Conobbe i reduci che avevano vissuto la disfatta di Caporetto; vide cadere i “ragazzi del ’99”, chiamati alle armi nel 1917, non ancora diciottenni, ed inviati sul Piave e sul Grappa per fermare l’avanzata nemica dopo lo sfondamento austro-tedesco del fronte dell’Isonzo
Di mio nonno ricordo le mani. Dovevano esser state delle mani grandi e forti. Capaci di strette sincere e di una presa ferma. Io le ricordo, poco prima di morire, coperte da vene blu che – dopo aver viaggiato per una vita come i fiumi del Carso – erano risalite in superficie, accompagnandone dolcemente i tremolii e le incertezze. Mani da lavoratore, rese dure dai calli ma – immagino – capaci di tenerezze per quanto si potesse cogliere questa disponibilità affiorante come una debolezza tra le pieghe del suo carattere burbero e severo.
Il nonno – nato all’inizio dell’ultimo decennio dell’ottocento – si era fatto, tutta intera e senza sconti, la prima guerra mondiale. Dal 24 maggio del 1915 all’11 novembre del 1918 furono, per i tanti come lui che – fortunati – riuscirono a portare a casa la “ghirba”, giorni, settimane, mesi ed anni durissimi. ” Si vede che non era la mia ora“, diceva quasi a giustificazione di non aver fatto la fine di tanti suoi compagni, morti o dispersi. Alpino del Battaglione “Intra” come tanti altri provenienti dalle nostre zone e dal varesotto, prima di partire per il fronte era stato assegnato in un primo momento alla caserma “Simonetta” di Intra e poi alla “Urli” di Domodossola. Sulla divisa portava la nappina verde degli Alpini dell’Intra, quelli che non mollavano mai ed avevano scelto un motto ( “O u roump o u moeur!” ) che era tutto un programma. Quella guerra fu una vera carneficina. Fu, al tempo stesso, l’ultimo conflitto del passato – con la sua guerra di trincea, lenta e di posizione – ed il primo grande conflitto in cui si usarono senza risparmio tutti i mezzi moderni, come aeroplani, mezzi corazzati, sommergibili e – terribili e disumane – le armi chimiche, tra cui il gas “iprite” che prese il nome dalla città belga di Ypres, dove fu utilizzato per la prima volta per iniziativa dei tedeschi. Sopravvissuto agli assalti alla baionetta ed agli scontri sulle montagne del Carso e sul Grappa, il nonno – con in grado di sergente maggiore- combatté senza tregua per portare a casa intera la pelle.
Conobbe i reduci che avevano vissuto la disfatta di Caporetto; vide cadere i “ragazzi del ’99”, chiamati alle armi nel 1917, non ancora diciottenni, ed inviati sul Piave e sul Grappa per fermare l’avanzata nemica dopo lo sfondamento austro-tedesco del fronte dell’Isonzo. Comandò, negli ultimi mesi, dopo che una granata aveva spezzato la vita al capitano ed ai due sottotenenti, i suoi uomini dando prova di buon senso e di coraggio. Gli affidarono così un reparto formato da giovanissimi della classe 1900, arruolata nel 1918 in vista della prevista offensiva della primavera 1919 e che, tolto qualche volontario, non venne mandata in prima linea perché la guerra terminò prima. Quand’aveva la vena malinconica si lasciava scappare qualche accenno. Ricordo la descrizione inorridita dei soldati passati per le armi perché erano scappati dal fronte dopo Caporetto. Mi parlava delle frasi tracciate sui muri delle case come quella, famosa, del “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!”. Di ricordi, s’intuiva ne avesse molti ma parlava poco e malvolentieri. Era stato decorato con una medaglia di bronzo e due encomi solenni per ” l’assidua, fervida, utile opera prestata, per il costante efficace esempio di coscienzioso adempimento del dovere, combattendo per la Patria sul Monte Grappa e sull’altipiano del Carso“. Il nonno morì prima di vedersi assegnare la Croce di Cavaliere di Vittorio Veneto. Una onorificenza che non gli avrebbero comunque dato perché si era rifiutato di farne richiesta. L’Ordine di Vittorio Veneto venne istituito per legge nel marzo del 1968 per «esprimere la gratitudine della Nazione» a coloro che avevano combattuto per almeno sei mesi durante la prima guerra mondiale o precedenti conflitti. Per ottenerlo bisognava avanzare, tramite il comune di residenza, una propria, personale domanda al capo dello Stato. Quando venne il vigile, modulo alla mano, a proporre di compilarla, il nonno lo mandò via con modi bruschi.
