LIFESTYLE- Pagina 16

Profumo di mare con l’insalata di polpo mediterranea

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Il profumo del mare nel piatto. Un piatto fresco e leggero dal gusto unico e saporito. L’insalata di polpo puo’ essere servita come antipasto o come secondo piatto accompagnato da pane abbrustolito leggermente strofinato con uno spicchio di aglio. Una ricetta semplicemente deliziosa.

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Ingredienti

1 Polpo di medie dimensioni

100 gr. di olive verdi o nere

100 gr. di sedano

½ cipolla rossa di Tropea

10 pomodori Pachino

20 capperi dissalati

Olio evo, succo limone, sale, pepe q.b.

2 foglie di basilico e prezzemolo, 1 foglia alloro

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Cuocere il polpo in pentola a pressione in acqua poco salata con l’aggiunta di una foglia di alloro per circa 15/20 minuti dall’inizio del fischio. Lasciar intiepidire. Lavare e pulire le verdure, affettarle e metterle in una ciotola con le olive, i capperi, il prezzemolo tritato e i pomodorini tagliati a meta’. Tagliare il polipo a tocchetti, condire con olio evo, poco sale, pepe macinato al momento e succo di limone, unire alle verdure, mescolare e lasciar insaporire. Servire accompagnato da fette di pane casereccio abbrustolito e strofinato con poco aglio.

Paperita Patty

A Chivasso torna la Festa d’Autunno

Torna a Chivasso in Via Torino la 19° edizione della FESTA D’AUTUNNO il 12/13 Ottobre (dalle ore 9,30 alle ore 19,30) organizzata dalla nostra Agenzia con il Patrocinio del Comune di Chivasso.


La manifestazione conferma il format tradizionale con la presenza in Via Torino del mercatino di diverse tipologie di prodotti (tipici enogastronomici, artigianato, articoli per la casa, commercio) in Piazza della Repubblica la Corsa sui grilli vintage (antichi tricicli di ferro coloratissimi) ed in Piazza Carletti la Casa di Topolino con truccabimbi, babydance, bolle giganti e magia e nuovi giochi per bambini e genitori.

La musica sarà la colonna sonora durante tutta la giornata e non poteva mancare alla nostra manifestazione.

La Festa d’Autunno è inoltre unoccasione per visitare la bella e ricca città di Chivasso, considerata la porta del Canavese”, sempre affollata e piena di vita sospesa tra straordinari tesori artistici, preziosi palazzi civili e meravigliose architetture religiose.

VIA TORINO – I MERCATINI Sono circa 50 espositori con tantissimi prodotti di diversi settori merceologici:

MERCATINO PROFUMI E SAPORI: Selezionati prodotti tipici regionali italiani e prodotti di qualità : formaggi e salumi piemontesi tipici delle Langhe, miele e prodotti dell’alveare, composte di frutta bio, prodotti tipici toscani come la porchetta d’asporto, salumi e formaggi, la finocchiona, il pecorino e i cantucci, prodotti tipici calabresi, la focaccia e altri prodotti tipici della Liguria, prodotti tipici pugliesi, formaggi siciliani come cacio cavallo ragusano DOP, e per i più golosi dolci tipici piemontesi come paste di meliga, canestrelli, torte di nocciola, biscotti, caldarroste, noci, liquirizia pura e tantissimi altre specialità

MERCATINO CREATIVA LA BELLEZZA DELLE IDEEE: Opere di ingegno – artigianato – arte
il meglio delle creatività e opere dell’ingegno come bigiotteria realizzata in vari materiali come pietre naturale e semipreziosa, acciaio, alluminio e perline, cristalli grezzi e cristalli swaroski, artigianato in legno, minerali e incenso naturale, cucito creativo, complementi d’arredo, borse dipinte, accessori moda, pellicce, orologi in legno, artigianato e geometria sacra, quadretti in legno incisi al laser, bigiotteria harrypotter, personaggi avengers e marvel da collezione.…. e tanto altro ancora

CASA DOLCE CASA Prodotti e servizi per la casa sono presenti aziende che presentano casalinghi, articoli e servizi per la casa


PRODOTTI BIOLOGICI Prodotti per la cura e la bellezza della persona

Piazza della Repubblica AREA GIOCHI BAMBINI con la corsa sui Grilli Vintage

Piazza Carletti CASA DI TOPOLINO con truccabimbi, babydance, bolle giganti e magia

e giochi

ARTISTI – MUSICISTI DI STRADA ITINERANTI

Per essere aggiornati seguire la pagina Facebook dell’evento:

LINK EVENTO FACEBOOK

Ufficio del turismo a Chivasso: link alla pagina

“Il mondo dei fagioli ribelli”

È appena uscito il libro “Il mondo dei fagioli ribelli”, edizioni Minerva, realizzato da Bruno Damini.

Il volume vuole fare luce sulla malattia renale cronica, grazie ad un progetto che nasce a Bologna e si estende all’intero territorio nazionale coinvolgendo attualmente le quindici associazioni della rete del Ma.Re e sette importanti nefrologie pediatriche italiane, quelle ei Bologna, Milano, Torino, Genova, Padova, Roma e Bari.

Le testimonianze di Sara e Davide, due ragazzi che hanno affrontato la malattia renale cronica grazie al trapianto del rene, aprono “Il mondo dei fagioli ribelli”. Il loro racconto di vita introducendo il lettore a come affrontare in modo innovativo le problematiche alimentari correlate a questa malattia che colpisce 30 mila bambini in Italia e 4 milioni di adulti.

Per affrontare questa patologia, di cui si parla troppo poco, e riconquistare la normalità,  l’educazione alimentare e la dieta alimentare equilibrata sono parte della terapia stessa, con un’importante funzione preventiva.

Il libro è  nato dall’esperienza di “Fagioli ribelli” un innovativo progetto di educazione terapeutica all’alimentazione, patrocinato dalla Società Italiana di Nefrologia Pedriatica e promosso dalla Rete Italiana per le Malattie Renali in età pedriatrica.

L’obiettivo è il miglioramento della qualità di vita  dei bambini con MRC e delle loro famiglie. Questo volume accompagna il bambino dallo svezzamento, alla scuola, ai momenti di socialità,  alle cure, allo sport, fino all’adulto che diverrà.

Il progetto è sostenuto da Lions Club International Foundation, Lione Club Castello di Serravalle Bononia e da una donazione in ricordo di Laura Foschini Ceresole e da Flavis, un marchio del Dr Schar.

