Dall Italia e dal Mondo- Pagina 39

L’ultimo rifugio di Jacques Prévert

Il faudrait essayer d’être heureux, ne serait-ce que pour donner l’exemple”.Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.Così diceva Jacques Prévert. E’ possibile che una parte di felicità la trovò davvero a Omonville-la-Petite, piccolo borgo di case in pietra poco distante dal Cap de la Hague, la parte estrema del Cotentin, in bassa Normandia. E’ lì che il grande poeta francese , uno dei più popolari del XX° secolo, scelse di vivere gli ultimi suoi anni in una casa circondata da un giardino fiorito. L’ultima dimora del poeta  dell’amore, della libertà, della fantasia e della satira pungente contro i potenti, si trova lì. A poca distanza della casa c’è la piccola chiesa di Saint-Martin con il suo minuscolo cimitero dove riposano, insieme, i Prévert : Jaques,la moglie Janine e la figlia Michelle. A settant’anni, nel 1970 ( il poeta era nato nel 1900 a Neuilly-sur-Seine,alle porte di Parigi), decise di comprare questa casa nel luogo dove il suo grande amico, lo scenografo Alexandre Trauner, abitava già da qualche tempo.Un anno più tardi, i Prévert si stabilirono lì. Jaques aveva frequentato quelle zone già nei primi anni ’30, amando l’oceano e quei paesaggi selvaggi, spazzati dai venti, con i pascoli delimitati dai muretti a secco, a fianco di vertiginose falesie e splendide insenature. A Omonville-la-Petite, con i suoi 128 abitanti, la vita scorre tranquilla. La zona è poco conosciuta perché bisogna proprio scegliere di andarci, deviando decisamente dalle solite mete turistiche. I colori di questa terra sono talmente forti da stordire. Il cielo è cangiante e passa dal celeste intenso al grigio ferro delle nuvole che, sulla Manica, portano a tratti pioggia e vento. Le viuzze tra campi, giardini e vecchie mura, sono strette e dall’entroterra scendono verso le rocce e le spiagge.  Un paesaggio, quello della Hague, capace di sedurre chiunque. Anche il poeta dell’amore. Per capire la magia di questi luoghi basterebbe recarsi sulla punta di La Hague, accarezzata dal raz blanchard, l’ondata “biancastra”, una delle più forti correnti di marea del mondo. La vita di Prévert, in quegli anni, venne scandita da un tempo lento, dedicato alle passeggiate, agli ultimi lavori, alle visite degli amici più stretti come Yves Montand, Juliette Greco, Raymond Queneau, Joseph Losey e Serge Reggiani.  Appassionato dei collage, compose e regalò questi montaggi d’immagini di volta in volta spassosi, satirici o decisamente sovversivi. Le sue ultime pagine, “tra gravità e tenerezza”,  ne descrivono la ricerca sui temi dell’infanzia e dell’amore, del confine stretto tra la vita e la morte, con  quel segno indelebile che ne accompagnò tutta l’esistenza e la produzione poetica e letteraria: l’irriducibile desiderio di rivolta e d’insubordinazione nei confronti delle ingiustizie. Fino alla fine, divorato da un cancro ai polmoni causato dalle immancabili, troppe sigarette, continuò a scrivere e lavorare. Morì lì, in quella casa,  l’11 aprile del 1977. Nella “maison Jacques Prévert” – al n.3 Hameau Le Val , aperta solo di pomeriggio – si possono visitare le stanze, il suo atelier, il giardino e  vedere un film sulla sua vita. Un incredibile percorso artistico, quello di Prévert. Dagli anni del surrealismo alle scenografie per il  cinema, dove collaborò con Jean Renoir, Andrè Cayatte, Claude Autant-Lara e soprattutto Marcel Carné (un sodalizio, il loro, che ci ha regalato, film-capolavoro come Il porto delle nebbie e Alba tragica) fino alle sue poesie che in molti casi sono state tradotte in canzoni. Un’esistenza intensa che sintetizzò in un aforisma: “La vita è una ciliegia. La morte il suo nòcciolo. L’amore il ciliegio”. Negli scaffali del suo studio ampio e luminoso si ammirano le varie edizioni – tantissime – delle sue opere: le raccolte di versi di maggiore successo, come Parole (1945), La pioggia e il bel tempo(1955), Alberi (1976); le antologie tradotte in italiano Le foglie morte e Poesie d’amore. Mentre calano le prime ombre della sera, bagnate da una pioggerella fine e insistente, viene quasi voglia di attendere il buio e rileggere le Trois allumettes: “Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte/Il primo per vederti tutto il viso/Il secondo per vederti gli occhi/L’ultimo per vedere la tua bocca/E tutto il buio per ricordarmi queste cose/Mentre ti stringo fra le braccia”.

