FOCUS INTERNAZIONALE di Filippo Re
Chi ricostruirà la Siria dopo quasi otto anni di conflitto? Chi pagherà la ricostruzione, stimata in 400 miliardi di dollari? Come sarà la Siria post bellica? Nella martoriata nazione levantina la guerra si sta spegnendo lentamente ma non è ancora finita. In alcune aree del Paese si continua a morire e centinaia di miliziani jihadisti si riorganizzano nelle zone dove il regime non ha ancora il totale controllo del territorio. “La ricostruzione della Siria non passa solo attraverso il suo tessuto economico e sociale, afferma il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, ma tocca anche la sfera religiosa in una nazione in cui le minoranze, compresa quella cristiana, hanno beneficiato negli ultimi decenni di pari diritti e dignità”. Mentre nel vicino Iraq il nuovo corso politico, scaturito dalle ultime elezioni, avanza faticosamente tra
povertà crescente e mire iraniane, nello Yemen infuria da tre anni una guerra combattuta per procura e quasi dimenticata dal mondo. La crescente ostilità tra le monarchie sunnite del Golfo e l’Iran sciita rischia di estendere l’incendio mediorientale. L’intera regione è in subbuglio e neppure la diplomazia dell’Onu riesce a placare gli animi e a ricomporre il mosaico di nazioni in disfacimento. Anche l’infaticabile mediatore italo-svedese Staffan de Mistura getta la spugna. L’annunciata uscita di scena dell’inviato speciale dell’Onu per la Siria dimostra la profonda delusione per l’impossibilità di trovare una via d’uscita al caos siriano la cui gestione è sempre più nelle mani di una diplomazia parallela ristretta e composta da Russia, Stati Uniti, Turchia e Iran, gli attori internazionali pronti a spartirsi la Siria. Anche Torino vuole riflettere sul nuovo Medio Oriente che un giorno nascerà sulle ceneri di quello attuale. Convegni e giornate di sensibilizzazione faranno il punto sugli eventi in corso con l’obiettivo di non spegnere mai i riflettori su quel che accade in una regione così strategica e vicina all’Europa. Il primo appuntamento sarà il convegno internazionale “La fine del Medio Oriente e il destino delle minoranze” organizzato dal Centro Federico Peirone di studi sull’Islam il 12 novembre presso la Facoltà Teologica di via XX settembre 83 alle ore 17,30 mentre il secondo incontro verterà su una giornata di mobilitazione promossa da Pax Chisti il 1 dicembre all’Istituto San Giuseppe per sostenere i diritti dei palestinesi a 70 anni dalla nascita di Israele e nel 70esimo anniversario della Nakba (catastrofe) quando 700.000 palestinesi furono cacciati dalle loro case e centinaia di villaggi distrutti. Il numero dei profughi siriani continua a crescere e ogni anno il rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati registra un nuovo record. Gli sfollati sono ormai circa 40 milioni mentre i rifugiati, che per salvarsi da guerre e persecuzioni hanno varcato i confini nazionali e hanno chiesto asilo all’estero, sono quasi 20 milioni. “La vita di tutti è cambiata drammaticamente, spesso quasi da un giorno all’altro, ricorda Paolo Girola, organizzatore e moderatore del convegno del Centro Peirone. In una sola notte, ad esempio, quella dal 6 al 7 agosto 2014, 300.000 iracheni sono fuggiti dalla Piana di Ninive attaccata dall’Isis, lo Stato Islamico. Quel poco che erano riusciti a portarsi appresso, è stato loro sequestrato dai miliziani e sono arrivati a destinazione a mani vuote. Mentre i riflettori si sono un po’ spenti sulle guerre grandi e piccole “che non finiscono mai” in Medio Oriente, il convegno internazionale organizzato dal Centro Peirone il 12 novembre vuole fare il punto con grandi giornalisti e testimoni di quelle tragedie ancora in corso. Dalla Siria allo Yemen, dalla terra Santa all’Iraq, i conflitti hanno cambiato e ancora cambieranno il volto di questa regione, che ha visto e vede infinite sofferenze, grandi migrazioni, spietate guerre civili. Una terra senza pace in cui i conflitti fra sciiti e sunniti sono alimentati dalla lotta per l’egemonia di grandi e medie potenze: in prima fila

