Magnifica Torino / Il castello del Valentino
Dire “pasta fresca” è dire poco
PENSIERI SPARSI
HOT PARADE: Grillo – Orban – Bellucci
Hot parade
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“La scuola non va”, lo cantavano i Lunapop nel 1999. E certe mattine viene voglia di cantarlo anche a me.
Alle prime ore del giorno c’è ancora la nebbia, percorro così, ovattata nell’atmosfera fumosa, il tragitto che mi separa da scuola, parcheggio la macchina, mi dirigo verso il caffè delle 7:45 – obbligatorio per sopravvivere alla mattinata lavorativa- ed eccoli già lì, “vivaci” e “frizzanti”, come li descriviamo nei verbali, si avvicinano saltellando e mi ingurgitano di affermazioni e dubbi: “Il cartoncino era per oggi?”, “Ho dimenticato la cartellina”, “Ha scritto i compiti su Argo?”, “Oggi c’è Arte o teoria?”.
Meravigliosi e terribili, come si fa a non affezionarsi?
Ecco, forse non è chiaro a tutti, ma la scuola esiste per loro, per gli studenti.
La scuola è lì per tutti i “Giammaria” di Filippo Caccamo, per i “Giovannino” di Rousseau e per i “Gianni” e i “Pierino” di Don Milani.
Credo fermamente nel mestiere del docente ed è per tale motivo che sento di discostarmi da tante situazioni e decisioni che ultimamente stanno tramutando il sistema scolastico in un ludico parcheggio privo di significato, i docenti in clown multimediali e gli studenti in amebe viziate.
In questa società liquida (Z. Bauman), fluida e spettacolarizzata (riprendendo la teoria di Guy Debord), in cui il politicaly correct ha il sopravvento sulle coscienze e in cui l’egoismo e l’egocentrismo vengono scambiati –ad hoc- per libertà individuale e indipendenza, mi sento di andare controcorrente e prendere delle posizioni ferme, lo faccio per i miei alunni, perché non voglio che diventino come quegli adulti che mangiano fissando il cellulare anziché la persona che hanno di fronte, affinché non siano educati in un mondo che preferisce l’indisponenza, al fine di renderli quella “cosa bella” di cui parlava Menandro (IV sec. a. C.).
Per far sì che ciò avvenga, come molti altri colleghi docenti, mi interrogo sulle direzioni da intraprendere per rattoppare questa scuola che al momento “non va”; riflessione dopo riflessione, lettura dopo lettura, mi è (ri)capitato tra le mani “Lettera ad una professoressa” di Don Milani.
Si tratta di uno dei testi che più mi ha colpito e su cui ho più ponderato, un libro –a parer mio- obbligatorio per chi vuole intraprendere questa professione, al di là del giudizio personale.
Dopo un’accurata rilettura, che mi ha confermato l’opinione più che positiva che già avevo a riguardo, mi domando: è davvero possibile considerare attuale un testo scritto negli anni Sessanta?
“Lettera ad una professoressa” rimane una testimonianza tutt’altro che banale o di semplice definizione, pubblicato nel 1967 da una non proprio famosa casa editrice fiorentina, si presenta come un autentico “livre de chevet” di una generazione, una sorta di “vademecum” per gli insegnanti democratici o una sorta di “Libretto rosso” sessantottino.
Lo scritto è “un classico” della letteratura scolastica e, data la particolarità delle affermazioni asserite, ha fin da subito diviso i lettori in due parti, chi grossomodo concorda con le riflessioni apportate dai ragazzi di Barbiana e chi invece preferisce un approccio diverso e si discosta, in entrambi i casi il libro segna uno snodo centrale nelle grandi battaglie avvenute per riformare il sistema educativo. Tuttavia è bene puntualizzare che, se da una parte esso denuncia apertamente e per la prima volta le falle di quell’apparato burocratico, dall’altra le parole degli studenti di Don Milani comportano anche l’inizio della fine dell’autorità degli insegnanti, dello stare in disparte dei genitori e – secondo alcuni- della voglia di studiare dei fanciulli.
Di certo un’opera non politicaly correct.
