LIFESTYLE- Pagina 55

Il capello: un segreto di magia e relax

I capelli e la loro espressività…Scontato sarebbe pensare che non vi appartenga…

Essi vestono l’anima di chi la accompagna, ne disegnano l’immagine più appropriata, donando al suo protagonista  la consapevolezza che si ha verso sé stessi, permettendo di far emergere anche attraverso l’aspetto esteriore l’autenticità del proprio carattere. L’obiettivo dovrebbe essere quello di dare vita non certo ad una trasformazione drammatica, radicale, ma al contrario, cercando di mettere in risalto la  naturalezza più appartenente.

Senza effetti esageratamente stravolgenti, le collezioni dei saloni e le tecniche più avanzate, si concentrano su cambiamenti delicati ma al tempo stesso unici e versatili, capaci di valorizzare quello che già c’è.

I tagli come le acconciature prevedono ampi margini di modifica tra il giorno e la sera, bilanciando fragilità e forza, due facce della stessa medaglia.

La bellezza di un taglio su misura si identifica ovviamente tramite la capacità di cambiare, insieme allo styling, in base al momento e all’occasione, mostrando un’anima trasformista che si plasma tra creatività e linee essenziali.

Con il taglio e la conseguente acconciatura dei capelli, si sussurra al mondo il proprio punto di vista, il proprio ordine personale, lo stile e l’eleganza degli insiemi.

 

Sicuramente quella dei parrucchieri è una professione emergente e in continua evoluzione, che appaga tutto e tutti, affascinando e compensando la soddisfazione di vedere felici persone di tutte le età.

E’ ad oggi il mercato più importante della bellezza professionale in Italia ed è ai primi posti in Europa.

 

La ricerca, l’innovazione e la qualità sono però ingredienti che non tutti possono conquistare. Bisogna avere le risorse necessarie per  favorire la crescita, valorizzare e modernizzare la professione, attivare  una formazione eccellente e continuativa, tale da raggiungere qualità e capacità creative  e manageriali, in grado quindi di ottenere  il massimo risultato nei riguardi di una clientela sempre più soddisfatta.

 

Queste sono leve determinanti che andranno ad alimentare sempre di più la credibilità nei confronti della clientela.

Il raggiungimento e il mantenimento di tale progresso, il comportamento sociale di qualità, la preparazione, l’innovazione e professionalità eccellenti, sono quindi gli ingredienti chiave in grado di garantire al pubblico l’azzardo di selezionare un salone di hairstyling di primissima qualità.

 

Nasce quindi a Torino, in via della Rocca 32/C : “THE SECRET blooming hair” , dove la commistione tra arte e bellezza del capello, generano l’essenza dell’eleganza e dello stile.

 

Due giovani rampanti, talentosi stilisti e eccellenti professionisti del settore, Lorena Diculescu e Federico Fruscione, dopo anni di esperienza vissuta dai grandi maestri dell’hairstyling (tra i quali Franco Curletto), si avvicendano con determinazione e grande passione ad aprire il “loro” salone, ed è qui che la magia inizia.

 

Il loro è un concetto davvero inusuale, nuovo, costellato da assoluta passione, capacità  e garbo incredibili, tali da accogliere la clientela in un giardino dai profumi davvero variegati ma assolutamente legati tra loro da un fil rouge che conquista letteralmente il pubblico per la sua innovazione e altissima qualità, regalando oltretutto un habitat davvero accogliente e rigenerante.

L’interpretazione che danno al “capello” e la cura del suo dettaglio, sussurra all’estro il potere di potersi far riconoscere come un pennello d’autore sta alla tela.

La loro è arte pura, se pur quest’ultima definizione possa forse sembrare azzardata.  Ma qui parliamo di passione capace di generare l’emozione di chi la coglie e di chi sa interpretarla nella sua originalità, facendosi riconoscere come l’astro nascente di un’opera che non chiama solo la tecnica eccellente del loro lavoro, che oltretutto si arricchisce con la qualità dei materiali e la serietà della competenza, ma che si erige grazie all’originalità e a quella personalizzazione del risultato che chiama la soddisfazione assoluta di chi se ne sentirà accarezzato e conquistato.

Lorena e Federico accolgono i loro clienti in una  comfort zone  creativa, votata davvero all’incanto, dove la cura del dettaglio non passa inosservata e dove l’accoglienza accarezza il desiderio di coloro che scelgono di andare da The Secret anche per trovare il relax più personalizzato e non solo per una scelta dettata dal bisogno.

Una gioventù emergente quindi la loro, una generazione di menti pensanti e di anime delicate, dall’intelletto e dalla preparazione tecnica davvero a 360°, pronti a far emergere qualcosa di diverso, fuori dai soliti canoni di massa, ma assolutamente rientrante nella più che autentica cura dell’essere.

(The Secret – 011 0461200 – via della Rocca, 32/C – Torino – info@thesecret32.com)

 

Monica Chiusano

 

Ritorno in Formazza

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STORIE PIEMONTESI: a cura di CrPiemonte – Medium /   Il regionale 4792 delle ore 15,48, proveniente da Novara, è in arrivo sul binario numero 2. Termine corsa

di Marco Travaglini

Dall’altoparlante la voce gracchiante conferma che stiamo entrando nella stazione di Domodossola. Se non avessi il finestrino abbassato e non stessi qui, con la testa fuori e controvento, non si sentirebbe un granché. Anche perché il frastuono della vecchia locomotiva copre ogni altro suono. Che sia vecchia, nessun dubbio: basta dare un’ occhiata alle macchie di ruggine per capire che questa E.424 marchiata Breda è ormai prossima al pensionamento. Ciò nonostante ha fatto il suo dovere, coprendo i novanta chilometri a binario unico dalla città delle risaie al capoluogo ossolano un poco più di due ore, contenendo in una decina di minuti il ritardo sulla tabella di marcia.

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La stazione di Domodossola

Quasi un record, visti i tempi. Erano più di vent’anni che non tornavo a Domodossola viaggiando in treno e nel frattempo le vecchie macchine diesel erano state sostituite dalle motrici elettriche. Una botta di vita per la vecchia Novara-Domodossola anche se il viaggio attraverso la campagna novarese, la sponda orientale del lago d’Orta e la piana del Toce è stato accompagnato da un intero campionario di rumori, cigolii e sferragliamenti oltre al classico e tradizionale ta- tam, ta- tam, ta- tam. Potevo scegliere di viaggiare in auto ma non mi andava di guidare e volevo ripercorrere a ritroso la stessa strada che facevamo un tempo per raggiungere Novara quando bisognava recarsi in qualche ufficio pubblico, come il catasto, o all’Ospedale Maggiore.

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Una vecchia corriera

La corriera, in attesa sul piazzale della stazione, a pochi metri da quella grande “D” di Domodossola, non è certo un esempio di modernità ma in quattro e quattr’otto si è lasciata alle spalle Crevoladossola, Oira, Crodo e Baceno. Ansima un po’, sbarellando nelle curve, ma “tiene” bene la strada e l’autista , decano di questa tratta, non tocca più il bicchiere da una quindicina d’anni. Un tempo la sua guida era da brivido, complice l’abitudine di alzare il gomito e l’audacia nel pigiare il pedale dell’acceleratore. Mai un incidente, per carità, ma si arrivava sul pianoro sopra la salita delle Casse con lo stomaco in gola e la tremarella nelle gambe. Oggi invece, nonostante l’età, viaggia tranquillo. Passata S.Rocco di Premia, sulla sinistra, vedo la strada che conduce a Salecchio, il nido d’aquile dei walser, un tempo raggiungibile a fatica e con gran dispendio di sudore. Mi è stato detto che oggi una strada facilita molto la salita a quel che resta del bellissimo insediamento alpino dove ogni anno, la prima domenica di febbraio, si festeggia la Candelora. Da Rivasco al ponte sul Toce saliamo i nove tornanti delle Casse che precedono Fondovalle. Sul dolce falsopiano il motore della corriera tira il fiato e in pochi minuti, attraversate le frazioni di Chiesa e Valdo, si ferma al capolinea, davanti al vecchio municipio di Ponte.