Russia, Usa, Turchia, Iran, Arabia Saudita. E nel caos torbido emergono movimenti dell’islam radicale che sfruttano frustrazioni, risentimenti, ingiustizie palesi e corruzione di regimi autoritari o dispotici. I morti si contano a centinaia di migliaia, gli sfollati a milioni. Una tragedia alle porte dell’Europa che non è finita, anche se la pax di Putin sembra imporsi in Siria, con il consenso di una parte non piccola della popolazione, orientata a scegliere il male minore”. Meglio Assad al potere che un califfo ma la Siria marcia spedita verso la divisione del Paese in aree di influenza tra le potenze vincitrici. Così sembra anche nella provincia di Idlib, l’ultima roccaforte in mano ai ribelli, dove una parte di essa verrà controllata da Damasco e il resto si unirà al cantone curdo di Afrin e Al Bab sotto la custodia turca. Risolto il problema a Idlib, l’attenzione tornerà sul fronte nord orientale e lungo l’Eufrate. Resta infatti aperta la questione del Kurdistan siriano difeso da soldati americani invisi ai russi. Alla tavola rotonda del Peirone interverranno il Patriarca di Baghdad della chiesa caldea, cardinale Mar Louis Sako, Lucio Caracciolo, direttore di Limes, Samir Barhoum, direttore del Jordan Times di Amman, Michel Touma, direttore de L’Orient -Le jour di Beirut, Salvatore Pedulla, collaboratore dell’inviato Onu per la Siria e Alfredo Mantovano, presidente della Fondazione Pontificia Acs (Aiuto alla chiesa che soffre). L’altro fronte caldo del Vicino Oriente, quello israelo-palestinese, conferma che i conflitti mediorientali hanno il loro fulcro a Gerusalemme e la complessa e irrisolta crisi palestinese resta saldamente al centro dei dibattiti internazionali. Da mesi migliaia di persone infiammano con manifestazioni, violenze e lancio di razzi il confine tra Israele e la Striscia di Gaza. Nessuno vuole una nuova guerra nella Striscia ma nessuno degli attori coinvolti vuole bloccare gli scontri e riportare la calma. Nonostante tutto i canali diplomatici restano aperti e, con la mediazione egiziana, Israele e Hamas trattano per la riapertura dei valichi, lo scambio dei prigionieri e il varo di una tregua di cinque anni. Per tenere alta l’attenzione su questo tema Pax Christi promuove una giornata Onu per i diritti dei palestinesi che si svolgerà il 1 dicembre al San Giuseppe. “Pax Christi si batte da sempre per il riconoscimento di uno Stato palestinese che però Israele non vuole, osserva don Nandino Capovilla, consigliere nazionale di Pax Christi e coordinatore della campagna “Ponti e non Muri”. Israele si oppone alla volontà della comunità internazionale di riconoscere, come hanno già fatto molti Stati, il diritto all’autodeterminazione e la possibilità che nasca uno Stato palestinese”.
(Dal settimanale LA VOCE E IL TEMPO)






A Sarajevo le zie di Goran, Samira e Zeina, vivono in una casa a pochi passi dalla Moschea Gazi Husrev-beg, in una viuzza parallela alla via Sarači che collega la bella strada di Ferhaddija con il cuore della Baščaršija, la città vecchia.
