Un ospite d’eccezione per festeggiare i 50 anni d’attività di Assemblea Teatro, giovedì 23 novembre al Teatro Agnelli di via Paolo Sarpi. La serata inizierà alle 21 quando salirà sul palco dello storico teatro situato tra i quartieri Mirafiori e Lingotto il grande Shel Shapiro , indimenticabile ex leader dei Rokes. Sarà lui il protagonista dello spettacolo ” Sarà una bella società, fondata sulla libertà”, accompagnato alla chitarra da Daniele Ivaldi e alle tastiere da Gabriele Bernardi. Partirà così la stagione al Teatro Agnelli, celebrando Assemblea Teatro con un amico e musicista che, come la compagnia torinese, ha attraversato e vissuto sulla scena, mezzo secolo di storia. Raccontare alcune generazioni, con lo strumento popolare delle canzoni, e con la voce e il volto di un protagonista che si presenta sul palcoscenico a evocare una storia con la sua stessa presenza: la voce, la chitarra, l’immagine anche fisica di Shel Shapiro rappresentano un esercizio mentale irresistibile, che serve per recuperare il clima di un’epoca, lo spirito del tempo , l’intera psicologia di chi ha attraversato i decenni dai primi anni Sessanta in poi. Già, i Sessanta sono un decennio “seminale”, in cui sembra essersi concentrata una creatività, un’energia sociale, ma anche intellettuale, culturale, comportamentale, davvero irripetibile. Se pensiamo all’America di Bob Dylan , a una voce mai sentita prima che annuncia il tempo nuovo, abbiamo una fotografia suggestiva del cambiamento. Ma prima occorre avvertire anche l’eco delle canzoni e del surf dei Beach Boys , e subito dopo gettare uno sguardo sull’epoca in cui i festival e i grandi raduni raccoglievano centinaia di migliaia di giovani, i beatnik, gli hippie, a Newport come a Woodstock. Peace and Love, pace e amore, nel fango di Woodstock. E qualche anno prima la ballata elettrica e dolente di Dylan, “a hard rain’s gonna fall”. È la grande società che richiama inesorabilmente le note di The Way we Were, Barbra Streisand e Robert Redford come campioni ancora ingenui della rivoluzione democratica, quando non si era così cinici, e la politica rappresnetava una speranza di cambiamento. Ma nello stesso tempo dobbiamo anche pensare all’Europa e all’Italia di allora. All’Inghilterra delle “cavern”, in cui emergono i “complessi” – oggi diremmo le “band” – che trasformano radicalmente il modo di fare musica e di stare insieme. Nell’immaginario musicale esplode il suono distorto dei Rolling Stones nel riff di Satisfaction mentre i Beatles impongono una specie di rivoluzione, in cui si sperimenta tutto e i Pink Floyd fanno viaggiare tar le stelle della psicadelia. E intorno a loro, ai fondatori della musica nuova, si affollano i grandi epigoni, gli eredi del blues, gli Animals di Eric Burdon, i Them , gli Who e in Italia i Rokes di Shel Shapiro affiancati dai Nomadi di Augusto Daolio e Beppe Carletti, i Corvi , i Ribelli di Demetrio Stratos e l’ Equipe 84 . Insomma, una serata da non perdere, necessaria a rinsaldare vecchie radici musicali o trovare nuove suggestioni.
M.Tr.
L’esposizione, ideata dal direttore di Palazzo Madama Guido Curto e curata insieme agli storici dell’arte del museo, racconta il cammino dell’Umanità sul pianeta Terra nel corso di una Storia plurimillenaria
III
Sean Baker, con Willem Defoe e Bria Vinaite, storia di una madre e della figlioletta di sei anni che con altri vivono nel Magic Castle Hotel, nome bellissimo per una realt
che, afferma la rossoscapigliata Emanuela Martini, al timone da quattro anni e in buona speranza per una riconferma, torna al suo interno a riconsiderare il mondo del lavoro, il cerchio della famiglia come base di sentimenti e di lotte e la Storia, gli sguardi e i ripensamenti che interessano Davide Ferrario con
con 
frequentatore di commedie brillanti, come monologhista eccellente. È un giovanilissimo sessantenne che per l’occasione cambia registro, prende un’altra strada (momentanea?) per cercare nuove concretezze, nuove tragicità che pur qui rimangono inviluppate in un contesto da commedia, quasi da pochade. Capace di scavalcare all’indietro l’età di Ciampa, ritrovandosi magari più “strano” in una sembianza che cancella i grandi vecchi, capace di sottrarsi al ruolo di scrivano, di sottoposto, di uomo già anziano alle dipendenze di un padrone per ritrovarsi in un elegante quanto forbitissimo signore. Ascolti in modo diverso la tirata delle tre corde, la sociale, la seria e la pazza, ha un aspetto nuovo lui entrato nel salotto buono di casa Fiorica a destreggiarsi tra la signora che gli porge velatamente l’ombra del dubbio, il fratello di costei che guarda di lontano i connotati del bel Cecè, di un commissario che sembra uscito da una comica del primo Novecento, di una madre nerovestita diretta, come tutti del resto, a salvare il buon nome della famiglia.