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Ballo in costume walser

La casa dei miei, affittata solo d’estate, da metà luglio alla fine d’agosto, mi accoglie silenziosa. Raccoglie sotto un unico tetto , come tutte le antiche case rurali dei walser, l’abitazione, la stalla e il fienile. Il nonno e i suoi fratelli l’hanno costruita con maestria su tre piani. Sul seminterrato, in muratura di pietre, è posata la struttura lignea dell’abitazione con la stalla, un angolo dedicato al soggiorno, la cucina e un angusto bugigattolo dove ricoverare gli attrezzi. Al primo piano le due camere da letto — una grande e l’altra più piccola — e sopra il fienile e la stanzetta per la conservazione di segale, patate, formaggi, carne secca e mele. Il nonno era un giramondo e, curioso come pochi, aveva studiato le abitazioni valsesiane fino al punto di imprimerne alcuni dei caratteri architettonici alla sua. Da lì è venuta l’idea dell’ampio loggiato che la circonda, consentendo a fieno, segale e canapa di seccare all’aperto, evitando che la pioggia le bagnasse. Orientata con il fronte principale rivolto a sud, in ogni sua parte il legno e la pietra le danno un senso di solida unità e di equilibrio con i monti e i boschi che stanno attorno. Il nonno, del resto, ci teneva tanto alla sua “radice” vallesana e come i suoi antenati svizzeri e tedeschi amava testimoniare il fatto di essere felicemente ordinato. Nel letto di rovere ho dormito come un ghiro e dopo un giro a salutare i pochi, vecchi amici che mi rammentano gli anni della gioventù, mi incammino a ritroso nel tempo discutendo con Walter. Ormai in pensione, dopo una vita passata a controllare quadri elettrici e prese d’acqua per conto dell’Enel sui bacini di Morasco e dei Sabbioni, Walter non perde l’occasione di rievocare insieme gli anni felici della nostra gioventù. Complice una bottiglia di Gattinara che ho acquistato per celebrare l’occasione, si sciolgono i ricordi. In poco tempo torniamo agli anni di scuola, d’inverno.

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Benvenuti in Formazza

Rammenti l’inverno del 1959?”, dice Walter. Eccome, se lo rammento. Quell’inverno di neve ne era già venuta giù molta. Anche troppa. E non finiva mai. Asciutta e morbida, continuava a cadere. Una spessa e soffice coltre bianca si era depositata ovunque. Sul tetto della baita di Joseph, sul fienile di Marianna, sul sagrato della chiesa . Ogni cosa cambiava forma e aspetto, sotto la neve. “Per fortuna il raccolto della segale e delle patate è andato bene e la caccia autunnale ci ha riservato delle buone soddisfazioni”, diceva mastro Peter, schiacciando il tabacco nel fornello della pipa di radica che s’era comprato all’emporio di Briga. Era lui, con il suo aspetto severo di vecchio montanaro che sapeva come far rendere la terra a quell’altitudine, l’anima della comunità. Capace di buoni consigli e di sagge decisioni, mastro Peter stava per compiere ottant’anni ma ne dimostrava venti di meno. Alto, dal fisico asciutto, i capelli corti e radi ed un viso segnato da alcune profonde rughe, incuteva rispetto e un po’ di soggezione. La nostra piccola comunità walser viveva d’agricoltura di montagna, di allevamento e del lavoro che i componenti maschi più giovani prestavano nelle cave di serizzo o nei cantieri dell’Edison.

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Case walser a Salecchio

Noi si andava a piedi a scuola. Con il bello o il brutto tempo, raggiungevamo la scuola elementare di Ponte dove ci attendeva, dai primi d’ottobre alla metà di giugno, la maestra Rosamaria con le sue lezioni d’italiano e matematica, storia e geografia. E di tutto il resto, compreso le ore dedicate alla nostra lingua. La pronuncia era quella che era. Impacciata, claudicante e soprattutto troppo marcata da quell’inflessione francese che ne tradiva le origini valdostane prima ancora che dichiarasse il suo cognome: Jannod. In Formazza era stata mandata per sostituire la vecchia maestra Hilde Brunner, troppo anziana per tenere a bada la pluriclasse. Doveva essere un affidamento temporaneo. Almeno così le avevano detto al Provveditorato agli studi di Novara per “indorare la pillola” della cattedra assegnata all’estremo nord della provincia, a ridosso con il confine svizzero. Ed invece rimase lì con noi. Se all’inizio si riteneva fortunata per non avere ancora una famiglia tutta sua, Rosamaria — con il tempo che passava e con quell’incarico provvisorio che come tutte le cose provvisorie era ormai da considerarsi definitivo — una famiglia pensò di farsela . Sposò Piero Locker, un boscaiolo alto e biondo, appartenente ad una delle più antiche famiglie walser formazzine. La classe che gli era stata affidata risultava composta da ragazzini intelligenti, vivaci. Avevamo tutti una gran fretta d’imparare. Ascoltavamo la maestra in religioso silenzio, divorando ogni testo ci passasse tra le mani. Eravamo attratti dalla storia e, tra i vari episodi, uno in particolare ci incuriosiva: la vicenda di Annibale, il grande generale cartaginese. “Maestra, e gli elefanti?”. Iniziava Giosuè, detto “pel di carota” per i capelli fulvi ed il volto coperto di lentiggini.

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Case walser in Formazza

Voleva che Rosamaria parlasse di Annibale e della sua impresa più straordinaria: l’attraversamento delle alpi con il suo esercito composto da 50.000 fanti , 90.000 cavalieri e una quarantina di elefanti. Si, gli elefanti. Animali enormi dalla grande memoria, probabilmente scelti da Annibale con l’intento di farli restare nella memoria, appunto, consegnando alla storia un’impresa che pareva impossibile tanto era collocata oltre ogni ragionevole immaginazione a quell’epoca. Come se lui sapesse, e forse proprio per questo, che dopo la sua impresa qualsiasi altro esercito si fosse trovato sulle Alpi non avrebbe fatto lo stesso effetto. Tant’è che , qualche anno dopo il suo passaggio, la stessa via venne ripercorsa da suo fratello Asdrubale senza che nessuno ne porti il ricordo, nonostante avesse con se il doppio di elefanti e avesse subito molte meno perdite. Dopo di lui a tutti gli altri — Giulio Cesare, Carlo Magno, Napoleone, gli Alpini ed i Kaisershutzen — non restò che il ruolo di imitatori di un’idea. Ogni qualvolta s’accennava ad Annibale i ragazzi ascoltavano attentissimi, mostrando curiosità mista ad interesse. E la maestra non si faceva pregare.“ Il condottiero cartaginese, tra il 218 e il 216 avanti Cristo, marciando dalla Spagna, attraverso i Pirenei, la Provenza e le Alpi scese in Italia, dove sconfisse le legioni romane in tre grandi battaglie: quelle della Trebbia, del lago Trasimeno e — la più famosa — di Canne. Sconfiggendo le tribù montane, sfidando le difficoltà del terreno, intemperie e tempeste di neve, inerpicandosi su strettissimi tornanti e scendendo in gole impervie a filo degli strapiombi, Annibale ha compiuto una delle imprese militari più memorabili del mondo antico. Trovò persino un metodo geniale per spaccare le rocce che impedivano il passaggio: riscaldava la roccia e una volta che questa si raffreddava, la spezzava dopo averla ricoperta di aceto. Il prezzo fu altissimo .Non si contarono le perdite tra gli elefanti e gli uomini dell’esercito, nonostante ciò Annibale riuscì nel suo intento di ridiscendere i monti e affacciarsi sulla Pianura Padana”.