Marco Travaglini

L'ultimo rifugio di Jacques Prévert

Il faudrait essayer d’être heureux, ne serait-ce que pour donner l’exemple”.Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.Così diceva Jacques Prévert. E’ possibile che una parte di felicità la trovò davvero a Omonville-la-Petite, piccolo borgo di case in pietra poco distante dal Cap de la Hague, la parte estrema del Cotentin, in bassa Normandia. E’ lì che il grande poeta francese , uno dei più popolari del XX° secolo, scelse di vivere gli ultimi suoi anni in una casa circondata da un giardino fiorito. L’ultima dimora del poeta  dell’amore, della libertà, della fantasia e della satira pungente contro i potenti, si trova lì. A poca distanza della casa c’è la piccola chiesa di Saint-Martin con il suo minuscolo cimitero dove riposano, insieme, i Prévert : Jaques,la moglie Janine e la figlia Michelle. A settant’anni, nel 1970 ( il poeta era nato nel 1900 a Neuilly-sur-Seine,alle porte di Parigi), decise di comprare questa casa nel luogo dove il suo grande amico, lo scenografo Alexandre Trauner, abitava già da qualche tempo.Un anno più tardi, i Prévert si stabilirono lì. Jaques aveva frequentato quelle zone già nei primi anni ’30, amando l’oceano e quei paesaggi selvaggi, spazzati dai venti, con i pascoli delimitati dai muretti a secco, a fianco di vertiginose falesie e splendide insenature. A Omonville-la-Petite, con i suoi 128 abitanti, la vita scorre tranquilla. La zona è poco conosciuta perché bisogna proprio scegliere di andarci, deviando decisamente dalle solite mete turistiche. I colori di questa terra sono talmente forti da stordire. Il cielo è cangiante e passa dal celeste intenso al grigio ferro delle nuvole che, sulla Manica, portano a tratti pioggia e vento. Le viuzze tra campi, giardini e vecchie mura, sono strette e dall’entroterra scendono verso le rocce e le spiagge.  Un paesaggio, quello della Hague, capace di sedurre chiunque. Anche il poeta dell’amore. Per capire la magia di questi luoghi basterebbe recarsi sulla punta di La Hague, accarezzata dal raz blanchard, l’ondata “biancastra”, una delle più forti correnti di marea del mondo. La vita di Prévert, in quegli anni, venne scandita da un tempo lento, dedicato alle passeggiate, agli ultimi lavori, alle visite degli amici più stretti come Yves Montand, Juliette Greco, Raymond Queneau, Joseph Losey e Serge Reggiani.  Appassionato dei collage, compose e regalò questi montaggi d’immagini di volta in volta spassosi, satirici o decisamente sovversivi. Le sue ultime pagine, “tra gravità e tenerezza”,  ne descrivono la ricerca sui temi dell’infanzia e dell’amore, del confine stretto tra la vita e la morte, con  quel segno indelebile che ne accompagnò tutta l’esistenza e la produzione poetica e letteraria: l’irriducibile desiderio di rivolta e d’insubordinazione nei confronti delle ingiustizie. Fino alla fine, divorato da un cancro ai polmoni causato dalle immancabili, troppe sigarette, continuò a scrivere e lavorare. Morì lì, in quella casa,  l’11 aprile del 1977. Nella “maison Jacques Prévert” – al n.3 Hameau Le Val , aperta solo di pomeriggio – si possono visitare le stanze, il suo atelier, il giardino e  vedere un film sulla sua vita. Un incredibile percorso artistico, quello di Prévert. Dagli anni del surrealismo alle scenografie per il  cinema, dove collaborò con Jean Renoir, Andrè Cayatte, Claude Autant-Lara e soprattutto Marcel Carné (un sodalizio, il loro, che ci ha regalato, film-capolavoro come Il porto delle nebbie e Alba tragica) fino alle sue poesie che in molti casi sono state tradotte in canzoni. Un’esistenza intensa che sintetizzò in un aforisma: “La vita è una ciliegia. La morte il suo nòcciolo. L’amore il ciliegio”. Negli scaffali del suo studio ampio e luminoso si ammirano le varie edizioni – tantissime – delle sue opere: le raccolte di versi di maggiore successo, come Parole (1945), La pioggia e il bel tempo(1955), Alberi (1976); le antologie tradotte in italiano Le foglie morte e Poesie d’amore. Mentre calano le prime ombre della sera, bagnate da una pioggerella fine e insistente, viene quasi voglia di attendere il buio e rileggere le Trois allumettes: “Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte/Il primo per vederti tutto il viso/Il secondo per vederti gli occhi/L’ultimo per vedere la tua bocca/E tutto il buio per ricordarmi queste cose/Mentre ti stringo fra le braccia”.

