Dall Italia e dal Mondo- Pagina 69

Mauthausen, all’ombra della “fortezza di pietra”

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Cinquanta studentesse e studenti, accompagnati dalla storica Elisa Malvestito dell’Istituto storico della Resistenza e della Società contemporanea di Biella-Vercelli e da dieci docenti hanno partecipato, dall’11 al 13 maggio al viaggio studio al campo di concentramento di Mauthausen e al Memoriale di Gusen, in alta Austria. Secondo e penultimo degli appuntamenti finali della 37° edizione del progetto di Storia Contemporanea, il viaggio è stato organizzato dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte.

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Il Danubio, le leggi di Keplero e gli anni giovanili di Hitler

Linz è stata la prima meta del viaggio.  Tra le tre città più importanti dell’Austria è anche anche una delle località più conosciute e culturalmente affascinanti dell’Europa centrale. Capitale europea della Cultura nel 2009, annovera tra i suoi cittadini illustri l’astronomo e matematico tedesco Keplero che nel 1618 vi scoprì le leggi che regolano il movimento dei pianeti. Ma la città sul Danubio è nota anche per aver ospitato Adolf Hitler – nato a Braunau, in Alta Austria – quando, negli anni della sua giovinezza, aspirava a diventare un pittore.

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Mauthausen,simbolo dei lager nazisti

A venti chilometri da Linz, Mauthausen rappresenta nell’immaginario collettivo uno dei simboli dei lager nazisti, al pari di Auschwitz. La sua istituzione risale all’8 agosto 1938, alcuni mesi dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista mentre la sua liberazione, per opera delle truppe alleate, data al 5 maggio 1945. Mauthausen era il “campo madre” di un gruppo di una quarantina di strutture concentrazionarie, di diverse dimensioni, sparse in buona parte dell’Austria. Edificata con il granito della sottostante cava, l’incombente fortezza di pietra ricorda nel suo profilo architettonico uno stile orientaleggiante, tanto che i prigionieri ne ribattezzarono la porta d’accesso principale con il nome di “porta mongola”.

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Campo di lavoro e prigionia durante la “grande guerra”

A Mauthausen, già durante la Prima guerra mondiale, l’Impero Austro-ungarico aveva individuato un luogo di internamento e prigionia per quei militari degli eserciti nemici catturati durante i combattimenti sul fronte orientale e meridionale. Anche allora i prigionieri venivano obbligati al lavoro nella cava di granito, utilizzato per la pavimentazione delle strade. Tra il 1914 e il 1918 vi confluirono circa 40mila persone, perlopiù di origine russa, serba e italiana. Di esse almeno novemila vi perirono, tra cui 1.759 nostri connazionali, a causa della fame e degli stenti, anche se il campo di prigionia di allora nulla aveva a che fare con quello che vent’anni dopo venne istituito dai nazisti.

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Gli oppositori rinchiusi nella “fortezza di pietra”

La quasi totalità di quanti vennero  rinchiusi a Mauthausen tra il 1938 e il 1945 lo fu per ragioni politiche o razziali: la parte restante era costituita da delinquenti comuni, i cosiddetti “asociali” e gli appartenenti ai popoli zingari. Complessivamente i prigionieri furono circa 200mila di cui 50mila polacchi, 40mila sovietici, 40mila ebrei (perlopiù ungheresi e polacchi), 6.781 italiani e 127 donne. Tra l’agosto 1938 e il luglio 1945 (calcolando anche chi perse la vita dopo la liberazione a causa degli stenti patiti) le morti furono 100mila, praticamente la metà di quanti furono internati tar quelle mura. Un numero pazzesco, al quale vanno aggiunti quanti furono sterminati con il gas, nel vicino castello di Harteim e nella camera a gas del lager, dove veniva usato il mortale Zyklon B a base di acido cianidrico (o acido prussico). Altri ancora furono uccisi con il ricorso ai Gaswagen, veicoli sigillati dove i malcapitati erano soffocati dai gas provenienti dai tubi di scappamento.

