Dall Italia e dal Mondo- Pagina 60

Faggeto Lario, l’estate del 1976 sull’altro “ramo” del lago di Como

IL RACCONTO / di Marco Travaglini

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Faggeto Lario dista poco più di 15 chilometri da Como. In auto, una mezz’ora di strada. Avete presente «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi..» descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”? Bene: il nostro “ramo” è quell’altro. E’ lì che, con il pullman dell’Azienda Comasca Trasporti in servizio sulla tratta Como-Bellagio, passando da Blèvio e Torno, sono arrivato un pomeriggio d’agosto del 1976. Avevo diciott’anni e la mia destinazione era l’Istituto di studi comunisti “Eugenio Curiel”. Un tempo, dopo la Liberazione, la “scuola quadri” del PCI nel comasco portava il nome di “Anita Garibaldi” ed era  riservata alle donne. All’epoca, il PCI di Berlinguer teneva molto allo sviluppo di una politica culturale rivolta alla nuova generazione di militanti, funzionari e quadri intermedi che entravano a ingrossare le file del partito. Una grande importanza avevano le scuole di partito, la cui attività formativa si svolgeva attraverso l’organizzazione di corsi di base, presso le sezioni o le federazioni provinciali, oppure presso le strutture permanenti, tra le quali la più nota era l’Istituto di studi comunisti delle Frattocchie (dal 1973 intitolato a Palmiro Togliatti), in una frazione di Marino, località dei Colli Albani una ventina di chilometri a sud di Roma. Lì si formavano i quadri dirigenti, si insegnava l’arte della politica. Non si imparava solo la “linea”. Chi frequentava i corsi studiava storia, economia e altre materie ma, soprattutto, ci si formava sull’idea che far politica era una professione al servizio degli altri, di un ideale, di una causa. Insomma, una cosa seria. I corsi erano impegnativi e di lunga durata. I periodi di permanenza variavano da un anno a sei mesi fino a poche settimane. Il mio era un “corso estivo per giovani operai”, della durata di tre settimane che, praticamente, corrispondevano alle mie ferie. Le giornate venivano scandite secondo un programma preciso: ore 7, sveglia e riordino delle stanze; ore 7.55, inizio dei corsi; ore 12, pranzo e riposo; ore 15, discussione e studio; ore 19, cena e libera uscita (quando non capitava qualche riunione serale); ore 22, rientro. Su questo non si sgarrava. Una sera che, in tre, con l’auto di un compagno di Genova (una vecchia Simca 1000) andammo alla Festa de L’Unità di Bellagio, essendo tornati verso le 23 trovammo il cancello chiuso e dormimmo sotto i salici in riva al lago perché nel parco della scuola, dopo le 22, venivano sguinzagliati per la notte due cani piuttosto “mordenti” e non era il caso di mettere alla prova le nostre gambe e  le loro mandibole. Il direttore era l’ex senatore Giovanni Brambilla (Conti). Operaio, confinato, partigiano, in passato vicesegretario della Federazione milanese del Pci e segretario generale della Fiom provinciale milanese. Un uomo tutto d’un pezzo, gentile ma ferreo nell’applicare la disciplina. I docenti erano di grande livello. Stava per essere pubblicato dagli Editori riuniti “Economia politica marxista e crisi attuale”  dell’economista  Sergio Zangirolami, e si studiava con lui  sulle sue dispense. Il giornalista e scrittore Luciano Antonetti, amico e biografo di Alexander Dubcek, protagonista della Primavera di Praga e leader di quel “socialismo dal volto umano” soffocato dai carri armati sovietici nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, ci parlava di politica internazionale. Luciano Gruppi, intellettuale comunista di rango, vicedirettore della rivista “Critica marxista”, anticipò i contenuti di due volumi che sarebbero usciti di lì a poco: “Il compromesso storico” e “Il concetto di egemonia in Gramsci”. Insomma, per farla breve, era un corso impegnativo e, nello stesso tempo, intrigante. Imparavamo a mettere in ordine secondo una certa logica le intuizioni che avevamo colto nel muovere i primi passi in politica e questo ci dava una bella carica. Ma eravamo anche dei ragazzi, tra i diciotto