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La cascata del Toce

Che ricordi. Belli, lontani. Eravamo ragazzini e c’era l’entusiasmo di conoscere tutto, la curiosità delle domande che bruciavano le risposte. E la fame di futuro. Ed ora? Ora con Walter, in questa serata, tra un bicchiere e l’altro, si rievoca un po’ tutta l’infanzia. Intanto, lenta e silenziosa, fuori la neve sta cadendo. Gli parlo dell’incontro avuto poche ore prima con padre Giacomo, che mi ha procurato una forte emozione. Non ci vedevamo da una vita ma entrambi non abbiamo avuto esitazione alcuna nel riconoscerci quando ci siano trovati, uno davanti all’altro, di fronte all’entrata del negozio della signora Hilde, dove si può comprare il miglior Bettelmatt di tutta la valle. Un energico abbraccio e un paio di bicchieri di rosso davanti al banco da mescita di Liborio, hanno colmato in un attimo quasi quarant’anni. “Caro Marco, ne sono passate di stagioni, eh? Io ormai sono vecchio ma tu non sei tanto cambiato da quand’eri ragazzo. Sì, ora sei quasi calvo e hai messo su un po’ di pancetta, ma quella luce che ti brilla negli occhi è la stessa di quando venivi all’Oratorio a discutere con me di ogni cosa ti capitasse per la testa. Ricordi? Eri curioso, intelligente ma anche un gran testardo e non c’era verso di farti cambiare idea quando te ne infilavi una in testa e ci attaccavi anche il cuore”. Giacomo, pur essendo di vent’anni più anziano, è sì un prete ma è anche un amico. Uno dei più cari tra gli amici.

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La chiesetta di Riale

Mi vuol bene anche se le mie idee e le scelte che ho fatto in seguito non sono mai state le sue. Però, e di questo gli devo merito, non ha mai cambiato il suo atteggiamento nei miei confronti, rispettando anche ciò che non condivideva. E’ con lui che abbiamo imparato — io, Walter e tanti altri — a conoscere quel sentimento religioso che ha accompagnato, nel tempo, la vita quotidiana della nostra gente. “Ti ricordi, Walter? E’ lui che, insieme al suo sacrestano, il vallesano Berti, ci ha insegnato la formula di ringraziamento con la quale i walser di Formazza invocavano la protezione di Dio per le persone e i loro cari defunti, quel “Färgalts Gott tüsuk Maal, tresch gott un ärlesch Gott di Abkschtorbnuseela” che significava Ti ricompensi Dio, mille volte, consoli Dio e liberi Dio le anime dei tuoi morti”. Con lui si giocava a calcio nel prato di Valdo e s’andava sugli alpeggi dove, dopo il tramonto, il casaro e i pastori recitavano il Vangelo di San Giovanni affinché gli spiriti maligni non andassero a molestare gli animali. Padre Giacomo ci spiegava che dall’allevamento e dai prodotti derivati dal latte dipendeva buona parte dell’economia della valle e che le preghiere ( qualche volte accompagnate da veri e propri rituali di esorcismo) servivano a “scacciare il male” dalle stalle. Ricordo a Walter, che annuisce, quando — all’inizio di una estate — a Foppiano, nel giorno di San Giovanni, che cade il 24 giugno, assistemmo alla benedizione dei gigli rossi i cui petali erano stati messi ad ardere in un braciere insieme all’ulivo benedetto, affumicando la stalla del papà di Martino, allo scopo d’allontanare ogni influsso negativo.

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Merenda a Formazza

Quanti ricordi, E i fratelli Arnold e i loro cugini Berger? Da bambini accompagnavano al pascolo le mucche fin su nel pianoro di Riale e si divertivano con un gioco, ”Z Hêmmelfarä” che significava ”correre in Paradiso”, seguendo tutte le fasi che portavano dall’Inferno al Purgatorio e da lì al sommo dei cieli , e quindi alla vittoria, aiutandosi con un legnetto che veniva lanciato in aria. Con Giacomo abbiamo anche ricordato mia nonna, Helga. Mi portava spesso ai due santuari dedicati alla vergine Maria, ad Antillone e a Brendo, il suo preferito, dove si venerava Maria del monte Carmelo. Una volta si mise in testa di condurmi in pellegrinaggio, ovviamente a piedi. Era indecisa sulla meta: Sion, Reckingen o Einsiedeln? Mia madre Maria, sua figlia, sfruttando quell’indecisione riuscì a convincerla che non era il caso di farmi fare una sfacchinata del genere e così, pur contrariata e a malincuore, la nonna s’arrese. All’interno di casa, nell’angolo della Stube, tra le due finestre, teneva un grande crocifisso di legno e le statuette di San Teodulo e di San Nicola, i suoi ( e nostri) santi protettori. Mi fece un grande effetto quando mi toccò, a meno di dieci anni, fare la dolorosa scoperta del significato della piccola finestrella, sormontata da una croce, aperta sulla facciata della casa dei nonni.

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Nevicata

Quando nonna Helga , a causa di una brutta febbre, stava per morire, la finestrella — che era sempre stata chiusa — venne aperta affinché la sua anima potesse trovare il passaggio per uscire e andare in cielo, per essere poi richiusa subito dopo la morte, impedendole di rientrare. La “finestrella dell’anima”, la “Seelenbalgenn”, pensavo m’avesse rapito la nonna e io piangevo, piangevo disperato e non mi davo pace. Toccò proprio a Giacomo, a quell’epoca appena ordinato prete, trovare le parole giuste per consolarmi. E, con grande pazienza, vi riuscì. Per questo oggi, da ateo qual sono diventato, mi spiace avergli fatto un così grave torto. Lui, però, con quel sorriso aperto che il tempo non ha cambiato, mi ha confidato di non aver abbandonato la speranza in un mio ravvedimento. E così, tra una chiacchiera e l’altra, amico mio, abbiamo fatto scorrere le ore fino al vespro quando l’anziano prete mi ha salutato con un abbraccio ed è andato a dir messa. Sull’uscio, girandosi, mi ha rivolto un ultimo sguardo, dicendomi: “Oh, Marco. Mi raccomando. Non far passare ancora troppo tempo nel tornare qui a casa perché non posso garantirti che mi troverai ancora qui ad aspettarti. E chi ti confesserebbe, a quel punto, per darti assoluzione da tutti i tuoi peccati?”. Così mi ha detto ,con il suo sorriso. Poi, con un cenno della mano, mi ha salutato e, lentamente, se n’è andato verso la chiesa di Santa Caterina. Ma gli incontri non sono finiti qui. In questo mio peregrinare tra le vie ho incontrato anche Edith e Ingrid, le due sorelle Meier. Entrambe vedove, le ho trovate ancora in gamba, nonostante l’età: la prima ha novantasette anni e la seconda solo due di meno. Sarà il freddo dei lunghi inverni o l’aria buona che scende dalle vette a conservarle così arzille? Se io, tu e tanti altri come noi, cresciuti qui in valle, ci siamo nutriti a pane, formaggio e leggende, è grazie a loro. Le due Meier, originarie della valle di Goms, con il loro italiano indurito dalla pronuncia tedesca, nelle sere d’inverno quando tra una casa e l’altra c’era tanta, troppa neve e ci si doveva aprire dei varchi spalando di gran lena, invitavano amici e parenti nella loro grande casa e lì, con in mano una tazza di tisana alle erbe raccolte tra il lago Kastel e il Toggia, raccontavano delle storie incredibili. Rimaste vedove ancor giovani, avevano deciso di rimanere qui in Formazza, dove mandavano avanti la loro attività di sarte. Sia io che Walter ricordiamo bene quelle sere. Del resto le leggende hanno sempre avuto una grande importanza, occupando un posto di primo piano nella cultura walser perché nel racconto si mescolano i desideri, le convinzioni, le gioie e le paure insieme ai fatti della vita quotidiana e ai personaggi. Un nostro coetaneo, Aldo Svillar, che noi chiamavano “kartoffen” vuoi perché aveva un gran naso a patata, vuoi perché di quei tuberi faceva grandi scorpacciate, era sempre in prima fila, con la bocca aperta. Silvia, la figlia del sindaco, una bella morettina tutto pepe che aveva anch’essa più o meno la nostra età, gli dava delle botte terribili sotto il mento, facendogli mordere la lingua, dicendo al povero Aldo: “Chiudi quel forno, altrimenti la strega di Morasco ti mangia la lingua”. E noi giù a ridere. Ridevamo tutti, tranne il malcapitato, cioè lui.. Quando però le Meier iniziavano i racconti, non volava nemmeno una mosca. Le leggende erano ambientate tra i monti, in sperdute valli e isolati alpeggi dove la natura selvaggia era popolata da streghe, diavoli, folletti e nani. Dai Pubrina di Salecchio, uomini selvatici o esseri mostruosi che fossero, che portavano i bambini ( le cicogne non c’erano e sotto i cavoli non si trovavano neonati ) ma che al tempo stesso erano il terrore dei piccoli quando questi facevano i capricci, al pari dell’uomo nero, agli Zwärgji, eccentrici burloni che abitano i boschi, bassi di statura e coperti di stracci e foglie, sempre pronti a divertirsi alle spalle degli alpigiani, vittime dei loro dispetti. A differenza delle streghe che fanno malefici al bestiame o che mandano in malora il latte e il formaggio, gli Zwärgji avevano insegnato ai nostri avi come fare il bucato con la cenere o lavorare il latte. Forse per farsi perdonare gli scherzi, forse per evitare che pastori e i casari, stanchi di esser presi in giro, se ne andassero via, abbandonando gli alpeggi formazzini. Nei racconti di Edith e Ingrid le valanghe, le bufere di neve, i movimenti dei ghiacciai, il sibilare del vento erano ricondotti al mistero delle tante creature fantastiche che vivevano la montagna. Lo scricchiolio dei ghiacciai del Sidel o dei Camosci era interpretato come lamento delle anime. “Sì, perché Edith, alzando l’indice minaccioso, ci ammoniva sul fatto che i ghiacciai fossero il purgatorio dove i defunti scontavano i loro peccati”, dice Walter. “E noi zitti, con il cuore in gola e i brividi lungo la schiena. In fondo, lo capimmo più tardi, la morte, per chi viveva in condizioni così difficili, era una componente non così estranea o distante dalla vita di tutti i giorni”. Oltre alle vicende dei morti, alle loro inquietanti processioni e alle streghe dal brutto carattere, alle sorelle Meier piaceva raccontare la leggenda di un uomo della valle che, per sfuggire alle vessazioni di un signorotto, decise di passare il confine, emigrando in Alta Val Bedretto, a Ronco, dove fu bene accolto al punto da metter su famiglia. Da quell’avvenimento, dicevano le sorelle, discendeva il diritto che veniva riconosciuto alla gente di Ronco di andare a far legna sul territorio di Formazza, in nome di quell’antica discendenza che accomunava le due valli, comprovata anche da alcuni documenti.