L’ho anticipato, mi riprometto di prendere posizione, pur non ritenendo concretizzabili tutti i punti esplicati nel testo e pur tenendo in chiara considerazione la differenza legata al periodo storico in cui il testo viene redatto, mi possono ritenere una “donmilaniana” convinta.
Lavoro a scuola da qualche anno ormai, mi trovo a diretto contatto con gli studenti – e talvolta con mamme e papà-, sto assistendo ai cambiamenti generazionali e ogni giorno mi rendo conto di quanto sia necessario un cambio di rotta.
In sostanza credo che potrebbe giovare maggiormente all’attuale sistema scolastico una rilettura di gruppo di “Lettera ad una professoressa” anziché il solo focalizzarsi sull’uso di ChatGPT.
Cosa ricercare allora in un libro scritto tempo addietro e in un contesto tanto differente dal nostro?
I princìpi, la risposta è questa.
Se me lo consentite, cari lettori, vorrei spiegarmi meglio, prendendo in esame alcuni punti che ritengo salienti e utili e tralasciando per forza di cose la totalità del testo che, pur non essendo particolarmente lungo, non può essere commentato “in toto” in questa sede.
Si parta con le ovvietà: la società, i bisogni e le necessità degli anni Sessanta non sono le medesime che sentiamo ora. Si pensi prima di tutto al problema dell’obbligo d’istruzione, che si estende oggi fino ai sedici anni d’età (Legge 296 del 2006), oppure si prendano in considerazione le accortezze e le norme che assicurano agli studenti con difficoltà (intellettive o socio-culturali) di frequentare uno specifico percorso scolastico al pari degli altri compagni, inoltre mi sento di poter abolire la dicitura “scuola classista”, poiché, per quanto permangano talune differenze tra periferia, centro o prima cintura, ogni struttura scolastica offre ad oggi un servizio eguale per tutti.
Non è vero dunque che “non va mai bene niente”, le istituzioni collaborano sempre più con il territorio, si assicura una formazione continua agli insegnanti e cresce costantemente l’attenzione verso il fenomeno del bullismo o del cyber-bullismo. L’offerta formativa è più che migliorata nel tempo, l’idea di istruzione ha preso le distanze dal tanto temuto “nozionismo” e le molteplici attività rendono un po’ più appetibile il frequentare le lezioni anche da parte dei più svogliati.
Non è nemmeno vero che “non ci sono più i ragazzi di una volta”. I giovani sono sempre gli stessi, sono semplicemente “figli del nostro tempo”, e nonostante li consideriamo più fragili o ineducati di una volta, non è di certo colpa loro, ma di chi gli sta attorno.
Osserviamo ora da vicino le tematiche su cui ancora oggi possiamo –e dovremmo- interrogarci.
Iniziamo dalla problematica dei “programmi”, queste benedette indicazioni nazionali a cui siamo obbligati a fare riferimento: dite la verità, cari colleghi, sono o non sono un’angoscia?
I ragazzi di Barbiana sostengono che ciò che viene insegnato a scuola sia puro nozionismo enciclopedico e che le informazioni impartite dai docenti riguardino argomentazioni che non hanno riscontro alcuno nell’attualità della vita al di fuori della classe, un sapere così elargito non porta dunque alla formazione di cittadini consapevoli.
I giovani di Don Milani – e questo è un merito che nessuno gli può togliere- non si limitano a criticare ma avanzano delle risoluzioni alle lacune che vedono nel sistema scolastico.
Essi suggeriscono di rimpiazzare i programmi con una continua ricerca critica del sapere all’ interno di un percorso multidisciplinare costruito strada facendo, in questo modo gli alunni acquisiscono gli strumenti necessari per partecipare attivamente alla vita collettiva.
Mai stata così d’accordo: è necessario partire dall’attualità per poi collegarci al passato, stupire con l’immediatezza del contemporaneo e spiegarlo andando a ritroso, alla ricerca nella storia delle cause che hanno portato al nostro presente. Un sogno ad occhi aperti, pensate come sarebbe bello leggere in classe articoli di giornale, riviste specializzate, ascoltare interviste di personaggi pubblici, spiegare le notizie dei telegiornali o commentare insieme gli ultimi “scoop” –inerenti ovviamente alla materia d’insegnamento.-
Certo c’è il sogno e poi la dura realtà: gli studenti di oggi conoscono poco o nulla del loro presente, quasi non leggono, non vedono i telegiornali e apprendono informazioni –semplificate e parziali- tramite i social.