e i ventiquattro anni, e amavamo anche divertici. Non racconterò gli scherzi che si possono immaginare, come – tanto per fare un paio d’esempi – lo zucchero infilato sotto le lenzuola di Mauro Z., operaio metalmeccanico di Carpi, che andava sempre a letto senza pigiama perché soffriva il caldo, o il sale nella minestra di Roberto P., studente di Lodi, che la sputò schifato in faccia a Luigi F., anch’esso studente ma di Verona, che gli sedeva di fronte nel refettorio. Il sabato o la domenica, a seconda delle condizioni del tempo, si andava in gita sul monte Palanzone, con una bella sgambata di qualche ora. Tra canti partigiani e pranzi al sacco, quelle gite rafforzavano il nostro cameratismo. Le nuotate nel lago erano una consuetudine dopo pranzo, prima che entrasse in azione la digestione del pasto che, a dire il vero, era alquanto frugale.  Ho sempre avuto una fifa blu nello spingermi dove non si toccava, quindi mi limitavo a quattro bracciate in orizzontale, poco distante dalla riva. Ma la cosa più straordinaria, e per certi versi tragica, capito’ a Bepi. Il cognome l’ho dimenticato, ma mi ricordo che svolgeva le mansioni di magazziniere in una distilleria di Bassano del Grappa. Quando arrivai in istituto a Faggeto Lario, Bepi era già lì da quindici giorni ed era molto nervoso. Non ci mettemmo molto a comprenderne le ragioni. A ridosso della scuola, appena oltre il muro, c’era una chiesa che un tempo era appartenuta alla stessa proprietà ma che il partito, dopo averla acquisita, con gesto generoso, aveva donato alla curia comasca. Del resto, che cosa ce ne facevamo di una chiesa? Chi aveva fede poteva tranquillamente frequentare le funzioni e queste erano di competenza della diocesi e non certo del PCI. Comunque il problema non era tanto la chiesa ma l’orologio del campanile che, grazie ad un meccanismo ad ingranaggi collegato ad una campana, segnava non solo le ore ma pure le mezze. E se, per il Manzoni, verso sera “si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, cha annunziava il fine del giorno. …” per il povero Bepi s’annunciava il calvario di un’altra notte in bianco perché quel suono gli impediva di riposare. Così, un bel giorno, mi pare di venerdì, calate le ombre della sera, ormai esasperato, armatosi di un possente martello e di due cunei di ferro, lunghi e spessi, si arrampicò come un gatto sul campanile. Giunto all’altezza delle lancette dell’orologio, fissò con forza i cunei nel muro, bloccando il meccanismo che – in tensione per l’impedimento – si ruppe, bloccando il meccanismo che attivava la campana con un forte “crack”. Così, dopo il blitz di Bepi, la notte trascorse in un silenzio irreale e così anche il giorno dopo fino a quando, avvertito del danno che aveva guastato l’orologio, il parroco diede in escandescenze, accusando “quei senza Dio di comunisti” di “aver tagliato le corde vocali alla cristallina voce della Chiesa”. Ma, non avendo prove, dopo un po’ di baillamme, la polemica si stemperò nel nulla. Cosa diversa fu invece l’inchiesta interna condotta dal direttore Brambilla che, superando il nostro muro del silenzio, ottenne da Bepi una piena confessione dopo che lo stesso aveva manifestato un repentino cambio d’umore, canticchiando una poco edificante canzoncina il cui ritornello prometteva di mandare a fuoco le chiese per poi, sulle macerie, costruire delle sale da ballo. Reo confesso, Bepi lasciò la scuola e tornò a Bassano mentre noi, per altri dieci giorni, continuammo il nostro corso di studi per poi tornare a casa. Così passai le ferie del 1976, tra amici e compagni, studiando e frequentando – quando si poteva, mettendo insieme i pochi spiccioli di cui disponevamo – l’Osteria dei Manigoldi, dove si poteva gustare la  petamura. Non saprei come definirla: sembrava  un dolce, una specie di budino, ma era anche un pasto completo , composto da farina, latte, zucchero e vino. Era molto consistente e nutriente, nonostante fosse un piatto povero. Sarà stata la fame, saranno i ricordi un po’ sbiaditi della gioventù, ma quel piatto tradizionale di Faggeto dal colore violaceo era proprio una bontà.