Il progetto nasce a Bologna, si estende a tutto il territorio nazionale e coinvolge le 15 associazioni della rete del MaRe. Nell’ultimo capitolo gli chef ( tra cui due stellati Michelin) e alcuni pasticceri bolognesi propongono ricette gustose ed equilibrate, validate dalle dietista e facili da preparare a casa. Tutte le preparazioni sono tratte dai sei laboratori di educazione e formazione alimentare che sono stati realizzati fra settembre 2023e febbraio 2024 negli spazi del  Battirame 11, grazie alla collaborazione con Età Beta Cooperativa Sociale. Giornate a cui hanno partecipato tantissimi bambini e ragazzi affetti da Mrc e i loro rispettivi familiari. L’esperienza è  arricchita dagli interventi degli specialisti del comitato scientifico.

 

Mara  Martellotta

La tradizione incontra l’innovazione a Bosconero

 

1° rassegna enogastronomica “Sapori e tradizioni: viaggio nei gusti autentici del Canavese.

 

La prima rassegna dedicata al gusto e ai sapori Canavesani scalda i motori e presenta un evento che comprende quattro appuntamenti sicuramente da non perdere. Questa prima edizione ha la finalità di valorizzare al massimo le eccellenze del territorio, offrendo ai partecipanti un’esperienza all’insegna dei sapori autentici  della tradizione locale. Un’occasione per scoprire, o ancor di piùriscoprire, i prodotti tipici Canavesani: dai vini ai formaggi freschi, dagli agnolotti alla zucca. Accanto ai sapori della tradizione, si potranno scoprire interessanti rivisitazioni in chiave più moderna. Cuochi locali proporranno versioni innovative tutte da scoprire. Tecniche culinarie con ingredienti locali di eccellenza. Tutto questo per un’esperienza gastronomica con uno sguardo rivolto al futuro. La Pro Loco di Bosconero(To) – organizzatrice dell’evento – ha voluto dare particolare attenzione alla filiera corta, garantendo i produttori locali che operano nel rispetto della sostenibilità e in special modo nella qualità. L’obiettivo comune è promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza del consumo di eccellenze locali, autentici e a chilometro zero. “Sapori e tradizioni: viaggio nel gusto nel cuore Canavesano” intende offrire quasi tutto il meglio che la tradizione enogastronomica Canavesana sa offrire. Un appuntamento per vivere quattro eventi all’insegna del gusto, della convivialità e dell’orgoglio territoriale. E veniamo alle date. Si comincia sabato 12 ottobre con “Madame la Zucca”: cena in arancio con un menù tutto a base di zucca. Dal “Cibo del Signore”, l’hummus di zucca al flan di zucca con il formaggio, dalle “chicche di zucca” alle polpette, sempre di cucurbita. L’incontro successivo è fissato per domenica 3 novembre intorno alle 16.00. In scena la tradizionale castagnata d’autunno, il frutto in tutte le sue versioni. Sabato 16 novembre – ore 20.30 e domenica 17 ore 12.30 –  uno dei piatti tipici di quasi tutto il Piemonte: la “Bagna Caoda”, questa specie di salsa a base di olio, burro, aglio e alici viene servito bollente in appositi recipienti di coccio – con fornellino acceso – unita a verdure di tutti i tipi, compreso il cardo.  Gran pranzo del “Bollito Misto alla Piemontese” domenica 1° dicembre, si comincia intorno alle 12.30. Questo piatto è protagonista indiscusso su tutte le tavole, nazionali e internazionali. E’ preparato con i classici tagli di carne della tradizione locale. Incontro quasi imperdibile per tutti gli amanti del “Bollito”. Tutti gli incontri avvengono nel Salone pluriuso “Don Manavello” a Bosconero Canavese, città Metropolitana di Torino. Maggiori informazioni si possono avere al numero 3384106173.

Ottobre Rosa al Collegio San Giuseppe

Una serata per la Fondazione Ricerca Molinette tra visite museali e convivialità

Il Collegio San Giuseppe di Torino con l’Associazione Ex Allievi, nello scorso fine settimana, è stato protagonista di un importante evento negli ambienti aulici di quello che è uno dei luoghi più ricchi di storia torinese, di ricordi familiari e personali, un Collegio che è per Torino un’istituzione dove si sono formati alla vita tanti giovani torinesi e non solo.

E’ un luogo accogliente e sicuro dove tornare a studi terminati per incontrare quanti hanno condiviso lo stesso percorso didattico, educativo e formativo che ha creato un legame in molti casi significativo ed indissolubile anche con coloro che sono stati gli artefici dei loro anni di studio, i Fratelli delle Scuole Cristiane che si dedicano per vocazione all’insegnamento e all’educazione cristiana dei giovani. L’occasione è stato l’evento “ Una serata al Collegio “ organizzato dall’Associazione Ex Allievi a sostegno della Fondazione Ricerca Molinette nell’ambito di Ottobre Rosa, il mese dedicato alla prevenzione ed alla sensibilizzazione verso le patologie tumorali femminili. Nel corso della serata si sono susseguiti gli interventi del Professor Massimo Segre, Presidente della Fondazione torinese, che ne ha illustrato nei dettagli le finalità, della Prof.ssa Cassoni e della Prof.ssa Castellano che hanno illustrato le nuove tecniche diagnostiche ed i progetti di innovazione che, grazie alla ricerca, stanno diventando realtà.

Parlando delle forme tumorali al seno è stato detto che l’introduzione di queste nuove metodiche di ultima generazione consentirà di studiare anche le recidive insieme ai farmaci atti ad affrontarle, partendo da un semplice prelievo del sangue della paziente per riuscire ad identificare alterazioni e piccoli frammenti di DNA che il tumore rilascia.  La Campagna del Nastro Rosa, che oggi ha luogo in tutto il mondo in Ottobre, nacque in America nel 1992 dalla volontà di Evelyn Lauder come iniziativa per informare le donne sulla prevenzione e la diagnosi precoce delle patologie tumorali femminili. Oggi la sensibilità collettiva a contribuire alla raccolta di fondi per la ricerca è diventata realtà in quanto è risaputo che per progredire è necessario essere uniti verso un comune obbiettivo ed il bene di tutti è il risultato dell’impegno di ognuno. Accanto alla finalità benefica dell’evento che, con una quota di ingresso alla serata da parte dei molti partecipanti ha contribuito all’acquisto di un macchinario diagnostico, anche l’aspetto culturale e di intrattenimento ha fatto parte della serata ed è stato molto apprezzato, con visite guidate ad una parte delle ricche collezioni che il Collegio racchiude tra le sue mura e che sono difficilmente accessibili al pubblico.