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Val Formazza

Ma la leggenda più bella era quella della valle perduta. Te la ricordi, Marco?”, dice Walter. Eccome, se la ricordo. In ogni villaggio walzer sgorga una sorgente d’acqua proveniente dalla valle perduta, la nostra terra d’origine, dove tutto è iniziato. Dai padri ai figli, per generazioni, dalla notte dei tempi si parla di questo luogo meraviglioso. Un vero paradiso, verde d’erba e alberi, ricco di pascoli e boschi, nascosto tra ghiacciai e nevi eterne. Una leggenda che, per molti secoli, ha aiutato la nostra gente ad affrontare asprezze e difficoltà con il miraggio di poter raggiungere un giorno la straordinaria, fertile e mite “valle perduta”. Così, tra un sorso e una scheggia di formaggio stagionato, abbiamo tirato tardi. Fuori la nevicata si è fatta più intensa. E’ ormai buio e attorno alle luci fioche dei lampioni i fiocchi disegnano traiettorie leggere, sospinti dall’aria. Alcuni finiscono sui vetri della casa, disegnando arabeschi di gelo. Viene giù che è un piacere, secca e soffice. Ancora un paio di giorni e mi raggiungerà anche Carla. Nella vecchia casa dei nonni addobberemo l’abete che mi ha regalato Walter. A Natale e a fine anno sarà una festa. Si canterà Stille Nacht, in tedesco. Per chi non ha dimestichezza con la lingua dei vecchi padri, la tradurremo in italiano, nell’Astro del Ciel. Ci augureremo che l’anno nuovo sia migliore di quello che ci lascia. E le fiammelle compariranno sulle finestre, tremolanti. Come un tempo.

Crpiemonte

Il canale Medium ufficiale del Consiglio regionale del #Piemonte, dove raccogliamo notizie e approfondimenti. I video su http://www.crpiemonte.tv

Urbani… il ristorante fatato a Torino

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Scopri – TO  Itinerari e sorprese alla scoperta di Torino

ECCELLENZA TORINESE E … ITALIANA
Entrare da Urbani a Torino non è come entrare in un ristorante qualsiasi, perché il  locale è “un luogo incantato”, come nelle più belle fiabe Disney; le pareti sono adornate da grandi alberi, fiori, fatine, animaletti, macchinine, un mondo dei balocchi affascinante dove sedersi per degustare un ottimo pranzo o una cena lascia esterrefatti grandi e piccini.
Paolo Urbani, nipote di Vittorio, storico titolare che aprì il ristorante nel 1930, ci racconta di quanta passione mise la sua famiglia negli anni per creare quello che oggi è uno dei locali più rinomati di Torino.Alla guida del ristorante troviamo la zia di Paolo, Emanuela Urbani che con grinta e determinazione porta avanti storiche tradizioni.
Tra i piatti principali del locale troviamo piatti tipici e selezionati delle regioni italiane. Tra gli antipasti, i celebri “Antipasti Urbani” con varie degustazioni tra cui l’insalata russa, il parmigiano, i salumi, il vitello tonnato, il tris di antipasti piemontesi, l’albese e gli affettati misti, accompagnati, in alcune occasioni, dall’offerta di una degustazione delle loro particolari pizze. Tra i primi più apprezzati del locale troviamo gli agnolotti al sugo d’arrosto, gli spaghetti alla pugliese, le tagliatelle ai funghi e molti altri che variano in base alle materie prime di stagione. Tra i secondi la loro popolare “Grissinopoli”, una bistecca alla milanese impanata con i tipici grissini piemontesi i Rubatà, poi, l’immancabile brasato al barolo e in alcuni periodi i funghi fritti, immancabile il pesce fresco cucinato al momento e i sorbetti di frutta.
Durante i diversi periodi dell’anno variano non solo i piatti proposti, ma anche l’ambiente e l’arredamento, ad esempio, durante il periodo natalizio, le varie stanze si arricchiscono di luci e particolari addobbi natalizi che rendono il locale ancora più particolare.
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URBANI HA ACCOLTO STAR INTERNAZIONALI
Paolo Urbani ci racconta con orgoglio che  il loro locale era ed è spesso frequentato da molti personaggi pubblici e famosi come, ad esempio, Sandro Pertini, Maria Callas, Walter Chiari, Renato Zero, Paolo Bonolis, tennisti, cantanti e star internazionali come Naomi Campbell,  molti anche i calciatori, tra cui gli indimenticabili, Diego Maradona, Gianluca Vialli che portava sempre con se le sue maglie da regalare  e Zlatan Ibrahimovic che in particolare adora e finisce sempre la forma di parmigiano.
Un simpatico aneddoto che ricorda Paolo Urbani è che spesso erano queste celebrità che chiedevano la foto con il nonno Vittorio e non viceversa, questo a testimonianza di quanto Urbani fosse ed è tutt’ora un’istituzione per Torino.
Alle origini il locale essendo molto vicino alla stazione, oltre a preparare i classici pranzi e cene, preparava anche dei veri i propri “baracchini” (“portavivande” in piemontese) per i viaggiatori così da potersi portare le leccornie in viaggio. Oggi in parte è ancora possibile con l’asporto.
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LA FELICITA’ DEL CLIENTE AL PRIMO POSTO
Ubrani fu il primo ristorante in Italia a rimanere aperto la sera fino a tardi, la loro formula è la stessa dal 1930, Emanuela Urbani ci racconta infatti che se il cliente viene al ristorante è perché ha appetito ed è quindi giusto accoglierlo nei sui tempi, con antipasti, primi e secondi abbondanti e di qualità, perché andare da Ubrani deve essere sempre una grande festa.
Il locale ha sempre portato avanti una ricetta storica, “i rigatoni al brucio” con pomodoro, aglio, basilico, peperoncino e un ingrediente segreto che conservanoormai da generazioni.
Paolo Urbani prevede per i prossimi dieci anni un ristorante ancora più all’avanguardia mantenendo sempre questo stile particolare che lo contraddistingue e tutte le tradizioni di famiglia come quella di accertarsi che il cliente sia davvero soddisfatto ogni qual volta che termina il pasto. In futuro potrebbero anche esserci serate particolari di musica dal vivo dato il talento canoro proprio di Paolo.
Nonostante Torino abbia una clientela molto raffinata Paolo ci dice di essere riuscito a superare l’impossibile, quando una sera, una cliente gli chiese espressamente una carbonara senza uovo! La cucina non si perse d’animo e con assoluta gentilezza accontentò la cliente decisamente soddisfatta.
Il locale è indubbiamente adatto sia alle  famiglie con bambini per l’ampio spazio e l’arredamento fiabesco sia alle coppie per il suo lato romantico e le sue luci calde, ma anche per incontri di lavoro proprio perché in grado di accontentare ogni tipo di palato da quello più raffinato e ricercato a quello più rapido e concreto. Non resta che “provare per credere”.
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NOEMI GARIANO