IN CAMPANIA, BASILICATA E LOMBARDIA È BOOM DI CASE VACANZA

Un’analisi di Solo Affitti, rete immobiliare specializzata nella locazione con 300 agenzie 

 

La Campania è la regione italiana dove le case vacanza[1] sono cresciute di più negli ultimi dieci anni (+790%), da 819 a 7291, seguita dalla Basilicata, dove sotto l’effetto Matera il numero di queste strutture è aumentato di oltre sette volte (+645%, da 74 a 551), e dalla Lombardia, dove gli appartamenti per le locazioni turistiche sono incrementati del 482% (5626 strutture). È quanto emerge da un’analisi[2] di Solo Affitti Brevi, progetto lanciato dall’omonima rete immobiliare specializzata nella locazione, con 300 agenzie in Italia.

“L’offerta di case vacanza per gli affitti brevi – spiega Alessandro Leder, responsabile e coordinatore del progetto Solo Affitti Brevi – è accelerata in modo significativo negli ultimi tre anni. Se nel 2015 la loro disponibilità risultava pressoché carente, oggi ci sono zone dove la domanda trova ampie scelte e il prezzo ne risente al ribasso. In città come Bologna, Firenze e Trieste sono molti i proprietari di casa che ogni settimana rinunciano alle locazioni ‘classiche’ per intraprendere, a volte autonomamente, l’attività di ‘affitto breve’. La mancanza di esperienza – aggiunge Leder – mette a rischio questi soggetti di incappare in sanzioni amministrative o di affittare a prezzi non congrui. In questo contesto è quanto mai necessario affidarsi intermediari professionisti, in grado di interpretare e soddisfare pienamente le nuove esigenze di mercato”.

In Italia, dove le case vacanza rappresentano oltre la metà (52%) dell’offerta ricettiva turistica totale, tra 2008 e 2017 il numero di case e appartamenti per le locazioni brevi è cresciuto del 58%, da 68129 a 107366. Secondo quanto rilevato da Solo Affitti Brevi queste strutture sono aumentate in modo significativo anche in altre regioni dalla forte vocazione turistica. In Emilia-Romagna (+378%) sono quasi quintuplicate, passando da 1700 a 8124, mentre nel Lazio (+238%, da 1551 a 5235 ) e in Puglia (+212%, da 498 a 1554) sono più che triplicate. Le case e gli appartamenti destinati alle locazioni  brevi sono più che raddoppiati in Calabria (+157%, da 143 a 368), Sardegna (+152%, da 310 a 780) e Sicilia (+109%, da 754 a 1574).

Il progetto Solo Affitti Brevi  – spiega ancora Alessandro Leder– è stato studiato per  offrire grandi opportunità di guadagno non solo per i soggetti privati ma anche per i nostri affiliati. Un mercato che potrebbe generare un giro d’affari da 27 milioni di euro per le 300 agenzie Solo Affitti. Abbiamo ipotizzato che gestendo fino a 5 immobili (micro business), i nostri agenti possano ottenere un giro d’affari di 80 mila euro, cifra che sale a 420 mila euro se gli immobili in gestione sono 25 (medium business). Le opportunità di business e guadagno si fanno molto più interessanti quando il patrimonio immobiliare gestito supera le 25 unità (maxi business)”.

Secondo quanto rilevato da Solo Affitti Brevi le uniche regioni in cui il numero di case vacanza si è ridotto sono il Friuli Venezia Giulia (-35%, da 8169 a 5299), dove comunque queste strutture rappresentano il 74% dell’offerta ricettiva turistica totale, e il Trentino Alto Adige (-3%, da 3683 a 3570). Chi ama trascorrere le vacanze in appartamento può contare su un’offerta molto ampia in Veneto, dove quasi 9 strutture ricettive su 10 (89%) è rappresentata da case per gli affitti brevi (cresciute del 34% tra 2008 e 2017, da 41585 a 55851). Tra le regioni con la più alta incidenza di case per gli affitti brevi ci sono anche Campania (57%), Emilia Romagna (52%) e  Lombardia (46%).

Tra 2008 e 2017 il numero dei posti letto in case vacanza è cresciuto in Italia del 22% (da 728650 a 890172), con punte del +335% in Campania (da 8736 a 37982), +197% in Basilicata (da 1750 a 5189) e +156% in Lombardia (da 25119 a 64274). Solo Affitti Brevi ha rilevato che i posti letto sono raddoppiati nel Lazio (+113% da 26641 a 56638) e cresciuti in modo significativo in Calabria (+81%, da 3494 a 6329). e Abruzzo (+79%, da 4348 a 7782)

Tra le province dove gli appartamenti destinati agli affitti brevi (ufficialmente rilevati) sono cresciuti di più spiccano Ferrara (+3092%, da 109 a 3479), Bergamo (+2048%, da 42 a 902), Matera (+1489%, da 27 a 429), Salerno (1383%, da 406 a 6021) e Taranto (+876%, da 17 a 166).

