FOCUS INTERNAZIONALE di Filippo Re
Dopo la guerra dichiarata contro il fumo nei locali pubblici, ora sotto la scure del sultano finiscono vino, birra e superalcolici. Il presidente-padrone della Turchia Recep Tayyip Erdogan si schiera apertamente contro la piaga dell’ alcolismo e i danni alla salute chiedendo ai turchi di cambiare, di adottare stili di vita diversi e di rispettare di più le regole dell’Islam. Per l’ennesima volta nel Paese della Mezzaluna sono aumentate le tasse sul vino, sulle bevande alcoliche e sul raki, un liquore all’anice simile alla grappa diventato una bevanda nazionale. Rigore puritano e clima da proibizionismo, è questa l’aria che si respira nella nuova
Turchia presidenzialista e autoritaria del ciclone Erdogan. Il divieto di bere alcol è una norma islamica applicata severamente in tutti gli Stati musulmani ma i tentativi di aggirarla non sono mai mancati, né oggi né in passato. Nella Costantinopoli ottomana tale proibizione veniva spesso violata, si importava vino dai Paesi europei, si coltivavano viti sulle rive del Bosforo e le taverne sul Corno d’Oro erano affollate di poeti, scrittori e storici. Ma anche al vertice dell’Impero il vino scorreva a fiumi. Sultani, gran visir e religiosi islamici maledivano l’alcol in pubblico ma nell’intimità dei palazzi imperiali il vizio del vino non mancava mai. “Che giorno e notte nessuno deponga il calice…che si continui a bere e ad adorare il dolce nettare…anche a Solimano il Magnifico il vino piaceva molto, era vita, allegria e amore, e lo fece entrare nelle sue poesie. Per non parlare di suo figlio, il sultano Selim
II, detto il Beone, che un giorno si sbronzò a tal punto da cadere a terra e morire. Ma quando ne scorreva troppo i sultani diventavano improvvisamente rigidi e severissimi contro il consumo dell’alcol. Taverne, osterie e botteghe venivano subito chiuse per tutti, musulmani, cristiani ed ebrei, con pene e sanzioni pesanti in caso di trasgressione del divieto. Ma la chiusura non durava molto, a volte pochi giorni, a volte perfino poche ore. Nella Turchia di Erdogan, l’uomo forte di Ankara, torna la crociata anti-alcol. Chi lo vende o lo produce non ha vita facile e solo nel 2017 sono stati almeno 10.000 i negozi di vino e altri alcolici chiusi per legge.















Trieste, molo Audace. Quello che al tempo dell’Impero si chiamava “San Carlo” e che prese il nome della prima nave italiana che attraccò lì, nel porto della città dalla “scontrosa grazia”, il 3 novembre del 1918.
Lei era incinta, lui malato terminale, sofferente: quasi per un incredibile disegno della sorte, s’incrociarono le strade di una vita che iniziava e di una che andava verso la fine. Il sottotitolo del libro ( “favola di un viaggio alla riconquista del tempo”) descrive bene l’andare con lentezza di Paolo Vittone alla riconquista del tempo. Una straordinaria lezione che ci dice come non sia mai troppo tardi incamminarsi nella ricerca delle proprie emozioni, dei luoghi e delle storie che si sono amate come quelle della “terra degli slavi del sud”, etnicamente purificate o ancora meticcie, lungo il crinale che separa la cultura del mare e quella della terra. Gli ultimi mesi di vita, Paolo li trascorse a Trieste. Una scelta che motivò così, in una lettera all’amico Paolo Rumiz, giornalista come lui: “Sai bene che vengo a Trieste a vivere, ma con ogni probabilità a morire… Vengo a Trieste perché è al confine delle terre della mia e nostra anima ed essere più vicino mi fa pensare che tornerò almeno una volta a sentire la Neretva, ad ascoltare il muezzin dalla moschea del Beg e annusare i cevapi e la pita in Baščaršija, che forse vedrò persino ancora una volta il vecchio amico Hilmo. Vengo a Trieste perché per le sue strade i vocaboli si mescolano, perché solo a Trieste le scintille si chiamano falischee i gabbiani imperiali cocài”. 
sfuggirle, ma semplicemente farsi trovare al posto giusto”. Ad ogni tappa del viaggio raccontato ne “La lumaca e il tamburo” s’incontrano persone, volti segnati dalla fatica e cotti dal sole, scoppi di gioia e incredibili malinconie, boschi, montagne e fiumi, delicati tramonti balcanici e musiche d’ottoni, suoni di campane e canti dei muezzin nell’ora della preghiera. Paolo Vittone appuntava tutto su un block notes ma non si limitava a questo: da buon giornalista radiofonico, portava sempre con sé il registratore. Imprimeva sul nastro le voci, i suoni e il fiato profondo delle terre che dal Carso e dall’Istria scendono fino alla foce della Neretva. Per non dimenticare nulla, portando tutto dentro di se e lasciando a noi un testamento prezioso, denso di emozioni e significati.