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“Dopo quasi cinquant’anni non so che farmene del titolo. Se quelli di Roma vogliono fare qualcosa di buono, allora diano una mano alle famiglie di quelli che sono stati mandati a morire sui fronti. Io ho solo fatto il mio dovere anche se la guerra è una cosa schifosa, dove a rimetterci sono sempre i poveri cristi“. In un cassetto della credenza scoprii, accanto alla medaglia ed ai nastrini tricolori, una vecchia e consumata cartolina postale spedita da Innsbruck, la capitale del Tirolo. Raffigurava il Castello di Ambras, caro all’arciduca Ferdinando II d’Asburgo. Il bollo sull’affrancatura portava la data del 12 maggio 1923. E la scritta, in un italiano scarno e stentato, diceva : “Amico taliano, grazie per tutto. Molti belli saluti“. La firma, quasi illeggibile, pareva di un certo Hans Maier o Hans Heigher. Probabilmente un montanaro, inquadrato in qualche battaglione d’assalto dei Kaiserschutzen tirolesi. Il nonno era geloso dei suoi segreti e non ne fece mai cenno ma so bene che molti alpini e molti “tiratori dell’imperatore” fraternizzarono, trovandosi ad alte quote gli uni di fronte agli altri, tutti
montanari che sentivano più il legame della terra che il richiamo del sangue e l’astio del confine. Si fronteggiavano, sparandosi addosso, ma molti lo facevano controvoglia, per obbligo e non certo per scelta. Chissà cosa si dissero e che fecero in quei giorni e in quei luoghi dove si combattevano le battaglie “più alte della storia”. Non l’ho mai saputo e non lo saprà mai nessuno. Il nonno, questo suo “segreto” se l’è portato via con se, per sempre. E non fatico a credere che la stessa cosa sia capitata al suo amico d’oltre frontiera. Sono passati tanti anni da allora ed anche i ricordi sfumano, diventano trasparenti, impalpabili. Si ha paura di toccarli per non vederseli ridurre in polvere e volar via. Resta però un fatto. Duro come la pietra su cui sono fissate le lettere di metallo dei nomi dei caduti e dei reduci della “grande guerra” sul lastrone all’entrata del cimitero di Baveno. Tra i tanti nomi quello del nonno non c’è. Lui che della guerra non riuscì ad evitarne neppure un attimo è stato omesso, dimenticato. Sono certo che se lo venisse a sapere ne sarebbe sinceramente contento, godendo di quel po’ d’oblio che le dimenticanze, a volte, possono regalare.
Marco Travaglini



paesaggio della zona con l’immagine dei boschi che sfuma tra nubi basse e nebbia. Gi stessi boschi dove, nell’intento di sfuggire alla follia omicida, trovarono la morte migliaia di bosgnacchi. C’è anche l’istantanea di una bambola rotta, con la faccia tagliata, probabilmente strappata dalle mani di una bambina: un giocattolo innocente che, deturpato e scaraventato nel fango, si trasforma in una sagoma inquietante. Queste foto, senza didascalia, raccontano ogni cosa e tutto il dolore meglio delle parole che suonerebbero vuote, fuori posto. In fondo, inutili. Non sono tante queste immagini. Non c’è bisogno di ostentare l’orrore per smuovere la memoria. L’ultima della
serie, però, è un pugno nello stomaco ancora più forte. Una mano, guantata di bianco, solleva dalla terra di una fossa comune un’altra mano senza vita, scheletrica, nera, sporca. Il contrasto è netto e la pellicola in bianco-nero lo accentua fino a renderlo sconvolgente,impressionante. Pare che la mano morta chieda aiuto, si aggrappi per trascinarsi disperatamente fuori. E l’altra, oserei dire con una delicatezza caritatevole, la sostiene, consapevole che ormai non resta più nulla da fare se non consentirle una dignitosa sepoltura, dopo l’orrore della morte violenta e la profanazione del corpo. E’ un particolare crudo, un’immagine diretta, priva di mediazioni. La mano, presumibilmente di uno dei tanti uomini massacrati a Srebrenica o nei dintorni, riflette la tragicità della morte con una efficacia senza pari. Nel nostro immaginario la morte viene