in un perfetto terzo atto, velocemente diretto, impaginato con tutta l’immediatezza del momento, mentre in precedenza, nella volontà di addentrarsi ancor più di altri suoi colleghi nelle tante tessere che compongono la storia, recupera zone che Pirandello aveva tralasciato, come quando Beatrice ritrova tra la biancheria uno scorpione, portatore di un morso velenoso, o come quando Fifì rimprovera la sorella di non essere più disponibile con il marito, spingendolo nella ricerca di altri corpi femminili.
solo. Allo smacco artistico (per un pittore sicuramente non alle prime armi, con mostre all’attivo, già premiato all’“Esposizione Internazionale di Arti Decorative e Industriali” a Parigi e forte di una formazione artistica compiutasi in gioventù nei massimi centri delle avanguardie europee del tempo, fra cui Vienna e Monaco), si unì anche un inghippo non da poco, come il ritiro, sempre sotto la Mole, del passaporto per motivi politici. Con l’entusiasmo presumibilmente sotto i piedi,
l’artista decise, nonostante tutto (forte di quell’“estrosità” ed “umoralità” che ne segnarono l’intera esistenza) di restare a Torino. Dove inizialmente alloggiò in una soffitta in via Napione, ospite del pittore Carlo Terzolo, e dove in seguito tramite amici come Cuzzi, Chessa e Paulucci entrerà in contatto con le massime “voci critiche” del tempo, come Lionello Venturi ed Edoardo Persico. Scelta coraggiosa per lui. Una grande fortuna per la città, in cui rimase per trent’anni. Per il resto della sua vita. Fino al 1958, quando il 19 febbraio si spense improvvisamente. Di qui il titolo della grande Antologica (“Luigi Spazzapan– Ritorno a Torino”) a lui dedicata, a quasi sessant’anni dalla morte, dalla torinese “Fondazione Giorgio Amendola e Associazione Lucana Carlo Levi” di via Tollegno. Curata da Loris Dadam, la rassegna presenta un centinaio di opere, in arrivo dalle maggiori collezioni a livello nazionale, e ha il duplice scopo (oltreché di far dell’arte un elemento di “Riqualificazione delle Periferie”) “di far conoscere al più vasto pubblico l’opera dell’artista, ma soprattutto di prospettare una rivisitazione critica del ruolo di avanguardia da lui avuto in quel periodo”.
Battitore libero, assolutamente autonomo nella ricerca stilistica, tanto dall’allora imperante (a Torino soprattutto) “classicismo” casoratiano quanto dal “tonalismo post-impressionista” dei Sei; attento solo agli impulsi di una gestualità all’apparenza incontrollabile e senza freni già in corsa verso lidi astratto-informali percepiti attraverso una grafia espressionista dai tratti nervosi ed essenziali, Spazzapan produce dal ’30 al ’42 una serie di “vedute” torinesi -molte presenti in mostra – di alta suggestione e lirica intensità. Ecco allora, in parete, il Valentino, le varie vedute del Po, il Canale Michelotti, le case di Barriera e piazza Castello nella nebbia o con la neve o sotto i bombardamenti. Un’autentica “dichiarazione d’amore” per la città che sentiva ormai “sua” (dove lavorò anche come illustratore alla “Gazzetta del Popolo” e come docente al “Liceo Artistico”) e luogo d’approdo felice per la sua pittura. Quella che gli faceva passare, come lui stesso raccontava a Venturi, “intere notti senza potermi fermare” in un intreccio di soggetti fra i più vari: molto piacevoli anche gli “interni”, (in cui
spesso ritrae l’amata compagna Ginia), così come gli “animali” (la serie dei “Cavalli” composti con una frenesia narrativa senza limiti fra il ’32 e il ’50) e le “nature morte” (di impressionante vigore il “Vaso di calendole” del ’48). Alla fine degli anni Quaranta, inizia per l’artista friulano quel processo di “geometrizzazione” delle forme, ben evidente nella calibrata tempera su carta del ’48 “La Spagnola” (dall’intenso fondale rosso) che pure mantiene ferma la rilevanza formale del soggetto, a differenza della “Composizione geometrica n. 8” già realizzata nel ’46, dove “la consueta libertà di tratto sperimenta sempre più la sua potenziale autonomia dall’oggetto”. Per arrivare al ’55, con “Composizione Astratta n. 1”, dove il processo può dirsi concluso: “la linea ed i graficismi collegati non ci sono più, sono rimasti solo la pittura e il colore quasi allo stato primordiale in uno stile informale dove sembra prevalere la casualità del gesto”. E, in quest’ottica, si può veramente dire che la mostra ospitata alla “Fondazione Amendola” riesce a coprire in buona parte tutti i periodi creativi dell’artista: pittore anarcoide, irruente e dolce a un tempo, dalla “mano dilagante” ma attenta a “ubbidirgli sempre, anche nei momenti di massima frenesia”.