Sono collezioni di grande valore che i Fratelli lasalliani hanno arricchito e curato nel tempo con un’attenzione sempre costante a tramandare queste ricchezze alle nuove generazioni che si susseguono nelle loro aule. Partendo dalla biblioteca storica, con il suo ambiente che ci parla di secoli di cultura e di storia, con la sua aria quasi rarefatta dove è d’obbligo abbassare la voce e, qualora si potesse accedere ai volumi, la consultazione è obbligatoria con l’uso di guanti, si sono potute ammirare opere che vanno dal 1500 al 1900, con la presenza di molti esemplari settecenteschi. Di quest’epoca inestimabile l‘ “ Encyclopédie de Diderot e d’Alembert “, o dizionario ragionato delle scienze, arti e mestieri presente in diciassette volumi di testo ed undici di pregevoli incisioni oltre a sette di supplementi. Molti intellettuali concorsero alla sua stesura sotto la direzione di Denis Diderot con la volontà di creare un compendio universale del sapere, ancora oggi considerato l’opera fondamentale dell’Illuminismo francese  e la prima grande iniziativa culturale moderna. Tra le opere del 1700 più importanti anche le “ Antichità di Ercolano “ di cui la Biblioteca del Collegio possiede cinque pregiatissimi tomi che fanno parte dell’ambiziosa opera editoriale, composta da otto volumi voluta da Carlo di Borbone divenuto re di Sicilia e di Napoli con il nome di Carlo III nel 1735 per poi essere insignito del titolo di re di Spagna. La finalità fu quella di sottolineare l’importanza degli scavi archeologici borbonici, quelli che avevano contribuito a riscoprire le città di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis che l’eruzione del Vesuvio nel 79 d. Cr. aveva sepolto sotto strati di fango e pomici, al fine di dar lustro alla sua corona. E’ stato un sovrano che dette origine alla dinastia dei Borbone delle Due Sicilie, aperto allo sviluppo culturale ed artistico, cui dobbiamo questi volumi, una parte di questa prestigiosa opera settecentesca di cui erano stati previsti ulteriori tomi. A seguire la visita al Museo di Scienze Naturali e a quello dei Colibrì che è costituito da varie sezioni e che venne fondato dal Canonico Don Pietro Franchetti. Il Museo dei Colibrì, anche detti “ uccelli mosca ”, che costituisce la sezione più importante e che ha attirato molta attenzione da parte dei presenti, è formato da circa 1.100 esemplari che tra la fauna ornitologica annovera la specie più piccola in natura. Sono uccellini di carattere non mite come si potrebbe pensare per le loro dimensioni, ma al contrario aggressivo, dal piumaggio meraviglioso con colori cangianti, con lunghi becchi che usano anche come arma e con un’ incredibile velocità nel loro battito d’ali perché possono raggiungere gli ottanta battiti al secondo. Si tratta di una collezione prima per importanza in Europa e seconda al mondo dietro a quella custodita a Rio de Janeiro.

Don Franchetti, laureato in Scienze Naturali, quella che fu la sua grande passione, iniziò a collezionarli nel 1901 e nel 1945 avvenne la fusione del Museo Franchetti con le collezioni del Collegio San Giuseppe di Torino. Non è mancato un momento conviviale con apericena accompagnato dalla musica di una band formata da ex allievi appassionati musicisti cui è seguita, a conclusione di serata, la visita alla bellissima terrazza panoramica, un colpo d’occhio imprendibile sui tetti di Torino, sulla Mole Antonelliana illuminata, sulle cupole delle chiese barocche torinesi, sui suoi palazzi storici, sulle luci delle strade con la brulicante vita cittadina, sulle montagne che le fanno cornice e sulla Basilica di Superga, costante punto luminoso della sua bella collina.

Patrizia Foresto

Ritorno in Formazza

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STORIE PIEMONTESI: a cura di CrPiemonte – Medium /   Il regionale 4792 delle ore 15,48, proveniente da Novara, è in arrivo sul binario numero 2. Termine corsa

di Marco Travaglini

Dall’altoparlante la voce gracchiante conferma che stiamo entrando nella stazione di Domodossola. Se non avessi il finestrino abbassato e non stessi qui, con la testa fuori e controvento, non si sentirebbe un granché. Anche perché il frastuono della vecchia locomotiva copre ogni altro suono. Che sia vecchia, nessun dubbio: basta dare un’ occhiata alle macchie di ruggine per capire che questa E.424 marchiata Breda è ormai prossima al pensionamento. Ciò nonostante ha fatto il suo dovere, coprendo i novanta chilometri a binario unico dalla città delle risaie al capoluogo ossolano un poco più di due ore, contenendo in una decina di minuti il ritardo sulla tabella di marcia.

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La stazione di Domodossola

Quasi un record, visti i tempi. Erano più di vent’anni che non tornavo a Domodossola viaggiando in treno e nel frattempo le vecchie macchine diesel erano state sostituite dalle motrici elettriche. Una botta di vita per la vecchia Novara-Domodossola anche se il viaggio attraverso la campagna novarese, la sponda orientale del lago d’Orta e la piana del Toce è stato accompagnato da un intero campionario di rumori, cigolii e sferragliamenti oltre al classico e tradizionale ta- tam, ta- tam, ta- tam. Potevo scegliere di viaggiare in auto ma non mi andava di guidare e volevo ripercorrere a ritroso la stessa strada che facevamo un tempo per raggiungere Novara quando bisognava recarsi in qualche ufficio pubblico, come il catasto, o all’Ospedale Maggiore.

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Una vecchia corriera

La corriera, in attesa sul piazzale della stazione, a pochi metri da quella grande “D” di Domodossola, non è certo un esempio di modernità ma in quattro e quattr’otto si è lasciata alle spalle Crevoladossola, Oira, Crodo e Baceno. Ansima un po’, sbarellando nelle curve, ma “tiene” bene la strada e l’autista , decano di questa tratta, non tocca più il bicchiere da una quindicina d’anni. Un tempo la sua guida era da brivido, complice l’abitudine di alzare il gomito e l’audacia nel pigiare il pedale dell’acceleratore. Mai un incidente, per carità, ma si arrivava sul pianoro sopra la salita delle Casse con lo stomaco in gola e la tremarella nelle gambe. Oggi invece, nonostante l’età, viaggia tranquillo. Passata S.Rocco di Premia, sulla sinistra, vedo la strada che conduce a Salecchio, il nido d’aquile dei walser, un tempo raggiungibile a fatica e con gran dispendio di sudore. Mi è stato detto che oggi una strada facilita molto la salita a quel che resta del bellissimo insediamento alpino dove ogni anno, la prima domenica di febbraio, si festeggia la Candelora. Da Rivasco al ponte sul Toce saliamo i nove tornanti delle Casse che precedono Fondovalle. Sul dolce falsopiano il motore della corriera tira il fiato e in pochi minuti, attraversate le frazioni di Chiesa e Valdo, si ferma al capolinea, davanti al vecchio municipio di Ponte.

