Dall Italia e dal Mondo- Pagina 69

Betlemme impara il made in Italy da Torino

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Betlemme ha molti problemi e molte necessità, dobbiamo rinnovare l’arredo della città, costruire strade, nuove scuole, ospedali, parcheggi, aggiornare il catasto edilizio con sistemi digitali, adottare un piano trasporti più efficace perchè il traffico è diventato um grosso problema. Come tante altre località palestinesi, anche Betlemme ha bisogno di aiuto, di tecnici specializzati nei vari settori, di finanziamenti e di una stretta cooperazione con altre realtà comunali”. Anton Salman, da un anno sindaco cristiano di Betlemme, è in queste settimane a caccia di tecnologie moderne “made in Italy”, da un capo all’altro della penisola. A Torino ha incontrato gli amministratori cittadini e i responsabili di varie associazioni laiche e religiose. Ha poi partecipato a un incontro al Centro Peirone, istituto specializzato nello studio dei Paesi arabo-islamici, un piccolo Institut du Monde Arabe parigino nella città della Mole. Betlemme, quasi 30.000 abitanti, dieci chilometri a sud di Gerusalemme, capitale della cultura del mondo arabo per il 2020, è la città di Gesù, storica e antichissima, che ospita ogni anno almeno un milione di turisti provenienti da ogni parte del mondo. In Italia ci sono ben 28 città gemellate con Betlemme. “Vogliamo dimostrare di saperci fare e di migliorare il tessuto urbano del nostro centro abitato ma da soli non possiamo farlo perchè non abbiamo le risorse economiche necessarie. Per fortuna viviamo in mezzo a una moltitudine di pellegrini dai quali giunge un sostegno molto forte alla nostra economia, una quantità di entrate essenziali per finanziare una parte dei nostri progetti”. Anton Salman, cattolico, avvocato della Custodia di Terra Santa, guida il comune di Betlemme dal maggio 2017. Una legge degli anni Novanta stabilisce infatti che il sindaco e il suo vice siano entrambi cristiani, uno cattolico e l’altro ortodosso. Ci tiene a precisare che Betlemme è una città sicura e ospitale e non esiste nessun pericolo per i turisti. “I visitatori sono sempre ben accolti, protetti e rispettati. Non c’è nessun caso di Isis da noi. Se negli anni scorsi si era verificato un calo di turisti, ciò era dovuto alle tensioni crescenti e alle guerre attorno alle nostre terre”. Ma Betlemme è anche la città del Muro, the Wall, il mostro di cemento armato che separa Betlemme da Gerusalemme. L’impatto con la “barriera di separazione” è impressionante.

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L’intervento del primo cittadino scivola inevitabilmente nella politica. “Betlemme è sotto occupazione, ricorda Salman, circondata dal muro israeliano. Non è ammissibile che ci sia una tale struttura in questo luogo storico e nel resto dei Territori. L’occupazione israeliana deve finire e Betlemme deve essere una città libera per tutti e per tutte le religioni. Non vogliamo più vedere check point e muri di cemento. Il nostro problema è l’occupazione”. Betlemme è solo una piccola parte della grande e complessa questione israelo-palestinese che da almeno 70 anni tormenta la regione e il mondo intero. Quello in atto da decenni “è un conflitto politico e non religioso come sostiene Israele per trarne vantaggio. Noi siamo contro i piani di Israele e continueremo a lottare fino in fondo con tutte le nostre forze e i nostri mezzi contro l’occupazione israeliana a prescindere dal prezzo che dovremo pagare in termini di vite umane e di sofferenza. Lottiamo contro l’occupazione dal 1967, siamo rimasti l’ultimo popolo prigioniero di forze occupanti e abbiamo il pieno diritto di porre fine a questa situazione intollerabile sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza”. Anche nel fazzoletto di terra palestinese a sud di Israele la situazione è assai precaria. “Gaza, afferma il sindaco, è ridotta a una grande prigione a cielo aperto, circondata da Egitto e Israele. Ciò non toglie però che nonostante le violenze, i raid aerei e gli scontri con i militari israeliani la vita prosegua più o meno normalmente anche se con enormi problemi come la scarsità di acqua e di luce. A Gaza ci sono chiese e scuole cristiane ma i cristiani della Striscia e della Cisgiordania cercano di andarsene per trovare migliori condizioni di vita altrove. Chi resta porta avanti la sua fede”. La scomparsa dei cristiani dal Medio Oriente sarebbe una tragedia per tutti. Ne è convinto Francesco Ielpo, francescano di Terra Santa che ha partecipato all’incontro al Peirone, secondo cui “un popolo non ha bisogno soltanto di cibo e medicine ma anche e soprattutto di una speranza, di liberare il cuore dalla paura, la paura di perdere la terra, il lavoro e di lasciare i figli senza futuro. La Chiesa alimenta la speranza e sta al fianco della gente. La nostra, laggiù, è una presenza preziosa per tutti, da due millenni. Per frenare l’esodo ci vuole però la pace”. La decisione del presidente Trump di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo implicitamente Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, allontana il dialogo tra le parti. Per il trasloco della missione diplomatica si parla di metà maggio e il giorno cruciale potrebbe essere il 14 maggio quando Israele festeggerà i 70 anni dalla sua fondazione (14 maggio 1948). Un evento che infiammerà prevedibilmente un clima già incandescente, foriero di nuove violenze tra israeliani e palestinesi. Come vede Salman il futuro della Palestina?

