissant tradizionali. 
All’interno una crema di zabaione, arricchita con perle croccanti al caramello salato così da dare croccantezza;  il colore verde –  a ricordare l’albero, appunto –  utilizzato nella sfogliatura della pasta matta che compone il prodotto. Per finire l’addobbo, sono state realizzate tante piccole palle di natale ” commestibili” a base di cereali”
 
 
Chiara Vannini

Cohousing all’insegna della sostenibilità

Cohousing

Da alcuni anni un neologismo è entrato nel nostro lessico: cohousing; vediamo di cosa si tratta.

Per poter comprendere il fenomeno nelle sue componenti, occorre innanzitutto analizzarlo alla luce di quelle che sono le attuali condizioni economiche, sociali, energetiche della società in cui viviamo.

Va detto innanzitutto che sono soprattutto i giovani ad abbracciare questa che, a tutti gli effetti, si configura come una scelta di vita che ricorda, per alcuni aspetti, le comuni hippy degli anni ’60 e ’70.

Il termine, tradotto letteralmente, significa coabitazione solidale: immaginiamo un condominio dove una parte, i singoli appartamenti, sono riservati ad ogni singola famiglia o individuo mentre gli spazi comuni sono a disposizione dell’intera collettività: orti condivisi, campi sportivi o piscina, laboratori per il bricolage, car sharing, cantine per la produzione di vino, asili per i bambini, infermerie e molto altro.

Nulla vieta, infatti, che vi siano spazi comuni per mangiare o preparare cibi da conservare (salsa, verdure sott’aceto o sott’olio, ad esempio), un cinema o una sala con Tv 100” con canali a pagamento, una sartoria, un’officina per il minuto mantenimento del condominio o un recinto nel quale allevare conigli, galline ed altri animali da alimentazione.

 L’aspetto più importante del cohousing è l’assenza di una gerarchia, essendo tutto gestito e ideato pariteticamente tra tutti i partecipanti al progetto; si tratta, sostanzialmente, di non penalizzare qualcuno a favore di qualcun altro garantendo parità di trattamento e di accesso alle risorse per tutti i partecipanti.

Il cohousing è concepito come un progetto di partecipazione sociale.
Viene così definito perché chi aderisce al progetto parteciperàdirettamente ad ogni fase del medesimo, dalla progettazione alla realizzazione, alla gestione, alla soluzione dei problemi.

Solitamente l’aggregazione e la gestione delle entità di cohousing non sono regolate da principi religiosi, politici o, comunque, ideologici.

Vigendo il principio di parità nella gestione della cosa comune, il cohousing rappresenta una realtà adatta anche alle fasce più deboli della società, tipicamente bambini ed anziani, che diventano parte del tutto anche nelle decisioni, essendo definiti fin dall’inizio in modo chiaro ed equo i ruoli di gestione e di responsabilità; la condivisione di spazi comuni, inoltre, consente la nascita e lo sviluppo di relazioni interpersonali che, specie per alcuni individui, può costituire uno stimolo ed un rimedio alla solitudine, all’abbandono ed alla mancanza di scambi interpersonali, tipici questi ultimi delle realtà condominiali urbane.

Per economia di scala, inoltre, l’acquisto di beni comuni e, perché no, anche di quelli individuali moltiplicati per il numero di cohousers consente di ridurre in modo significativo i costi, attribuendo un ulteriore valore aggiunto a questa forma di partecipazione sociale.

Qual è la situazione in Italia? Nel nostro Pese, il cohousing si sta diffondendo significativamente; in una società i cui individui sono spesso costretti a vivere lontano dal luogo natìo per motivi di lavoro o di studio è diventato disagevole vivere in una struttura di tipo tradizionale; la mancanza di tempo e, quindi, di incontrare altri individui, inoltre, limitano molto la possibilità di intessere relazioni e, realizzare una socializzazione soddisfacente.

I tre punti di forza del cohousing sono la sostenibilità sociale, ambientale ed economica: vediamoli in dettaglio.

La sostenibilità ambientale, di cui tanto si parla negli ultimi anni, è la capacità di un progetto (o azienda o altro) di rispettarel’ambiente in ogni ambito (domestico, lavorativo, alimentare). Pensiamo, a titolo di esempio, all’adozione di pannelli fotovoltaici o pale eoliche, la produzione di humus partendo dai rifiuti organici ed il riciclo di vetro, plastica e alluminio.

