LIFESTYLE- Pagina 35

Le impercettibili rotte delle mongolfiere sul Verbano

Non avrei mai pensato, pur essendo dotato di buona fantasia, di subire con tanta forza il fascino del volo. Per di più su una mongolfiera per galleggiare nel cielo che sovrasta il lago Maggiore. Ero emozionato come un bambino. Il giorno prima della partenza avevamo controllato le previsioni meteorologiche. La mongolfiera non può staccarsi da terra in presenza di pioggia, temporali, vento troppo forte o gran caldo. Ma il tempo volgeva al bello. Il mio amico, pilota esperto, studiò i venti in quota e le loro direzioni per sfruttarne le correnti. Non vi dico che sensazione che provai quando ci staccammo da terra e iniziò l’ascensione. Il rumore del bruciatore, una fiammata e quasi non ci rendemmo conto di essere già in volo. In meno di un quarto d’ora l’altimetro segnava 3600 piedi. Stavamo  viaggiando a poco più di mille metri d’altezza. La magia di volare era indescrivibile. Il panorama era completo, vario, mobile. Il lago pareva una creatura viva. La nostra ombra, in basso, sfiorava l’acqua e le terre che la circondano. Da quassù le cose mutavano forma: i profili dei monti, il reticolo delle strade, le strutture di case e piazze, i corsi d’acqua, i battelli, la ferrovia. Era davvero un altro punto di vista, una visione diversa del  mondo. Ero eccitato. Come su una mappa in rilievo vedevamo i laghi d’Orta e di Mergozzo, il lungo fondovalle ossolano, la corona delle alpi Pennine e Lepontine. Ma erano i colori del lago, le increspature dell’acqua mossa dalla brezza di superficie, a provocare una vera e propria vertigine. Navigavamo nell’aria con traiettorie che lasciavano tracce impercettibili e sotto di noi non c’era angolo che non contribuisse a comporre la grande suggestione del paesaggio. Anche il tempo volava ed era giunto in momento di tornare con i piedi per terra e nel cuore la gioia intensa per questo memorabile viaggio.