 

1
Alloggi in affitto gestiti in forma imprenditoriale+ case per ferie”
2
Base dati: Istat 2008 e 2017

Eleanor Rigby

beatle2Il dramma della povertà continua a colpire nella più totale indifferenza. Le cronache, di tanto in tanto, raccontano storie di miseria e di solitudine. Perdere il lavoro, la casa, gli affetti. Trovarsi soli, spaesati. Diventando, non di rado, protagonisti di due scarne righe in cronaca perché la solitudine può uccidere e uccide. Uno dei temi delle nostre società più preoccupanti è il crescere delle solitudini che sono  spesso figlie di ingiustizie e drammi sociali. Storie come quella di Eleanor Rigby ,protagonista dell’omonima canzone dei Beatles, pubblicata nell’agosto del 1966 nell’album “Revolver”. Il testo scritto da Paul McCartney comincia con una richiesta: “Look at all the lonely people” (“Guarda tutte le persone sole“), dove la solitudine è intesa come una condizionebetles1 esistenziale. Eleanor Rigby vive in un sogno“, aspettando alla finestra che qualcuno arrivi a salvarla ( e non verrà). Ed è solo anche padre McKenzie, il parroco che “scrive le parole di un sermone che nessuno ascolterà” nella stessa chiesa frequentata da Eleanor: rimangono soli pur essendo vicini, pur avendo bisogno dell’affetto reciproco. L’epilogo è tragico: Eleanor Rigby muore in quella chiesa, e avrà un funerale “al quale nessuno verrà”. Le ultime parole della canzone beatlessottolineano che “nessuno fu salvato“, aggiungendo una nota decisamente pessimistica. Questa canzone, che chissà quanti di noi hanno ascoltato e fischiettato, è una delle più “sociali” dei quattro ragazzi di Liverpool. E quel nome – Eleanor Rigby –  non è frutto della fantasia di McCartney: nel cimitero della chiesa di St. Peter, nella zona di Woolton (Liverpool), esiste la tomba della famiglia Rigby ed Eleanor (nata nel 1895 e morta nel 1939) lavorava come lavapiatti e donna delle pulizie nella cucina del City Hospital di Parkhill. Chissà se, da oggi in poi, la vita di questa donna che ispirò una delle più popolari canzoni dei Beatles, aiuterà a prestare ascolto al dramma della solitudine.

Marco Travaglini

CALIFORNIA, ULTRAMARATONA: SIMONE LEO FINISHER DELLA GARA PIU’ DURA AL MONDO

Non era per niente scontato, ma ora e’ ufficiale: in 42 ore e 45 minuti, l’ultramaratoneta piemontese Simone Leo (Impossible Target) e’ tra i Finisher della Badwater, la corsa piu’ dura al mondo che ogni anno si svolge nella Valle della Morte in California, uno dei luoghi piu’ caldi del pianeta.
Come da tradizione Simone ha tagliato il traguardo con la bandiera tricolore dedicata a La Via della Felicita’, la guida al buon senso per una vita migliore scritta da L. Ron Hubbard che abbina ad ogni sua impresa.
Nella crew di appoggio anche il torinese Giuseppe Cicogna che con Simone Leo e’ cofondatore della Maratonina della Felicita’, una corsa non competitiva aperta a tutti che si svolgera’ al Parco della Pellerina il 21 ottobre prossimo.  “Abbiamo sentito sulla nostra pelle i 53 gradi che i runners hanno dovuto sopportare correndo o camminando per ore nel deserto – racconta Cicogna – Anche di notte la temperatura era di oltre 45 gradi. Arrivare al traguardo sembrava impossibile.”  Invece Simone ed altri 68 eroi ci sono riusciti, ma anche i 29 che si sono dovuti ritirare sono campioni veri per il solo fatto di aver tentato l’impresa.  Simone Leo sta contribuendo a rendere popolare questa specialita’. Anche se ben poche persone si cimenterebbero in prestazioni di questo genere, questo sport particolare e chi lo pratica, trasmettono un messaggio chiaro che vale per tutti: la volonta’, la tenacia e la preparazione sono fondamentali per superare i propri limiti e realizzare i propri sogni.”