Marco Travaglini

In bici sulla pista ciclabile viene investita e muore

DALLA LIGURIA

E’ morta dopo esser stata investita da un’automobile sull’Aurelia a Savona. La donna, di 77 anni,  era in bici  e stava pedalando sulla corsia dedicata ai mezzi a due ruote quando è stata travolta da una  utilitaria. E’ stata sbalzata e ha sfondato il parabrezza della vettura rotolando a terra. Trasportata in codice rosso al pronto soccorso dell’ospedale è morta dopo alcune ore per le gravi ferite riportate.

“GLI ULTIMI GIORNI DI BISANZIO, SPLENDORE E DECLINO DI UN IMPERO”

Alla fine del Trecento Bisanzio è accerchiata, sta per cadere nelle mani dei turchi. I crociati europei cadono rovinosamente sotto i colpi degli Ottomani. In terra bulgara, prima a Nicopoli nel 1396 e poi a Varna sul Mar Nero nel 1444 si spengono le ultime speranze dei cavalieri cristiani di respingere gli Ottomani che avanzavano nei Balcani senza incontrare resistenza. La situazione è drammatica e l’Europa sembra sul punto di rispondere alla minaccia che arriva da Oriente. L’ombra dei sultani comincia a riflettersi sulle acque dorate del Corno d’Oro nella capitale bizantina sul Bosforo. Tocca a Manuele II Paleologo, imperatore di Bisanzio, giocare l’ultima disperata carta e chiedere l’aiuto dell’Europa. Si imbarca su una galea veneziana e parte con l’obiettivo di convincere i sovrani europei a coalizzarsi e aiutare militarmente Costantinopoli prima che sia troppo tardi. Accolto dal doge, Venezia è la prima tappa e, dopo la regina dei mari, raggiunge Milano, Parigi e Londra in un lungo viaggio compiuto tra il 1399 e il 1403 portando con sé rari e pregiati doni diplomatici e religiosi destinati ai sovrani europei e ai due Papi residenti a quel tempo a Roma e ad Avignone. Tra questi importanti regali spicca “l’icona di San Luca” di Freising (città presso Monaco di Baviera), opera bizantina che