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La cava e i 186 gradini della “scala della morte”

L’orario di lavoro nel lager era di undici ore.La razione di cibo quotidiana non superava le 1.500 calorie (ma spesso era inferiore), corrispondente a meno della metà di quella necessaria. Le conseguenze erano la fame cronica e la malnutrizione, le malattie e, da ultimo, la morte. Nei primi di anni la durata media della vita degli internati raggiungere i quindici mesi poi, con il passare del tempo, diminuì a sei e, nei periodi più duri e drammatici, a tre. La “scala della morte”collegava  con la sottostante cava per l’estrazione del granito. Lungo i centottantasei gradini di questa scala scavata nella roccia della collina,  i deportati erano costretti a salire e scendere più volte al giorno, portando a spalla sacchi pieni di massi. Chi cadeva esausto, travolgeva i compagni di sventura con un terribile effetto-domino. Oppure i prigionieri venivano allineati lungo il bordo del precipizio, definito con nero sarcasmo dalle SS come il “muro dei paracadutisti”, costretti a scegliere se ricevere un colpo di pistola o gettare nel vuoto il compagno al proprio fianco. “La cava era là, con i suoi 186 gradini irregolari, sassosi, scivolosi. Gli attuali visitatori della cava di Mauthausen non possono rendersi conto, poiché in seguito i gradini sono stati rifatti – veri scalini cementati, piatti e regolari – mentre allora erano semplicemente tagliati col piccone nell’argilla e nella roccia, tenuti da tondelli di legno, ineguali in altezza e larghezza”. La descrizione resa dal giornalista francese Christian Bernadac, figlio di un deportato,  nel suo libro “I 186 gradini o Tra i morti viventi di Mauthausen”, pubblicato nel 1974, rende l’idea di quell’ inferno.

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I tre sottocampi di Gusen

I tre sottocampi intorno al villaggio di Gusen, a poca distanza da Mauthausen, denominati Gusen I, Gusen II, Gusen III, costituirono una realtà a sé per l’alto numero di deportati e l’estrema durezza delle condizioni di prigionia e di lavoro. Aperti dal 1939 per lo sfruttamento delle vicine cave di granito, dal 1941 – anno d’installazione del crematorio – vennero avviate le eliminazioni sistematiche di malati, inabili, portatori sospetti di malattie contagiose con bagni di acqua gelida, annegamenti di massa, iniezioni al cuore, gassazioni. Nel marzo del 1944 iniziarono i lavori per la costruzione del campo di Gusen II (St. Georgen). I deportati, oltre a costruire il campo, lavorano allo scavo di un sistema di gallerie entro le quali vengono collocati impianti per la produzione di armi e parti di aerei (Steyr-Daimler, Messerschmitt). In dicembre iniziò la costruzione di Gusen III, destinato alla produzione di laterizi. A Gusen passarono complessivamente 60mila prigionieri, di cui circa tremila italiani. Almeno la metà vi lasciò la vita. Nel tempo il campo di Gusen I ha subito un’alterazione della sua fisionomia, ospitando ora una complesso di abitazioni residenziali. Non vi è più traccia di recinzioni, baracche o altre strutture. Resta riconoscibile, anche se ora è una villetta abitata, l’edificio dell’ingresso e del comando del campo. Il Memoriale venne realizzato grazie alla decisione dell’ANED e di altre organizzazioni di ex deportati – in primo luogo francesi – di acquistare sul finire degli anni ‘50 il lotto di terreno su cui sorge per non disperdere la memoria di quanto accadde. All’interno della costruzione si trova il forno crematorio originale del campo, oggi di proprietà del governo austriaco.

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Cosa resta del viaggio…

Il  viaggio, la visita al lager, la condivisione della medesima esperienza in luoghi che hanno segnato tragicamente il ‘900 rappresentano oltre che un occasione per fare memoria uno stimolo per diventare a propria volta testimoni di una delle pagine più orribili della storia moderna, ora che i deportati sopravvissuti sono quasi del tutto scomparsi per ragioni anagrafiche. Il dovere civile di testimoniare serve come antidoto democratico nei confronti di tutte le ideologie malate che  tendono a cancellare l’altro, il diverso, negando il pluralismo e qualsiasi forma di rispetto e convivenza. Il principale obiettivo che da oltre quarant’anni  impegna il Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte nei confronti delle nuove generazioni è quello di contribuire a far sì che non vengano dimenticate le lezioni della storia.