Marco Travaglini

Itinerario di Ferragosto tra ristoranti di mare e città

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

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Quest’anno dopo tanti anni passerò il Ferragosto a Torino perché di ritorno  da un incontro ormai  tradizionale a Bardonecchia dove vado la vigilia di  ogni Ferragosto, non voglio spingermi nel traffico delle autostrade per tornare al mare. Non credo che troverò la città deserta come nel lontano passato. E non è certo perché Torino sia diventata una città turistica. Per trovare un ristorante di qualità aperto ho dovuto prenotare a Pino Torinese, dove c’è una terrazza di straordinaria bellezza con cibi squisiti e accoglienza cordiale e professionale. Le sere d’estate era e resta un punto di ritrovo non di scontati vip torinesi ma di gente per bene, professionisti, docenti, imprenditori. Un ex ambasciatore mio amico vi  portava a cena le giovani amiche, affascinate dal suo fascino guerriero. A Torino i ristoranti  sono quasi tutti chiusi per ferie forse  anche perché i turisti si portano il panino imbottito. Nel Ponente ligure ho un po’ scorrazzato in questo ultimo mese  perché quasi ogni sera sul mare o nell’entrorerra  ho cenato fuori di casa da quando un vicino  mi ha di fatto costretto, almeno momentaneamente, a smantellare il mio terrazzo fiorito  dove invitavo gli amici.  Finora tra i nuovi e vecchi locali dove sono stato non ho trovato un posto che mi piaccia in modo particolare. Sono stato in una bellissima location alassina con vista mozzafiato sulla Gallinara. Purtroppo la qualità del cibo si è rivelata deludente e il servizio lentissimo. La ripida discesa per scendere al parcheggio era gravemente insicura. Basterebbe questo particolare per non replicare. Anche a Sanremo non ho trovato di meglio. Il mitico “  Rendez – vous” e il “Pesce d’oro” non hanno trovato degni sostituti.
Anche a Finale, se escludiamo un mitico locale di Varigotti, non ho trovato di meglio. La mia compianta amica, la scrittrice Giusy Audiberti,   si troverebbe a  disagio, lei che invitava sempre in posti belli e buoni. Anche a Savona un celebre locale noto a tanti torinesi per il nome non proprio invitante, ha cambiato del tutto ed è diventato deludente. I posti dove andavo con il mio amico partigiano autonomo –  specie ormai quasi estinta in Liguria – Lelio Speranza non ci sono più o sono gestiti in malo modo. Anche il mitico ristorante sul mare di Bordighera a pochi passi da Sant’Ampelio, ha preso ormai da tanti anni la strada della perdizione. Prezzi alti e cibi mediocri sono le caratteristiche quasi standardizzate di un’offerta gastronomica appiattita sulla banalità. Ho il sospetto che con la scusa del pesce abbattuto finisca di prevalere il pesce  scongelat. In un locale di Albenga ho avuto la nettissima sensazione di aver mangiato una gommosa coda di rospo non proprio fresca … Nel dubbio fondato non sono più andato in quel locale. In un carugio  del  Ponente ho visto due contenitori di “olio“ di frittura sospetto che forse i NAS  sanzionerebbero. La vecchia trattoria di Cisano sul Neva dove andavo con Sergio Pininfarina ha mantenuto qualità e prezzi che sono il blasone della famiglia Priano. Sono stato anche a Perinaldo, a Dolceaqua  e alla Mortola, ma le cene sono state deludenti. Ho sempre amato molto andare a cena fuori casa con gli amici che in parte  purtroppo non ci sono più. Andare a cena con Soldati o con Olivetti,  con Ronchey o con Casalegno era un’occasione per ritemprare il fisico e l’intelletto. Per non dire delle cene da “Armando al Pantheon“, dal ”Bolognese” e da Cesaretto dove cenai con Pannunzio, Flaiano e Maccari. Era il 1967.
ristorante
A volte nelle cene  c’erano anche amici, spesso giornalisti, che era meglio perdere che trovare: ti  invitavano, ma poi si facevano pagare la cena. Per un certo periodo sono stato assiduo cliente di un buon ristorantino di corso Matteotti; dovetti desistere perché il titolare mi chiese 30mila euro in prestito e mi telefonò parecchie volte fino ad obbligarmi a bloccare il suo telefono. Sulla collina torinese esistevano molti locali non tutti buoni, ma alcuni più che discreti. Anche la collina è oggi desertificata. Erano locali piacevoli non solo in estate. Anche il ristorante celebre per i tanti antipasti ha chiuso dopo un periodo di crisi comatosa per non parlare della “Fontana dei Francesi“ che era già da evitare negli anni 80 del secolo scorso. Ho scritto in passato un articolo in cui ricordavo tutti i locali torinesi dove ero stato, chiusi da tempo. Erano locali importanti, direi storici. E’ rimasto solo il “Cambio”, il locale storico per eccellenza in cui lo stile lasciato dal suo proprietaria comm.  Parandero resta un elemento della sua storia multisecolare. Tutto sommato, a Ferragosto, parlare di ristoranti anche non buoni è sempre meglio che ridursi a litigare su Gaza o su Putin. Anche una pizza è meglio. Per alcuni anni, transitando da Bordighera alla casa di   campagna di Almese mi fermavo a pranzare ogni Ferragosto alla Locanda della Posta  di Cavour quand’era ancora il ristorante dei Grassoni. Ogni volta mangiavo funghi reali in insalata, funghi fritti e fonduta con i primi tartufi. Oggi, in primis  le condizioni climatiche lo impedirebbero: verrebbe anche considerato un lusso sfrenato mentre quei pranzi erano alla portata di un universitario. Buon Ferragosto!

Fuga dalle città

Se confrontiamo i residenti di Torino di dieci anni fa con quelli attuali, salta subito all’occhio come la popolazione sia diminuita notevolmente a causa dell’emigrazione verso i Comuni della provincia (o della Città metropolitana).