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Ballo in costume walser

La casa dei miei, affittata solo d’estate, da metà luglio alla fine d’agosto, mi accoglie silenziosa. Raccoglie sotto un unico tetto , come tutte le antiche case rurali dei walser, l’abitazione, la stalla e il fienile. Il nonno e i suoi fratelli l’hanno costruita con maestria su tre piani. Sul seminterrato, in muratura di pietre, è posata la struttura lignea dell’abitazione con la stalla, un angolo dedicato al soggiorno, la cucina e un angusto bugigattolo dove ricoverare gli attrezzi. Al primo piano le due camere da letto — una grande e l’altra più piccola — e sopra il fienile e la stanzetta per la conservazione di segale, patate, formaggi, carne secca e mele. Il nonno era un giramondo e, curioso come pochi, aveva studiato le abitazioni valsesiane fino al punto di imprimerne alcuni dei caratteri architettonici alla sua. Da lì è venuta l’idea dell’ampio loggiato che la circonda, consentendo a fieno, segale e canapa di seccare all’aperto, evitando che la pioggia le bagnasse. Orientata con il fronte principale rivolto a sud, in ogni sua parte il legno e la pietra le danno un senso di solida unità e di equilibrio con i monti e i boschi che stanno attorno. Il nonno, del resto, ci teneva tanto alla sua “radice” vallesana e come i suoi antenati svizzeri e tedeschi amava testimoniare il fatto di essere felicemente ordinato. Nel letto di rovere ho dormito come un ghiro e dopo un giro a salutare i pochi, vecchi amici che mi rammentano gli anni della gioventù, mi incammino a ritroso nel tempo discutendo con Walter. Ormai in pensione, dopo una vita passata a controllare quadri elettrici e prese d’acqua per conto dell’Enel sui bacini di Morasco e dei Sabbioni, Walter non perde l’occasione di rievocare insieme gli anni felici della nostra gioventù. Complice una bottiglia di Gattinara che ho acquistato per celebrare l’occasione, si sciolgono i ricordi. In poco tempo torniamo agli anni di scuola, d’inverno.

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Benvenuti in Formazza

Rammenti l’inverno del 1959?”, dice Walter. Eccome, se lo rammento. Quell’inverno di neve ne era già venuta giù molta. Anche troppa. E non finiva mai. Asciutta e morbida, continuava a cadere. Una spessa e soffice coltre bianca si era depositata ovunque. Sul tetto della baita di Joseph, sul fienile di Marianna, sul sagrato della chiesa . Ogni cosa cambiava forma e aspetto, sotto la neve. “Per fortuna il raccolto della segale e delle patate è andato bene e la caccia autunnale ci ha riservato delle buone soddisfazioni”, diceva mastro Peter, schiacciando il tabacco nel fornello della pipa di radica che s’era comprato all’emporio di Briga. Era lui, con il suo aspetto severo di vecchio montanaro che sapeva come far rendere la terra a quell’altitudine, l’anima della comunità. Capace di buoni consigli e di sagge decisioni, mastro Peter stava per compiere ottant’anni ma ne dimostrava venti di meno. Alto, dal fisico asciutto, i capelli corti e radi ed un viso segnato da alcune profonde rughe, incuteva rispetto e un po’ di soggezione. La nostra piccola comunità walser viveva d’agricoltura di montagna, di allevamento e del lavoro che i componenti maschi più giovani prestavano nelle cave di serizzo o nei cantieri dell’Edison.

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Case walser a Salecchio

Noi si andava a piedi a scuola. Con il bello o il brutto tempo, raggiungevamo la scuola elementare di Ponte dove ci attendeva, dai primi d’ottobre alla metà di giugno, la maestra Rosamaria con le sue lezioni d’italiano e matematica, storia e geografia. E di tutto il resto, compreso le ore dedicate alla nostra lingua. La pronuncia era quella che era. Impacciata, claudicante e soprattutto troppo marcata da quell’inflessione francese che ne tradiva le origini valdostane prima ancora che dichiarasse il suo cognome: Jannod. In Formazza era stata mandata per sostituire la vecchia maestra Hilde Brunner, troppo anziana per tenere a bada la pluriclasse. Doveva essere un affidamento temporaneo. Almeno così le avevano detto al Provveditorato agli studi di Novara per “indorare la pillola” della cattedra assegnata all’estremo nord della provincia, a ridosso con il confine svizzero. Ed invece rimase lì con noi. Se all’inizio si riteneva fortunata per non avere ancora una famiglia tutta sua, Rosamaria — con il tempo che passava e con quell’incarico provvisorio che come tutte le cose provvisorie era ormai da considerarsi definitivo — una famiglia pensò di farsela . Sposò Piero Locker, un boscaiolo alto e biondo, appartenente ad una delle più antiche famiglie walser formazzine. La classe che gli era stata affidata risultava composta da ragazzini intelligenti, vivaci. Avevamo tutti una gran fretta d’imparare. Ascoltavamo la maestra in religioso silenzio, divorando ogni testo ci passasse tra le mani. Eravamo attratti dalla storia e, tra i vari episodi, uno in particolare ci incuriosiva: la vicenda di Annibale, il grande generale cartaginese. “Maestra, e gli elefanti?”. Iniziava Giosuè, detto “pel di carota” per i capelli fulvi ed il volto coperto di lentiggini.

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Case walser in Formazza

Voleva che Rosamaria parlasse di Annibale e della sua impresa più straordinaria: l’attraversamento delle alpi con il suo esercito composto da 50.000 fanti , 90.000 cavalieri e una quarantina di elefanti. Si, gli elefanti. Animali enormi dalla grande memoria, probabilmente scelti da Annibale con l’intento di farli restare nella memoria, appunto, consegnando alla storia un’impresa che pareva impossibile tanto era collocata oltre ogni ragionevole immaginazione a quell’epoca. Come se lui sapesse, e forse proprio per questo, che dopo la sua impresa qualsiasi altro esercito si fosse trovato sulle Alpi non avrebbe fatto lo stesso effetto. Tant’è che , qualche anno dopo il suo passaggio, la stessa via venne ripercorsa da suo fratello Asdrubale senza che nessuno ne porti il ricordo, nonostante avesse con se il doppio di elefanti e avesse subito molte meno perdite. Dopo di lui a tutti gli altri — Giulio Cesare, Carlo Magno, Napoleone, gli Alpini ed i Kaisershutzen — non restò che il ruolo di imitatori di un’idea. Ogni qualvolta s’accennava ad Annibale i ragazzi ascoltavano attentissimi, mostrando curiosità mista ad interesse. E la maestra non si faceva pregare.“ Il condottiero cartaginese, tra il 218 e il 216 avanti Cristo, marciando dalla Spagna, attraverso i Pirenei, la Provenza e le Alpi scese in Italia, dove sconfisse le legioni romane in tre grandi battaglie: quelle della Trebbia, del lago Trasimeno e — la più famosa — di Canne. Sconfiggendo le tribù montane, sfidando le difficoltà del terreno, intemperie e tempeste di neve, inerpicandosi su strettissimi tornanti e scendendo in gole impervie a filo degli strapiombi, Annibale ha compiuto una delle imprese militari più memorabili del mondo antico. Trovò persino un metodo geniale per spaccare le rocce che impedivano il passaggio: riscaldava la roccia e una volta che questa si raffreddava, la spezzava dopo averla ricoperta di aceto. Il prezzo fu altissimo .Non si contarono le perdite tra gli elefanti e gli uomini dell’esercito, nonostante ciò Annibale riuscì nel suo intento di ridiscendere i monti e affacciarsi sulla Pianura Padana”.