raffigurata con teschi e ossa umane, scheletri disegnati, dipinti o incisi sulle lapidi dei vecchi cimiteri, a volte sulle inferriate. La figura più classica , diffusasi dopo il Medioevo, è quella dello scheletro che brandisce la falce che recide la vita, allo stesso modo in cui taglia l’erba o il grano. Ma in questo caso la fotografia della mano scarna e sporca di terra rende l’idea del degrado del corpo ed evoca la morte nel modo più macabro e diretto che si possa immaginare. Per questo colpisce, lasciando senza fiato. Difficilmente si può ignorare ma altrettanto difficilmente gli sguardi indugiano su quest’immagine di indicibile drammaticità. Ad alcuni ragazzi la vista ha provocato ansia e conati di vomito, ad altri la tensione si è sciolta in pianto. Nessuno è rimasto indifferente. Ci sono immagini, situazioni che fanno riflettere molto più di altre. Chi visita oggi il campo di sterminio di Auschwitz resta attonito sfilando davanti alle teche del museo colme di scarpe, protesi, occhiali, capelli. O alle centinaia di barattoli vuoti di zyklon B, il cianuro solido che – a contatto con l’aria – non lasciava scampo a chi era stato costretto ad entrare nelle “docce” delle camere a gas. Lo stesso è accaduto a Belgrado qualche anno fa, nel luglio del 2010, dove le “Donne in nero”, attiviste antimilitariste di Serbia, hanno inscenato una originalissima manifestazione in ricordo di Srebrenica. Hanno raccolto 8372 paia di scarpe, tante quante furono le vittime dell’eccidio riportate sulla stele del Memoriale ( in realtà circa diecimila) , allo scopo di farne un monumento nella capitale serba. Così centinaia di paia di scarpe di ogni tipo, foggia e colore – da uomo, donna, sportive e per bambini, ciabatte e stivali – sono state allineate per terra sulla Kneza Mihailova, la frequentatissima strada pedonale nel cuore dell’ex capitale della












Ed a galleggiare su tutto, come un velo di nebbia, l’assurdità assoluta e palpabile della guerra. Un “catalogo poetico” di straordinario fascino,in cui si trova Hofmannsthal che presagisce la fine della “nostra vecchia Austria, assediata da ombre nere, da torbidi presagi”, il tenente Musil che vede in faccia la morte sul campo di battaglia, Kafka che in sogno immagina le future camice brune naziste, Edith Stein che si fa suora cattolica ma muore in un lager come martire ebrea, Freud che spiega ai suoi alunni la connessione tra coraggio soldatesco e viltà scientifica. “Non abbiate timore. A prima vista / può sembrare poesia, ma sono storie / di due guerre, raccolte da un cronista / che si è perduto fra vecchie memorie. / Il testo, anche se ha righe disuguali, / non differisce in nulla da una prosa, / con nomi, date e luoghi ben reali – / sia documento o cronaca o altra cosa”.
Con questa chiave di lettura, Forti apre il suo racconto per poi sfogliare, pagina dopo pagina, gli “annali dispersi” dell’Impero asburgico, cogliendone le voci e riproducendole, trascritte in versi discorsivi su persone e vicende. Così s’incontrano la famiglia Canetti al concerto, l’ultima ora dell’Imperatore, il Golem che appare a Gustav Meyrink, il suo “biografo”. E ancora: Ettore Schmitz tra i naufraghi del
piccolo almanacco di Radetzky appartiene a quel genere”, scrisse Corrado Augias. Aggiungendo come “in un periodo così affollato di cronache, romanzi, storie, Forti è stato capace di mettere insieme avvenimenti ed episodi che mai nessuno prima aveva accostato con tanta appassionata perizia e finezza d’evocazione. Così facendo ci dà di quegli anni di guerra un volto inaspettato e più d’una sorpresa”. Quelle narrate da Forti ( eccellente traduttore, morto nel 199 a 77 anni) sono storie familiari e remote, trascritte come fogli di un “lunario” che racconta, dal 1914 al 1918, anno per anno, mese per mese, il tramonto dell’Impero e le vicende personali dei suoi scrittori e dei suoi artisti, fino alla sconfitta che distruggerà la vecchia compagine e libererà nuovi demoni. In pratica, la fine di un mondo e di un modo d’intendere la vita e i rapporti tra gli uomini che non avrebbe più avuto eguale.