Marco Travaglini

Spazzino muore investito da autobus

DAL VENETO

Un autobus ha investito, uccidendolo, un operatore ecologico di 57 anni  della ditta che provvede alla raccolta dei rifiuti nel comune di Abano Terme. L’uomo è morto mentre stava sostituendo i sacchetti della spazzatura lungo la strada. L’operatore ecologico è originario di Piove di Sacco e abita a Codevigo. Stava risalendo nell’abitacolo del suo mezzo e in quel momento è rimasto schiacciato. L’autista dell’autobus è stato denunciato dai carabinieri per omicidio stradale.

Zenica, dove “il bene” contrasta “il male”

Provate a immaginare cosa voglia dire veder arrivare amici come quelli di cui si parla in questo libro, amici che ti aiutano a guarire, che t’istruiscono su come proteggerti. Se anche con questo progetto aves­simo salvato una sola vita, il suo scopo sarebbe stato già soddisfacente. Invece parliamo di centinaia e centinaia di donne curate e salvate, oltre a quelle che, grazie a un sistema integrato di osservazione, cura e trattamento, saranno salvate in futuro”. Così scrive, a commento di “Tra il bene e il male” (Infinito edizioni,2017) , Azra Nuhefendić, giornalista di origine bosniaca che da più di vent’anni vive e lavora a Trieste. Una storia di quelle che contano, straordinariamente importante, sulla dura e quotidiana battaglia contro tumori e inquinamento a Zenica, nel lungo e difficile dopoguerra della Bosnia. A raccontarla è  RE.TE , una Ong italiana da trent’anni impegnata in un percorso che accompagna i processi di miglioramento della qualità della vita delle comunità in Africa, America Latina, Balcani ed Europa, per restituire dignità a quella parte di popolazione che vede negati ipropri diritti al cibo, all’istruzione, all’infanzia, alla salute, a un lavoro degno, alla terra. Il libro che raccoglie questa vicenda e  che – come si vedrà – lega la comunità piemontese a quella del Cantone bosniaco-erzegovese di Zenica-Doboj, è curato da Alessia Canzian con la prefazione di Lidia Menapace e l’introduzione di Maria Cinzia Messineo.