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La cascata del Toce

Che ricordi. Belli, lontani. Eravamo ragazzini e c’era l’entusiasmo di conoscere tutto, la curiosità delle domande che bruciavano le risposte. E la fame di futuro. Ed ora? Ora con Walter, in questa serata, tra un bicchiere e l’altro, si rievoca un po’ tutta l’infanzia. Intanto, lenta e silenziosa, fuori la neve sta cadendo. Gli parlo dell’incontro avuto poche ore prima con padre Giacomo, che mi ha procurato una forte emozione. Non ci vedevamo da una vita ma entrambi non abbiamo avuto esitazione alcuna nel riconoscerci quando ci siano trovati, uno davanti all’altro, di fronte all’entrata del negozio della signora Hilde, dove si può comprare il miglior Bettelmatt di tutta la valle. Un energico abbraccio e un paio di bicchieri di rosso davanti al banco da mescita di Liborio, hanno colmato in un attimo quasi quarant’anni. “Caro Marco, ne sono passate di stagioni, eh? Io ormai sono vecchio ma tu non sei tanto cambiato da quand’eri ragazzo. Sì, ora sei quasi calvo e hai messo su un po’ di pancetta, ma quella luce che ti brilla negli occhi è la stessa di quando venivi all’Oratorio a discutere con me di ogni cosa ti capitasse per la testa. Ricordi? Eri curioso, intelligente ma anche un gran testardo e non c’era verso di farti cambiare idea quando te ne infilavi una in testa e ci attaccavi anche il cuore”. Giacomo, pur essendo di vent’anni più anziano, è sì un prete ma è anche un amico. Uno dei più cari tra gli amici.

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La chiesetta di Riale

Mi vuol bene anche se le mie idee e le scelte che ho fatto in seguito non sono mai state le sue. Però, e di questo gli devo merito, non ha mai cambiato il suo atteggiamento nei miei confronti, rispettando anche ciò che non condivideva. E’ con lui che abbiamo imparato — io, Walter e tanti altri — a conoscere quel sentimento religioso che ha accompagnato, nel tempo, la vita quotidiana della nostra gente. “Ti ricordi, Walter? E’ lui che, insieme al suo sacrestano, il vallesano Berti, ci ha insegnato la formula di ringraziamento con la quale i walser di Formazza invocavano la protezione di Dio per le persone e i loro cari defunti, quel “Färgalts Gott tüsuk Maal, tresch gott un ärlesch Gott di Abkschtorbnuseela” che significava Ti ricompensi Dio, mille volte, consoli Dio e liberi Dio le anime dei tuoi morti”. Con lui si giocava a calcio nel prato di Valdo e s’andava sugli alpeggi dove, dopo il tramonto, il casaro e i pastori recitavano il Vangelo di San Giovanni affinché gli spiriti maligni non andassero a molestare gli animali. Padre Giacomo ci spiegava che dall’allevamento e dai prodotti derivati dal latte dipendeva buona parte dell’economia della valle e che le preghiere ( qualche volte accompagnate da veri e propri rituali di esorcismo) servivano a “scacciare il male” dalle stalle. Ricordo a Walter, che annuisce, quando — all’inizio di una estate — a Foppiano, nel giorno di San Giovanni, che cade il 24 giugno, assistemmo alla benedizione dei gigli rossi i cui petali erano stati messi ad ardere in un braciere insieme all’ulivo benedetto, affumicando la stalla del papà di Martino, allo scopo d’allontanare ogni influsso negativo.

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Merenda a Formazza

Quanti ricordi, E i fratelli Arnold e i loro cugini Berger? Da bambini accompagnavano al pascolo le mucche fin su nel pianoro di Riale e si divertivano con un gioco, ”Z Hêmmelfarä” che significava ”correre in Paradiso”, seguendo tutte le fasi che portavano dall’Inferno al Purgatorio e da lì al sommo dei cieli , e quindi alla vittoria, aiutandosi con un legnetto che veniva lanciato in aria. Con Giacomo abbiamo anche ricordato mia nonna, Helga. Mi portava spesso ai due santuari dedicati alla vergine Maria, ad Antillone e a Brendo, il suo preferito, dove si venerava Maria del monte Carmelo. Una volta si mise in testa di condurmi in pellegrinaggio, ovviamente a piedi. Era indecisa sulla meta: Sion, Reckingen o Einsiedeln? Mia madre Maria, sua figlia, sfruttando quell’indecisione riuscì a convincerla che non era il caso di farmi fare una sfacchinata del genere e così, pur contrariata e a malincuore, la nonna s’arrese. All’interno di casa, nell’angolo della Stube, tra le due finestre, teneva un grande crocifisso di legno e le statuette di San Teodulo e di San Nicola, i suoi ( e nostri) santi protettori. Mi fece un grande effetto quando mi toccò, a meno di dieci anni, fare la dolorosa scoperta del significato della piccola finestrella, sormontata da una croce, aperta sulla facciata della casa dei nonni.