 

 

 

 

Ecco la video intervista ↘️

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A Grugliasco in arrivo “Tulipani italiani”

 

 

Sta per cominciare l’edizione di Tulipani italiani. I campi di Tulipani italiani si presentano con 1milione di Tulipani, di cui 715 mila amarene, in provincia di Milano, e 495 mila a Grugliasco, in provincia di Torino. Grazie all’affetto dei visitatori anche quest’anno verranno aperti due campi di papaveri con oltre un milione di tulipani piantati. La nuova sfida è quella di aver piantato in piccola quantità nuovi bulbi di Muscari, narcisi, tulipani Kaufmanniana, Fritellaria, iris e allium.

L’avventura è iniziata nel 2017 ha dato tanta esperienza di pubblico che ha incoraggiato nel seguire la volontà di creare luoghi in cui la bellezza e la tranquillità della natura potessero donare momenti felici e spensierati.

“Crediamo molto nei nostri valori e lavoriamo per seguirli ogni anno, sostenibilità, cortesia, flessibilità, amore per la bellezza e la natura. La nostra formula è la semplicità, ci sforziamo di offrire un’esperienza green, lavorando nel rispetto della natura, senza usare diserbanti, insetticidi o fungicidi, affidandoci maggiormente al lavoro degli insetti, delle api, seguendo il corso delle stagioni.

L’apertura dipende dalla temperatura e dalla stagione primaverile. I due campi apriranno verso il 20 marzo, per continuare fino alla fine di aprile. Vi aspettiamo per festeggiare la pasqua passeggiando e raccogliendo bei tulipani. La fioritura durerà sei settimane al massimo. Saremo aperti 7 giorni su 7 dalle 9 alle 19, sabato edomenica dalle 8.30 alle 19.

Ogni giorno i filari nei campi cambieranno. Abbiamo cercato e studiato i diversi bulbi precoci e tardivi per garantire la possibilità di scattare fotografie durante tutta la durata della manifestazione. I filari tipici delle colture olandesi cattureranno lo sguardo con l’alternarsi di sfumature del medesimo colore, simili a veri e propri arcobaleni dati dai tulipani misti. Nello show garden potrete conoscere le diverse varietà di tulipani, divertirvi a ritrovare i nomi e raccoglierli nei filari”.

Il campo di Grugliasco alle porte di Torino è su strada del portone 197, presso l’agriturismo DUC.

 

Mara Martellotta

50 sfumature di Torino

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Scopri – To  ALLA SCOPERTA DI TORINO 
Sua maestà il rosa, colore considerato simbolo di femminilità, trasmette sicurezza, dolcezza e protezione e fa da filo conduttore per numerose esperienze tutte piemontesi.
Interamente rosato è il locale “Roses E Tea”, entrando le pareti sono adornate da grandi rose color rosa con decorazioni dorate che conferiscono all’ambiente armonia e tranquillità, adatto sia per le coppie che per i gruppi, ma anche per bere una tisana in compagnia solo di se stessi.
Nel menù troviamo un’ampia scelta di torte tutte diverse, da quelle più leggere per la colazione a quelle con la panna tipiche dei pomeriggi invernali numerose varianti di cupcakes al cioccolato, alla frutta, alle creme, muffin, biscotti di ogni genere tra cui paste di meliga, baci di dama, pancake per chi è attento alla forma fisica e molto altro. Oltre al dolce vengono proposti numerosi piatti salati a base di salmone, avocado, tutto servito su piatti di ceramica rigorosamente rosati e floreali. Nel menù un’ampia offerta anche di tisane e bevande sia calde che fredde, a base di latte classico o vegetale, servite in grandi teiere dello stesso colore dei piatti.
Roses E Tea non è l’unico locale torinese tinto di rosa, in via XX Settembre troviamo il ristorante “La Pergola Rosa” anch’esso tutto rosato con dei tocchi di marrone che bilanciano perfettamente un colore così delicato. Il menù è tipico piemontese con i plin, le tagliate di fassone, le costolette di agnello, il Montebianco e i cremini torinesi.
Un’altra nota esperienza”rosa” di Torino è la maratona “Just the woman i am”, l’evento nasce a Torino nel 2014 e prevede una corsa-camminata aperta a tutti organ8zzata per raccogliere fondi destinati alla ricerca universitaria sul cancro; si svolge ogni anno nel periodo della festa della Donna, in questi giorni esiste anche la possibilità di effettuare viste di prevenzione e webinar gratuiti per rendere le persone sempre più informate sulla salute. Nel 2024 la manifestazione ha già raggiunto oltre 28.800 donazioni battendo il record di tutte le edizioni edizioni precedenti.
TORINO E IL ROSSO
Un altro colore tipico della città sabauda è “il rosso”, questo colore fa aumentare il battito cardiaco in chi lo osserva, l’aumento del battito cardiaco può essere tradotto dal nostro cervello come eccitazione o come voglia di fuggire, è quindi molto rischioso colorare intere pareti dei locali di color rosso, ma ci sono luoghi che se lo possono permettere perché hanno saputo fare di quel colore il loro punto distintivo. Tra di essi la “Caffetteria Clarissa” di Via Po a due passi dalla Gran Madre. La caffetteria ha un’ampia vetrina spesso decorata a tema stagionale con all’interno numerose torte appena sfornate. Entrando il locale è tutto rosso e bianco, adatto per l’inverno perché dà l’idea di calore e ricorda il Natale, in ogni angolo piccole lucine danno all’ambiente un tocco fatato. Un ampio tavolo vetrato accoglie i golosi con pasticcini e biscotti fragranti, anche senza zucchero, per chi è più attento alla linea. Al piano inferiore ci sono 3 ambienti tutti diversi ma sempre tutti rossi e bianchi, le pareti e i tavoli sono adornati da cuori e lo stesso menù è scritto in un grosso cuore di cartoncino. Clarissa, il nome del locale ma anche della proprietaria che ci racconta che ogni torta nasce con cura e passione. Tra i dolci troviamo la torta con la pasta frolla, la crema pasticcera e le fragole fresche, la meringata, la torta al cioccolato e pere o la morbida cioccolato amaretti e pesche. Tutte da abbinare con tisane profumate. Clarissa ha scelto il colore rosso per le pareti del locale per l’amore che trasmette ed effettivamente numerosissimi sono i clienti che frequentano questo locale non solo per la qualità è la bontà dei prodotti ma anche per la location così particolare e le calde sensazioni che si percepiscono.
TORINO E IL VERDE
Un altro  colore molto particolare per un locale è “il verde”, questo colore trasmette fiducia e aiuta ad aumentare la concentrazione, molto adatto quindi nei luoghi di lavoro o nelle stanze dove si studia. Tutto ciò che richiama il verde e la natura ha sul corpo umano questo effetto, anche guardare un prato o degli alberi fuori dalla finestra. Tra i locali che scelgono questo colore c’è “Avocuddle Cafè” che si trova nella Galleria Umberto I° vicino a Porta Palazzo. Il locale ideato da Giorgia e Luca, due giovani ragazzi appassionati di viaggi e cibo ha la parete più ampia interamente disegnata con foglie di avocado verde smeraldo e lucine colorate, nelle pareti adiacenti molti altri elementi tutti riconducibili alla natura come fiori, vasi o mensole in legno, quest’ultimo un materiale che fa provare apertura e calore in chi lo guarda, molto adatto quindi per qualunque locale di socialità, tipico infatti delle baite di montagna.
Altro locale in tema verde natura è “Share Word” in Piazza Santa Giulia, una piccola caffetteria con piante, alberi e disegni floreali che ricordano un bosco fatato.
Torino ha tantissimi altri locali colorati, ognuno con la sua storia, ogni colore trasmette alla persona che lo guarda determinate sensazioni, proprio come i vestiti… ma questa è un’altra storia.
NOEMI GARIANO