Il grande caos iracheno

FOCUS INTERNAZIONALE   di Filippo Re

Manca il governo, mancano il lavoro e l’energia elettrica, le proteste e le rivolte contro il caro vita, la disoccupazione e la corruzione infiammano il Paese da nord a sud. Altrochè ritorno alla stabilità politica come promesso dai partiti dopo le ultime elezioni. In Iraq regna il caos e gli ingredienti per una deflagrazione generale ci sono tutti. Ma, almeno per il momento, sembra essere la crisi idrica il problema più assillante. I due grandi fiumi della Mesopotamia sono quasi senz’acqua. Non è difficile in questo periodo attraversare a piedi, in alcune zone, sia il Tigri che l’Eufrate. Se l’acqua è molto scarsa in Siria, il vicino Iraq rischia di rimanerne senza. Per questi Paesi la ricerca dell’acqua diventa una lotta per la sopravvivenza. Con un clima torrido la cui temperatura d’estate sfiora i 50 gradi, e di notte supera i 40, con i ventilatori che funzionano solo qualche ora in assenza di corrente, il governo iracheno è costretto perfino a importare acqua dagli Stati confinanti. Da Mosul a Bassora passando per Baghdad il livello dei due fiumi è calato in modo impressionante. L’acqua manca perchè piove poco, perchè la rete idrica è malgestita ma anche perchè c’è chi la ruba e ne ruba tantissima lasciando città e villaggi quasi all’asciutto e penalizzando gli agricoltori che non riescono a irrigare i loro campi. Sono le grandi dighe del sultano di Ankara costruite sul Tigri a creare i problemi più drammatici. Per affrontare l’emergenza le autorità irachene sono costrette a rifornire gli abitanti con autobotti che stanno raggiungendo molte aree del Paese. Ma l’acqua manca in tutte le regioni irachene, da nord a sud. Sotto accusa ci sono i piani energetici del governo turco sul Tigri e sull’Eufrate. In particolare la diga di Ilisu, nella provincia turca di Mardin, che sottrae l’acqua dal Tigri impoverendo la popolazione circostante, in gran parte curdi, e porta meno acqua agli stessi iracheni. Il riempimento della diga, anche solo parziale, diminuisce la portata del fiume lasciando l’Iraq senz’acqua.

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La contesa sulla diga non è nuova e ha già causato negli anni passati crisi diplomatiche tra Baghdad e Ankara che hanno sfiorato lo scontro armato. Ma quest’anno con la scarsità eccezionale di precipitazioni la mancanza dell’ “oro blu” si fa sentire molto di più. La diga copre una vasta area di 30.000 ettari e fornisce energia elettrica ma viene usata da Erdogan anche per motivi politici. Un’arma in più per sbarazzarsi di migliaia di curdi. Per far posto alla colossale opera idraulica oltre 50.000 persone, tutti curdi, sono stati fatti sfollare e costretti a recarsi in Iraq o nelle città turche dove sono più facilmente controllabili dalle autorità locali. La carenza d’acqua è un problema che riguarda l’intera regione mediorientale a tal punto da spingere il regime iraniano ad accusare Israele di “bloccare le piogge” con tecnologie molto avanzate per mettere in difficoltà i suoi nemici tradizionali. Ci sono seri problemi anche per la mancanza di elettricità. Con l’Iran, che vende l’energia elettrica all’Iraq, i rapporti sono tesi. Baghdad non paga da anni le forniture energetiche e Teheran ha sospeso l’export costringendo il governo iracheno a rivolgersi all’Arabia Saudita per acquistare corrente elettrica. Da Mosul dove c’è un’emergenza sanitaria con il 70% delle strutture non utilizzabili a un anno dalla sconfitta dell’Isis, a Bassora nel profondo sud petrolifero dove le proteste divampano da alcune settimane, l’intero Iraq rischia di trasformarsi in una polveriera. Le manifestazioni sono così violente che aeroporti e porti sul Golfo sono stati chiusi temporaneamente per ragioni di sicurezza. Il sud iracheno sciita rivendica il possesso dei ricchissimi pozzi petroliferi della zona, tre milioni di barili esportati ogni giorno, e chiede la rottura dei contratti con le compagnie straniere che estraggono il greggio. A Bassora e nella regione del Golfo comanda il controverso imam sciita Moqtada al Sadr, vincitore delle elezioni parlamentari del 12 maggio. Alla guida di una strana ed eterogenea alleanza che riunisce comunisti, sciiti radicali e movimenti anti-corruzione, che noi definiremmo populista, ha vinto le elezioni battendo il premier uscente al Abadi e ora dovrebbe governare il Paese nei prossimi anni ma ha bisogno di altri alleati per raggiungere la maggioranza in Parlamento. Al Sadr proviene da una importante famiglia irachena: un suo parente, il grande ayatollah Mohammed Baqir al Sadr fu ucciso dal regime di Saddam nel 1980. Al Sadr, che nel dopo Saddam Hussein capeggiò una sanguinosissima rivolta contro i soldati americani, respinge ogni ingerenza straniera negli affari interni iracheni a partire da americani, iraniani e sauditi. Al Sadr guida un potente esercito di almeno 30.000 uomini ben armati, domina incontrastato il sud iracheno e sarà decisivo, insieme al grande ayatollah al Sistani, per formare i futuri equilibri politici nel Paese.