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“Nessuno può sapere cosa succederà, la nostra speranza è che l’occupazione israeliana nei nostri Territori finisca presto. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale faccia la sua parte riconoscendo ufficialmente la Palestina come uno Stato. Si parla sempre della soluzione a due Stati sui confini del 1967, uno Stato accanto all’altro, ma queste parole e questi discorsi hanno un’importanza limitata. Gerusalemme è fondamentale per il processo di pace, è città santa per tutti i credenti. L’imposizione di una sola parte non porterà la pace ma nuovo odio e nuovi conflitti. La comunità internazionale deve spingere Israele ad accettare la soluzione dei due Stati sulla base dei territori del 1967″. Salman è granitico quando parla e non si piega facilmente. Come accadde nella primavera del 2002 quando, insieme al francescano Ibrahim Faltas, si distinse nei drammatici giorni dell’assedio alla Chiesa della Natività a Betlemme. Era la seconda Intifada e Salman faceva da mediatore con le forze israeliane che avevano invaso Betlemme per arrestare alcuni militanti palestinesi che si erano rifugiati nella chiesa. Trentanove giorni di paura con sette morti e decine di feriti. La città di Torino collabora attivamente da anni con Betlemme attraverso l’Ufficio per la cooperazione internazionale mentre le Missioni Don Bosco e i salesiani del Vis (Volontari internazionali per lo sviluppo) lavorano nei territori palestinesi puntando sull’educazione, sulla formazione professionale con borse di studio per consentire ai giovani di imparare un mestiere, aprendo scuole, officine e laboratori attrezzati, dando una mano ai profughi e intervenendo in caso di disastri naturali. I salesiani sono presenti in Palestina dalla fine dell’Ottocento, ancora in epoca ottomana. A Betlemme gestiscono un orfanotrofio e un oratorio e organizzano corsi per falegnami ed elettricisti. Il Vis opera sul campo con progetti agricoli, energetici e con “Nur” (New Urban Resources) per sviluppare energie rinnovabili al fine di ridurre la dipendenza energetica dei Territori da Israele. Si produce anche vino. Su una collina tra Betlemme e Gerusalemme si trova la Cantina salesiana di Cremisan nata per rilanciare la produzione dei vini palestinesi.

 

(dal settimanale LA VOCE E IL TEMPO)

 

Accoltellato nell’agguato all’ingresso della scuola

DALLA PUGLIA

Un 45enne  senza fissa dimora, della provincia di Bari, è stato accoltellato da più persone e poi soccorso dagli operatori del 118, all’ingresso della scuola media Amedeo D’Aosta del capoluogo pugliese. L’uomo è ferito ma non in pericolo di vita, per ora sono sconosciuti gli aggressori. Il fatto è avvenuto stamane tra le sette e le otto, è stato un passante che ha visto l’uomo, colpito al torace, a chiamare aiuto. I carabinieri avrebbero trovato il coltello con cui sarebbe avvenuto il ferimento. Diversi ragazzi che si trovavano a scuola hanno chiesto telefonicamente ai genitori di poter tornare a casa.