La colomba salata più buona è di Davide Muro

Antica Pasticceria Castino di Pinerolo

Primo premio nel concorso di colombe artigianali Divina Colomba 2024 appena concluso a Bari

È di Davide Muro la migliore colomba salata 2024, primo premio conquistato in occasione del concorso Divina Colomba rivolto ai produttori di colombe artigianali di tutta Italia.

 

Con un impasto arricchito da funghi porcini, salame valsusino fresco di non più di 10 giorni e prezzemolo, Muro ha avuto la meglio sugli altri quattro finalisti, selezionati tra gli oltre 300 iscritti al contest provenienti da circa 200 botteghe artigiane di tutta Italia. La premiazione, avvenuta lunedì 4 marzo a Bari, lo ha visto trionfare insieme a Gianluca Cecere (Cecere Visionary Dessert di Napoli) per la colomba tradizionale e Camillo La Morgia (Crema e Cioccolato di Lanciano in provincia di Chieti) per quella al cioccolato.

A decretare i vincitori dell’edizione 2024 del concorso la giuria tecnica composta da Claudio Gatti, Maurizio Cossu, Daniele Scarpa, Alessandro Bertuzzi, Claudio Colombo e Paolo Caridi, che hanno degustato alla cieca i lievitati finalisti, scegliendo i vincitori per ogni categoria.

 

Negli anni ho sempre voluto mantenere uno stretto legame con gli ingredienti della tradizione – commenta Davide Muro – Questa colomba è figlia della mia storia e del percorso fatto. Siamo partiti dal pesto per poi arrivare, successivamente, al panettone peperoni e acciughe, che esprime in pieno il carattere del Piemonte. Questa nuova preparazione nasce da una fase di equilibrio ritrovato e da una sfida con me stesso in cui ho coinvolto la mia famiglia e i miei collaboratori. Ho cercato di trovare qualcosa che sul territorio nazionale non fosse ancora stato proposto. All’assaggio l’impronta del salame è quella immediata, ma subito dopo arriva la nota dei funghi, in un connubio perfetto. Ci tengo a sottolineare che oltre al premio ho ricevuto il golden buzz da parte di Claudio Gatti: il giudizio di un Maestro della pasticceria italiana è un riconoscimento prestigioso che mi rende davvero orgoglioso. La prossima sfida? Lasciamo spazio alla creatività!

 

Claudio Gatti, Presidente della giuria e autorevole Maestro di pasticceria e lievitati, ha motivato l’assegnazione del golden buzz in diretta “Quel profumo e quel sapore delicato di funghi porcini, il gusto pulito, una colomba molto morbida e delicata. Tutto questo mi ha fatto dire WOW, questa è la migliore colomba salata”.

 

Con questo nuovo riconoscimento la pasticceria pinerolese torna ancora una volta protagonista del panorama nazionale. Per Davide Muro, classe 1981, si tratta di un nuovo titolo che va ad aggiungersi ai numerosi conseguiti dall’Antica Pasticceria Castino in questi ultimi anni, come l’ingresso tra i Maestri del Gusto di Torino e Provincia nel 2021: terzo premio come miglior Panettone tradizionale di scuola piemontese nel 2020 in occasione della IX edizione di Una Mole di Panettoni, dedicato ai migliori grandi lievitati provenienti da tutta Italia; primo premio per il miglior Panettone salato nello stesso concorso, vinto con un lievitato salato con pesto e pomodori secchi, olive taggiasche e parmigiano; finalista nel 2020 nel prestigioso concorso I Maestri del panettone nella categoria Miglior panettone al cioccolato; riconoscimento per la colomba creativa (realizzata con carota e marzapane) a Una mole di Colombe nel 2021; semifinale del Campionato mondiale Panettone World Championship per il panettone classico sempre nel 2021.

 

L’Antica Pasticceria Castino nasce quando Giuseppe Castino insieme alla consorte Margherita Cleretti, discendente di una celebre famiglia di pasticceri, acquista nel 1925 l’antica confetteria Fabbre sorta nel 1845 sotto la parte più antica dei portici di Piazza Duomo, a Pinerolo.

In un clima internazionale, tra giovani ed eleganti ufficiali e nobili famiglie che popolano Pinerolo, la Città della cavalleria, Castino, cresciuto alla scuola di Stratta, Moriondo e Baratti, gode di un’ampia fama che va ben al di là di Pinerolo. In molti lo conoscono come il “Michelangelo del cioccolato”. Abile nella decorazione e innovativo nel preparare una vastissima gamma di leccornie dolci e salate.

Verso gli anni ’30 Castino dà vita a una sua creazione che è diventata insieme al panettone il dolce simbolo di Pinerolo: la Torta Zurigo-Castino.

Dopo un periodo di chiusura la pasticceria riapre il 24 dicembre 2014 su iniziativa della famiglia pinerolese Cosso-Eynard e con la gentile concessione del marchio da parte di Gemma Castino, figlia del Pasticcere fondatore dello storico locale. Boiserie in legno, poltroncine di velluto ed eleganti vetrine ricreano un’atmosfera d’altri tempi.

 

Antica Pasticceria Castino

Piazza San Donato, 42

Pinerolo (TO)

https://anticapasticceriacastino.it

Quando l’ambiente fa male

La maggior parte di noi è solita attribuire le cause di una patologia, o di una sindrome, ad un batterio o un virus, al cibo indigesto, al freddo o a cause “tradizionali”; pochi pensano che l’ambiente in cui vivono possa in qualche modo essere responsabile o co-responsabile di quanto ci stia accadendo.

Da anni si è capito che lo stress, quello cattivo o distress, è in grado di indebolire il nostro sistema immunitario spianando la strada ad alcune patologie, promuovendo l’ipercloridria (produzione eccessiva di acido cloridrico nello stomaco), l’insonnia, la dispepsia (cattiva digestione) e così via.

Solo in tempi più recenti, invece, si è cominciato ad attribuire una enorme importanza alla relazione tra ambiente e genesi delle patologie; non arriveremo a parlare di epigenetica perché dovremmo parlare di DNA, istoni e mRna, ma tratterò l’aspetto sociale ed ambientale nell’insorgenza delle patologie.

Per ambiente si intendono numerosi fattori: non soltanto acqua e aria ma anche rumore, stress, relazioni con il prossimo, rapporto fra ore di luce e di buio, clima, meteo, attività fisica e altro ancora.

Sicuramente vivere in una latitudine dove per 6 mesi ogni anno vivi al buio crea enormi disfunzioni nella sintesi della vitamina D, con gravi problemi di accrescimento osseo e, per le donne in menopausa, di osteoporosi; se vivo in una metropoli dove non si hanno mai ore di totale silenzio i problemi saranno di altro genere e così via per ogni situazione che possa minare l’organismo umano; ovviamente non siamo tutti uguali, e ciò che può danneggiare una persona può risultare totalmente innocuo per un’altra.