Nel 1951, all’inizio dell’immigrazione dal sud Italia, Torino aveva719.000 residenti, per giungere nel 1974 alla cifra di 1.203.000 residenti. Da allora tale numero è andato via via calando per arrivare alla fine del 1° decennio di questo secolo a poco più di 910 mila, scendendo ancora fino alla cifra di 840 mila dell’inizio di quest’anno.

Va notato che Milano, a contrario, pur avendo subito un calo nel periodo post boom economico questo non è stato così marcato e, anzi, per i prossimi 15 anni è previsto un aumento dei residenti.

Considerando che l’immigrazione da altri Paesi si attesta soprattutto nelle grandi città per ovvie ragioni di occupazione, scuola, ecc. è evidente che questa emorragia di popolazione abbia cause ben precise che non solo non sono risolte, ma non accennano a migliorare.

In un’intervista formulata a cittadini migrati da Torino verso la valle di Susa, il Canavese, la valle di Lanzo e l’astigiano, è emerso come la molla che li ha spinti a migrare sia stato soprattutto il costo degli appartamenti, spesso insostenibile per le famiglie monoreddito o numerose.

Un secondo motivo è sicuramente legato alla percezione di insicurezza che il nostro capoluogo ha come triste primato: minigang anche nelle zone auliche della città, clochard talvolta fastidiosi e desertificazione delle attività commerciali rendono sgradevole girare, specie nelle ore notturne, particolarmente per le donne, per chi sia solo o per i più giovani e gli anziani.

La scarsa pulizia delle strade e la difficoltà di trovare un parcheggio sono soltanto due degli altri motivi che hanno spinto i torinesi a migrare.

Per contro, è ovvio, chi ha deciso di migrare si trova a dover affrontare problemi di altro tipo: difficoltà di trasporto, specie da Canavese e valle di Lanzo, insufficiente offerta sanitaria perché gli ospedali sono pochi e sottodimensionati, traffico intenso specie su alcune direttrici.

Se da un lato è opportuno, anzi necessario, farsi due conti razionalmente e capire cosa andiamo a guadagnare a fronte di ciò che peggiorerà, dall’altro gli Enti locali devono valutare bene il fenomeno e capire come evitare disagi, anche gravi, caricando troppo un ospedale e svuotandone altri, intasando successivamente alcune strade.

I Comuni, come Torino, i cui investimenti in sicurezza, pulizia etrasporti non conseguono gli obiettivi desiderati, devono aver ben presente che meno spenderanno meno introiteranno, perché molti cittadini migreranno in altri Comuni riducendo sempre più il gettito fiscale.

L’incapacità gestionale di alcune Amministrazioni locali ha come unico risultato il peggioramento ulteriore del bilancio comunale, con il rischio di arrivare al default; basta, infatti, un evento imprevisto e il commissariamento è alle porte.

Basterebbe intervistare i propri cittadini, analizzare il trend degli ultimi 20 anni e capire non solo cosa sia successo e cosa stia succedendo, ma anche come intervenire finché si è in tempo.

Oppure? Continuare a svuotare la città.

Sergio MOTTA

Miradolo, caccia al tesoro di ferragosto e merenda sinoira

Una giornata di giochi e scoperte, a Ferragosto, per conoscere, divertendosi, il parco storico del Castello di Miradolo (TO). La caccia al tesoro è indicata per famiglie con bambini dai 4 ai 10 anni di età.

Per il pranzo, è possibile fare un pic-nic goloso nel parco con i cesti dell’Antica Pasticceria Castino di Pinerolo e dalle ore 18.30 la merenda sinoira al Castello: un percorso di piccoli assaggi che raccontano il territorio, da gustare nella suggestiva corte interna del Castello.

La merenda prevede: insalata russa, vitello tonnato, tomino del Talucco, zucchine in carpione, acciughe al verde, carne cruda di fassona piemontese, ravioli di carne, bonet piemontese. Acqua aromatizzata, 1 calice di nebbiolo.