Sono molti i protagonisti di questa sto­ria “corale”, iniziata subito dopo la fine della guerra in Bosnia Erzegovina (1992-1995) e ancora non del tutto conclusa. Una storia d’impegno e solidarietà concreta che ha visto protagonisti donne e di uomini che hanno investito una parte della loro vita per realizzare un desiderio di sviluppo equo. Una realtà che ho potuto conoscere da vicino. Anni fa sono stato a Zenica, la quarta città più grande della Bosnia,  capoluogo del cantone di Zenica-Doboj. Si trova circa 70 km a nord di Sarajevo ed è circondata da colline e montagne, mentre la Bosna, il fiume che dà il nome alla nazione, l’ attraversa per intero. Lì era stato avviato un piano sanitario, partendo da una piccola località – Breza – per estenderlo a tutto il territorio del cantone, che prevedeva  un programma di screening dei tumori femminili al collo dell’utero  e l’istituzione di un Polo Oncologico presso l’ospedale del capoluogo, grazie all’aiuto e alle competenze della Regione Piemonte e della Rete Oncologica che ha sede alle Molinette, in corso Bramante a Torino. Un progetto importante perché a Zenica (circa centoquindicimila abitanti) e nel suo cantone (oltre settecento mila) non esistevano nessuna indagine epidemiologica, nessun intervento preventivo per i tumori, nessuna struttura ospedaliera che potesse offrire una cura di contrasto alle neoplasie in regime di  day hospital. Per curarsi ( chi poteva economicamente permetterselo, ovviamente) occorreva andare a Sarajevo o a Zagabria, in Croazia. Così, con un lungo e paziente lavoro, nel maggio del 2008, è stato inaugurato il Polo oncologico dell’ospedale cantonale di Zenica, come logica continuazione dell’esperienza pilota di screening oncologico avviata anni prima nel Comune di Breza e nel Cantone. Un progetto che ha permesso la totale ristrutturazione di un ala dell’edificio della casa di cura per ospitare il reparto di oncologia e lo svolgimento delle attività di formazione in Serbia, a Belgrado,  e in Italia, aTorino, per i medici e per gli infermieri. Oggi l’ospedale cantonale di Zenica, grazie a questo lavoro, alle verifiche ed alla progettazione di percorsi diagnostico-terapeutici svoltisi in questi anni, può disporre di un servizio di oncologia provvisto di posti letto di ricovero ordinario, di day hospital e di spazi dedicati all’attività ambulatoriale. E siccome da cosa nasce cosa, è stata avviata la nuova anatomia patologica, rinnovata nei locali e nelle attrezzature, ed è entrata in funzione la radioterapia. Un’importante e insperata opportunità di avere una possibilità di cura contro i tumori per i cittadini di una delle città più inquinate e a rischio sociale dell’intero Paese. Anni di cooperazione decentrata vengono narrati in un racconto che dimostra come nascono, prendono avvio, si evolvono e giungono a felice compimento i buoni progetti di cooperazione internazionale. Un esempio positivo di contrasto al problema di fondo, all’eredità “nera” della guerra nei Balcani che ha prodotto un “buco nell’anima”: il disagio e le depressioni, i suicidi, il diabete e il “male oscuro”  del cancro, originato dalla pessima alimentazione, dall’uranio impoverito dei proiettili che anche in Bosnia sono stati sparati. Un pessimo lascito che pesa come un macigno.

Marco Travaglini

KUWAIT: LA SCHIAVITU’ NASCOSTA DEI FILIPPINI IMMIGRATI

FORUM INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Maltrattati, picchiati, trattati come schiavi e spinti al suicidio. È la condizione dei lavoratori filippini nel Kuwait, oltre 250.000 su una popolazione di 4,2 milioni, la maggioranza dei quali è impiegata come personale di servizio, soprattutto domestici, in gran parte donne, costretti a lavorare fino a 20 ore al giorno. Sette lavoratori filippini sono morti di recente in circostanze misteriose. Il governo delle Filippine ha sospeso l’invio di lavoratori in Kuwait dopo che il presidente Rodrigo Duterte ha dichiarato che gli abusi da parte dei datori di lavoro hanno spinto diversi domestici a suicidarsi. Il Ministro del Lavoro ha affermato che non verranno più inviati lavoratori filippini in Kuwait in attesa delle indagini sulle cause di morte dei cittadini che risiedevano nel Paese del Golfo da tre anni. Il presidente filippino ha dichiarato che le Filippine hanno “perso quattro donne” in Kuwait, riferendosi alle aiutanti domestiche suicidatesi in seguito a maltrattamenti. Duterte ha affermato di essere a conoscenza di molti casi di abusi sessuali contro donne filippine e ha voluto sollevare la questione con il governo del Kuwait che, sorpreso dalle decisioni del presidente filippino, ha fatto sapere che tutti i lavoratori stranieri sono protetti da leggi che li proteggono dagli abusi. Oltre 2,3 milioni di filippini sono registrati come lavoratori all’estero e inviano a casa ogni mese più di 1,6 miliardi di euro. Come avviene in molti Paesi arabi, per controllare i lavoratori stranieri che operano soprattutto nell’edilizia e come domestici, viene usato il sistema “kafala”, sistema di sponsorizzazione. Questa pratica, severamente criticata dalle organizzazioni per i diritti umani, prevede che tutti i lavoratori abbiano uno sponsor interno che generalmente è il datore di lavoro che ha il potere di ritirare il passaporto ai dipendenti in qualunque momento e obbligarli a lavorare anche 20 ore al giorno ma si parla anche di violenze sessuali e maltrattamenti. Il Kuwait è da molti anni la meta preferita di numerosi migranti economici provenienti dal mondo arabo e dall’Asia ma nei kuwaitiani cresce il malumore per l’eccessivo numero di stranieri presenti nel Paese, i due terzi di 4 milioni di abitanti.