Sarebbe quindi opportuno convincerli che “Tick-Tock” non basta per ritenersi “informati sui fatti”, che non sempre gli influencer conoscono l’argomento di cui desiderano trattare e infine che no, dieci minuti non sono sufficienti per apprendere alcuna argomentazione.
Non sono brava come i ragazzi di Barbiana, non ho una vera e propria soluzione a tale problema, mi limito ad avere un’opinione. Forse il problema è il tempo, forse aveva ragione –ancora una volta- Don Milani a dire che noi insegnanti dovremmo “lavorare di più”, magari se i ragazzi rimanessero a scuola per più ore avremmo la possibilità costruire le nostre unità didattiche in altra maniera e potremmo permetterci una maggiore attenzione nei riguardi dell’attualità. Inoltre i fanciulli starebbero più tempo insieme e meno “vis-à-vis” con il proprio smartphone.
Proseguiamo: i voti. Quante ne abbiamo sentite sui voti quest’anno? Voti sì, voti no, sostituirli con i giudizi, non scrivere niente se non frasi incoraggianti sui compiti, e poi tutti quei casi di giovani studenti caduti in disperazione per un “4”, insomma un capitolo tutt’altro che chiuso.
A Barbiana il voto non è visto di buon occhio, per diverse motivazioni, prima fra tutte perché “è ingiusto fare parti uguali tra disuguali”, in secondo luogo monopolizza l’attenzione e l’interesse degli studenti, facendoli studiare solo per la valutazione, ponendoli in una situazione di ansia e competizione, infine il voto dato non è uno strumento di lavoro e non aiuta gli studenti a migliorare.
Resta difficile immaginare una scuola senza voto, anche se ce ne sono. Personalmente concordo con le motivazioni apportate dai ragazzi di Don Milani, eppure sono una sostenitrice dell’utilizzo dei voti, l’appunto che mi sento di fare tuttavia riguarda una delucidazione necessaria per gli studenti – e i genitori a casa- , il numero che scrivo sul compito è una valutazione circoscritta a “quel” compito in “quel” determinato momento, è solo una valutazione della preparazione “al momento” dello svolgimento della verifica, esso non ha nulla a che fare con la personalità o la totalità del ragazzo, non è un giudizio sulla persona ma solo sul livello di conoscenza che l’alunno aveva in quel determinato momento. Che sia chiaro: i voti cambiano, in meglio o in peggio, e servono per imparare ad essere autocritici verso noi stessi, sono strumenti utili per imparare a migliorare, non solo per quel che concerne i contenuti ma sopratutto per lavorare sull’autostima.
E poi, li bocciamo o no, questi incolti e illetterati studenti dell’ultimo banco?
Ovviamente a Barbiana la bocciatura non è contemplata, al contrario si propone “il tempo pieno”, si assicurano in questo modo più tempo e più mezzi per dare a tutti gli studenti, anche quelli che partono sfavoriti, la possibilità di avere successo scolastico.
Come non essere d’accordo?
Anche qui però ci si scontra con la realtà dei fatti: come convincere i ragazzi di oggi che a scuola si viene per questione di dignità personale, per poter essere sempre in grado di decidere con la propria testa cosa fare e cosa no, anche andando contro la norma comune (se necessario)?
La bocciatura diviene uno spauracchio obbligato di fronte alle classi attuali, ormai composte da individui che non hanno la percezione dell’importanza della cultura e della conoscenza. Concordo con Don Milani, è necessario educare alla dignità e diseducare alle mode, che sono l’antitesi della capacità critica, e condivido che per fare ciò non dobbiamo mettere i giovani sotto una campana di vetro ma dobbiamo aiutarli a divenire liberi pensatori. Questa è la teoria, la pratica poi è tutt’altra cosa.