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Nevicata

Quando nonna Helga , a causa di una brutta febbre, stava per morire, la finestrella — che era sempre stata chiusa — venne aperta affinché la sua anima potesse trovare il passaggio per uscire e andare in cielo, per essere poi richiusa subito dopo la morte, impedendole di rientrare. La “finestrella dell’anima”, la “Seelenbalgenn”, pensavo m’avesse rapito la nonna e io piangevo, piangevo disperato e non mi davo pace. Toccò proprio a Giacomo, a quell’epoca appena ordinato prete, trovare le parole giuste per consolarmi. E, con grande pazienza, vi riuscì. Per questo oggi, da ateo qual sono diventato, mi spiace avergli fatto un così grave torto. Lui, però, con quel sorriso aperto che il tempo non ha cambiato, mi ha confidato di non aver abbandonato la speranza in un mio ravvedimento. E così, tra una chiacchiera e l’altra, amico mio, abbiamo fatto scorrere le ore fino al vespro quando l’anziano prete mi ha salutato con un abbraccio ed è andato a dir messa. Sull’uscio, girandosi, mi ha rivolto un ultimo sguardo, dicendomi: “Oh, Marco. Mi raccomando. Non far passare ancora troppo tempo nel tornare qui a casa perché non posso garantirti che mi troverai ancora qui ad aspettarti. E chi ti confesserebbe, a quel punto, per darti assoluzione da tutti i tuoi peccati?”. Così mi ha detto ,con il suo sorriso. Poi, con un cenno della mano, mi ha salutato e, lentamente, se n’è andato verso la chiesa di Santa Caterina. Ma gli incontri non sono finiti qui. In questo mio peregrinare tra le vie ho incontrato anche Edith e Ingrid, le due sorelle Meier. Entrambe vedove, le ho trovate ancora in gamba, nonostante l’età: la prima ha novantasette anni e la seconda solo due di meno. Sarà il freddo dei lunghi inverni o l’aria buona che scende dalle vette a conservarle così arzille? Se io, tu e tanti altri come noi, cresciuti qui in valle, ci siamo nutriti a pane, formaggio e leggende, è grazie a loro. Le due Meier, originarie della valle di Goms, con il loro italiano indurito dalla pronuncia tedesca, nelle sere d’inverno quando tra una casa e l’altra c’era tanta, troppa neve e ci si doveva aprire dei varchi spalando di gran lena, invitavano amici e parenti nella loro grande casa e lì, con in mano una tazza di tisana alle erbe raccolte tra il lago Kastel e il Toggia, raccontavano delle storie incredibili. Rimaste vedove ancor giovani, avevano deciso di rimanere qui in Formazza, dove mandavano avanti la loro attività di sarte. Sia io che Walter ricordiamo bene quelle sere. Del resto le leggende hanno sempre avuto una grande importanza, occupando un posto di primo piano nella cultura walser perché nel racconto si mescolano i desideri, le convinzioni, le gioie e le paure insieme ai fatti della vita quotidiana e ai personaggi. Un nostro coetaneo, Aldo Svillar, che noi chiamavano “kartoffen” vuoi perché aveva un gran naso a patata, vuoi perché di quei tuberi faceva grandi scorpacciate, era sempre in prima fila, con la bocca aperta. Silvia, la figlia del sindaco, una bella morettina tutto pepe che aveva anch’essa più o meno la nostra età, gli dava delle botte terribili sotto il mento, facendogli mordere la lingua, dicendo al povero Aldo: “Chiudi quel forno, altrimenti la strega di Morasco ti mangia la lingua”. E noi giù a ridere. Ridevamo tutti, tranne il malcapitato, cioè lui.. Quando però le Meier iniziavano i racconti, non volava nemmeno una mosca. Le leggende erano ambientate tra i monti, in sperdute valli e isolati alpeggi dove la natura selvaggia era popolata da streghe, diavoli, folletti e nani. Dai Pubrina di Salecchio, uomini selvatici o esseri mostruosi che fossero, che portavano i bambini ( le cicogne non c’erano e sotto i cavoli non si trovavano neonati ) ma che al tempo stesso erano il terrore dei piccoli quando questi facevano i capricci, al pari dell’uomo nero, agli Zwärgji, eccentrici burloni che abitano i boschi, bassi di statura e coperti di stracci e foglie, sempre pronti a divertirsi alle spalle degli alpigiani, vittime dei loro dispetti. A differenza delle streghe che fanno malefici al bestiame o che mandano in malora il latte e il formaggio, gli Zwärgji avevano insegnato ai nostri avi come fare il bucato con la cenere o lavorare il latte. Forse per farsi perdonare gli scherzi, forse per evitare che pastori e i casari, stanchi di esser presi in giro, se ne andassero via, abbandonando gli alpeggi formazzini. Nei racconti di Edith e Ingrid le valanghe, le bufere di neve, i movimenti dei ghiacciai, il sibilare del vento erano ricondotti al mistero delle tante creature fantastiche che vivevano la montagna. Lo scricchiolio dei ghiacciai del Sidel o dei Camosci era interpretato come lamento delle anime. “Sì, perché Edith, alzando l’indice minaccioso, ci ammoniva sul fatto che i ghiacciai fossero il purgatorio dove i defunti scontavano i loro peccati”, dice Walter. “E noi zitti, con il cuore in gola e i brividi lungo la schiena. In fondo, lo capimmo più tardi, la morte, per chi viveva in condizioni così difficili, era una componente non così estranea o distante dalla vita di tutti i giorni”. Oltre alle vicende dei morti, alle loro inquietanti processioni e alle streghe dal brutto carattere, alle sorelle Meier piaceva raccontare la leggenda di un uomo della valle che, per sfuggire alle vessazioni di un signorotto, decise di passare il confine, emigrando in Alta Val Bedretto, a Ronco, dove fu bene accolto al punto da metter su famiglia. Da quell’avvenimento, dicevano le sorelle, discendeva il diritto che veniva riconosciuto alla gente di Ronco di andare a far legna sul territorio di Formazza, in nome di quell’antica discendenza che accomunava le due valli, comprovata anche da alcuni documenti.

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Val Formazza

Ma la leggenda più bella era quella della valle perduta. Te la ricordi, Marco?”, dice Walter. Eccome, se la ricordo. In ogni villaggio walzer sgorga una sorgente d’acqua proveniente dalla valle perduta, la nostra terra d’origine, dove tutto è iniziato. Dai padri ai figli, per generazioni, dalla notte dei tempi si parla di questo luogo meraviglioso. Un vero paradiso, verde d’erba e alberi, ricco di pascoli e boschi, nascosto tra ghiacciai e nevi eterne. Una leggenda che, per molti secoli, ha aiutato la nostra gente ad affrontare asprezze e difficoltà con il miraggio di poter raggiungere un giorno la straordinaria, fertile e mite “valle perduta”. Così, tra un sorso e una scheggia di formaggio stagionato, abbiamo tirato tardi. Fuori la nevicata si è fatta più intensa. E’ ormai buio e attorno alle luci fioche dei lampioni i fiocchi disegnano traiettorie leggere, sospinti dall’aria. Alcuni finiscono sui vetri della casa, disegnando arabeschi di gelo. Viene giù che è un piacere, secca e soffice. Ancora un paio di giorni e mi raggiungerà anche Carla. Nella vecchia casa dei nonni addobberemo l’abete che mi ha regalato Walter. A Natale e a fine anno sarà una festa. Si canterà Stille Nacht, in tedesco. Per chi non ha dimestichezza con la lingua dei vecchi padri, la tradurremo in italiano, nell’Astro del Ciel. Ci augureremo che l’anno nuovo sia migliore di quello che ci lascia. E le fiammelle compariranno sulle finestre, tremolanti. Come un tempo.