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In passato “L’esercito del Mahdi” di al Sadr era vicino all’Iran e acquistò fama nel mondo per le cruente azioni militari contro i sunniti iracheni accusati di aiutare i movimenti jihadisti. Oggi è un leader politico che punta a porre fine alle violenze tra sciiti e sunniti che continuano a insanguinare il Paese dei due Fiumi. È così forte e rispettato nel sud che il premier sconfitto al Abadi, giunto a Bassora, culla delle proteste, per placare l’ira delle masse contro il governo, ha dovuto scappare in fretta e furia. Al Abadi non vuole lasciare il potere, d’accordo con gli Stati Uniti, senza prima pacificare il Paese, nonostante i risultati elettorali per lui negativi. Le forze di al Sadr, che oggi si chiamano “Brigate della pace”, rischiano di scontrarsi con le forze dell’esercito iracheno che, per non soccombere anche questa volta, viste le pessime figuracce fatte all’arrivo dei miliziani del califfo, dovranno cercare di allearsi con le milizie sciite filo iraniane. Non solo, ma la ribellione si prepara ad esplodere anche nelle regioni del nord, da Mosul a Kirkuk e nelle province occidentali dell’Anbar. A un anno dalla liberazione di Mosul e della piana di Ninive dall’Isis, il terrorismo jihadista torna a colpire nelle stesse zone dove nel 2013-14 si scontrava con i governativi. Sullo sfondo della crisi irachena il braccio di ferro tra Trump e gli ayatollah iraniani torna ad agitare le acque del Golfo. Si alza pesantemente il livello dello scontro tra Washington e Teheran. Gli americani vogliono impedire all’Iran di esportare il suo petrolio attraverso il Golfo mentre gli iraniani minacciano di chiudere lo Stretto di Hormuz dove transita quasi il 90% del greggio dei Paesi del Golfo. Hormuz è oggi uno dei terminal più importanti al mondo dove ogni giorno transitano superpetroliere da 150.000 tonnellate di stazza con poco meno di 20 milioni di barili di petrolio.

Filippo Re

dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 

 

L’isola dei gatti

pescatori isolapescatori gattoE’ stata la prima ad essere abitata tant’è che, in un decreto vescovile datato 1627, veniva citata come Insella o Insula Superior, distinguendosi dalla vicina Insula Inferior (isola Bella) a quel tempo ancora disabitata

L’isola Superiore, più comunemente conosciuta come isola dei Pescatori ,con i suoi cento  metri di larghezza per trecentocinquanta  di lunghezza, è la più piccola delle isole del golfo Borromeo sul lato occidentale lago Maggiore, di fronte a Stresa ( la più grande è l’isola Madre, seguita dall’isola Bella). Quest’isola è stata la prima ad essere abitata tant’è che,in un decreto vescovile datato 1627, veniva citata come Insella o Insula Superior, distinguendosi dalla vicina Insula Inferior (isola Bella) a quel tempo ancora disabitata. Quella dei Pescatori è anche l’unica isola del golfo che non appartiene al patrimonio dei Borromeo. Abitata per tutto l’anno da una cinquantina di residenti stabili. La pesca, un tempo attività principale, è ancora praticata da alcune famiglie che hanno conservato quest’antica tradizione. Le tracce di quest’attività s’intravedono un po’ ovunque, dal “codino” dell’isola – striscia di terra alberata con cui termina l’Isola verso nord – dove s’incontrano le strutture in ferro un tempo usate come supporti per stendere le reti, al piccolo porto, dove sono ormeggiate le barche da pesca e si conservano i resti di una caldaia che veniva utilizzata per tingere le reti, variandone il colore a seconda dell’uso. L’Isola dei Pescatori è conosciuta anche come “l’isola dei gatti”. Perfettamente integrati nell’ambiente tranquillo e privo di pericoli, sono tantissimi i felini che si possono incontrare nelle vie del borgo, in gruppo o solitari, a cercare cibo o protezione – dal sole o dalla pioggia – tra le piante dei giardini, nella piazzetta della chiesa di San Vittore o nelle vicinanze delle trattorie che s’affacciano sul lago. Quando tramonta il sole e anche l’ultimo battello riparte, l’isola cambia aspetto: cala il silenzio e nella quiete notturna i gatti diventano i veri padroni del territorio. A ferragosto, la processione delle barche da pesca illuminate che portano la statua dell’Assunta è preceduta, la sera prima, dal grande falò sulla “coda” dell’isola che riverbera sull’acqua del lago. E anche per i gatti è festa grande, potendo godere di teste e lische dei pesci finiti in padella o sulle griglie. L’isola, esposta ai venti, il cui nome li distingue per provenienza ( il Mergozzo, che soffia dall’omonimo lago, battendo la sponda occidentale; il Maggiore, impetuoso e deciso che dalla Svizzera scende verso oriente; l’Inverna , che si muove in direzione opposta al Mergozzo, increspando leggermente il lago e portando il bel tempo ), offre ai felini riparo nei vicoli stretti e sinuosi tra le case a più piani dai lunghi balconi dove veniva messo il pesce ad essiccare.

