Il 23 agosto alle ore 12.30 presso il porto di Lampedusa, Fabio Viale presenterà In Mare la Pietà, un nuovo passaggio, questa volta attraverso un’azione performativa, di Souvenir Pietà (Madre), con il patrocinio del Comune di Lampedusa e il supporto della Galleria Poggiali.
Il lavoro dell’artista, da sempre caratterizzato dal virtuosismo della finitura dei suoi marmi e dal riferimento ai capolavori dell’arte classica, è indissolubilmente legato allo spiazzamento percettivo dello spettatore che in diverse occasioni si manifesta attraverso atti performativi.
L’opera Souvenir Pietà (Madre) realizzata nel 2018 è la prosecuzione di Souvenir Pietà (Cristo), realizzata invece nel 2007. In entrambe le circostanze l’artista ha replicato in scala 1:1 la Pietà Vaticana di Michelangelo Buonarroti aggiungendo a questo capolavoro della storia dell’arte uno scarto percettivo determinate: nel primo caso è stato riprodotto il Cristo senza la Madre, nel secondo invece la Madre senza il Figlio a simboleggiare un’angosciata separazione. Il passo successivo del lavoro ha assunto poi una dimensione più concettuale con Lucky Ehi presentata in occasione dell’apertura della sede milanese della Galleria Poggiali. In questo caso Viale ha invitato a prendere posto nel luogo del Figlio e a riempire il vuoto tra le braccia della Madre un giovane nigeriano di religione cattolica sfuggito a morte e persecuzione, conosciuto in un centro di accoglienza per rifugiati di Torino. Quella Madonna in marmo bianco di Carrara diviene una madre universale, delle epoche e delle religioni, accoglie l’ultimo, assume le sembianze di una donna col velo e pare dismettere il portato cattolico connotato e fragoroso per divenire una figura universale velata da un copricapo di misericordia assoluta. Nell’esposizione milanese, la scultura era accompagnata da un manifesto di 4 metri per 3 che occupava tutta la parete della galleria e raffigurava Lucky Ehi nudo nel luogo del Cristo, e dalla registrazione sonora della sua storia di migrante. Il nuovo passaggio del progetto di Fabio Viale sarà adesso quello di posizionare la scultura orfana del Cristo su un peschereccio ormeggiato presso il porto di Lampedusa in corrispondenza della Guardia Costiera. La statua, rivolta verso il mare, rappresenta la sintesi magniloquente di un messaggio di accoglienza e universalità. La Madre è pronta a ospitare su di sé, nel suo doloroso vuoto, l’universalità dell’uomo che giunge dal mare, offrendo il suo grembo all’intera umanità. Nel pomeriggio il peschereccio lascerà il porto e si fermerà a largo della scosta sud, accanto all’Isola dei Conigli, teatro di innumerevoli tragedie e drammatici naufragi tristemente celebri. La Pietà di Viale allora, in mare aperto, volgerà simbolicamente le spalle alla terra di Lampedusa e lo sguardo alla Libia.

In un angolo del vecchio cimitero di Montparnasse, a Parigi, c’è una lunga tomba di pietra, corrosa dal tempo e dalle intemperie, senza fiori e seminascosta da altre tombe imponenti.
pittura personalissima e profondamente coinvolgente fatta di colori violenti e squillanti che caratterizzano i suoi bambini, i suoi piccoli pasticceri, i suoi chierichetti e tutto quel mondo che dal lontano ghetto russo ha trovato spazio e immortalità nella sua arte e nei suoi quadri.
Del resto, Soutine si comporta nei confronti dei suoi quadri come Saturno con i suoi figli: li crea e, poi, per una strana paura connaturata in lui, per una sorta di insoddisfazione, li taglia, li brucia, li cancella, dominato da una furia distruttrice. La fama sembra diventare un peso e il denaro che guadagna, attraverso le proprie opere, viene rapidamente bruciato per concedersi lussi che non gli appartengono. 





paesaggio della zona con l’immagine dei boschi che sfuma tra nubi basse e nebbia. Gi stessi boschi dove, nell’intento di sfuggire alla follia omicida, trovarono la morte migliaia di bosgnacchi. C’è anche l’istantanea di una bambola rotta, con la faccia tagliata, probabilmente strappata dalle mani di una bambina: un giocattolo innocente che, deturpato e scaraventato nel fango, si trasforma in una sagoma inquietante. Queste foto, senza didascalia, raccontano ogni cosa e tutto il dolore meglio delle parole che suonerebbero vuote, fuori posto. In fondo, inutili. Non sono tante queste immagini. Non c’è bisogno di ostentare l’orrore per smuovere la memoria. L’ultima della
serie, però, è un pugno nello stomaco ancora più forte. Una mano, guantata di bianco, solleva dalla terra di una fossa comune un’altra mano senza vita, scheletrica, nera, sporca. Il contrasto è netto e la pellicola in bianco-nero lo accentua fino a renderlo sconvolgente,impressionante. Pare che la mano morta chieda aiuto, si aggrappi per trascinarsi disperatamente fuori. E l’altra, oserei dire con una delicatezza caritatevole, la sostiene, consapevole che ormai non resta più nulla da fare se non consentirle una dignitosa sepoltura, dopo l’orrore della morte violenta e la profanazione del corpo. E’ un particolare crudo, un’immagine diretta, priva di mediazioni. La mano, presumibilmente di uno dei tanti uomini massacrati a Srebrenica o nei dintorni, riflette la tragicità della morte con una efficacia senza pari. Nel nostro immaginario la morte viene
raffigurata con teschi e ossa umane, scheletri disegnati, dipinti o incisi sulle lapidi dei vecchi cimiteri, a volte sulle inferriate. La figura più classica , diffusasi dopo il Medioevo, è quella dello scheletro che brandisce la falce che recide la vita, allo stesso modo in cui taglia l’erba o il grano. Ma in questo caso la fotografia della mano scarna e sporca di terra rende l’idea del degrado del corpo ed evoca la morte nel modo più macabro e diretto che si possa immaginare. Per questo colpisce, lasciando senza fiato. Difficilmente si può ignorare ma altrettanto difficilmente gli sguardi indugiano su quest’immagine di indicibile drammaticità. Ad alcuni ragazzi la vista ha provocato ansia e conati di vomito, ad altri la tensione si è sciolta in pianto. Nessuno è rimasto indifferente. Ci sono immagini, situazioni che fanno riflettere molto più di altre. Chi visita oggi il campo di sterminio di Auschwitz resta attonito sfilando davanti alle teche del museo colme di scarpe, protesi, occhiali, capelli. O alle centinaia di barattoli vuoti di zyklon B, il cianuro solido che – a contatto con l’aria – non lasciava scampo a chi era stato costretto ad entrare nelle “docce” delle camere a gas. Lo stesso è accaduto a Belgrado qualche anno fa, nel luglio del 2010, dove le “Donne in nero”, attiviste antimilitariste di Serbia, hanno inscenato una originalissima manifestazione in ricordo di Srebrenica. Hanno raccolto 8372 paia di scarpe, tante quante furono le vittime dell’eccidio riportate sulla stele del Memoriale ( in realtà circa diecimila) , allo scopo di farne un monumento nella capitale serba. Così centinaia di paia di scarpe di ogni tipo, foggia e colore – da uomo, donna, sportive e per bambini, ciabatte e stivali – sono state allineate per terra sulla Kneza Mihailova, la frequentatissima strada pedonale nel cuore dell’ex capitale della