Ultimo punto: gli alunni. I ragazzi che ci troviamo a fronteggiare oggi non hanno nulla a che vedere con quelli che frequentavano Barbiana, questo purtroppo è vero. Gli studenti di Don Milani hanno ben chiara la propria battaglia, essi alzano la voce perché sanno – come Lucio che possiede 36 mucche – che “la scuola sarà sempre meglio della merda.” I giovani fiorentini si battono per una scuola libera, democratica e popolare, conoscono le fatiche del lavoro e la rassegnazione, hanno ben presente cosa significa avere paura di non poter cambiare la propria posizione sociale o le proprie abitudini di vita, di conseguenza sono giovani coraggiosi, che non temono di esporsi per ottenere quegli stessi diritti scritti nella Costituzione.
I nostri ragazzi non sono così “fortunati”, sono sempre più soli ed isolati, non fanno tardi al pomeriggio o alla sera, non temono le note dei professori, non affrontano individualmente i problemi che non sanno risolvere. Non conoscono i limiti né il brivido che si prova nel superarli, non distinguono il merito perché gli abbiamo insegnato che tutto gli è dovuto.
A furia di “volerli aiutare” li abbiamo resi interdipendenti dagli adulti di riferimento, eppure è il momento di renderci conto che non possiamo salvarli dal crescere.
Forse a scuola da Don Milani dovremmo tornarci un po’ tutti, lui ci incoraggerebbe a prenderci qualche responsabilità in più, forse ci direbbe di fare dei passi indietro e di osservare i nostri “piccoli” mentre si rialzano da soli con le ginocchia sbucciate. Ce lo insegnerebbe con qualche scappellotto sul collo, ma questi sono i rischi che corre chi si ostina a non voler imparare.
ALESSIA CAGNOTTO
Le vostre foto: Ferrere d’Asti
Ferrere d’Asti. Vista dal Municipio: la Chiesa dei Battuti, la Chiesa di San Secondo e il Castelrosso. L’immagine è di Alessandra Macario.
Eccovi un primo piatto ricco di sapore, sfizioso ed invitante, perfetto per ogni occasione.
Ingredienti :
380gr. di penne integrali
400gr. di zucchine
80gr. di grana grattugiato
120gr. di dadini di Speck
1/2 spicchio d’aglio
1 cucchiaio di prezzemolo grattugiato
3 foglie di basilico
Olio evo, sale, pepe.
Dorare i dadini di Speck in padella, tenere da parte.
Lavare e tagliare a metà le zucchine, scavare un poco la polpa e lessare al dente in acqua salata. Raffreddare e conservare l’acqua di cottura nella quale cuocerete poi la pasta.
Frullare grossolanamente le zucchine con olio, aglio, prezzemolo, basilico, grana, sale e pepe. Cuocere la pasta, unire lo speck alla crema di zucchine e servire subito. Se risultasse poco cremosa, aggiungere un mestolino d’acqua di cottura.
Buon appetito.
Paperitapatty
“Sprissetto”, l’aperitivo sotto la Mole
Classico, Bitter, Venezia, Eden e Sud sono le varianti di Sprissetto che trovate da Borello Supermercati, scelto come pioniere di prodotti locali e in questo caso di un nuovo aperitivo piemontese
Partendo dall’aperitivo per antonomasia, Marco Lo Greco fondatore di Sprissetto, inizia a immaginare il suo nuovo modo di concepire l’happy hour. Un progetto curato per tre anni, culminato nel 2021 con la commercializzazione del primo prodotto nel mercato HO.RE.CA, successivamente importato in Australia e ora, con la collaborazione di tre soci, presente in 15 paesi nel mondo.
Marco, classe 1991, vanta una carriera decennale come bartender e una formazione nell’ambito del design, questo percorso gli ha permesso di studiare i prodotti a 360°, dagli ingredienti fino all’etichettatura.
Le ricette dei grandi mostri sacri come Aperol e Campari sono state riviste utilizzando ingredienti naturali e artigianali come erbe amaricanti, aromi, spezie e frutti, infine sono state inserite due varianti per creare Spritz diversi dal solito e una base per altri cocktails come l’Americano e il Negroni.
Il brand Sprissetto è stato ideato prendendo ispirazione dal Veneto in quanto patria dell’aperitivo e dal suo dialetto, l’etichetta è stata disegnata da Marco che con il suo passato nel design ha saputo abilmente mixare font semplici e giovani con il giusto spazio per la lista ingredienti così da rendere i consumatori informati.