INFO

Castello di Miradolo, via Cardonata 2, San Secondo di Pinerolo (TO)

Venerdì 15 agosto, dalle ore 12.30

Pic-nic sul prato

Costo: 16 euro cesto adulti, 10 euro cesto bimbi

Venerdì 15 agosto, dalle ore 14

Caccia al tesoro nel parco

Costo: 7 euro, comprensivo di attività

Venerdì 15 agosto, dalle ore 18.30

Merenda sinoira al castello

Costo: 35 euro, comprensivo di merenda e ingresso al parco (30 euro early bird fino al 10 agosto)

Prenotazione obbligatoria al n. 0121 502761 e-mail prenotazioni@fondazionecosso.it

www.fondazionecosso.com

 

Spaghetti di Baviera

Quanti di noi, recandosi all’estero per lavoro o in vacanza, assaggiano i cibi e le bevande tipiche, magari ottenuti da cibi e sostanze a noi sconosciute?

Vi sono due scuole di pensiero al riguardo: una sostiene che sia corretto, e culturalmente preferibile, assaggiare i cibi tipici, come pure sforzarsi di imparare almeno i saluti nella lingua locale (o, perlomeno, parlata in loco) per apprendere la cultura del Paese che ci ospita; una seconda scuola ritiene che se non sappiamo cosa contengano i piatti locali, come siano cucinati e come abbinarli sia meglio cercare di procurarsi i piatti che conosciamo.

Inutile dire che io abbraccio sine conditio la prima filosofia: in Marocco ho assaggiato il cammello, in Turchia i panzerotti di montone conditi con kefir, in Romania a colazione la ciorbă de legume, una minestra di verdure condita con panna acida, e in Albania, sempre nella prima colazione in un mengjezore, ho mangiato testina di vitello marinata con riso pilaf accompagnati da vino rosso, nella Repubblica Dominicana ho mangiato presso una famiglia indigena nel parco nazionale del Este e così via nei vari Paesi del mondo in cui sono stato.

Personalmente, poiché ritengo che se viaggio per piacere e, dunque, ho scelto io di farlo, è perché voglio conoscere i luoghi, la cultura locale e, con essa, la cucina, la musica, i balli, gli abiti, la religione e molto altro.

Se poi ci si vanta di aver viaggiato nei Caraibi senza essere mai usciti dal villaggio, dove ci hanno scaricati col bus proveniente dall’aeroporto, allora forse è meglio non raccontare nulla delle vacanze; se, invece, si resta nel villaggio il tempo necessario a dormire ma si vuole conoscere tutto (o quasi) del posto in cui ci si trova, allora ecco che si potranno cercare i ristoranti locali, ci si documenterà prima di partire, chiederemo all’agenzia di viaggio o sul web e poi si deciderà con cognizione di causa.

Non è detto che i cibi che assaggeremo, la musica che ascolteremo o i profumi che sentiremo ci entusiasmino, ma almeno potremo parlare dopo aver provato, avendo sperimentato anziché farsi condizionare dai pregiudizi.

Anni fa, in un viaggio per i mercatini di Natale a Innsbruck, due mie vicine di autobus stavano decidendo dove andare a pranzo una volta giunte a destinazione; fortuna (loro) volle che proprio dove il bus ci scaricò ci fosse un ristorante che serviva cannelloni di magro, lasagne alla bolognese e altre specialità italiane; io ed i miei amici preferimmo un chiosco dove ordinammo brezeln salati, wurstel e crauti, birra per concludere con una fetta di apfelstrudel.

Terminato il viaggio risalimmo sul bus e, curioso di conoscere l’esperienza delle mie vicine, chiesi loro come fosse andato il pranzo: candidamente, una di loro rispose che avevano trovato un ristorante italiano (e già lo sapevo…) dove avevano ordinato cannelloni di magro ma che non erano rimaste soddisfatte perché poco gustosi e, forse, neppure freschissimi; aggiunsero che non avevano niente a che vedere con quelli che mangiavano a Torino.

Per educazione non dissi cosa pensavo.