raffigura la Madonna con il capo reclinato e le braccia protese in avanti nell’atto di pregare, dal titolo “La speranza dei disperati”, un simbolo del tragico momento in cui si trovava Costantinopoli tra la fine del Trecento e il Quattrocento, con i turchi alle porte. Ebbene, per la prima volta dopo oltre sei secoli l’icona di San Luca, custodita da sempre in Germania, è tornata a Venezia, la città della sua prima destinazione in Europa. È esposta nei saloni della Biblioteca Marciana della città lagunare nella mostra “Gli ultimi giorni di Bisanzio. Splendore e declino di un Impero”. Il prezioso oggetto, che risale al X secolo e, secondo l’antica tradizione cristiana, sarebbe stato dipinto dallo stesso apostolo Luca, è l’anima della mostra alla Biblioteca Marciana suddivisa in otto sezioni che illustrano il contesto storico e politico che portò alla caduta di Costantinopoli, il significato del viaggio di Manuele II in Europa e le testimonianze dell’intenso scambio culturale e commerciale tra Venezia e Bisanzio all’inizio dell’Umanesimo. Quando, nel 1402, il sultano Bayezid I, detto la Folgore, fu sconfitto ad Ankara da Tamerlano, il terribile condottiero dei Mongoli e l’incubo ottomano fu improvvisamente scacciato da Bisanzio, Manuele II interpretò l’inaspettata vittoria come un dono della Madonna “dei senza speranza”. Un breve documentario presenta la drammatica situazione di Bisanzio negli ultimi decenni prima della caduta di Costantinopoli. Nonostante l’acuirsi del conflitto bizantino-ottomano non mancarono tentativi di incontro pacifico tra le due culture e religioni, come dimostra il famoso manoscritto dei “Dialoghi con un musulmano” di Manuele II. Nella mostra si possono vedere le carte geografiche dell’epoca che presentano Costantinopoli e Venezia, luoghi di partenza e di approdo dell’imperatore nel suo tour in Europa. Tra i doni visibili nell’esposizione ci sono il reliquiario con una bolla imperiale donato all’antipapa Benedetto XIII e il reliquiario delle Spine della corona di Cristo dal Duomo di Pavia. L’icona di San Luca fu donata a uno degli uomini più potenti del tempo, Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano. Entrò poi in possesso dei veronesi della Scala e nel 1440 Nicodemo della Scala, vescovo di Freising, la regalò al Duomo della città. Le ultime sezioni della mostra illustrano la lunga tradizione di stretti rapporti tra Bisanzio e Venezia, già provincia dell’Impero romano d’Oriente, attraverso pezzi di grande valore realizzati a Bisanzio e giunti in laguna in epoche diverse come le cinque legature per libri liturgici della Biblioteca Marciana, la stauroteca (il reliquiario con frammenti di legno della croce di Cristo) del cardinale Basilio Bessarione proveniente dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia e il cofanetto per reliquie di Trebisonda conservato nel Tesoro di San Marco. Venezia si conferma città “bizantina” per eccellenza. Non solo per i legami storici ma anche per ciò che conserva da secoli, come l’icona della Madonna Nikopeia (portatrice di vittoria), conservata nella Basilica di San Marco, che gli imperatori portavano in battaglia come amuleto o come l’icona di San Luca che a Venezia non poteva mancare, almeno per qualche mese. L’esposizione, nata da una cooperazione tra il Museo diocesano di Freising e la Biblioteca Marciana di Venezia, è aperta al pubblico nelle sale monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana fino al 5 marzo 2019, tutti i giorni, 10.00-17.00, con ingresso dal Museo Correr.

Filippo Re

 

 

 

 

"GLI ULTIMI GIORNI DI BISANZIO, SPLENDORE E DECLINO DI UN IMPERO"

Alla fine del Trecento Bisanzio è accerchiata, sta per cadere nelle mani dei turchi. I crociati europei cadono rovinosamente sotto i colpi degli Ottomani. In terra bulgara, prima a Nicopoli nel 1396 e poi a Varna sul Mar Nero nel 1444 si spengono le ultime speranze dei cavalieri cristiani di respingere gli Ottomani che avanzavano nei Balcani senza incontrare resistenza. La situazione è drammatica e l’Europa sembra sul punto di rispondere alla minaccia che arriva da Oriente. L’ombra dei sultani comincia a riflettersi sulle acque dorate del Corno d’Oro nella capitale bizantina sul Bosforo. Tocca a Manuele II Paleologo, imperatore di Bisanzio, giocare l’ultima disperata carta e chiedere l’aiuto dell’Europa. Si imbarca su una galea veneziana e parte con l’obiettivo di convincere i sovrani europei a coalizzarsi e aiutare militarmente Costantinopoli prima che sia troppo tardi. Accolto dal doge, Venezia è la prima tappa e, dopo la regina dei mari, raggiunge Milano, Parigi e Londra in un lungo viaggio compiuto tra il 1399 e il 1403 portando con sé rari e pregiati doni diplomatici e religiosi destinati ai sovrani europei e ai due Papi residenti a quel tempo a Roma e ad Avignone. Tra questi importanti regali spicca “l’icona di San Luca” di Freising (città presso Monaco di Baviera), opera bizantina che