Classico, Bitter, Venezia, Eden e Sud sono le varianti di Sprissetto che trovate da Borello Supermercati, scelto come pioniere di prodotti locali e in questo caso di un nuovo aperitivo piemontese.
Eleonora Persico
La primavera stava per lasciare, senza grandi rimpianti, il passo all’estate. Grandi nuvole nere s’addensavano sulla vetta delle montagne. L’aria si fece elettrica, segno che il temporale stava per scatenarsi. Audenzio Remolazzi , intento a falciare il fieno nel prato, guardò il cielo che si faceva sempre più scuro e s’affretto a raccogliere quant’aveva tagliato per evitare che la pioggia imminente facesse marcire il maggengo.
Tra sé e sé disse : “Ah, quando il monte mette il cappello, conviene lasciare la falce e metter mano al rastrello”. E diede voce anche a Bartolo che stava riposandosi appoggiato con la schiena al tronco di un melo. “Oh.. Sacrebleu”, fece quest’ultimo, stirandosi. “Ho dormito come un sasso Colpa della frittata con le cipolle che è come una droga; mi piace ma mi crea un peso sullo stomaco che chiama l’obbligo di un riposino”. Guardò il cielo e borbottò: “Secondo me, Audenzio, è un temporale varesotto, poca acqua e gran casotto”. Tanto rumore per nulla, dunque? Nel dubbio, per non saper leggere e scrivere, s’impegnarono entrambi a rastrellare il fieno per poi raccoglierlo nel covone che andava coperto con una cerata. Ma più che dal cielo e dal temporale, il rumore più forte veniva dalla strada che saliva verso la Contrada delle Ciliegie. Stava passando una moto Guzzi, guidata dal proprietario, tal Arturo Brilli. Pareva un aeroplano intento a rullare sulla pista prima del decollo.” Guardalo là, l’Arturo. Sta passando con la sua moto taroccata che fa un gran fracasso e poca strada. Guarda che scia di fumo che lascia! Per me gli manca qualche rotella in testa. Va sempre in giro colorato come l’Arlecchino di carnevale, cantando a squarciagola le canzoni d’osteria. Ah, no c’è più religione. Son diventati tutti matti”.
Audenzio Remolazzi, in pensione dopo quasi quarant’anni passati in fabbrica, era fatto all’antica. Scuoteva la testona per mostrare tutto il disappunto per le abitudini di quel “ragazzaccio” che non aveva nessuna voglia di lavorare e, giunto ormai alla soglia dei quarant’anni, non riusciva a smettere di essere quel che era: un pelabròcch, un buono a nulla. Da una settimana i suoi vecchi genitori erano partiti per il mare della Liguria con il viaggio organizzato da Don Goffredo per i pensionati della parrocchia e lui che faceva? Se la spassava, avanti e indietro, a zonzo. “E’ proprio vero il proverbio: via il gatto, ballano i topi. Eh,sì. E quel topo lì, in assenza dei suoi che lo frenano un po’, si scatena a ballare giorno e notte”. Remolazzi, appena mi ha visto uscire dal bosco con in mio bastone da passeggio, ha subito attaccato bottone anche con me. “Ma l’ha visto l’Arturo, quella canaglia? Pensi che ieri sera dava del tu al prevosto come se fossero vecchi amici. Io glielo avevo detto a don Goffredo, di non dargli troppa confidenza. Eh sì, che glielo avevo detto; la troppa confidenza fa perdere la riverenza. Ma lui, uomo di chiesa sempre in giro a cercar di salvare anime, niente. Mi ha risposto di aver pazienza, di aver fiducia che il “ragazzo, crescendo, capirà come comportarsi”…Ha capito? Deve ancora crescere, quel furfante del Brilli.