Il gasdotto della pace

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Un gasdotto porterà la pace in Afghanistan dopo quarant’anni di guerra e di terrorismo? Sulla carta sembrerebbe proprio così. Tutti lo vogliono, tutti sono pronti a brindare, afghani, talebani, pakistani, indiani, perchè sarà una grande fonte di business per gli Stati coinvolti. Si chiama Tapi (prende il nome dalle iniziali dei Paesi coinvolti, Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India) e porterà, a partire dalla fine del 2019, se tutto filerà liscio, 33 miliardi di metri cubi di gas all’anno dai pozzi turkmeni di Galkynysh in Pakistan e in India attraverso il territorio afghano passando nelle regioni centro-meridionali controllate dai Talebani. La gigantesca infrastruttura occuperà migliaia di persone e darà un sostanziale benessere economico alla regione centroasiatica. Un’opportunità commerciale e politica per rilanciare lo sviluppo della disastrata economia nazionale liberandola dalla dipendenza dal gas russo. Ma dietro queste rosee prospettive restano seri dubbi sulla possibilità di realizzare interamente l’infrastruttura per l’elevata instabilità della regione. Gli attacchi terroristici e le minacce dei talebani e dell’Isis che puntano alla distruzione del gasdotto mettono a rischio il proseguimento dei lavori. Nonostante gli attentati che continuano a sconvolgere Kabul e le altre città afghane qualcosa si sta muovendo dietro le quinte dei contatti segreti in corso da alcune settimane tra il governo di Kabul, appoggiato dagli Stati Uniti e dalle forze Nato, e i Talebani o con una parte importante di essi. Cosa è accaduto? Gli “studenti coranici” si sono fatti avanti e hanno chiesto di trattare con gli americani per tentare di risolvere l’infinita crisi afghana. Colloqui diretti Stati Uniti-Talebani sarebbero un’assoluta novità poiché il gruppo islamista ha sempre anteposto il ritiro delle truppe straniere all’inizio di qualsiasi trattativa con Kabul e i suoi alleati. Il governo afghano ha risposto offrendo una tregua incondizionata ai talebani sperando di aprire una trattativa con i jihadisti. Un piccolo passo avanti verso il dialogo tra le parti sembra dunque esserci, almeno a giudicare dalle parole del portavoce degli islamisti, Zabihullah Mujahid, favorevole alla realizzazione del Tapi nelle aree sotto il loro controllo. Mujahid ha anche ricordato che il primo contratto per la sua costruzione fu firmato dai talebani stessi quando erano al governo dell’ “Emirato islamico dell’Afghanistan”, dal 1996 al 2001. Il progetto, al centro dell’attenzione dei Paesi asiatici da quasi 30 anni, prevede il trasferimento dai pozzi turkmeni (il Turkmenistan è il quarto produttore di gas al mondo) verso l’Asia meridionale di 33 miliardi di metri cubi di gas all’anno ma è bloccato a causa dell’interminabile guerra e per i problemi di sicurezza che comporta il passaggio del gasdotto in Afghanistan per 700 dei 1800 chilometri complessivi del tragitto. Il gasdotto giungerà nelle città afghane di Herat e Kandahar e raggiungerà l’insediamento di Fazilka presso il confine tra India e Pakistan. Il primo tratto della conduttura tra i giacimenti di gas in Turkmenistan e la città afghana di Herat è stato finalmente completato. I leader di Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India, insieme ai generali americani e ai comandanti della Nato, si sono incontrati a Herat per festeggiare la fine dei lavori tra imponenti misure di sicurezza messe in atto anche dai 500 militari italiani schierati in città. A finanziare i lavori ci pensa l’Asian Development Bank con dieci miliardi di dollari insieme alla Banca per lo sviluppo islamico ma c’è anche un nuovo attore sceso in campo, l’Arabia Saudita, che ha deciso di investire in modo massiccio nell’esecuzione del Tapi. Questo corridoio del gas porterà sviluppo e cooperazione a quattro nazioni e collegherà l’Asia centrale a quella meridionale attraverso l’Afghanistan dopo oltre un secolo di divisioni, ha sottolineato il presidente afghano Ashraf Ghani, intervenendo alla cerimonia che si è svolta a Herat. Il Tapi non solo riavvicina l’India e il Pakistan e il Pakistan all’Afghanistan, opposti da pesanti diatribe ma ha anche ottenuto il via libera dei Talebani afghani che hanno garantito la loro piena collaborazione”. Un tratto di gasdotto, quello più facile, è stato completato, ora comincia la fase più complicata e rischiosa con l’attraversamento del territorio afghano, metà del quale è controllato dagli insorti, dai talebani ed è colpito ripetutamente dagli islamisti dell’Isis, l’ultimo gruppo arrivato in terra afghana con il trasferimento di migliaia di miliziani dai territori perduti in Siria e Iraq. I Talebani, i ribelli più forti sul campo anche se divisi in fazioni rivali, non sono però in grado di conquistare Kabul e sconfiggere l’esercito afghano, sostenuto da truppe occidentali, e questo può essere uno dei motivi che li spinge a cercare il dialogo con il governo. Il gasdotto porterà il gas turkmeno in Pakistan e in India, oltrechè in Afghanistan, stimolando l’economia in gran parte del Paese asiatico martoriato da decenni di guerra e già ricchissimo di risorse minerarie come l’uranio, a condizione che la guerra finisca. Se tutto procederà nel migliore dei modi, le casse governative riscuoteranno ingenti tasse per il transito della pipeline sul suolo afghano e introiti per 500 milioni di dollari all’anno per garantire la sicurezza delle strutture, in gran parte interrate. Altrettante risorse finiranno nelle tasche dei Talebani, forse superiori a quelle derivanti attualmente dalla coltivazione e dalla vendita dell’oppio che l’anno scorso ha fatto registrare una crescita record. Nei territori amministrati dai Talebani l’aumento della produzione dell’oppio ha registrato nel 2017 un aumento eccezionale di quasi il 90%, percentuale considerata allarmante dal rapporto annuale preparato dall’Ufficio dell’Onu contro il traffico di droga e la criminalità organizzata (Undoc) presentato di recente a Kabul. Ora le condotte verranno allungate verso le bollenti province di Helmand e Kandahar, sotto il controllo talebano, fino al confine pakistano. Ad accelerare i passi dei talebani nella ricerca di un’intesa con Kabul c’è la forte rivalità con l’Isis che può contare su numerosi combattenti ben armati che hanno rivendicato gli ultimi sanguinosi attentati a Herat e nella capitale dove una numerosa folla festeggiava il Nawruz, il capodanno persiano, solennità odiata dai fondamentalisti perchè non islamica. A questo punto non ci resta che sperare nel gasdotto e nei negoziati con i talebani. Anche padre Giovanni Scalese, il parroco di Kabul che vive rinchiuso nel bunker dell’ambasciata italiana, ripone le ultime speranze di pace nel dialogo tra il governo e i talebani e nella costruzione della conduttura trans-afghana. “Solo con la pace possiamo sfruttare le risorse naturali del Paese e far transitare un’opera così importante come la pipeline in costruzione, tutte cose ben più importanti e redditizie del commercio criminale dell’oppio. L’interesse economico potrebbe avere successo dove le armi e la diplomazia hanno fallito”.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 

 

 

 

 

Devers, un torinese a Parigi

Piccola polemica in famiglia. Ho letto, pubblicato su “il Torinese”  venerdì 13 aprile, un interessante articolo di Marco Travaglini intitolato Saint- Eustache, chiesa “magnifica e trascurata” nel ventre di Parigi. E ho apprezzato questo invito alla maggiore conoscenza di un monumento che di solito non viene considerato come meta irrinunciabile per una di quelle trasferte nella capitale francese che i nostri concittadini molto sovente, storicamente, prediligono. E anche ho valutato positivamente la segnalazione in quella chiesa, tra l’altro, della presenza di varie opere di artisti italiani, da Santi di Tito a Rutilio Manetti a Luca Giordano. Ma, ed eccoci alla controversia in famiglia, cioè in questa nostra testata che si chiama “il Torinese”, non ho trovato cenno al fatto che uno degli interventi artistici più rilevanti in Saint-Eustache si deve proprio a un torinese. Si tratta di Giuseppe Devers, nato a Torino nel 1823, che fu pittore, scultore e soprattutto ceramista. Trasferitosi a Parigi nel 1846 in seguito alla concessione di un sussidio -di una borsa di studio diremmo oggi- concessogli da Carlo Alberto per perfezionarsi negli studi artistici, si specializzò nel tempo in interventi di ceramica architettonica, sino a diventare il massimo riferimento Oltralpe di questa particolare e tecnicamente difficoltosa arte applicata. Tant’è che nel 1863 all’Esposizione di Nevers, celebre città della ceramica, Napoleone III gli assegnò la Grande médaille d’or de l’Empereur, il massimo premio previsto in quell’ambito, superando anche personaggi mitici dell’arte fittile francese come Théodore Deck, destinato a divenire direttore della manifattura di Sèvres.