raffigura la Madonna con il capo reclinato e le braccia protese in avanti nell’atto di pregare, dal titolo “La speranza dei disperati”, un simbolo del tragico momento in cui si trovava Costantinopoli tra la fine del Trecento e il Quattrocento, con i turchi alle porte. Ebbene, per la prima volta dopo oltre sei secoli l’icona di San Luca, custodita da sempre in Germania, è tornata a Venezia, la città della sua prima destinazione in Europa. È esposta nei saloni della Biblioteca Marciana della città lagunare nella mostra “Gli ultimi giorni di Bisanzio. Splendore e declino di un Impero”. Il prezioso oggetto, che risale al X secolo e, secondo l’antica tradizione cristiana, sarebbe stato dipinto dallo stesso apostolo Luca, è l’anima della mostra alla Biblioteca Marciana suddivisa in otto sezioni che illustrano il contesto storico e politico che portò alla caduta di Costantinopoli, il significato del viaggio di Manuele II in Europa e le testimonianze dell’intenso scambio culturale e commerciale tra Venezia e Bisanzio all’inizio dell’Umanesimo. Quando, nel 1402, il sultano Bayezid I, detto la Folgore, fu sconfitto ad Ankara da Tamerlano, il terribile condottiero dei Mongoli e l’incubo ottomano fu improvvisamente scacciato da Bisanzio, Manuele II interpretò l’inaspettata vittoria come un dono della Madonna “dei senza speranza”. Un breve documentario presenta la drammatica situazione di Bisanzio negli ultimi decenni prima della caduta di Costantinopoli. Nonostante l’acuirsi del conflitto bizantino-ottomano non mancarono tentativi di incontro pacifico tra le due culture e religioni, come dimostra il famoso manoscritto dei “Dialoghi con un musulmano” di Manuele II. Nella mostra si possono vedere le carte geografiche dell’epoca che presentano Costantinopoli e Venezia, luoghi di partenza e di approdo dell’imperatore nel suo tour in Europa. Tra i doni visibili nell’esposizione ci sono il reliquiario con una bolla imperiale donato all’antipapa Benedetto XIII e il reliquiario delle Spine della corona di Cristo dal Duomo di Pavia. L’icona di San Luca fu donata a uno degli uomini più potenti del tempo, Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano. Entrò poi in possesso dei veronesi della Scala e nel 1440 Nicodemo della Scala, vescovo di Freising, la regalò al Duomo della città. Le ultime sezioni della mostra illustrano la lunga tradizione di stretti rapporti tra Bisanzio e Venezia, già provincia dell’Impero romano d’Oriente, attraverso pezzi di grande valore realizzati a Bisanzio e giunti in laguna in epoche diverse come le cinque legature per libri liturgici della Biblioteca Marciana, la stauroteca (il reliquiario con frammenti di legno della croce di Cristo) del cardinale Basilio Bessarione proveniente dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia e il cofanetto per reliquie di Trebisonda conservato nel Tesoro di San Marco. Venezia si conferma città “bizantina” per eccellenza. Non solo per i legami storici ma anche per ciò che conserva da secoli, come l’icona della Madonna Nikopeia (portatrice di vittoria), conservata nella Basilica di San Marco, che gli imperatori portavano in battaglia come amuleto o come l’icona di San Luca che a Venezia non poteva mancare, almeno per qualche mese. L’esposizione, nata da una cooperazione tra il Museo diocesano di Freising e la Biblioteca Marciana di Venezia, è aperta al pubblico nelle sale monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana fino al 5 marzo 2019, tutti i giorni, 10.00-17.00, con ingresso dal Museo Correr.

Filippo Re


 
 
 
 

Auto si scontrano: due vittime e un ferito

DALLA CAMPANIA  Tragico bilancio di due morti e un ferito in uno scontro tra due auto avvenuto sulla fondovalle Isclero, nei pressi dello svincolo per Airola, nel Beneventano, forse  a causa del fondo stradale viscido per la pioggia. Coinvolte una vettura  su cui viaggiavano un uomo e una donna sessantenni di Casoria (Napoli), morti  sul colpo, e un’altra utilitaria, guidata da una donna di Cervinara (Avellino) che è rimasta ferita e ora è  ricoverata in ospedale.