Lo stesso vale per quanti vengono nel nostro Paese e ordinano chele di granchio fritte accompagnate da cappuccino oppure spaghetti alla carbonara bevendo latte. Forse non hanno osato chiedere consigli, forse non sanno abbinare correttamente cibi e bevande, fatto sta che perdono alcuni aspetti importanti della cultura di un Paese, il nostro nel caso specifico.

Un amico, spesso in Senegal, raccontava che quel Paese era uno dei pochi in Africa dove si cucinava, perché gli altri si limitavano a cuocere i cibi; non sono in grado di avvalorare o confutare questa sua tesi, ma avendo mangiato spesso a casa di nigeriani, etiopi, somali o senegalesi posso dire che sicuramente hanno nei confronti della cucina un approccio diverso rispetto al nostro. Forse mangiano per vivere, mentre noi viviamo per mangiare. La compagna finlandese di un mio amico potrebbe vivere a minestrina e hamburger ogni giorno senza sentire la necessità di variare.

Quello che, però, rovina alcuni di noi è l’attaccamento morboso per le nostre tradizioni, forse sarebbe meglio chiamarle abitudini, al punto di ritenerle le migliori, le uniche accettabili e degne di essere mantenute, senza pensare che i popoli che hanno conquistato il nostro Paese si sono convertiti alla nostra cucina tradizionale e non il contrario, che le influenze arabe, catalane, francesi, tedesche, greche e slave hanno lasciato nella nostra cultura culinaria solo tracce perché gli invasori hanno mutuato le tradizioni presenti facendole loro.

Dunque, perché non provare ciò che i Paesi offrono a tavola? Potremmo scoprire che anche i cibi più insoliti rispecchiano i nostri gusti o, addirittura, che li preferiamo. Spero di andare presto in Vietnam; un amico che vi è stato ha assaggiato le tarantole femmina, preferibili ai maschi per la presenza delle uova gustosissime. Se avesse ragione?  Se non resterò soddisfatto non ripeterò l’esperienza. 

Sergio Motta

Estate al Giardino Botanico Rea

Cultura, natura e comunità nel cuore della Val Sangone
Il Giardino Botanico Rea di Trana – bene regionale e punto di riferimento per la biodiversità vegetale in Piemonte – si prepara a un’estate di iniziative culturali e divulgative pensate per valorizzare il patrimonio naturale e sociale che custodisce da decenni.

Trana,  agosto 2025 – Con oltre 2000 specie, varietà e cultivar provenienti dal Piemonte, dall’Italia e da ogni parte del mondo, il Giardino Rea non è solo uno spazio verde: è un archivio vivo di studio, conservazione e conoscenza del mondo della biodiversità. E in un momento storico in cui il rapporto tra uomo e natura va ripensato alle radici, questo luogo diventa anche un presidio culturale, ambientale e identitario per l’intera comunità della Val Sangone. In quest’ottica, la Regione Piemonte e il Comune di Trana, in collaborazione con numerose associazioni locali, propongono un ricco calendario di eventi estivi che accompagneranno il pubblico fino all’inizio dell’autunno.

Si tratta di attività pensate per tutti – adulti, famiglie, bambini, appassionati e semplici visitatori – con l’obiettivo di far conoscere, attraversare e “abitare” il Giardino come spazio pubblico di cultura, bellezza e relazione.

Tra gli appuntamenti principali:

19 agosto, ore 15.30: Letture in giardino a cura di Sergio Vigna, per riscoprire la parola scritta immersi nella natura.
28 agosto, ore 21:00: per la serie Real Cinema  Proiezione di “Wild”.
Dal 6 al 13 settembre: mostra fotografica “Trana una volta” di Fabio Fin, un racconto per immagini sulla memoria collettiva del territorio.
Sabato 6 e domenica 7 settembre: due giornate dense di attività, tra laboratori per bambini, passeggiate guidate, momenti musicali, incontri gastronomici e presentazioni letterarie.