Crpiemonte

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Il giornalista tv Maurizio Scandurra Cittadino Onorario di Burolo

L’eclettico e noto opinionista de ‘La Zanzara’ di ‘Radio24’ dialogherà sabato 12 ottobre con il celebre cantautore astigiano Danilo Amerio.

Burolo ha un nuovo cittadino onorario. E’ Maurizio Scandurra, già cittadino onorario anche di Montiglio Monferrato, giornalista radiotelevisivo cattolico noto per le sue frequenti incursioni in qualità di eclettico opinionista a ‘La Zanzara’ di ‘Radio24, il celebre talk-show radiofonico condotto da Giuseppe Cruciani e David Parenzo.

A conferire l’onorificenza la scorsa primavera il sindaco Franco Cominetto con l’approvazione unanime di tutto il Consiglio Comunale. Alla base del gesto, spiega il primo cittadino “L’ampia attenzione crescente che negli ultimi anni Maurizio Scandurra ha sempre tributato al nostro Comune. Prima, contribuendo all’organizzazione del primo e unico raduno di veicoli storici svoltosi il 27 giugno del 2020 a Burolo, in piena pandemia. Poi, facendosi portatore di una menzione per il rilascio della Cittadinanza Onoraria Post Mortem in omaggio a due burolesi scomparsi, che nel Dopoguerra furono tra i pionieri italiani dell’industria dei trasporti su gomma: Costantino Perino e Lucillo Marazzato, ideatori di due fra le più note realtà aziendali del settore, In occasione dell’evento, avvenuto il 7 ottobre 2021, Scandurra ha donato un trittico artistico a memoria della ricorrenza che campeggia nella Sala del Consiglio Comunale. Infine, non c’è due senza tre. Animato da costante generosità, ha donato di propria spontanea iniziativa due preziose opere pittoriche di grandi dimensioni raffiguranti soggetti religiosi per la Chiesa Parrocchiale, affidate all’estro creativo di Diego Crozza di Mazzé, uno fra i maggiori Maestri d’Arte Sacra italiani contemporanei che ringrazio per la meraviglia di cui è sempre autore”.

Per Maurizio Scandurra, “Il Comune di Burolo è una piccola perla incastonata ai piedi delle Alpi, con lo sguardo incantato rivolto alla pianura che strizza l’occhio allo specchio d’acqua di Viverone. Mi legano a questa terra l’amicizia fraterna con il sindaco Franco Cominetto, il vicesindaco Renato Chiej, la giunta, il valente imprenditore burolese Gianni Bessolo Pejla leader nella lavorazione dell’acciaio inox e il parroco Mons. Giovan BattistaGiovanino, che ringrazio tutti di cuore per aver accolto con entusiasmo questo dono, quale testimonianza di fede. Ritengo che l’Amore per Dio e per la cultura delle radici siano capisaldi imprescindibili per l’Italia di oggi, per ripartire in continuità con i padri e gli esempi che l’hanno resa grande e libera. Perché il dovere del cristiano è la testimonianza, come insegna il Vangelo. Ho dedicato i dipinti ai miei nonni Giuseppe e Odetta Macaluso, Rosa e Salvatore Scandurra, esempi di fede, famiglia e lavoro”.

I due quadri, rispettivamente delle dimensioni di 100×140 cm e 50×70 cm, “raffigurano – approfondisce Scandurra – rispettivamente la Gloria di Maria Vergine fra gli Angeli e i Santi, con San Giovanni Bosco, San Domenico Savio, San Pio da Pietrelcina, San Giovanni Paolo II, San Giuseppe Benedetto Cottolengo nel cui giorno sono nato e San Carlo Acutis che verrà canonizzato durante il Giubileo. La seconda raffigurazione pittorica ritrae San Pancrazio e il Santuario a lui dedicato a Pianezza, nel Torinese, altra devozione per me fondamentale che merita di essere diffusa e conosciuta sempre più”.

Le opere verranno inaugurate e benedette sabato 12 ottobre alle ore 18.00 nel corso della Santa Messa Prefestiva presieduta dal parroco di Burolo in concelebrazione con Il Rettore del Santuario di San Pancrazio in Pianezza Padre Giuseppe Cortesi, e Padre Giuseppe Martinelli in rappresentanza dei Padri Passionisti di San Paolo della Croce che animano il convento torinese. Presenti anche le autorità di Burolo e l’artista Diego Crozza che ha firmato i pregiati dipinti.

Alle ore 16.00 si terrà invece la cerimonia ufficiale di conferimento dell’onorificenza al giornalista torinese presso la Sala Congressi del Comune di Burolo. La sera stessa, dopo la funzione religiosa Maurizio Scandurra, anche critico musicale, sarà di scena in ‘C’era una volta la canzone italiana’, dialogo-intervista fra musica e parole conil raffinato e intenso cantautore astigiano Danilo Amerio, reduce dalla partecipazione a ‘The Voice Senior 2024’ su Raiuno con Antonella Clerici nel Team di Gigi D’Alessio, che in carriera vanta ben quattro partecipazioni al Festival di Sanremo, un terzo posto fra le ‘Nuove Proposte’ e moltissime collaborazioni di successo con canzoni scritte e prodotte anche per artisti illustri tra i quali Fiordaliso, Anna Oxa, Mia Martini, Marco Masini, Aleandro Baldi, Umberto Tozzi, Mietta, Raf, Jovanotti, Giorgio Faletti e moltissimi altri.

L’appuntamento artistico e musicale – realizzato in collaborazione con la Pro Loco di Burolo e il contributo della ‘Inoxtek Srl’ fondata e sapientemente guidata dall’imprenditore burolese Gianni Bessolo Pejla, eccellenza italiana nella lavorazione dell’acciaio – è sempre per la sera di sabato 12 ottobre alle ore 21.00 sul palco del ‘Centro Albatros’ in Via Asilo, 40 a Burolo. Ingresso libero sino a esaurimento posti.

Gino, sei proprio un gatto!