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Questa la motivazione ufficiale: “M. Devers, la fois peintre et sculpteur, est le potier par excellence. Il a consacré de longues années à ressusciter en France les bonnes traditions de cet art éminemment décoratif. (…) Des vases et des médaillons de grande dimension, encadrés de fleurs et de fruits, attestent hautement quel puissant secours la faïence peut apporter à l’architecture”. E in Saint-Eustache era stato autore di una potente installazione, davvero maiuscola, tuttora ben visibile, composta da quattro grandi pannelli in maiolica, alla maniera dei Della Robbia, disposti ai quattro punti cardinali del transetto centrale, e dedicati a quattro figure fondamentali della musica sacra: Re Davide, Santa Cecilia, Sant’Ambrogio e San Gregorio Magno. Quindi raccomando ai nostri concittadini di andare a vedere in Saint-Eustache pure queste alte prove del nostro genio subalpino (e magari, per limitarci solo agli edifici sacri, anche altri artefatti minori di Devers a Parigi e dintorni nelle chiese di St. Ambroise, della Trinité, di Saint Leu Napoleon Tavernie). Glielo dobbiamo, perché Giuseppe Devers è qui da noi oggi troppo dimenticato, nonostante il suo ritorno a Torino, spaventato dagli accadimenti relativi alla Comune di Parigi, chiamato nel 1871 in cattedra all’Accademia Albertina. Ma cominciò a declinare, in un contesto rispetto a quello parigino troppo angusto, a immalinconirsi e a bere. Sino a morire, afflitto da una grave demenza precoce, nel 1882. Parabole tipicamente torinesi.

Enzo Biffi Gentili

Uomo muore travolto da cavallo alla corsa dei buoi

DALLA PUGLIA

Durante la  tradizionale Cavalcata dei buoi un uomo, 78enne, molisano, è stato travolto e ucciso da un cavallo che aveva disarcionato il cavaliere. Uno dei carri dei buoi che partecipavano alla gara  lo ha poi anche investito. La corsa dei buoi di Chieuti (Foggia) è una storica manifestazione che già aveva suscitato polemiche, dopo la morte di un bue stremato durante le prove. E ora la vittima è un uomo.

L’arte di tacere raccontata dall’abate Dinouart

dinouart1L’autore pubblicò nel 1749 un “Trionfo del sesso” a causa del quale entrò in grave attrito con la sua gerarchia fino al punto di essere scomunicato. L’arte di tacere è un trattato sul tema del silenzio che diverte e racconta molte verità che sarebbero oltremodo necessarie ai nostri tempi

 

Al quarto capitolo del suo trattato (“Principi necessari per esprimersi nei libri e nei saggi”) l’abate Joseph Antoine Tousaint Dinouart (Amiens, 1716-1786) scriveva, descrivendo il primo principio, che “è bene trattenere la penna, se non si ha da scrivere qualcosa che valga più del silenzio”. Mi sono chiesto cos’avrebbe detto se avesse gettato uno sguardo, seppur fugace, su questa mia nota. Me l’avrebbe stroncata, in un impeto di riservatezza e modestia, oppure l’avrebbe silenziosamente accettata, per compiacimento o vanità? Non potendo contare su di una risposta, nella speranza di un’indulgenza,  continuerò a scrivere questa breve recensione di un libretto straordinariamente attuale. “L’art de se taire” ( l’arte di tacere) fu pubblicato a Parigi nel 1771,presso l’editore Simon Bénard ed è – forse – l’opera più famosa dell’abate Dinouart , ecclesiastico «mondano» e scrittore versatile del XVIII secolo. Infatti, il nostro abate, scrisse sui più svariati argomenti, soprattutto sulle donne – compresi rifacimenti di opere altrui che gli guadagnarono il titolo dinouart3di «Alessandro dei plagiari» -, e pubblicò nel 1749 un “Trionfo del sesso” a causa del quale entrò in grave attrito con la sua gerarchia fino al punto di essere scomunicato. L’arte di tacere è un trattato sul tema del silenzio che diverte e racconta molte verità che sarebbero oltremodo necessarie ai nostri tempi. Ad esempio sostiene che l’uomo che parla poco e scrive solo cose essenziali sarà migliore scrittore, e miglior politico: “Il silenzio politico è quello di un uomo prudente, che si contiene, che si comporta con circospezione, che non si apre sempre, che non dinouart2dice tutto ciò che pensa, che non chiarisce sempre la sua condotta e le sue intenzioni. È un uomo che, senza tradire le giuste ragioni, non risponde sempre esplicitamente per non lasciarsi scoprire». E si comporta così perché, in generale, “ è sicuramente meno rischioso tacere che parlare”. Una piccola opera sapiente che racconta dell’arte del parlare a proposito, del non aprire bocca a vanvera. L’arte del tacere è anche un’arte dell’eloquenza del corpo, che la civiltà cristiana per lungo tempo ha ignorato, pur essendo un capitolo importante dalla retorica classica. L’arte del tacere è padronanza di sé e della relazione con gli altri: «L’uomo non si appartiene mai così tanto che nel silenzio». Diviso in due parti ( nella prima descrive i principi necessari per tacere, i diversi tipi di silenzio e le cause che li determinano; nella seconda si sofferma sul fatto che “si scrive male, si scrive troppo, non si scrive abbastanza” e su come esprimersi nei libri), questo libro si presta ad una lettura godibilissima e, al tempo stesso, utile. E’ vero che l’abate ricorda come i torchi nella Francia del settecento gemevano per i troppi libri pubblicati (e ancor oggi è così) ma “L’arte di tacere” non rientra tra le pubblicazioni  colpevoli di aver sprecato la cellulosa.