Marco Travaglini

Lo sbarco dei Saraceni

All’orizzonte apparvero minacciose decine di vele con la mezzaluna. Erano turchi, corsari musulmani che nel Cinquecento passavano il tempo a compiere scorrerie e incursioni devastanti sulle coste mediterranee. Piombavano con rapidità sulle spiagge, incendiavano paesi interi, uccidevano, violentavano, rapivano uomini e donne per fare schiavi e infoltire l’harem, rubavano bestiame e legna. Erano il terrore degli abitanti del luogo. Il 25 luglio 1546 toccò a Laigueglia. Dalla torre di avvistamento del paese ligure (oggi quelle torri sono chiamate “saracene” un po’ ovunque) si distinsero nettamente le sagome delle vele. Erano quelle dei turchi, sempre più vicine alla spiaggia. Lo sbarco dei corsari avvenne su un litorale deserto e assolato, anche i gabbiani erano volati via avvertendo un pericolo imminente, il tintinnio delle scimitarre preannunciava qualcosa di terribile, le urla impazzite degli invasori, pescatori e borghigiani che fuggivano in preda al terrore, le campane della chiesa che suonavano senza sosta ma era ormai troppo tardi. È tutto così vero e reale, sembra che stia accadendo sul serio… È la rievocazione dello sbarco dei Saraceni a Laigueglia, accaduto realmente cinque secoli fa. Una tragica giornata che ogni generazione di laiguegliesi ricorda anno dopo anno, a distanza di centinaia di anni, e la mette in scena con un grandioso spettacolo storico alla fine di luglio. È accaduto proprio così, i fatti sono storicamente accertati. Episodi simili non accadevano solo a Laigueglia ma in tante altre località rivierasche della penisola. Era l’epoca della guerra corsara nel Mediterraneo, un capitolo di storia poco conosciuto e poco studiato. La presenza di quelle torri di avvistamento che disegnavano un tempo la geografia delle coste italiane e, in parte, la disegnano ancora oggi con torri, bastioni e cinte murarie sopravvissute o restaurate, testimoniano che la pirateria sui mari e sulle coste era vissuta dalle popolazioni locali in modo ossessivo e angoscioso tra Cinquecento e Ottocento. Non solo cristiani contro musulmani ma anche cristiani contro altri cristiani convertiti all’islam, pescatori calabresi che diventano corsari e perfino ammiragli della flotta ottomana o figli di sultani che abbacciano la religione cattolica. Il personaggio principale della rievocazione storica è il corsaro Turgut Reis, chiamato Dragut dagli europei, già fedelissimo di un altro celebre corsaro, Khayr ed-Din, detto Barbarossa, figlio di una donna greca, che diventerà il comandante dell’armata navale imperiale di Solimano il Magnifico. Terrore delle isole e delle coste mediterranee, il corsaro Dragut divenne anche il rais di Tripoli libica che i turchi conquistarono ai Cavalieri di Malta nel 1551. Compì centinaia di incursioni, duellò sul mare con la flotta spagnola e con il grande ammiraglio genovese Andrea Doria, saccheggiò Pozzuoli e Castellamare di Stabia nel golfo di Napoli, Laigueglia e Rapallo in Liguria. Davanti a Lipari sbucò fuori come un fulmine da dietro un isolotto e catturò alcune galee dirette a Napoli facendo prigioniero il vescovo di Catania che trovò per caso a bordo e che fu poi liberato dopo quasi un anno di prigionia dietro il pagamento di un riscatto. Non gli andò sempre bene. Fu catturato nel Tirreno e imprigionato a Genova ma fu poi liberato. In galera radicalizzò il proprio odio verso i cristiani e lo mise in mostra nelle successive imprese. Ecco chi era il corsaro Dragut che il 27 luglio tornerà a “terrorizzare” Laigueglia. I piemontesi che trascorrono le vacanze da queste parti sono avvisati. Laigueglia ha conosciuto bene la pirateria turca, sia con Dragut che con il più famoso Khayr al Din, detto Barbarossa. Nel 1543 il paese venne bombardato dal mare dalle navi del Barbarossa. Gli abitanti fuggirono sui colli circostanti ma le navi genovesi costrinsero alla fuga i turchi che stavano per sbarcare. Tre anni più tardi, nel 1546, lo sbarco riuscì invece al pirata Dragut che saccheggiò il borgo e rapì donne e bambini. L’intervento del capitano di Alassio Giulio Berno salvò gli abitanti evitando una tragedia ben peggiore. Anche Laigueglia fece costruire tre torrioni dei quali è rimasto solo quello di Levante. Dragut morì, colpito in testa da una scheggia di pietra, durante il grande assedio turco di Malta del 1565. Tra gli appuntamenti in programma, visite guidate ai luoghi dei Saraceni, un libro gioco su Dragut con il racconto per i bambini e la caccia al tesoro. Ma il momento clou è la serata di venerdì 27 luglio a partire dalle 22.00 con “lo Sbarco dei Saraceni” e la rappresentazione del saccheggio di Dragut al molo centrale. Si tornerà indietro nel tempo di cinque secoli, al 1546. La quiete del paese, con gli uomini impegnati a pescare il corallo in mare e le donne occupate a rammendare e a badare ai figli, verrà stravolta dall’irruzione dei turchi. Oltre 200 figuranti animeranno il bacino d’acqua di fronte al Bastione per dare vita a uno spettacolo pirotecnico e musicale con golette, velieri e piccoli natanti a vela. La lunga “Notte dei Saraceni” si sposterà poi nel centro storico di Laigueglia con feste e concerti musicali fino a tarda notte.