Da segnalare:

Sabato 6 settembre

Mattino:

Il corpo comunica con Manuela Versino,
Escape Room: alla ricerca della biodiversità con Alice Reggiani,
Pomeriggio:
Attività “Cucina e dintorni” a cura di Angela Anna Ventruti
Attività per bambini “Un vaso pieno di colore” a cura di Francesca Roi
Aperitivo con musica di sottofondo Pianoforte e voce a cura di MusicAmica
DAL CAMPO AL PIATTO: Lezione sugli utilizzi di erbe spontanee, aromatiche e fiori in cucina a cura de L’Ortobottega e Antea Farm di Trana

Per il proseguimento delle attività, ci si trasferirà in centro a Trana e in particolare:

19:30 – Merenda Sinoira in Piazza Libertà
21:00 – concerto del Tommaso Pagliero Quintet alla Sala CentoPerCento, Piazza Libertà

Domenica 7 settembre

Mattino:

Laboratorio di pittura su stoffa con l’utilizzo di frutta e verdura a cura della Merceria di Trana
Classe di yoga soft posturale a cura dell’associazione I’mperfect
10:30 – Le parole del cuore a cura di Francesca Roi
Passeggiata guidata nel giardino a cura del Giardino Botanico Rea
Pomeriggio:
15.30 – Laboratorio “Api e mieli locali” a cura di Claudia Roggero
17.30 – Simona Coppero dialoga sul territorio con gli scrittori:

Nella Scoppapietra, “Come oro”, Golem Edizioni

Marco Sartori, “I soldati del Sapiente”, secondo vol. Del ciclo fantasy “La saga oscura”. o Luisella Ceretta “Tempo scaduto”, Bertoni editore

13 settembre, ore 17.30: presentazione del libro “A radici nude” di Cristina Converso.
Dal 14 settembre al 14 ottobre: mostra “I giardini pittoreschi”, un percorso visivo attraverso il paesaggio come esperienza sensibile.
28 settembre e 12 ottobre: attività di educazione ambientale dedicate ad anfibi, boschi e biodiversità, a cura rispettivamente di Loredana Macaluso e Franco Correggia.

L’intero programma, realizzato in collaborazione e con il coordinamento di Agenzia Mosaico, è inserito nel circuito Abbonamento Musei Torino Piemonte, a conferma della rilevanza culturale dell’iniziativa anche a livello regionale.