La sostenibilità sociale, invece, è la proprietà di un organizzazione, di un evento o di un progetto di garantire e consentire il rispetto e la comunicazione senza ledere gli interessi di una parte della società, ad esempio generando occupazione.
Lsostenibilità economica, infine, è la politica economica che consente di evitare sprechi, di autoprodurre i beni ed autogestire i servizi, riciclando gli oggetti non più utili o non di ultima generazione; questo aspetto si lega molto alla sostenibilità socialeed a quella ambientale perché permette anche a persone in stato di indigenza di accedere a beni e servizi altrimenti preclusi.

Com’è comprensibile, se il cohousing diventasse una realtà estesa, a guadagnarci non sarebbero soltanto i cohousers di questa o quella realtà ma l’intera società che potrebbe, ad esempio, ridurre i rifiuti e gli sprechi, occupare persone nella gestione e nella manutenzione della cosa comune, permettere con la coltivazione in proprio di ridurre la spesa necessaria per l’alimentazione e molto altro.

Sarebbe opportuno che gli Stati incentivassero la politica del cohousing, considerando il denaro utilizzato come un investimento e non come una spesa.

Sergio Motta

Il Torinese con la coda: Buon Natale!

Buon Natale

Buon Natale a tutte le persone che hanno deciso di condividere la vita con un amico a quattro zampe. 

Buon Natale a quelli che sono andati al canile e hanno salvato un cagnino, o un gattino, a chi ha deciso di prenderlo cucciolo, a chi ha scelto un animale adulto e Buon natale a chi ha deciso per un amico anziano. 

Buon Natale a chi ha scelto il proprio amico in un allevamento, ha pensato con attenzione e preparazione a quale razza fosse più adatta e ha atteso il cucciolo con pazienza. 

Buon Natale a chi non aveva programmato un bel niente ed un amico a quattro zampe è arrivato nella sua vita proprio in quel momento e proprio in  quel modo.

Buon Natale a chi ha dovuto salutare il suo animale, e adesso non ha proprio voglia di sostituirlo, ed è giusto così, che la perdita si elabori e si sedimenti. 

Buon Natale a chi invece proprio non ce la fa a non avere con se’ un cane o un gatto.

Buon Natale a chi ha solo un animale per volta e Buon Natale a chi ha una tribù pelosa.

Buon Natale a chi vorrebbe tanto un amico a quattro zampe, ma proprio non può tenerlo con se’, vedrete che prima o poi la vita farà giri strani e il vostro sogno si realizzerà.

Buon Natale a quelle persone, soprattutto anziane, che hanno solo il proprio animale come amico e Buon Natale a quelli che scelgono i propri amici in base al cane, o al gatto, che li accompagna.

Buon Natale a quegli amori nati al parco, passeggiando con i cani. Buon Natale a chi ha un cane che non va d’accodo con nessuno e le passeggiate le fa sempre da solo.

Buon Natale a chi lavora con il proprio cane e a chi vorrebbe, ma non può.

Buon Natale a chi fa volontariato e va al canile, o nelle colonie feline o semplicemente si dà da fare come può.

Buon Natale alle signore con il cagnino in borsetta. Buon Natale a chi si alza alle 6 della mattina per poter stare al parco con il cane il più possibile.

Buon Natale a chi dorme accoccolato al proprio gatto. 

Buon Natale a chi raccoglie palline di Natale per tutto il salotto.

Buon Natale anche a Babbo Natale, che comunque ha con se’ un sacco di renne!

Buon Natale alle persone educate e rispettose che quando vanno dal veterinario ascoltano ciò che gli viene detto e capiscono che spesso una diagnosi non si fa in 5 minuti e un problema non si risolve in due giorni.

Buon Natale a noi medici veterinari, che siamo spesso stanchi, ma ci adoperiamo per far stare al meglio i nostri pazienti.

Buon Natale a chi ha letto fino a qui.