Campagna elettorale permanente

Il vicepremier Luigi di Maio, a oltre 70 anni di distanza, si accorge che c’è un franco francese (CFA ) che fa da scudo per 15 Paesi africani che, liberamente, lo vogliono soppesandone pro e contro e attacca nuovamente la Francia

 

Questo perché, dovendo rincorrere il suo alleato Matteo Salvini, non trova di meglio che prendersela con i cugini francesi in modo scomposto, generico e senza senso. A questo si aggiunge il ritorno di Alessandro Di Battista che gli dà man forte; “rentré” (per dirla alla francese) di cui non sentivamo affatto la mancanza. C’è da sperare che Di Battista che ha in programma una scampagnata in India lo tengano là come hanno fatto con i due Marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone Continuare così a farci nemici da tutte le parti senza cercare alleanze per tutelare i nostri interessi ci porterà alla rovina. Se da un lato siamo convinti che le frontiere debbano essere controllate e non si portare portare 2 miliardi di africani in Italia, dall’altro lato, crediamo che attaccare sempre tutti e in particolare i francesi, senza essere “giustificati” da un fallo di reazione ci mette dalla parte del torto.

La Francia ha molte colpe, ma attaccarla così è controproducente Se per merito di Luigi Di Maio, noi siamo stati rozzi negli attacchi, i francesi sono stati più scaltri. Il richiamo dell’ambasciatrice italiana in Francia, Teresa Castaldo non è infatti avvenuto da parte del ministro degli Esteri, ma bensì da parte di Nathalie Loiseau, ministro per gli Affari Europei francesi.È inutile dire che per i due ambasciatori (Christian Masset a Roma e Teresa Castaldo a Parigi) non è un compito facile mantenere il dialogo e al contempo rappresentare i rispettivi governi. È già capitato che alcuni ambasciatori venissero convocati in passato, per esempio dal ministro Tremonti quando Lactalis comprò Parmalat (2011) o dalla Farnesina in occasione dell’incidente a Bardonecchia (marzo 2018), così non s’era mai visto. Si possono far valere le proprie ragioni, ma la classe non è acqua! Tralasciando l’immagine Di Battista che strappa la banconota francese (CFA), purtroppo in Italia è sempre campagna elettorale. Il voto europeo di primavera si avvicina e sarà una guerra senza esclusioni di colpi e, come in guerra, i morti ci saranno da tutte le parti,ma sarebbe ora che il buon senso facesse capolino da tutte le parti, in Italia, ma anche Oltralpe. In fatto di buon senso, l’accordo di Francia e Germania stipulato ad Aquisgrana che richiama il ricordo alla Linea Sigfrido non ne dimostra molto!

Tommaso Lo Russo

Siria, il ritorno dell’Isis

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re

Il destino già segnato dei curdi infiamma di nuovo i toni dello scontro tra Erdogan e Trump che a colpi di tweet li attaccano e li difendono

Ankara considera i valorosi combattenti indo-europei pericolosi terroristi alla stregua dell’Isis mentre per gli americani restano alleati da proteggere nonostante il ritiro dei soldati dalla Siria che apre nuovi scenari geopolitici. Nel disordine levantino dove le alleanze si rovesciano facilmente e le frontiere si sfaldano, i curdi, abbandonati dagli Stati Uniti, chiedono aiuto al nemico Bashar al Assad per evitare di farsi schiacciare dai panzer del sultano di Ankara. Ma l’attenzione generale è in questi giorni puntata anche sulla città di Manbij, a nord-est di Aleppo, la città contesa tra turchi e curdi, e sulla base statunitense di Al Tanf, nel sud-est del Paese. Mercoledì 16 gennaio un kamikaze dell’Isis si è fatto esplodere davanti a un ristorante uccidendo quattro marines e quindici civili. Si è tratta di uno dei più gravi attentati contro i soldati statunitensi in Siria da parte dei jihadisti. Cosa cambierà nel teatro siriano dopo la partenza dei circa 2000 soldati americani? Illustrando la nuova strategia Usa per il Medio Oriente il segretario di Stato Pompeo ha affermato che la presenza degli Stati Uniti nella regione non è in discussione e che la missione anti-Isis continuerà con raid aerei dalle basi presenti nelle vicinanze e con azioni di commando. L’obiettivo centrale rimane però la sfida agli ayatollah che “tentano di trasformare la Siria in un altro Libano” e minacciano di riprendere la corsa all’atomica. Mentre gli anfibi a stelle e strisce lasciano le dodici basi militari nel Rojava, la regione curdo-siriana a nord-est, al confine con la Turchia, e quella di Al Tanf, la più importante, a sud-est, verso il confine con l’Iraq, ci si interroga sulle possibili conseguenze della scelta di Trump.