 

Marco Travaglini

Conan Doyle e “Le avventure di Sherlock Holmes”

conan-2Il 31 ottobre del 1892 Conan Doyle pubblicò “Le avventure di Sherlock Holmes”, riprendendo le storie già apparse sulla rivista britannica Strand Magazine. Il successo del personaggio fu tale che il suo autore dimenticò presto le delusioni patite per la mancata carriera di medico. La creazione dell’astuto detective londinese che dimorava al 221B di Baker Street diede il via ad una saga che ispirò a Doyle quattro romanzi e 56 racconti. Al fianco del più celebre investigatore della storia del giallo, a partire dal romanzo “Uno studio in rosso”, comparve l’immancabile dottor Watson. Una curiosità: in nessun romanzo o conanracconto di Doyle si legge del noto intercalare “Elementare, Watson”, né lo si descrive con quel suo strano cappello  o con la pipa ricurva. A parte questo, alla creatura di Conan Doyle si sono in qualche modo rifatti anche gli autori di celebri investigatori, da Agatha Christie ( con il suo Hercule Poirot) ad Umberto Eco, nel caso del Guglielmo da Baskerville de “Il nome della rosa”. I film e le serie televisive non si contano e l’interprete che più di altri ha legato il suo volto a quello dell’investigatore è stato l’attore britannico Basil Rathbone. Ancora oggi, nella londinese  Baker Street, al Museo di Sherlock Holmes, continuano ad essere recapitate le lettere indirizzate a colui che, con grande abilità, riuscì a svelare anche il mistero e la vera natura del mastino di Baskerville.

Marco Travaglini

Il lago d’Orta di Mario Soldati

L’essere stato tra i pionieri della televisione, esaltandone le capacità d’indagine sul costume sociale, consentì a Soldati di mettere in luce, con evidenza ancora maggiore, la predisposizione ad indagare sul viaggio, sull’avventura, sul movimento, dimostrando anche un’attenzione analitica per gli aspetti gastronomici ed enologici legati al territorio, aspetto di chiara ispirazione manzoniana, ma sicuramente anche caro ad uno scrittore che Soldati amò molto e portò sullo schermo: Antonio Fogazzaro

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 Di Marco Travaglini

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Nelle sue opere Mario Soldati offre al lettore una molteplicità di suggestioni e, tra queste, accanto ai profili dei personaggi e all’idea del viaggio, assume una notevole importanza quella del paesaggio. I luoghi non sono solo lo sfondo e la cornice alle vicende narrate, ma diventano anch’essi veri e propri protagonisti, mirabilmente descritti dalla penna incisiva dello scrittore piemontese. L’essere stato tra i pionieri della televisione, esaltandone le capacità d’indagine sul costume sociale, consentì a Soldati di mettere in luce, con evidenza ancora maggiore, questa predisposizione ad indagare sul viaggio, sull’avventura, sul movimento, dimostrando anche un’attenzione analitica per gli aspetti gastronomici ed enologici legati al territorio, aspetto di chiara ispirazione manzoniana, ma sicuramente anche caro ad uno scrittore che Soldati amò molto e portò sullo schermo: Antonio Fogazzaro che apre il suo romanzo “Piccolo Mondo Antico”, con un viaggio attraverso il lago, durante il quale la conversazione fra Pasotti e il curato verte sui cibi che troveranno imbanditi sulla tavola della marchesa Orsola.

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Programmi  come “Viaggio lungo la Valle del Po, alla ricerca dei cibi genuini”, del  1957, e “Chi legge? Viaggio lungo le rive del Tirreno”, inchiesta televisiva in sette puntate sulle letture degli italiani, firmata con Cesare Zavattini e andata in onda nel 1960, offrono ancor oggi l’immagine ricca e innovativa – per l’epoca – di quella che potremmo definire una “indagine sul campo”. Va ricordato che Mario Soldati ha inciso profondamente nella storia dei mezzi radiotelevisivi in Italia, proprio nella fase pionieristica della RAI, quando la televisione stava muovendo i suoi primi passi. Resta il fatto che per Soldati i ‘luoghi’ con i loro nomi e le loro caratteristiche  non rappresentano lo sfondo indistinto dove vengono ambientate le storie di tanta narrazione del secolo breve.  In Soldati c’è un’attenzione diversa, quasi un’attrazione che si trasforma in desiderio di comunicare, di far vedere quei luoghi, elevandoli al ruolo di protagonisti del racconto, mettendo in luce il rapporto stretto e inscindibile che unisce la sua scrittura al suo essere uomo di cinema. Così, in un rilevante esempio d’innovazione comunicativa, ecco che uno degli scrittori più cosmopoliti del panorama letterario  italiano si afferma come uno dei più attenti e profondi conoscitori della provincia. In questo suo bisogno di far assurgere il paesaggio allo stesso livello del personaggio torna con prepotenza il legame alla terra di Manzoni e non si può non cogliere, nelle pagine di Soldati, una sorta di personale ispirazione a brani mirabili dei “Promessi sposi” quali l’incipit “Quel ramo del lago di Como che volge a Mezzogiorno” o “l’addio monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo”, per non parlare delle descrizioni di Milano, o dei luoghi attraversati dalla fuga di Renzo. Ma ciò che in Manzoni si trasforma in lirismo, in Soldati diventa realismo, un realismo che solo lo spietato occhio della telecamera può cogliere pienamente. I temi del viaggio e della fuga, che hanno influenzato tra la fine degli Anni Ottanta e i primi Anni Novanta l’opera di cineasti come Gabriele Salvatores, con la cosiddetta “trilogia della fuga” composta dai film Marrakech Express , Turnè e Mediterraneo, nella ricca bibliografia di Soldati tornano spesso, come suggeriscono i titoli stessi di molte delle sue opere, come  Fuga in Francia, Viaggio a Lourdes, Fuga in Italia, L’avventura in Valtellina.