 

Dott.ssa Federica Ferro
Dott. Stefano Bo

Le mille cartoline di Henry Cole e il “Canto di Natale” di Dickens

I cartoncini di Natale, con frasi d’augurio e belle immagini, vennero pensati e prodotti ( almeno quelli “ufficiali”..) nel 1843 quando l’uomo d’affari inglese, Sir Henry Cole, che lavorava alle poste britanniche, commissionò al disegnatore e amico John Callcott Horsley la realizzazione di mille cartoline natalizie da inviare ai propri amici
 Preoccupato di non aver tempo per scrivere le annuali lettere per le feste di fine anno, Cole gli chiese di disegnargli un cartoncino che contenesse messaggi familiari e caritatevoli. Forse non se ne resero conto sul momento che stavano contribuendo alla creazione del Natale moderno con albero, regali, Babbo Natale, i buoni sentimenti e quei biglietti d’auguri, prodotti d’invenzione anglosassone, dove il principale interprete fu uno dei più grandi romanzieri dell’Ottocento, Charles Dickens. In “Canto di Natale”, suo malgrado, lo scrittore inglese inven­tò gran parte della mitologia che ancora oggi costituisce la tradizione natalizia: il pranzo, la famiglia, le vacanze, la neve, i regali, la beneficenza, i canti, i dolci e addirittura il vin brulé. Quel libro – che narra la fantastica storia dell’avarissimo Scrooge, diventato generoso in seguito alla visita di tre spettri proprio durante la notte di Natale – venne pubblicato il 18 dicembre 1843. Venduto in seimila copie nella prima settimana fu,per l’epoca, un vero bestseller. Con quella storia Dickens declinò i “nuovi valori” che la festività intendeva rappresentare. Non solo la fami­glia ma anche lo spirito di carità che biasima l’ingiustizia sociale e la povertà, descrivendo di par suo quell’Inghilterra rurale destinata a fare da sfondo alle cartoline di auguri con i paesaggi innevati.Tutto questo accadeva nello stesso anno che vide il trentenne Wagner rappresentare il suo primo lavoro, un potente melodramma intitolato “l’Olandese volante”, mentre Giuseppe Verdi mandava in scena alla Scala di Milano i Lombardi alla prima crociata. Il successo fu strepitoso, soprattutto per il celebre “coro dei lombardi”, adottato come canto patriottico in chiave manifestamente anti-austriaca. Il 1843 fu anche l’anno dell’inaugurazione del primo stabilimento balneare riminese mentre a Milano nasceva la prima stazione ferroviaria sul modello di quelle inglesi: quella di Porta Tosa, capolinea della  ferrovia Milano-Venezia. La rivoluzione industriale muoveva i primi passi in Italia, partendo dal Piemonte e dagli opifici tessili nel Biellese e nel Verbano. A settembre usciva il primo numero del magazine “The Economist” mentre si accendevano qua e là movimenti di protesta sociale e d’indipendenza, anticipatori di quella “primavera dei popoli” che cinque anni più tardi, nel fatidico 1848, sconvolse l’Europa con i suoi moti rivoluzionari. L’ Inghilterra s’incamminava nell’età  vittoriana ( la Regina Vittoria, sul trono da sei anni, ne compiva  ventiquattro), epoca di splendore politico, culturale e di cambiamenti sociali. Insomma, un anno importante il 1843. Tornando ai biglietti d’auguri, Horsley scelse di disegnare una famiglia, composta da elementi di varie generazioni e intenta a festeggiare il Natale con un brindisi a base di punch (suscitando non poche polemiche e rimostranze), recante la scritta a lettere maiuscole “A Merry Christmas and a Happy New Year to You” (ovvero l’augurio di “Un Buon Natale e un Felice Anno Nuovo”). Le cartoline, ognuna delle quali misurava 8,5 per 14,5 centimetri, furono  litografate presso la  londinese Jobbins of Warwick Court  e colorate da un pittore professionista, un certo Mason. Lo stesso Cole, futuro fondatore e direttore del primo museo del design, le acquistò per uno scellino l’una, firmandole “Felix Suddenly”, cioè “improvvisamente felice”. La nascita degli auguri natalizi coincise o quasi con quella del francobollo, tant’è che il britannico “penny black” ,con il profilo della Regina Vittoria,fu il primo esempio di carta-valore ad essere destinata all’affrancatura della corrispondenza. Ma questa è un’altra storia.

Marco Travaglini

 

“Chieri in luce” per le festività natalizie

Ritorna anche quest’anno  (e si amplia) il magico spettacolo del “video mapping” … con due preziose novità

Fino al 4 gennaio 2024

Chieri (Torino)

E’ ormai consolidata e piacevolissima tradizione natalizia. Il progetto di “video mapping” (tecnica di proiezione evoluta che ormai, in tempi di festività, va più che alla grande) “Chieri in luce” nasce infatti nel 2019 con lo scopo di valorizzare i più bei monumenti della città. E, puntuale, eccolo riproposto anche quest’anno, con due preziose, lodevoli, novità. Cinque anni fa si era cominciato con l’“Arco Trionfale” edificato nel 1580 e raro esempio di monumento celebrativo di età manieristica, uno dei pochi ancora esistenti in Piemonte. Il secondo intervento aveva invece riguardato la “Chiesa dei Santi Bernardino e Rocco”, gioiello barocco in piazza Cavour. Novità 2023: il completamento del progetto di “video mapping” sulla facciata della “Chiesa di San Guglielmo” e sul campanile del “Duomo”, entrambi realizzati dall’artista chierese Francesco Granieri e dal suo team “F2Alab”.