Come sostengo spesso, l’individuo va visto nella sua totalità ma considerando la sua unicità: qualcuno necessita di almeno 8 ore di sonno, qualcun altro con 5 ore si sveglia riposato, qualcuno ha il risveglio tragico mentre altri appena svegli potrebbero correre la maratona ma dopo cena si spengono velocemente.

Come evitare, o almeno attenuare, quindi i danni? Evitando coraggiosamente tutti gli ambienti in cui non ci sentiamo a nostro agio, che provocano in noi reazioni di qualsiasi natura (cambio di abitudini intestinali piuttosto che sessuali, intolleranza ad alcuni cibi piuttosto che esantemi diffusi, irascibilità, tic nervosi) e controllo periodico almeno dei valori ematici.

Scherzando, dico che “Tutti siamo immortali fino a prova contraria”: il problema è che spesso la prova si preannunciavelatamente ma non la riconosciamo; quanti di voi, in assenza di sintomi palesi, effettua esami del sangue o dell’urina periodicamente?  E mammografia/PapTest per le donne? PSA per gli uomini? Saltuariamente controllate la pressione arteriosa ed il peso? Considerate che, escludendo alcune zone della penisola, viviamo in un Paese ricco di industrie e centrali termoelettriche, dove l’agricoltura e la zootecnia ricorrono sempre più a fertilizzanti e mangimi chimici, dove i ritmi di vita (per lavoro e per svago) sono lontani da quelli ideali e dove molti medici prescrivono farmaci per curare i danni prodotti da altri farmaci, limitandosi a curare i sintomi anziché rimuovere la causa.

Le soluzioni possibili sono tre: la prima è cambiare totalmente ambiente ma pochissimi sono in grado, economicamente e culturalmente, di farlo; le altre due soluzioni, che viaggiano affiancate, sono da un lato la prevenzione, adottando uno stile ed una filosofia di vita più adatto a noi, eliminando ogni possibile situazione o abitudine che possano nuocerci e, al tempo stesso, monitorando periodicamente la nostra salute.  Chi non abbia nozioni anche elementari di medicina sarà portato a non riconoscere in alcuni cambiamenti del nostro organismo il campanello d’allarme verso il nostro stile di vita, inclusi lavoro, relazione affettiva, situazione economica, liti condominiali, ecc.

Sun Tsu, stratega cinese del V sec. a.C., sosteneva che bisogna combattere soltanto le battaglie che siamo sicuri di vincere; con ciò è implicito che bisogna avere l’umiltà di ammettere che in alcuni casi potremmo riportare sconfitte clamorose. Se noi pensiamo di combattere contro i mulini a vento rappresentati dal condominio o dalla politica attuale, dall’ordinamento scolastico o dalla malasanità e ci limitiamo a lamentarci o incamerare astio, siamo i candidati giusti ad un’infinità di patologie psicosomatiche causate proprio dall’ambiente in cui viviamo.

Se le accettiamo o, ancor meglio, ce le facciamo scivolare addosso limitandoci a fare ciò che è realmente in nostro potere cercando di incanalare le energie verso qualcosa di realmente modificabile, ecco che il nostro organismo, come per miracolo, vivrà meglio in quello stesso ambiente che prima poteva esserci ostile.

Con questo non sto dicendo di praticare l’atarassia, che è tipica della schizofrenia, ma piuttosto di concentrarci su ciò che è davvero importante e il nostro organismo, non subito, non all’improvviso ma sicuramente, non ci invierà più quei segnali di SOS generati dalla nostra interazione con l’ambiente. E’ assodato che le patologie psicosomatiche, ovvero quelle che, generate dalla psiche, si manifestano con sintomi fisici sono in aumento e non certo per l’evoluzione della specie quanto, piuttosto, per il diffondersi di uno stile di vita sempre meno a misura di uomo e per l’incapacità di questo di fronteggiare gli attacchi di ogni genere che quotidianamente lo colpiscono.

L’organismo umano ha la capacità di adattarsi, ma solo nel lungo tempo; nel giro di pochi decenni abbiamo creato un ambiente ostile senza dare il tempo all’organismo di adattarsi: onde elettromagnetiche, stimoli visivi e mentali continui, aumento della sedentarietà sono solo alcuni esempi.

Nei miei seminari insegno (anche) proprio a gestire le emozioni, ad avere consapevolezza di quali messaggi ci stia inviando il corpo e, ancora più importante, cambiare l’approccio ai problemi.

Cosa vi costa provare, anziché demordere subito con mille scuse? E, soprattutto, ricordate: non c’è limite al peggio.

Sergio Motta

sergiomotta.net

Alle Gru c’è il “mondo delle donne”

Da venerdì 8 a domenica 10 marzo
dalle 10 alle 19 Piazza Sud

WOMEN’S WORLD
Un percorso dedicato alle donne
Salute, inclusività, sociale, cultura e servizi

La Giornata internazionale della donna celebra i progressi in ambito economico, politico e culturale raggiunti dalle donne in tutto il mondo. Questo riconoscimento si basa su un principio universale che prescinde da divisioni, siano esse etniche, linguistiche, culturali, economiche o politiche e proprio in questo senso Le Gru propone quest’anno un vero e proprio percorso per approfondire occasioni e temi che sono alla base di un nuovo modo di concepire il ruolo e la partecipazione dell’universo femminile alla società attuale.

Per celebrare con nuova consapevolezza a Le Gru dall’8 al 10 marzo dalle 10 alle 19, nei nuovi spazi di Piazza Sud e con accesso libero, verrà allestito un vero e proprio percorso per le donne con punti informativi e corner per approfondire le tante tematiche al centro dell’attenzione di ognuna: dalla salute al sociale, dal lavoro alla cultura, per essere consapevoli e avere accesso a quello che il territorio offre alle donne. Il percorso si completa con una serie di servizi al femminile offerti da alcuni punti vendita del Centro.

A cura di ANDOS Associazione nazionale donne operate al seno sarà presente un corner per la sensibilizzazione alla prevenzione, informazione sugli stili di vita e prenotazione screening mammografico del colon e della cervice in collaborazione con Prevenzione Serena, perché una donna informata è una donna consapevole delle proprie scelte.
Al centro del percorso dedicato alle donne a Le Gru anche il tema dell’inclusività: in collaborazione con Arci Centro Donna sarà presente a Le Gru un corner per offrire supporto sui grandi temi come accoglienza, ascolto, sostegno psicologico, consulenze legali e di orientamento al lavoro, supporto alle donne straniere, sostegno antiviolenza e contro lo stalking.

Accanto a salute, inclusione e lavoro lo sguardo si allarga al mondo della cultura, sempre al centro del concetto di “benessere” promosso dal mall di Grugliasco: sarà presente anche Turismo Torino e Provincia con informazioni su percorsi, pacchetti, occasioni di visita nel segno della storia, dell’enogastronomia e dello sport, tutti declinati al femminile.

All’appello per la Giornata Internazionale delle Donne aderiscono naturalmente anche i retailer di Le Gru con tante occasioni di benessere e coccole. Fra le proposte da sperimentare non mancano i trattamenti mani e la diagnosi della pelle del viso gratuita proposti da L’Occitane en Provence e le irrinunciabili consulenze di make up e skin care proposte da Kiko Milano. Anche la Farmacia I Gelsi metterà a disposizione la sua competenza, così come le esperte di EPIlate offriranno piccoli trattamenti come peeling e consulenze per avere una pelle curata e perfetta, mentre il personale del Centro offrirà alle partecipanti gadget e campioncini di altri punti vendita.