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Negli stessi “Racconti del Maresciallo”, sia nella forma scritta che nelle due riduzioni televisive, con le serie andate in onda nel 1968 ( la prima in sei puntate, con Turi Ferro a prestare il volto al maresciallo Gigi Arnaudi) e nel 1984 (“I nuovi racconti del Maresciallo”, in cinque puntate con la regia del figlio  Giovanni Soldati e Arnoldo Foà come interprete) i luoghi assumono una notevole rilevanza, mettendo in luce questo che può essere definito come uno dei tratti distintivi di Mario Soldati. La sua passione per “le Italie”, lo portò a compiere un’esperienza del tutto unica nella sua  carriera: l’organizzazione della  mostra sulle regioni per ‘Italia 61’ che celebrò i cent’anni dell’Unità d’Italia al Palazzo delle Esposizioni di Torino (costruito per quell’occasione). Volendosi cimentare nella costruzione di un “itinerario soldatiano”, sarebbero tanti i luoghi del Bel Paese (e del mondo) da ripercorrere: da Torino e dall’abitazione nel centro storico del sabaudo capoluogo fino a Roma, dove visse e lavorò fino al 1960, da Corconio, sul lago d’Orta, alle colline dell’entroterra del lago Maggiore e alle amate Alpi; dalla Liguria, con il mare di Alassio e Chiavari, fino a Tellaro, la frazione più orientale del comune di Lerici, nello spezzino, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita.  C’è però un luogo che forse, più di altri, ha lasciato un segno, una traccia indelebile nell’animo di Soldati. E questo luogo è il lago d’Orta. E’ qui che la grande amicizia e il sodalizio tra Soldati e Mario Bonfantini trova l’occasione e l’habitat ideale per saldarsi in modo inscindibile. Sulla rivista “Lo Strona” ( n. 1/1979), ricordando l’amico Bonfantini ,da poco scomparso, Soldati rievoca il momento più importante della nostra amicizia e forse anche della sua e della mia vita: un lungo momento magico, tra l’autunno del 1934 e la primavera del 1936, quando il destino ci appaiò, ci assecondò nella scelta di un volontario esilio sul lago d’Orta: quell’autoconfino rigeneratore, quel delizioso paradiso perduto e ritrovato che accogliendo lui e me, Mario il vecchio e Mario il giovane, ci salvò in extremis da strazianti, estenuanti, storte vicende sentimentali e restituì all’uno e l’altro al suo vero se stesso”. Soldati, ne’ “Gli anni di Corconio”, offre una bellissima descrizione del viaggio da Novara al Cusio, raccontando luoghi, persone e vicende con una delicatezza che tradisce i suoi sentimento e l’affetto che nutre per questo suo luogo dell’anima. Un viaggio che intrapresero in bicicletta , con lo stretto necessario di  biancheria e  libri legato sui portapacchi (“..tutto il resto, quando avremmo potuto dare il nostro definitivo indirizzo, ci sarebbe arrivato per ferrovia o portato su da qualche amico di Novara che possedeva un automobile”). Fu un’esperienza importante che Soldati fissa nella sua memoria, al punto da descriverla “ come uno dei momenti più felici della mia esistenza”, raccontando  la partenza in un pomeriggio dei primi di ottobre del 1934 : “…filavamo appaiati sull’asfalto deserto di un lunghissimo rettilineo, nell’aria fresca, nella chiara ombra delle alte cortine dei pioppi. La strada in continua, regolare, lieve salita sembrava fatta apposta per sfidare i nostri garretti: provavamo il piacere di mantenere, con uno sforzo sensibile, ma assolutamente indolore, una velocità quasi da professionisti”. I paesi scorrevano sotto i loro occhi, con Bonfantini che , entusiasta, ne gridava i nomi, mentre i due pedalavano su strade di terra, seguendo un percorso che li portò, in un primo momento sulle colline del lago Maggiore, a Nebbiuno, dove si fermarono sedotti e affascinati da quel nome.

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Qui però non trovarono l’agognata pace, ma il terribile frastuono della fabbrica di chiodi. Scrive Soldati: “Aihmé, quel nome affascinante ci aveva fatto immaginare, ci aveva promesso un autunno e un inverno da veri scrittori, lunghe giornate al tavolino, ore interminabili, proficue, difese e ovattate dal silenzio delle lente nebbie che dovevano salire dal lago fino alle finestre della nostra stanza. Nebbiuno ci aveva tradito. Da Nebbiuno eravamo fuggiti per sempre con orrore..”. Intrapresa la via dell’alta Valle dell’Agogna , verso Sovazza e Armeno,con l’immagine svettante del Monte Rosa all’orizzonte, apparve davanti ai due letterati-ciclisti  il “miraggio, famigliare, idillico, complementare di quello del Rosa: il lago d’Orta, che Mario amava già appassionatamente, e che anch’io amavo, ma conoscevo appena.. Da quel momento, fu come se se fossimo guidati da una concorde ispirazione, da un’intelligenza misteriosa che ci spingeva, ci spronava a continuare, a scendere verso il lago. Attraversammo Armeno, percorremmo velocemente la strada tra Armeno e Miasino, tra Miasino e Vaciago, e, dopo Vaciago, giù, senza più ricordare la carta geografica, senza pensare a nessun nome di nessun luogo. Forse era solo, molto semplicemente, la gioia della discesa: o forse quell’azzurro che, tra i verde di ogni tornante, ci invitava a scendere verso il lago”.  Così giunsero a Corconio, dove dimorarono nell’alberghetto gestito dalle due sorelle Rigotti, l’Angioletta e la Nitti. Lì, entrambi, quasi adottati da quella famiglia, misero radici e vissero intere stagioni alloggiando in “una stanza d’angolo, la più bella e più soleggiata dell’albergo, con una finestra a nord e una a ovest. Pagavamo ciascuno, per l’alloggio e il vitto vino compreso, centoventi lire al mese”. Le lunghe chiacchierate davanti al fuoco del camino con il Pédar e il Nando, mangiando castagne arrosto o bollite, bevendo il vino nuovo nelle ciotole, si accompagnarono alle pagine che vennero scritte, ai libri che presero forma, agli articoli e ai saggi critici che consentirono loro di racimolare il necessario per poter vivere “da scrittori”. A Corconio , il giovane Soldati rimase due anni. Vi scrisse il suo bellissimo “America primo amore” ( che Mario Bonfantini fece pubblicare da  Bemporad a Firenze) e iniziò il romanzo “Confessione”, oltre a confezionare innumerevoli articoli per “Il Lavoro” e altre testate giornalistiche. L’ambiente circostante si offriva a loro in tutta la sua bellezza. “Quante cose Corconio ci ha insegnato. Come ci ha cambiato, Mario e me, per tutta la vita, in quella specie di autoconfino che ci eravamo scelti involontariamente e inconsciamente. Gli spazi, intorno, ci sembravano immensi. Eravamo restii a violarli, provavamo una strana timidezza a muoverci dalle immediate vicinanze dell’albergo di Corconio. E quando ci muovevamo per andare in qualche posto un po’ più lontano, Alzo, Orta, Pettenasco, Gozzano, era soltanto per la sicurezza che avevamo di trovarci qualcuno che ci aspettava, un amico che ci conosceva”.Sul lago d’Orta, come lui stesso scrisse, indagò – insieme all’inseparabile amico – sul senso da dare al termine civiltà.