rispetto. Dall’uscio della loro casa bastano due passi e, svoltato l’angolo, si rimane incantati davanti alla bellezza della cupola centrale della Moschea, affiancata dai suoi tetims, le cupole laterali, più piccole. Il minareto, un dito puntato verso il cielo, teso a solleticare le nuvole con i
suoi quarantacinque metri d’altezza, domina la piazza del mercato. Passare di qua e non far visita alle zie, mi dice Goran “equivale ad un’offesa molto seria al senso dell’ospitalità che qui è sacro“. Avvertite da lui, hanno preparato il pranzo. Ci accolgono con grande gentilezza. Entrambe con i capelli candidi, appena visibili sotto il velo, mostrano in volto i lineamenti delicati delle donne slave, con gli zigomi alti, occhi grandi e chiari, sguardo orgoglioso e fiero. Non più giovani, entrambe sono state “partizanke” con Tito, combattendo
nelle divisioni dell’esercito popolare di liberazione tra la Drina e la Neretva, scacciando i nazisti e riconquistandosi, coi denti e le unghie, il diritto di vivere libere. Mi stupisce la loro vitalità e si comprende quanto bene vogliano al loro adorato Goran che, per parte sua, ricambia l’affetto unendolo a una grande, e da noi rarissima, reverenza. Ci fanno accomodare e, vistici visibilmente accaldati, ci offrono una birra fredda ( hladno pivo), ovviamente Sarajevsko. L’appartamento – tre stanze e i servizi – è piccolo ma ben curato e dalla cucina provengono profumi deliziosi. Goran dice che le zie hanno preparato dei piatti tradizionali, la Begova čorba – zuppa di pollo con verdure, riso, tuorli d’uovo e panna – e il bosanski ćimbur, un piatto a base di manzo e agnello immersi nel brodo e ricoperti da spinaci e uova. Nonostante la curiosità che mi porta ad assaggiare tutto ciò
che trovo nel piatto, sul mio volto si deve notare una certa preoccupazione sulla digeribilità della cucina bosniaca. Goran, al quale non sfugge nulla, mi rassicura. “Tranquillo.La cucina bosniaca è leggera e non particolarmente speziata; i piatti si basano essenzialmente su legumi, frutta e
vegetali come pomodori, zucchine, spinaci e fagiolini. E sul latte, utilizzato in una crema che noi chiamiamo pavlaka”. Mi fido. Si pranza. Si beve voda (acqua) e un vino bianco, fruttato che emana una luce verde-oro: lo Zilavka, prodotto in Erzegovina, nella valle della Neretva. Samira e Zeina portando in tavola anche la pita, un involucro di pasta fine ripieno di vegetali, carni, formaggi e erbe. La propongono nei tre diversi tipi: il burek, con la carne di vitello; la sirnica , con il Trávnićki Sir,formaggio di pecora originario di Travnik, dal gusto deciso e piuttosto salato che richiama un po’ la Feta greca, e la zeljanica , con gli spinaci. Hanno anche preparato i ražnjići , deliziosi spiedini di carne d’agnello, e i classici čevapčići, le polpettine di
carne bovina e di montone tritata, passati alla griglia e serviti con cipolla cruda. Sono le specialità della cucina sarajevese. Ma le zie, che stravedono per il nipote e lo vorrebbero rimpinzare fino al collo, questa volta non esagerano e hanno preparato delle confezioni da asporto, così potremo gustarle per cena o in occasione del pranzo di domani. Per buon peso hanno aggiunto anche delle robuste porzioni di musaka alla turca, il timballo di carne tritata con melanzane (o patate, o zucchine) e cotto al forno. Ai dolci, invece, non si può dir di no. E’ proibito il rifiuto e nessuno di noi si sogna di trasgredire la regola. Alla faccia di carie e diabete, compaiono sul desco razioni impegnative di baklava , pita od jabuka ( praticamente uno strudel di mele), savijača od oraha ( altra strudel ma di noci),le palačinke , piccole e gustose frittelle e pasticcini di pasta lievitata aromatizzati al limone o alla vaniglia. Stop. Ci arrendiamo. Prima io e poi Goran. Alziamo bandiera bianca. C’è
posto solo per il caffè , la bosanska kafa servita alla turca e una lašljivovica di prugne. Siamo stati in loro compagnia per quasi quattro ore. Ci congediamo tra tanti saluti, un passar di mano di pacchetti ( i nostri pasti futuri…) e la promessa che se tornerò da queste parti, sarò ancora loro ospite. La luce del pomeriggio si è fatta più scura quando varchiamo l’uscio e nubi cariche di pioggia s’apprestano a scendere dai fianchi del Trebevic, stendendo un grigio e lattiginoso mantello su Sarajevo. E’ davvero l’ora del commiato. Un abbraccio, una stretta di mano. E, mentre ci stiamo allontanando sull’acciottolato, due mani s’alzano in un saluto. Un gesto semplice che ci accompagna, come i loro sguardi, fino alla svolta dell’isolato. Non ci sono parole adatte per descrivere il senso dell’ospitalità. Penso solo che da noi, a malapena, ci si guarda in faccia anche tra persone che si conoscono da una vita.