Il gusto autentico di Torino: viaggio nelle gelaterie più amate dai torinesi

SCOPRI – TO ALLA SCOPERTA DI TORINO 
A Torino il gelato non è un semplice sfizio estivo. È un rito, una tradizione che si rinnova stagione dopo stagione, anche d’inverno, quando i più affezionati non rinunciano a una coppetta avvolti nella sciarpa, magari scegliendo gusti più intensi, più “caldi” al palato. Non è solo questione di gusto: qui si parla di cultura, di artigianato, di memoria collettiva. La città, con la sua eleganza discreta e la sua passione per i sapori autentici, custodisce alcune delle gelaterie più celebri d’Italia, vere e proprie istituzioni locali, amate da generazioni. Ma accanto a queste, anche insegne più recenti hanno saputo trovare il loro spazio, con formule nuove che parlano un linguaggio contemporaneo senza rinunciare alla qualità.
La qualità è casa: le gelaterie nate sotto la Mole
È impossibile parlare di gelato a Torino senza citare Fiorio, in via Po, un nome che evoca immediatamente immagini di nobiltà sabauda e salotti letterari. Aperto nel 1780, era uno dei luoghi preferiti di Cavour, e ancora oggi conserva quell’aria un po’ austera, ma incredibilmente affascinante, che lo rende unico. Qui il gelato è classico, senza compromessi, e i gusti storici, gianduia, zabaione, crema Fiorio , continuano a fare scuola. Non si cerca l’effetto sorpresa, ma la perfezione nella semplicità: una nocciola morbida, profonda, in cui si sente tutta la Langhe; una crema pasticcera vellutata, dal sapore netto e sincero.
Ma accanto a Fiorio, c’è un’altra gelateria che ha segnato una rivoluzione, e che, pur essendo ormai presente in molte città del mondo, conserva un legame forte con Torino: Grom. Nata nel 2003 dall’idea di due giovani torinesi, Grom ha riportato al centro la ricerca dell’ingrediente naturale, della frutta vera, del latte fresco. Una scommessa che ha saputo coniugare visione imprenditoriale e amore per il gelato come una volta. Tra i gusti più rappresentativi ci sono il sorbetto al limone femminello, il pistacchio di Bronte, e il cioccolato extranoir, ma non manca mai il gusto “crema come una volta”, semplice solo in apparenza. Chi ama la frutta può scegliere fragola, albicocca o fico in base alla stagione, tutti ottenuti da coltivazioni selezionate.
Un altro nome sempre più centrale nella mappa torinese del gelato è Mara dei Boschi, laboratorio nato nel quartiere San Salvario e divenuto rapidamente una meta cult per chi cerca qualcosa di diverso. Qui il gelato è artigianale nel senso più puro del termine: ogni gusto nasce da una riflessione, da una sperimentazione. C’è un uso costante di ingredienti locali, come il latte crudo o la nocciola Piemonte IGP, ma anche un’apertura verso accostamenti più arditi. Tra i gusti che sorprendono ci sono il gelato al sesamo nero, la crema allo yuzu (un agrume giapponese profumato e agrumato), il cioccolato con fava tonka, oppure il latte affumicato con caramello salato. Chi entra per la prima volta da Mara dei Boschi capisce subito che qui il gelato è considerato quasi una forma d’arte. Anche i sorbetti sono speciali, come quello al mango Alphonso, alla mora selvatica o alla barbabietola con lampone.
E poi, naturalmente, c’è Pepino, storico marchio torinese famoso per aver inventato nel 1939 il “Pinguino”, il primo gelato su stecco ricoperto di cioccolato. Una vera icona cittadina, ancora oggi disponibile in diverse versioni – gianduia, menta, nocciola – con uno stile retrò che affascina.
Non solo torinesi: quando la qualità parla a tutti
In mezzo a questa offerta ampia e radicata, c’è chi è arrivato da fuori ma ha saputo conquistare la città, senza fare troppo rumore, ma con una qualità che non ha lasciato indifferenti. È il caso de La Romana, catena originaria di Rimini, che a Torino ha trovato un pubblico sorprendentemente affezionato. Con un approccio che punta molto sulla cremosità, sulla golosità delle creme, sulla panna montata al momento e sulla possibilità di colare cioccolato fuso nel fondo del cono, La Romana ha saputo intercettare un gusto torinese che, seppur raffinato, non disdegna l’intensità e la ricchezza dei sapori.
Tra i gusti più apprezzati c’è il “150”, una crema ricca con pandispagna al cioccolato sbriciolato dentro, che richiama immediatamente l’idea di un dolce della nonna. C’è poi il “Biscotto della nonna”, con vere briciole di biscotto croccante che contrastano la morbidezza della base cremosa. Da non perdere nemmeno la “Crema al limone”, fresca ma intensa, perfetta nelle giornate calde ma piacevole anche come contrasto nei mix di gusti più ricchi. E per chi ama i sapori decisi, ci sono il “cioccolato fondente Venezuela” o la crema “Zabaione con Marsala Superiore”. Il tutto condito da un servizio sempre accurato, che accompagna l’esperienza come fosse una piccola cerimonia.
Il successo di queste gelaterie, tutte molto diverse tra loro, dimostra che a Torino il palato non si accontenta. I torinesi, sotto sotto, sono dei veri intenditori. Non si lasciano abbindolare da decorazioni vistose o mode passeggere. Cercano la sostanza. E quando la trovano, sono fedeli. Per questo, tra le vie del centro e i quartieri più residenziali, le gelaterie migliori sono sempre frequentate, anche nei mesi freddi. Perché il gelato, a Torino, è un piacere che non ha stagione. E non è mai solo un dolce: è un piccolo pezzo di identità cittadina.
NOEMI GARIANO