La vecchia Legnano nera dello Stìvanin

“Ero un grimpeur coi fiocchi, uno scalatore nato. Facevo ancheggiare la Legnano meglio di una donna sui tacchi. Salvo che potevano capitare gli incidenti. Ricordo ancora quel martedì che, appena sfornate le michette, ho fatto il pieno alla gerla e sono partito come un fulmine verso la “cima Coppi”

Una vecchia Legnano nera, con la sella in cuoio vecchissima, consumata. Stava lì, appoggiata al muro, appena dietro la porta del locale dove Stìvanin teneva gli attrezzi. “Guarda che roba! E’ un modello del 1938, ancora perfettamente funzionante perché, di tanto in tanto, tolgo la ruggine, gonfio le camere d’aria, ingrasso la catena e gli faccio tutti quei lavoretti come se fosse ancora il tempo in cui la inforcavo e pedalavo via come il vento”. Stefano Ombrini, detto “Stìvanin” per la sua scarsa altezza, era stato – in gioventù- garzone della panetteria “Bruschini”. Erano gli anni in cui, inforcando la Legnano andava via svelto di pedalata per fare il giro delle consegne. La guerra era finita da qualche anno ma erano ancora freschi i ricordi di quegli anni duri e l’odore della miseria se lo sentiva ancora addosso. Così, a diciott’anni, pedalava tra le strade strette di Baveno e Feriolo, Stresa e Campino, Levo, Gignese quasi fossero, quelle dei paesi tra il lago Maggiore e il Mottarone, le strade del Giro e del Tour. ” Mi immedesimavo nelle imprese del campionissino, del grande Fausto Coppi. Imboccavo le salire, alzandomi sui pedali immaginando fughe epiche sulle Dolomiti, il Galibier, l’Izoard, lo Stelvio o l’Alpe d’Huez. Spingevo come un matto, rosso in faccia per lo sforzo tremendo. Spingevo perché sentivo sul collo in fiato immaginario  di Gino BartaliLouison Bobet, Hugo Koblet, Fiorenzo Magni, Rik Van Steenbergen“. Da come mi racconta immagino che fosse un mago del “fuorisella” , tecnica che consiste – appunto – nel pedalare in piedi sui pedali con il solo appoggio delle mani sul manubrio, senza appoggiare il sedere sulla sella. E lui, quasi mi avesse letto nel pensiero, lo conferma con entusiasmo.

Altrochè. Ero un grimpeur coi fiocchi, uno scalatore nato. Facevo ancheggiare la Legnano meglio di una donna sui tacchi. Salvo che potevano capitare gli incidenti. Ricordo ancora quel martedì che, appena sfornate le michette, ho fatto il pieno alla gerla e sono partito come un fulmine verso la “cima Coppi”. Dovevo salire fino a Campino per portare il pane al negozio di alimentari del Cecco. Ogni tanto capitava  che il vecchio fornaio di Stresa, l’Ubaldo Rigamonti, stesse poco bene e toccava a noi supplire con rosette, bastoni, ciabattine, biove e michette calde di forno. Quella era una delle volte che bisognava, appunto, fare il “pieno” e pedalare. Era poco prima dell’alba e faceva un freddo cane. Non era ancora nevicato, nonostante fossimo a metà dicembre, ma l’aria che scendeva giù dalle vette del Mottarone e del monte Zughero, non prometteva nulla di buono. Anche il Bruschini mi aveva intimato di coprirmi bene perché quella mattina l’era ben brusca la limonata. Ed io, infilata una vecchia copia del Tuttosport sotto la maglia, per riparare lo stomaco dall’aria gelida, sono partito per l’impresa. Vuoi per colpa della lingua di ghiaccio che si era formata sul curvone di Loita, all’altezza della Madonna delle Neve, vuoi perché sbilanciato nel fuoriselle, sta di fatto che sono finito nella cunetta lungo e tirato. Dal gerlo il pane si è rovesciato sulla strada e, per svelto che sono stato a rimettermi in piedi, una buona metà era andato a ramengo. Così, con ginocchia,gomiti e mento scorticati e doloranti, ho consegnato quel che m’era rimasto e, tornato dal Bruschini, mi sono guadagnato – per la paga – un bel calcio nel didietro “. Comunque, dopo il tirocinio, lo Stìvanin è diventato un panettiere provetto. E quando il Bruschini,  ormai vecchio, decise di ritirarsi non avendo nessuno dei figli una gran voglia di iniziare a lavorare alle tre del mattino affinché il pane fosse pronto per le sette, rilevò lui il forno.

Furono anni di rinunce e sacrifici, dei quali oggi mi parla con orgoglio anche se, immagino, a quel tempo erano pensieri e fatiche che gli rubavano il giorno e la notte. Si è fatto le ossa al punto da conoscere ogni segreto dell’arte del fornaio. Qualche tempo fa mi ha spiegato che , fino al 1800, l’impasto del pane veniva fatto a mano. Poi, ai primi del ‘900, comparvero le prime impastatrici meccaniche, a scapito dei vecchi mulini, e incominciarono a essere utilizzati forni sempre più moderni e lieviti speciali per la panificazione. ” Il panettiere – mi dice “mastro” Ombrini – deve essere in grado di riconoscere i vari tipi di farina, lievito, uova fresche. Deve conoscere gli ingredienti degli impasti da realizzare (pasta lievitata, sfoglia, frolla e così via), i diversi tempi di lievitazione e di cottura. Deve sapere utilizzare correttamente sia l’impastatrice che il forno e dev’essere in grado di farsi da solo tutte quelle piccole modifiche e manutenzioni che necessitano. Siamo un po’ cuochi e un po’ meccanici, noi prestinèe.  Una volta , noi “nati nella farina”, eravamo pulitissimi ma oggi questo non basta più: devi conoscere a menadito la normativa igienico-sanitaria del settore ed anche essere un po’ ragionieri. Non come te, che lo facevi di mestiere giù in banca, ma almeno avere le basi per gestire la contabilità“. Ho imparato da lui che non bisogna mai mettere il pane capovolto a tavola perché è un atto di maleducazione, quasi un gesto che può “portare male“. Per farmi capire il significato è risalito all’inizio del XV secolo. In quel tempo il re di Francia, Carlo VII, aveva sancito una tassa in natura a favore del boia. Il pane che gli veniva destinato dai panettieri veniva posto sul bancone rovesciato, in modo che fosse ben evidente la destinazione.

Da quando è in pensione ed ha ceduto a sua volta l’attività, mi confida preoccupazioni e lamentele. “Caro mio, la realtà si è fatta dura. Hai presente quella pubblicità del Mulino Bianco? Sì, dai:  quella con i panettieri sorridenti sulle biciclette e la bimba che racconta di aver fatto un sogno bellissimo? Ecco. Scordatela. Adesso, con i prezzi che vanno su che è un piacere  siamo  all´allarme pagnotta, e c’è gente che guarda al panettiere come fosse diventato un farmacista. Sai cosa significa? Che il chilo di pane costa una cifra e che i consumi , in pochi ani, sono diminuiti del 25 per cento. Ti rendi conto? Un quarto in meno. Una bella botta, eh?”. Nonostante non sia più lui a sfornarlo si lamenta che di pane se ne vende sempre meno. Dice che la colpa è delle diete e di quei prodotti già belli e confezionati che hanno preso il sopravvento su filoni e michette. Ma ci sta anche il fatto che la gente sta attenta a comprare rosette e pagnotte. Perché oramai non si può più buttare niente. E se il pane è diventato prezioso è diventato raro anche il mestiere del panettiere. “Che nessuno vuol più fare“,si lamenta Stìvanin. “Troppo faticoso e sempre di notte. L´arte bianca sta scomparendo. Ed è un peccato“. Mi parla e scuote la testa. Mi parla e, intanto, con uno straccio, lucida la “canna” della Legnano. E’ un movimento lento, quasi una carezza. Gli darei un soldo per conoscere io i suoi pensieri. E forse scoprirei che sta ascoltando la voce radiofonica di Mario Ferretti: “Un uomo solo è al comando. Ha la maglia biancoceleste della Bianchi. Il suo nome è Fausto Coppi“. Lucida la bici e ripensa a quando anche lui, da giovane, macinava le salite. Però il  “ragazzo secco come un osso di prosciutto” è morto di malaria il due gennaio del 1960. Ed il fornaio-ciclista Stìvanin non è più né l’una né l’altra cosa. E vive di ricordi.

 

Marco Travaglini