Filippo Re

Paziente aggredisce medico e lo colpisce alla testa

DALLA SICILIA

Un paziente ha colpito alla testa un medico con un oggetto. Il fatto è avvenuto mentre il dottore era in servizio nel reparto di ortopedia dell’ospedale di Acireale. E’ stata fatta denuncia ai carabinieri della locale compagnia che hanno iniziato le indagini e arrestato  il ricoverato, accusato di tentato omicidio.

Muore a 13 anni nella piscina

DALLA CALABRIA Il ragazzino di 13 anni, di origini cinesi, stava facendo il bagno nella piscina di un agriturismo a Corigliano Calabro. Aveva mangiato e si è tuffato subito dopo in acqua ed è morto, colto da malore. E’ stato portato  fuori dalla piscina ma quando il personale del 118 è arrivato, era già deceduto. Con ogni probabilità la morte è stata provocata da una congestione. 

Rosso Istanbul

ISTANBUL OZPETEKFerzan Ozpetek, grande regista, nato ad Istanbul e naturalizzato italiano, nel giro di pochi anni è diventato una delle punte di diamante del nostro cinema. Dai suoi esordi fino alle opere della maturità si è sempre avvertita la sua urgenza nel proporre un preciso ventaglio di temi: la famiglia ( allargata e “tradizionale”), la ricerca del sé e dell’altro da sé, il potere della memoria, la separazione, l’esotismo e l’erotismo. Chi non si è perso tar le immagini, i dialoghi, le storie de “Le fate ignoranti”, “La finestra di fronte”, “Mine vaganti” o “Magnifica presenza”? Ma, oltre alla delicatezza e all’originalità che esprime dietro alla macchina da presa, è stata una piacevole sorpresa scoprirne il talento come scrittore. Il suo primo romanzo , “Rosso Istanbul” ( al quale ha fatto seguito “Sei la mia vita”) è una straordinaria dichiarazione d’amore allaOZPETEK 1 città dov’è nato. Affacciata sullo stretto del Bosforo, Istanbul è il “portale che schiude mondi nuovi”, la città dai tanti nomi e dai tanti volti (Costantinopoli, Bisanzio, seconda capitale dell’Impero Romano). Ozpetek racconta un ritorno a casa che accende a uno a uno i ricordi: della madre, donna bellissima e malinconica; del padre, misteriosamente scomparso e altrettanto misteriosamente ricomparso dieci anni dopo; OZPETEK 12della nonna, raffinata “principessa ottomana”; delle “zie”, amiche della madre, assetate di vita e di passioni; della fedele domestica Diamante. Narra del primo aquilone, del primo film, dei primi baci rubati. Del profumo intenso dei tigli e delle languide estati sul Mar di Marmara. E, ovviamente, del primo amore, proibito, struggente e perduto. Ma è Istanbul ad afferrarlo, trattenerlo, incrociando il suo destino con quello di una donna. Partiti insieme da Roma, sullo stesso aereo, seduti vicini, senza conoscersi , si incontreranno nella città della Moschea Blu e della cristiana Aya Sofya, del Topkapi , del mercato delle spezie e del Gran Bazar. Una città oggi più triste per le imposizioni di Recep Tayyip Erdoğan, che ha stretto i cordoni delle libertà democratiche, ma al tempo stesso una città orgogliosa e tremendamente bella. Così come “Rosso Istanbul” è, senza dubbio, tra i libri più belli che abbia mai letto.

 

Marco Travaglini