***

Il Pentagono ha cercato di frenare fino all’ultimo la decisione della Casa Bianca paventando il rischio di lasciare troppo spazio a russi e iraniani, di offrire ai turchi la possibilità di scatenare pesanti offensive contro i curdi e di favorire nuovi attacchi da parte dei combattenti del Califfo. A subire l’ennesimo colpo letale sono invece i curdi che verrebbero travolti da un’offensiva, che sembra vicina, dell’esercito turco. Alleati degli americani che li hanno appoggiati per anni per combattere l’Isis, i curdi hanno perduto migliaia di combattenti nella lotta contro le bandiere nere di Al Baghdadi. Anche oggi vengono sacrificati dalla volontà delle grandi potenze, in particolare da Washington che cerca di riallacciare i rapporti con Ankara. Usati, abbandonati e annientati, come spesso è accaduto nella storia recente. Curdi traditi anche questa volta dagli alleati come accadde per i curdi iracheni, alleati dell’Occidente contro Saddam Hussein, che poi li sterminò con i gas nell’indifferenza del mondo intero. Gli occhi del mondo si posano su Manbij, la cittadina curda tra Aleppo e l’Eufrate, vicino al confine tra Siria e Turchia, dove da qualche giorno ci sono eserciti di mezzo mondo: truppe russe, americane, siriane e turche. Ankara pretende che i curdi si ritirino a est dell’Eufrate, vuole prendere il controllo della città di Manbij e creare una zona di sicurezza di 30 chilometri. Riflettori accesi anche sulla base americana di Al Tanf, nella parte sudorientale della Siria. Avamposto strategico e base operativa delle forze statunitensi, Al Tanf ha impedito finora ai Pasdaran di creare quel “corridoio sciita” tra l’Iran, l’Iraq, la Siria e il Libano temuto da americani e israeliani. Lo sgombero della base consentirebbe alle milizie di Teheran ampia libertà di movimento e il trasferimento di armi iraniane agli Hezbollah libanesi attraverso l’alleato siriano diventerebbe più semplice. Non a caso i giornali iraniani filo-governativi hanno festeggiato come una grande vittoria la notizia del disimpegno militare americano. Israele sarà costretto a raddoppiare la

sorveglianza e i bombardamenti contro depositi e basi iraniane in Siria saranno sempre più frequenti.

Toccherà a Putin frenare i generali iraniani e calmare gli animi israeliani. Mentre il nodo di Idlib è

ancora tutto da sciogliere, a Damasco riaprono le prime ambasciate e si cerca di tornare alla normalità.

Prove di distensione anche tra i due alleati Nato, Turchia e Stati Uniti, che, nonostante frizioni e

battibecchi, dovrebbero riprendere i contatti a Washington all’inizio di febbraio.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 

Siria, il ritorno dell'Isis

FOCUS INTERNAZIONALE  di Filippo Re
Il destino già segnato dei curdi infiamma di nuovo i toni dello scontro tra Erdogan e Trump che a colpi di tweet li attaccano e li difendono
Ankara considera i valorosi combattenti indo-europei pericolosi terroristi alla stregua dell’Isis mentre per gli americani restano alleati da proteggere nonostante il ritiro dei soldati dalla Siria che apre nuovi scenari geopolitici. Nel disordine levantino dove le alleanze si rovesciano facilmente e le frontiere si sfaldano, i curdi, abbandonati dagli Stati Uniti, chiedono aiuto al nemico Bashar al Assad per evitare di farsi schiacciare dai panzer del sultano di Ankara. Ma l’attenzione generale è in questi giorni puntata anche sulla città di Manbij, a nord-est di Aleppo, la città contesa tra turchi e curdi, e sulla base statunitense di Al Tanf, nel sud-est del Paese. Mercoledì 16 gennaio un kamikaze dell’Isis si è fatto esplodere davanti a un ristorante uccidendo quattro marines e quindici civili. Si è tratta di uno dei più gravi attentati contro i soldati statunitensi in Siria da parte dei jihadisti. Cosa cambierà nel teatro siriano dopo la partenza dei circa 2000 soldati americani? Illustrando la nuova strategia Usa per il Medio Oriente il segretario di Stato Pompeo ha affermato che la presenza degli Stati Uniti nella regione non è in discussione e che la missione anti-Isis continuerà con raid aerei dalle basi presenti nelle vicinanze e con azioni di commando. L’obiettivo centrale rimane però la sfida agli ayatollah che “tentano di trasformare la Siria in un altro Libano” e minacciano di riprendere la corsa all’atomica. Mentre gli anfibi a stelle e strisce lasciano le dodici basi militari nel Rojava, la regione curdo-siriana a nord-est, al confine con la Turchia, e quella di Al Tanf, la più importante, a sud-est, verso il confine con l’Iraq, ci si interroga sulle possibili conseguenze della scelta di Trump.