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D’inverno non è raro che le stelle, in fretta e furia, facciano posto a nuvole gonfie di tormenta. Anche la notte dell’Epifania di quell’anno aveva portato con se la neve. Soffice come l’ovatta, leggera come piume d’oca, era planata lentamente a terra, imbiancando tutto

Non che ne fosse venuta tanta, però. Era, come dire, una specie di patina spessa più o meno cinque centimetri.  Non mi aveva preso alla sprovvista. Rincasando, verso le 23, s’intravedevano già dei piccoli fiocchi volteggiare nell’aria. Erano “palischitt“, pagliuzze gelate. Ma promettevano “d’attaccare giù“. L’aria fredda che s’incanalava per le valli del Mottarone fino ad accarezzare le onde del lago, era un “preavviso” della nevicata. Così decisi di usare le pagine di un vecchio giornale per coprire i vetri della mia piccola Fiat amaranto, posteggiata davanti all’osteria del “Gatto e la Volpe”. Così, al mattino, se non ne veniva giù un sacco, sarebbe bastato rimuovere i giornali per avere i vetri puliti ed asciutti,  evitando – ed era la cosa più importante – che gelassero. Quante volte mi era capitato di vedere i vicini di casa, dopo una notte di brina gelata o di tormenta, armeggiare sui vetri merlettati dal gelo con raspe e fiotti d’acqua calda. Quanti vetri rigati o crepati, per la gioia dei carrozzieri che dovevano quanto prima sostituirli. Era più saggio seguire la buona regola del “meglio prevenire che curare”. Così, dopo una notte di sonno profondo, propiziata da quel silenzio ovattato che si crea quando nevica, mi sono alzato alle sei e mezza, anticipando la sveglia. Mi capita così da una vita. Alla sera carico la sveglia, la punto sulle sette meno venti e regolarmente l’anticipo  di una decina di minuti. Così la mia sveglia non suona mai. Se ne sta lì, vigile, scattante, pronta a squillare ma io, per il suo disappunto, ne rendo superfluo il servizio. Che devo fare? Mi viene così, non lo faccio apposta. E sono convinto che, la volta che mi capitasse di scordarmi di puntarla, resterei “impagliato” a letto. Comunque, una volta alzato e vestitomi di tutto punto, uscii. Non nevicava più e l’aria era fina, pulita. Mi avvicinai all’auto e, voilà: in un attimo sfilai via i giornali. Solo in quel momento mi accorsi che Giovanni Melampo mi sta guardando. Non avevo notato che, con il badile in mano, stava liberando l’entrata laterale dell’osteria del “Gatto e la Volpe”, quella che dava direttamente sulla cucina. Mi guardava interessato e, ad un certo punto, esclamò: “Gino, posso dirti una cosa?”. Non feci in tempo a rispondere che il fabbro aggiunse “ Ecco, volevo dirti che sei furbo come una volpe. Ma come ti è venuta in mente l’idea dei fogli di giornale, eh? A tì sé propri un gatt. Sei proprio un gatto. Dai, vieni qui, fammi compagnia. Andiamo a bere un bicchiere dal Mario. Offri tu,ovviamente, per “bagnare” l’invenzione”. Pur di scroccare un bianchino era capace di qualsiasi stratagemma. E quella mattina era toccato a me. Ne scolò tre, uno in fila all’altro. “Ma non ti faranno male?”, gli dissi. “ Io, appena sveglio, bevo due bicchieri d’acqua del rubinetto che al mattino fa solo bene”. Lui, di rimando, mi rispose che “ l’acqua la fa mal, la bev dumà la gent de l’uspedal”. Lui, ovviamente, non aveva niente a che spartire con la “gente dell’ospedale”, precisando che stava benone e il vino non solo poteva berlo ma era una sorta di medicina.Bevendo, Melampo, si lasciò andare ai suoi racconti. Iniziò a parlare delle disavventure del povero Ottorino Gambina, l’operaio del comune che faceva un po’ di tutto, dal cantoniere allo stradino. Ottorino, detto “robinia” per il carattere pungente che ricordava  le spine scure che ornavano i giovani rami delle robinie, era – come s’usava dire dalle nostre parti – un “nervusatt”.

Bastava un nonnulla e s’incavolava di brutto. Soprattutto quando lo prendevano in giro per le sue gambe. Sì, perché – per sua sfortuna – aveva le gambe storte, ad archetto. Sembrava un fantino ( la statura, più o meno, era quella.. ) al quale avevano sfilato il cavallo da sotto, condannandolo a rimanere così, con gli arti inferiori piegati in forma. Aveva ereditato il lavoro dal suo predecessore, noto a tutti come “Mario pulito” che, mantenendo fede al suo soprannome, aveva sempre e tenacemente operato per ottenere, con il minimo sforzo, la massima resa dalla sua attività. A differenza di sua moglie Maria che si  faceva in quattro nel lavorare, Mario era diventato famoso per la proverbiale abilità a sdraiarsi ai bordi della strada, dove, steso su un vecchio plaid, allungava le mani nelle cunette per estirpare le erbacce, con movimenti tanto lenti quanto studiati. Ben attento, sempre, a non faticare troppo e a non sporcarsi gli abiti. Se ne accorse anche il vecchio Hoffman, ben presto pentendosi di avergli offerto il lavoro di giardiniere nel parco della sua villa a Oltrefiume. Mario si sdraiava sotto gli alberi, a fine estate, nell’attesa che le foglie cadessero e solo quando gli alberi erano spogli e il fogliame a terra – con una gran flemma – iniziava a raccoglierle, una a una. “Robinia” , però, era di tutt’altra pasta. Al lavoro sembrava un trattore: a testa bassa, con la scopa in mano, spazzava con diligenza i marciapiedi e il sedime stradale. Finché, non gli capitò “l’incidente”, come lo definì Melampo.  A lè finì cunt el cü per tèra. Sì, perché è bastato il colpo della strega per metterlo fuori uso. E tutto, pensa un po’, per una cartina del cioccolato che stava lì, in mezzo al sagrato della chiesa. Aveva appena scopato per bene e qualche ragazzaccio passando, mentre era voltato di spalle, gliela aveva buttata lì. Nell’atto di chinarsi ha sentito un “crack” alla schiena ed hanno dovuto portarlo a casa così, piegato in due, fino a che il dottore non gli ha fatto un’iniezione. Sembrava che dovesse finir tutto lì, e invece…”. Era sconsolato, il fabbro. “ Tiricordi com’era? Bianco e rosso, sempre pronto a mangiare e bere. Ed ora? E’ magro che  sembra ‘n gatt che l’ha mangià i lüsert. Un gatto che mangia solo lucertole.. La schiena non gli tiene più, è sempre in mutua e si è messo a bere ancor più di quanto non facesse già. Ha proprio una brutta cera”.In effetti, era così. Non sembrava nemmeno più lui anche nel carattere. Era, come dire?, spento, apatico,rassegnato. Se si cercava di tirarlo su, dicendogli che bisognava aver fiducia, che si sarebbe messo a posto, rispondeva – scuotendo la testa – : “Se l’è minga supà, l’è pan bagna”( se non è zuppa è pan bagnato).Era rassegnato a rimanere così, con la schiena scassata e le gambette sempre più divaricate. Melampo, nel raccontare le sue disavventure, si era immalinconito. Ma reagì subito, proponendomi un altro “giro” di calici.“ Dai, Gino,beviamoci su. Anzi, ci bevo su io anche per te, così buttiamo alle ortiche la malinconia. Mi spieghi ancora una volta la pensata del foglio di giornale, eh?”.

 Marco Travaglini