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E lo trovò nelle cose semplici, ma ricche di valori di quell’esperienza. La riconobbe in quella che, in tutta semplicità, veniva chiamata educazione. Così, scriveva in proposito: “La parola civiltà, che deriva da civis, cittadino, include necessariamente il concetto di comunicazione con gli altri, di amore per il prossimo: la parola cultura che è la forma astratta del latino colere, coltivare. non è necessariamente né esclusivamente dedicata agli altri: può essere interpretata anche in senso egotistico. Ed è sintomatico che i tedeschi, invece della parola corrispondente a civiltà, usino di solito in sua vece la parola kultur. Sì, la nostra civiltà contadina e lacustre era allora altrettanto sconosciuta di quella oltre Eboli, altrettanto lontana sebbene vicinissima: solo, era più umana. A Corconio, non l’avrebbero nemmeno chiamata civiltà. Sapete, se fossero stati interrogati come l’avrebbero chiamata? Educazione. Noi siamo così, avrebbero detto, siamo così perché così siamo stati educati dai nostri nonni, dai nostri genitori, dai nostri compaesani appena un po’ più in là di noi negli anni. Era un’educazione più umana e più profonda di quella di tanti altri paesi perché serrava più da presso la realtà, tutto il bene e tutto il male della vita”. A suggellare il legame tra Mario Soldati e la “terra tra i due laghi”, quel territorio che si distende attorno al Mottarone, svettante, solitario,  tra il Maggiore e l’Orta, ci sono molti altri episodi oltre all’ambientazione delle scene finali del film “Piccolo mondo antico”, parecchi episodi de “I racconti del Maresciallo” e quel piccolo atto d’amore rappresentato dal breve documentario “Orta Mia” del 1960. Altre due iniziative di Mario Soldati, entrambe legate alla nascita di importanti premi letterari, confermano il suo amore per queste terre.

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Nel 1959 , da un incontro tra l’allora sindaco di Omegna Pasquale Maulini con Mario Soldati, insieme a Mario Bonfantini, Cino Moscatelli e Gianni Rodari, nasce l’idea d’istituire il Premio letterario della Resistenza “Città di Omegna” che, in tredici successive edizioni, sino al 1974 ( venne poi ripreso nel 1995) ha rappresentato un appuntamento alto della cultura italiana e internazionale. Basta scorrere l’Albo d’oro dei vincitori ( da  Jean Paul Sartre a Franz Fanon, da Camilla Cederna a Aléxandros Panagulis) ed i prestigiosi nomi che, in quegli anni, fecero parte della Giuria ( oltre ai due “Mario”, Soldati e Bonfantini, Guido Piovene, Gianni Rodari, Cesare Zavattini, Italo Calvino, Franco Fortini, Carlo Bo e tanti altri) per avere un’idea dell’importanza del Premio. Nel 1976, viceversa, Mario Soldati, insieme ad alcuni scrittori che vivevano, o soggiornavano, sul Lago Maggiore e si raggruppavano “idealmente” – allora – attorno alla rivista “La Provincia Azzurra”, contribuì alla fondazione del Premio Stresa di Narrativa. Un appuntamento letterario, quest’ultimo,  che si distinse nel panorama culturale nazionale per un suo particolare dinamismo, ma anche per quell’attenzione al “regionalismo” cui si ispirava una parte importante della letteratura lombardo-piemontese del ’900, e soprattutto in campo narrativo. Accanto a Soldati c’erano l’immancabile Mario Bonfantini, il luinese Piero Chiara, il giornalista Gianfranco Lazzaro e Franco Esposito, fondatore e direttore della rivista culturale “Microprovincia”. Anche qui, sin dall’inizio, della Giuria fecero parte scrittori e intellettuali come Carlo Bo, Giovanni Spadolini, Giorgio Bàrberi Squarotti e Primo Levi. Dunque, non solo le opere del grande scrittore piemontese – letterarie, cinematografiche e televisive – hanno subito l’influenza di questi luoghi ma, in chiusura, è possibile immaginare che anche Mario Soldati abbia avvertito, come noi che per scelta o per sorte qui viviamo, scorrere nel suo sangue la trama dell’acqua del lago. Una trama fatta di bonacce, tempeste, onde, schiume, increspature del vento, sciabordio lungo i moli. Non è cosa che si possa capire fino in fondo se non s’avverte dentro, nell’anima.  Guardare i ghirigori che disegnano le correnti in superficie equivale ad ammirare quelle rughe cesellate nell’istante stesso che precede la loro cancellazione da un’altra onda. Immagino che Soldati, quando si recava ad Omegna, fissasse con curiosità e forse con un certo fascino lo scorrere lento della corrente della Nigoglia e quei pesci che vi si mettono di traverso, puntando il muso in senso opposto, tenaci come salmoni pronti a spiccare il salto. Immagino che abbia pensato che, come ogni cosa viva di queste parti,anche i pesci  mettessero a nudo il loro spirito ribelle stando lì, quasi immobili nella corrente, in direzione ostinata e contraria. Anche i colori del Cusio che vedeva da Corconio, il più delle volte, non s’accontentano delle mezze misure, prediligendo tonalità forti: grigio metallo e antracite sotto la pioggia battente d’inverno; verdeazzurro carico, pieno di vita e di promesse in tarda primavera; dolente e malinconico, pur senza rassegnazione negli autunni dove il colore delle foglie dei boschi tinge di giallo e arancio il riverbero dell’acqua. Quante volte sarà capitato anche a lui, e a Mario Bonfantini, di vedere nell’ombra riflessa sull’acqua di una nuvola che accarezza il Mottarone e fugge via, rapida, verso l’alta Valsesia irrompere la scia di una barca a motore che ne taglia a metà l’immagine riflessa per poi lasciare all’acqua il compito di ricomporla, con le forme morbide e mosse di un’opera di Gaudì. L’acqua, torcendo le immagini,  confonde. In fondo, questo è il lago d’Orta. E si può capire perché Mario Soldati se ne fosse innamorato.