Roba da matti”. A dire il vero era difficile dar torto a Remolazzi ma che si poteva fare? Se non erano riusciti i suoi genitori a “raddrizzarlo” fin da piccolo, figurarsi ora che aveva passato i quaranta e aveva la testa più matta che mai. Tra l’altro, aveva il vizio di bere. Era uno di quelli che – per far in fretta a tracannare – stanno sempre con la bottiglia “senza buscion”, senza tappo. Pensate che una volta si era preso una sbornia tale che scambiò la barca a remi di suo padre per un motoscafo e gridò a tutti che gli avevano rubato il motore. Si recò persino al commissariato dei Carabinieri per sporger denuncia, picchiando pugni sul tavolo e urlando come una bestia, tanto che al povero maresciallo Valenti e al suo fido aiutante, il brigadiere Alfio Romanelli, non restò altra soluzione che sbatterlo in gattabuia per qualche ora, finché gli si diradassero i fumi dell’alcool. Visto che nei circoli, nei bar e nelle osterie del paese e dei dintorni si guardavano bene dal dargli da bere perché esagerava e dava in escandescenze, il Brilli, tenendo fede – ironia della sorte – al suo stesso cognome, pigliava il treno o il battello e andava a “tracannare” in altri lidi, cambiando destinazione di volta in volta.
A chi cercava di moderarlo, come è capitato talvolta anche a me, rispondeva che “Quando c’è la sete, la gamba tira il piede”. Un modo per dire che, pur di soddisfare il proprio bisogno, non contava la distanza. Il maresciallo Valenti era stato testimone di un altro episodio. Un sabato sera, di turno con una pattuglia per i consueti controlli sul rettilineo che porta dal paese a quello confinante, più o meno all’altezza della seicentesca chiesa della Madonna del Carmine, incrociò il motocarro di Giovanni Guelfi con a fianco Arturo. La cosa strana era che quel motocarro era privo del vetro anteriore e in quelle condizioni non avrebbe potuto circolare. Il mezzo del Guelfi, a causa del gelo di quell’inverno che tutti ricordavano tar i più rigidi degli ultimi anni, aveva subito dei danni e il più serio tra questi era l’aver sottovalutato la crepa che, in meno di un amen, aveva provocato la rottura in mille pezzi del vetro. Pur essendo ormai sul finire della primavera, non aveva ancora provveduto a sostituito. Andava in giro così, faccia al vento, evitando di circolare nei giorni di pioggia. Quella sera, appena videro l’Alfetta dell’Arma sul ciglio della strada, imprecarono alla sfortuna. Guelfi voleva fare una inversione a “u“ e tornare indietro.
Fu Arturo adavere, tuttavia, una brillante idea: far finta che il vetro fosse al suo posto, integro. E come? Con il più semplice degli accorgimenti: facendo finta di pulirlo con un fazzoletto. Così passarono, con noncuranza, davanti agli attoniti carabinieri. Mentre Giovanni guidava, fischiettando il ritmo di una polka, Arturo s’impegnò a “pulire” l’inesistente vetro con un grande fazzoletto bianco. Il maresciallo Valenti, a bocca aperta, se li vide passare davanti al naso con il fazzoletto svolazzante e i capelli scompigliati dal vento. Il dubbio che l’avessero fatto apposta, con quel candido fazzoletto che – agitato in aria – sembrava v
oler far “marameo” ai tutori dell’ordine, non abbandonò mai il maresciallo. Ma volete mettere l’alzata d’ingegno, il tocco d’artista, la prova di disperato e incosciente “coraggio”? Così la raccontò, scuotendo la testa, Audenzio Remolazzi. Nel frattempo, con l’aiuto di Bartolo, avevano raccolto e messo al sicuro il fieno. Appena in tempo per evitare il peggio, considerato che non si trattò di un “temporale varesotto” ma di un acquazzone in piena regola.
Marco Travaglini
Spotorno e Noli, il mare a due passi dal Piemonte
Quando si parla della nostra regione spesso, e con poco entusiasmo, si evidenzia che non c’è il mare.
E’ vero il Piemonte non è deliziato da nessuna spiaggia, è geograficamente innegabile ma raggiungere splendide coste e deliziosi borghi marini non è una impresa troppo avventurosa.
Con un ora e mezza di macchina, prendendosela comoda e traffico permettendo soprattutto nei week end estivi, si arriva nella vicina e ridente Liguria. Percorrendo infatti l’autostrada Torino-Savona si possono raggiungere destinazioni davvero incantevoli che meritano attenzione almeno quanto le desiderate e gettonate mete costiere del sud. Spotorno e Noli, mete liguri tra le più vicine partendo da Torino, sono due piccoli e gradevoli gioielli curati dove passare qualche giorno o semplicemente fare una gita in giornata.