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Il Pentagono ha cercato di frenare fino all’ultimo la decisione della Casa Bianca paventando il rischio di lasciare troppo spazio a russi e iraniani, di offrire ai turchi la possibilità di scatenare pesanti offensive contro i curdi e di favorire nuovi attacchi da parte dei combattenti del Califfo. A subire l’ennesimo colpo letale sono invece i curdi che verrebbero travolti da un’offensiva, che sembra vicina, dell’esercito turco. Alleati degli americani che li hanno appoggiati per anni per combattere l’Isis, i curdi hanno perduto migliaia di combattenti nella lotta contro le bandiere nere di Al Baghdadi. Anche oggi vengono sacrificati dalla volontà delle grandi potenze, in particolare da Washington che cerca di riallacciare i rapporti con Ankara. Usati, abbandonati e annientati, come spesso è accaduto nella storia recente. Curdi traditi anche questa volta dagli alleati come accadde per i curdi iracheni, alleati dell’Occidente contro Saddam Hussein, che poi li sterminò con i gas nell’indifferenza del mondo intero. Gli occhi del mondo si posano su Manbij, la cittadina curda tra Aleppo e l’Eufrate, vicino al confine tra Siria e Turchia, dove da qualche giorno ci sono eserciti di mezzo mondo: truppe russe, americane, siriane e turche. Ankara pretende che i curdi si ritirino a est dell’Eufrate, vuole prendere il controllo della città di Manbij e creare una zona di sicurezza di 30 chilometri. Riflettori accesi anche sulla base americana di Al Tanf, nella parte sudorientale della Siria. Avamposto strategico e base operativa delle forze statunitensi, Al Tanf ha impedito finora ai Pasdaran di creare quel “corridoio sciita” tra l’Iran, l’Iraq, la Siria e il Libano temuto da americani e israeliani. Lo sgombero della base consentirebbe alle milizie di Teheran ampia libertà di movimento e il trasferimento di armi iraniane agli Hezbollah libanesi attraverso l’alleato siriano diventerebbe più semplice. Non a caso i giornali iraniani filo-governativi hanno festeggiato come una grande vittoria la notizia del disimpegno militare americano. Israele sarà costretto a raddoppiare la
sorveglianza e i bombardamenti contro depositi e basi iraniane in Siria saranno sempre più frequenti.
Toccherà a Putin frenare i generali iraniani e calmare gli animi israeliani. Mentre il nodo di Idlib è
ancora tutto da sciogliere, a Damasco riaprono le prime ambasciate e si cerca di tornare alla normalità.
Prove di distensione anche tra i due alleati Nato, Turchia e Stati Uniti, che, nonostante frizioni e
battibecchi, dovrebbero riprendere i contatti a Washington all’inizio di febbraio.

Dal settimanale “La Voce e il Tempo”

 

Bimbo di due anni muore di meningite

DALL’EMILIA ROMAGNA   

Ieri un bambino di due anni è morto all’ospedale Maggiore di Bologna a causa di una meningite da meningococco. E’ immediatamente scattata la profilassi nei confronti di 34 persone, operatori sanitari e nucleo familiare. Il piccolo non frequentava l’asilo o altre comunità, al di fuori dei familiari. Era stato portato al pronto soccorso con la febbre per un’infiammazione alle  vie respiratorie, ma rispondeva bene al paracetamolo ed è stato dimesso, Poi è stato nuovamente portato in ospedale, per un peggioramento ed è morto nella notte.