 

Marco Travaglini

 

 

Uccide la moglie a colpi di pistola in mezzo alla strada

DALLA LOMBARDIA

Mentre rientrava a casa sulla sua Alfa Romeo Giulietta Valeria Bufo, di 56 anni, di Seveso, è stata uccisa a colpi di pistola dal marito Giorgio Truzzi, 57enne, a Bovisio Masciago (Monza). L’uomo la stava seguendo  alla guida della sua smart quando ha fatto fuoco ad un incrocio. Non è stato ancora appurato se la donna sia scesa dall’auto volontariamente o sia stata obbligata, prima di essere uccisa in mezzo alla strada. La coppia ha tre figli ed era in crisi  da tempo, in attesa della separazione.

Pink Floyd, il lato oscuro della luna

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The Dark Side of the Moon”, ottavo album in studio dei Pink Floyd, nacque dopo numerose sperimentazioni musicali che Waters e compagni studiarono durante i loro live o registrazio­ni

 

Ci incontreremo sul lato oscuro della luna” (I’ll see you on the dark side of the moon). Con questa promessa, quattro decenni fa (era il marzo del 1973) i Pink Floyd pubblicavano “The dark side of the moon”, disco storico del rock che portò al gruppo bri­tannico una (meritata) fama che continua a resistere nonostante il passare degli anni e delle generazioni. Il gruppo, formatosi a Londra nel 1965, dal cantante e chi­tarrista “Syd” Barrett, dal bassista Roger Waters, dal batterista “Nick” Mason e dal tastierista Richard Wright. (ai quali si ag­giunse, due anni dopo, il chitarrista David Gilmour che in bre­ve sostituì Barrett, genio sregolato che s’emarginò dal gruppo a causa del pesante uso di droghe che lo portò all’alienazione), riscrisse le tendenze musicali della propria epoca, diventando uno dei gruppi più importanti della storia. Presentatosi con un titolo intrigante e una copertina con un’im­magine molto semplice, minimalista ma ricca di significati (un prisma triangolare rifrangente un raggio di luce sul fronte), fa­mosa, si è fissato nell’immaginario collettivo come la celebre bocca con la lingua dei Rolling Stones.“The Dark Side of the Moon”, ottavo album in studio dei Pink Floyd, nacque dopo numerose sperimentazioni musicali che Waters e compagni studiarono durante i loro live o registrazio­ni, ma senza le lunghe parti strumentali che erano diventate una caratteristica peculiare del gruppo dopo l’abbandono nel 1968 di Syd Barrett.

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L’album prima di essere pubblicato e registrato in studio venne eseguito in tourneè, in modo che potessero perfezionare le musiche, come nel caso di “Time”, in origine decisamente più lenta che nella versione poi pubblicata. Venne suonato per la prima volta il 17 Febbraio 1972 al Rainbow Theatre di Londra. Il concerto venne ripetuto quattro volte, fino al 20 Febbraio, e vi assistettero circa 12 mila persone. Nell’occasione venne registrato anche un bootleg Pink Floyd Live, di cui furono vendute la bellezza di 120 mila copie, credendo che fosse il nuovo album del gruppo.“The Dark Side of the Moon” fu un successo immediato e duraturo nel tempo: nel marzo 2013 ha toccato le 1050 settimane nella classifica US Top Catalog, con 50 milioni di copie vendute in tutto il mondo. I testi furono scritti da Toger Waters, mentre il batterista Nick Mason ricevette un premio speciale come compositore solista di “Speak to Me” e  Alan Parsons si guadagnò un Grammy Award per il miglior album prodotto, come tecnico del suono, del 1973. Brani come “Money”, “Time” e “Us and Them”sono conosciuti ovunque. Questo disco ha affascinato e continuerà ad affascina­re diverse generazioni perché, come le più grandi opere d’arte, si fa portatore di temi universali. Parla della società, dell’uomo, del suo lato luminoso e di quello oscuro. Affronta i temi del conflitto interiore, il rapporto con il denaro, il trascorrere del tempo (straordinario il ticchettìo e lo scoccare degli orologi in “Time”) e quello dell’alienazione mentale, ispirato in parte dai disturbi mentali di Barrett. Oltre al suo successo commerciale, “The Dark Side of the Moon” è spesso considerato uno dei migliori album di tutti i tempi.

 

Marco Travaglini