Spotorno, la prima venendo da Savona, contigua a Bergeggi, è situata nella Riviera di Ponente tra Punta del Maiolo e Punta del Vescovado. E’ caratterizzata da una lunga spiaggia sabbiosa e piccoli ciottoli con molti stabilimenti balneari coloratissimi, ariosi e spaziosi tra cui uno dedicato ai nostri amici pelosi, la spiaggia attrezzata dedicata ai cani Pluto Beach. Il lungomare è decorato da piccoli giardini, fascinose ville dai colori vivaci, hotel, locali e il martedì un simpatico mercatino crea movimento e vitalità .Accogliente, allegra e frequentata, moderatamente meno delle colleghe più “alla moda”, questa piccola cittadina, oltre alla spiaggia, ha un bel centro storico, caratteristici carruggi (i vicoli tipici delle cittadine liguri), case variopinte con balconi fioriti, la chiesa della Santissima Annunziata con opere d’arte del ‘600 e ‘700, graziosi negozi e locali dove fare shopping estivo e godersi un aperitivo o una cena col rumore delle onde in sottofondo. Se si ha voglia poi di girare nell’entroterra, all’interno del Parco del Monticello è possibile visitare l’Oratorio di Santa Caterina, caratteristico per la facciata in stile barocco, e il Castello, originario del XIII secolo ma riedificato dopo l’abbattimento nel XVI secolo, parte integrante di un sistema difensivo insieme alle torri e ad una struttura quadrangolare, costruito per far fronte ai frequenti attacchi di quel periodo da parte dei Saraceni. Il mare cristallino e dalle diverse sfumature di azzurro, nuovamente bandiera blu dopo diversi anni, vanta aree naturali riconosciute e protette come quella della vicinissima Isola di Bergeggi, sito di interesse comunitario (SIC).
Più avanti percorrendo l’Aurelia, 15 minuti a piedi se si ha voglia di camminare godendosi il panorama, troviamo Noli. Questo delizioso borgo medievale, considerato uno tra i più belli della Liguria, e inserito nella guida dei “Borghi più belli d’Italia”, è apprezzato sia per le sue spiagge e meravigliose calette nascoste ma anche per i retrostanti e rilassanti paesaggi montani. Diversi sono i sentieri e le aree verdi da percorrere in alternativa all’escursione marina. Tra i più suggestivi troviamo il Sentiero del Pellegrino, circondato da bellezze naturalistiche, storiche e archeologiche che con 2 ore e mezzo circa di cammino porta dal Collegio e Chiesa di San Francesco fino alla Baia dei Saraceni per poi terminare al borgo di Varigotti.
Arrivando a Noli si notano subito la cinta muraria, le due torri medievali, quella dei quattro canti e quella comunale, il Palazzo del Comune, simbolo dell’antica Repubblica di Noli, mentre il Castello domina e signoreggia dal monte Ursino. Dante citò Noli nella Divina Commedia, nel Purgatorio, e diversi furono i personaggi illustri, come Giordano Bruno e Cristoforo Colombo, che di passaggio nel borgo lasciarono tracce della loro visita.
Percorrendola all’interno, nelle minuscole vie d’altri tempi non può sfuggire il suo patrimonio architettonico-artistico fatto di Chiese, come quella di San Paragorio dell’XI secolo o quella di San Pietro, la nuova Cattedrale del XII, che si trova nell’omonima piazza. Anche qui il Castello, che si può raggiungere a piedi sebbene il marciapiede non sia sempre presente, si ergeva a difesa della cittadina. Per visitarlo all’interno è preferibile verificare gli orari, ma qualora non fosse aperto la vista che offre la sua posizione vale comunque la passeggiata.
In tardo pomeriggio e in serata questo borgo e il suo lungomare, diventano magici e pieni di atmosfera grazie a numerosi locali, ristoranti, candele accese, aperitivi, negozi caratteristici che creano uno scenario di relax e divertimento gioioso e vacanziero.
MARIA LA BARBERA
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