Filippo Re

 

Studenti a Berlino, Sachsenhausen e Ravensbrück

Venticinque ragazze e ragazzi piemontesi, accompagnati da 5 docenti e dalla storica Luciana Ziruolo, direttrice dell’Istituto storico della Resistenza di Alessandria, parteciperanno da giovedì 17 a domenica 20 maggio, al viaggio studio di quattro giorni in Germania, visitando Berlino e i lager di Sachsenhausen e Ravensbrück. Il viaggio è l’ultimo e conclusivo dei tre riservati agli studenti vincitori nella 37° edizione del progetto di Storia Contemporanea, promosso dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico regionale.

Berlino, un libro di storia aperto sul ‘900

Berlino, la capitale della Germania, è come un libro di storia aperto sul ‘900, il “secolo breve” delle guerre, dei conflitti e delle divisioni. Il Memoriale dell’Olocausto e le parti restanti del muro che divise in due parti la città durante la guerra fredda testimoniano la sua difficile storia nel corso del XX secolo e la Porta di Brandeburgo è diventata, dal 1989 in poi, il simbolo della sua riunificazione.

 

Il memoriale della Resistenza Tedesca

Il Memoriale della Resistenza Tedesca (Gedenkstätte Deutscher Widerstand) si trova nel luogo in cui venne compiuto il tentativo di colpo di stato del 20 luglio 1944 e all’epoca ospitava la sede del comando superiore dell’esercito del reich. Fu questa la centrale della congiura contro Hitler. In seguito al fallimento dell’attentato, nel cortile del Bendlerblock – così si chiama questo palazzo – vennero giustiziati nella notte stessa il conte Claus von Stauffenberg e tre dei congiurati. Dal 1953 questo cortile è diventato uno dei luoghi di memoria della Resistenza contro il Nazionalsocialismo e nel 1968 sono stati aperti il Memoriale e il Centro Culturale. Nel 2014 è stata inaugurata una nuova mostra permanente che ripercorre attraverso oltre 1000 fotografie e documenti l’ampiezza e la portata ideologica della lotta contro la dittatura nazista. La Resistenza tedesca è stata un fenomeno che coinvolse il movimento operaio, parte della chiesa, i circoli artistici e intellettuali, le minoranze ebraiche, sinti e rom, e alcuni movimenti giovanali. Capitoli particolari della mostra sono dedicati all’attentato a Georg Elser dell’8 novembre 1939, al Circolo di Kreisau (Kreisauer Kreis), alla Rosa Bianca (Weiße Rose) e l’Orchestra Rossa (Rote Kapelle). La mostra ricostruisce la formazione delle reti della resistenza, quali fossero le loro motivazioni e gli obiettivi e come lo stato nazista reagì alle loro azioni.

 

Il lager di Sachsenhausen

Il lager di Sachsenhausen, situato 35 chilometri a nord di Berlino, fu costruito nel 1936 come campo di concentramento “esemplare”, immaginato per proiettare l’immagine di forza del nazismo e sottomettere i prigionieri al potere delle SS. Fra il 1936 e il 1945 “ospitò” più di 200 mila prigionieri.I primi reclusi furono gli avversari politici del nazismo ma,successivamente, vennero imprigionati anche coloro che erano reputati inferiori, per caratteristiche razziali e biologiche. Moltissimi vi morirono per malattia, lavori forzati e fame,altri furono vittime dello sterminio di massa eseguito dalle SS. Il 22 e 23 aprile 1945, quando quest’incubo terminò, i soldati dell’Armata Rossa liberarono più di 3.000 persone, fra i malati e i medici che ancora si trovavano nel campo. Nell’agosto del 1945, il lager di Sachsenhausen divenne un campo speciale sovietico.Nel campo furono imprigionati i funzionari del regime nazista, alcuni nemici politici e molte persone ingiustificatamente imprigionate.Il campo di Sachsenhausen divenne il più grande della zona di occupazione sovietica, fino a quando fu smantellato nel 1950. Nei cinque anni in cui fu operativo, vi furono internati circa 60.000 prigionieri, dei quali più di 12.000 non riuscirono a sopravvivere. Per i tragici avvenimenti, che videro come protagonista il campo, nel 1961 divenne un luogo commemorativo. Oggi Sachsenhausen è aperto al pubblico: diversi edifici e costruzioni sono stati ricostruiti, come ad esempio le torri di guardia, l’entrata del campo e diverse baracche. È inoltre presente un museo che raccoglie testimonianze e lavori della vita degli internati.