“Le video proiezioni – spiega Antonella Giordano, assessora alla Cultura – sono sempre più di moda e si stanno diffondendo in numerosi Comuni del Piemonte. Il nostro intende, però essere un vero progetto culturale, poiché oltre a regalare bellezza ai cittadini, sulle facciate presentiamo le splendide opere d’arte custodite all’interno delle chiese, così da ‘restituirle’ alla comunità, valorizzarle e attrarre l’attenzione delle generazioni più giovani e dei turisti”. Come dire: non trattasi di una semplice illuminazione “ma di una complessa e suggestiva proiezione artistica che guarda a consolidate esperienze straniere, per esempio Madrid, Lione e la ‘Fête des Images’ di Épinal, città francese gemellata con Chieri”.

E così, sui 50 metri d’altezza del maestoso Campanile del “Duomo” si proietteranno la cosiddetta “Pala Tana”, custodita all’interno del “Battistero” e tutto il ciclo di affreschi della “Cappella Gallieri”. Da ricordare che la “Pala” deve il suo nome al chierese Tommaso Tana, cavaliere “gerosolimitano” o “di Malta” morto a Rodi nel 1503. A realizzarla furono il pittore lombardo di Mombello Francesco Berglandi e il fiammingo Gomar Davers: venne fatta eseguire (come recita la scritta ai piedi della figura di S. Giovanni Battista) da Ludovico e Tomeino Tana in memoria del fratello Tommaso, morto nel 1503 in una battaglia navale contro i Turchi. La seconda parte del “videomapping” presenta il ciclo di affreschi dedicati a San Giovanni Battista custodito nella “Cappella Gallieri”, costruita fra il 1414 e 1418 per volere del nobile mercante e banchiere chierese Guglielmo Gallieri. Gli affreschi, recuperati con interventi di restauro nel secolo scorso, sono oggi osservabili nel loro antico splendore. La volta del soffitto “a crociera” presenta nelle sue vele i “quattro Evangelisti”. Le pareti, ordinate in senso orario a partire da quella che fronteggia l’ingresso, ripercorrono la vita di San Giovanni Battista dalla sua nascita, al battesimo di Gesù, fino alla sua decapitazione e sepoltura.

Sulla facciata della “Chiesa di San Guglielmo” è invece proiettata “L’adorazione dei Magi” del chierese Francesco Fea, uno dei principali allievi dell’astigiano da Montabone Guglielmo Caccia detto “il Moncalvo” o il “Raffaello del Monferrato”. L’esecuzione dell’opera è anteriore al 1632, visto che essa era già presente sull’altare in occasione della visita pastorale di monsignor Provana di Leinì (signore di Druento ed Arcivescovo di Torino dal 1632 al 1640), avvenuta proprio in quell’anno.

Due proiezioni artistiche illuminano anche la facciata della “Chiesa dei Santi Bernardino e Rocco”. La prima è dedicata alla magia di suoni e luci del Natale, la seconda celebra il “Barocco” chierese e il patrimonio artistico custodito nella Chiesa attraverso l’animazione delle preziose “pale d’altare”, opera sempre di Guglielmo Caccia, e la musica dell’“organo”, il più antico della città, conservato nella chiesa monumentale (eretta tra il 1675 e il 1683, anche se la facciata è stata terminata nel 1792).

E infine torna ad essere illuminato anche l’“Arco Trionfale”, grazie a un video mapping che si ispira alla “trama di un tessuto” di inizio ‘900, il cui disegno preparatorio è conservato nell’“Archivio della Fondazione Chierese per il Tessile”.

Le videoproiezioni continueranno fino a giovedì 4 gennaio 2024, tutti i giorni dalle ore 18 alle ore 22.

g.m.

Nelle foto:

–       Chieri: Facciata della Chiesa di “San Guglielmo”

–       Chieri: Il Campanile del “Duomo”

–       Antonella Giordano, assessora alla Cultura di Chieri