 

Ravensbrück, il lager delle donne

Ravensbrück, conosciuto come “il lager delle donne”, ha una storia molto particolare e terribile. Situato nella regione del Brandeburgo, 80 chilometri a nord est di Berlino, il campo venne costruito tra i primi del sistema concentrazionario nazista, nel 1939, allo scopo di internare le donne tedesche considerate asociali e le delinquenti comuni. Successivamente, nelle sue baracche e dietro ai suoi reticolati, finirono le donne deportate dai paesi progressivamente occupati dai nazisti: zingare, ebree, oppositrici al regime, lesbiche, testimoni di Geova. A Ravensbrück furono immatricolate 132.000 donne e decine di migliaia di loro persero la vita, fucilate o soffocate camere a gas con lo Zyklon B, il micidiale acido cianidrico, conosciuto anche come “acido prussico”. Tantissime altre morirono per malattia e stenti, sfiancate dal lavoro, dalla fame e dal freddo, oppure a seguito degli esperimenti medici di cui erano le cavie. La conoscenza e la memoria di questo luogo, anche se negli anni ha conservato poco dell’originaria struttura concentrazionaria, può e deve essere un doveroso omaggio a tutte le donne che nel campo hanno sofferto e trovato la morte.

Marco Travaglini

Padre uccide la figlia spezzandole l’osso del collo

Avrebbe confessato di avere ucciso la figlia, il padre di Sana Cheema, da tre settimane in carcere in Pakistan. La ragazza di 25 anni, vissuta sempre in Lombardia, è morta in Pakistan il 18 aprile. Secondo giornali pakistani l’uomo, cittadino italiano come la ragazza, si sarebbe fatto aiutare da uno dei figli maschi per stringere al collo la giovane fino a romperle l’osso del collo. La 25enne era cresciuta a Brescia e sarebbe stata uccisa per aver rifiutato un matrimonio combinato.

Bidella accusata di pedofilia si uccide: “Sono innocente”

DALLA SARDEGNA

Dopo  40 anni di lavoro tra i bambini delle scuole materne di un centro del Cagliaritano una bidella di 64 anni, oggi in pensione, si è tolta la vita nella propria casa: aveva ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari da parte della Procura di Cagliari, fascicolo aperto due anni fa, a seguito della denuncia per abusi sessuali su minore che era stata presentata dai genitori di una bambina di 4 anni. Prima di uccidersi la donna ha scritto un biglietto: “La gente è solo capace di giudicare. Sono innocente”. La bimba disse che l’ex bidella l’avrebbe molestata dopo averla accompagnata in bagno. Ma non sarebbero state trovate prove dagli inquirenti  né nelle intercettazioni né attraverso riscontri con eventuali altri casi analoghi.

Guernica, quando l’orrore cadde dal cielo

guernica3Guernica, piccola città dei Paesi Baschi, nella provincia di Biscaglia, nel nord est della Spagna, ha un triste primato. È stata una delle prime città, se non proprio la prima in assoluto, ad aver subito un bombardamento aereo a tappeto. Il 26 aprile del 1937, durante la guerra civile spagnola, Guernica per oltre due terzi  venne rasa al suolo, nonostante non fosse un obiettivo strategico militare. Morirono centinaia di persone, soprattutto donne e bambini. L’azione, decisa con cinismo da nazisti e  franchismi, venne portata a termine dalla  Legione Condor , unità volontaria della tedesca Luftwaffe – con il supporto dell’ Aviazione Legionaria, anch’essa un’ unità volontaria e non ufficiale della Regia Aeronautica italiana. Due giorni dopo, il 28 aprile 1937 , il Times scriveva: ‘Il lunedì a Guernica è giorno di mercato per la gente delle campagne. Alle 16,30, quando la piazza era affollata, e molti contadini stavano ancora arrivando, la campana diede l’allarme. Cinque minuti dopo un bombardiere tedesco volteggiò sulla città a bassa quota, quindi lanciò le bombe mirando alla stazione. Dopo altri cinque minuti ne comparve un secondo, che lanciò sul centro un egual numero guernica1di esplosivi. Un quarto d’ora più tardi tre Junker continuarono l’opera di demolizione e il bombardamento si intensificò ed ebbe termine solo alle 19,45, con l’approssimarsi dell’oscurità. L’intera cittadina, con settemila abitanti e oltre tremila profughi, fu ridotta sistematicamente a pezzi. Per un raggio di otto chilometri, tutt’intorno, gli incursori adottarono la tecnica di colpire fattorie isolate. Nella notte esse ardevano come candele accese sulle colline”. Quando la notizia di questo crimine contro l’umanità si diffuse tra l’opinione pubblica, Pablo Picasso era impegnato alla guernica2realizzazione di un’opera che rappresentasse la Spagna all’Esposizione Universale di Parigi del 1937. Decise così di realizzare un dipinto di notevoli dimensioni (di quasi 3,5 metri per 8) che denunciasse l’atrocità del bombardamento su Guernica. Nel grande quadro non c’è traccia di colore, accentuandone la carica drammatica. Al centro un cavallo nitrisce di terrore, tra una donna piange un bambino morto e altre figure che si trascinano o che ardono tra le fiamme che divorano le case. A sinistra, campeggia la figura di un toro, simbolo della Spagna  e della forza di un popolo, offeso dalla viltà di chi ha voluto far cadere dal cielo una tempesta di bombe senza che la città inerme potesse opporre resistenza. Quest’opera monumentale di Picasso divenne presto il simbolo della denuncia contro la guerra e gli orrori che questa provoca.E quando la tela si trovava ancora nello studio dell’artista a Parigi, un ufficiale tedesco chiese con arroganza e superbia: ” Avete fatto voi quest’orrore, maestro?”. Con onestà Picasso rispose: ”No, è opera vostra”.

Marco Travaglini

Il Comune di Mazara invita l’ex parrucchiera che ha “sequestrato” l’idraulico

DALLA SICILIA

L’anziana ex parrucchiera 75enne che ha chiuso in casa l’idraulico che non le avrebbe voluto fare la fattura è stata invitata dal comune di Mazara del Vallo, in Sicilia, che  intende  “assegnare un encomio non al gesto ma alla donna che voleva avere riconosciuti i suoi diritti”. Il sindaco Nicola Cristaldi commenta la vicenda che ha visto  come protagonista Pina Conrotto, 75 anni, ex parrucchiera di Chieri. La donna è stata denunciata dai carabinieri, chiamati dalla sorella, per sequestro di persona ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni. L’idraulico si è difeso dicendo: “la  signora mi ha accusato di non aver fatto bene i lavori e io le ho detto che avrei fatto la fattura quando fosse tutto ultimato”. Lei:  “Io sono per la legalità. Ho chiesto quello che mi spettava”, ha ribadito l’anziana.

Affogate giovane mamma e figlia di due anni

DALLA CAMPANIA

I corpi della compagna di 31 anni e della figlia di due anni dell’imprenditore  di Caserta Pierluigi Iacobucci, sono stati ritrovati oggi nelle acque di Terracina. A confermarlo sono i carabinieri di Mondragone. L’uomo con la donna e la figlia scomparvero il 2 maggio, erano usciti in mare con una moto d’acqua. Il cadavere di Iacobucci venne scoperto il giorno dopo nelle acque di Baia Domizia.