Militare, diplomatico, “crociato” anti-turco e poi patrono, “beato” e oggi anche “venerabile” per decreto di Papa Francesco che ha confermato ufficialmente in questi giorni il culto di Bernardo, principe di Baden-Baden e patrono di Moncalieri.
turca della Roma d’Oriente, rimasero inascoltati. L’inerzia di Papa Niccolò V e di altri pontefici e di gran parte dei sovrani europei portò alla perdita di una parte così importante del mondo cristiano. Le voci di
disperazione che si levarono sui cieli dell’Occidente si ritrovano nelle lettere accorate di diplomatici come il grande umanista Enea Silvio Piccolomini (Papa Pio II) che scrive perfino al sultano conquistatore Maometto II per esortarlo a convertirsi alla fede cattolica e nel dinamismo frenetico di predicatori, focosi e battaglieri, come fra Giovanni da Capestrano. Nel coro di invocazioni e suppliche si inserisce anche la storia del nostro Bernardo di Baden che viaggia per le corti europee al fine di raccogliere fondi per promuovere una crociata contro gli Ottomani. In cerca di alleati Bernardo sbarcò in una Genova trasformata in un lazzaretto per una devastante epidemia di peste e ne fu subito contagiato. Fiacco e indebolito nel fisico si mise in viaggio per tornare a casa, nella sua Baden, ma arrivato a Moncalieri
morì. Era il 15 luglio 1458 e aveva solo 30 anni. A questo punto avvenne il primo miracolo: durante il funerale uno storpio moncalierese, malato dalla nascita, guarì improvvisamente e il prodigio fu attribuito a Bernardo che fu sepolto nella chiesa di Santa Maria della Scala. In seguito ad altre miracolose guarigioni avvenute a Moncalieri Bernardo fu beatificato nel 1769 da Papa Clemente XIV che lo dichiarò patrono di Moncalieri e della città di Baden. Nella tradizione popolare è sempre stato chiamato “beato” pur in assenza del riconoscimento ufficiale del Vaticano. Adesso Papa Francesco ha autorizzato il decreto che lo dichiara “venerabile”. Ogni anno a metà luglio è grande festa a Moncalieri dove si celebra il patrono con una rievocazione storico-religiosa in abiti medioevali che attraversa il centro della città e che porta le reliquie del beato dalla chiesa di Santa Maria della Scala alla parrocchia di Bernardo.
calabrese, suscitando molto clamore in tutta Italia per poi risolversi in un inaspettato lieto fine e la fuga del giovane dai rapitori, riuscendo a farli arrestare. “Vai piano ma vinci ” è stato girato nell’estate del 2016 a Mondovì da Alice, che, oltre ad aver scritto e diretto il film, ne è anche protagonista come attrice recitando nel ruolo della madre. Attraverso il racconto diretto del protagonista, della famiglia e degli investigatori, il film ricostruisce la prigionia e la pianificazione della fuga di Pier Felice. In
parallelo, grazie alle registrazioni originali delle telefonate con i rapitori , per caso ritrovate nel cassetto di un mobile durante il trasloco dopo la morte del nonno – come racconta la stessa Alice – si rivive la battaglia di un padre nel tentativo di restituire la libertà al figlio. Pier Felice sa che sta per affrontare la sfida più importante della sua vita, ma è una gara che dovrà correre andando più piano possibile, mantenendo lucidità e freddezza.
Savona e, appena ne ebbe la possibilità, cerca di comunicarlo alla famiglia. “I am near sv” sono le prime lettere con cui iniziava ogni frase scritta nel biglietto che i rapitori lo convinsero a scrivere , per indurre i familiari a pagare il riscatto. Ma il messaggio criptato non verrà colto né dalla famiglia né dagli investigatori. Trascorrono giorni, Pier Felice è guardato a vista , perde la cognizione del tempo e dello spazio, ma non la lucidità per incastrare ad uno ad uno i pezzi di un puzzle che lo condurranno verso la libertà. La famiglia Filippi aveva già vissuto il dramma della perdita di un figlio, Giancarlo, fratello maggiore di Pier Felice. Sono trascorsi 24 mesi , Pier Felice non lo sa, ma il giorno dell’anniversario di quel drammatico incidente è lo stesso in cui riuscirà a mettere fine alla sua prigionia. ” Quest’anno – sottolinea Emanuela Martini – sono tornate alla ribalta tematiche come la
storia, la famiglia”. E di una storia vera tratta appunto ” Vai piano ma vinci” , che si basa sui ricordi di una famiglia, quella dei Filippi, ma al tempo stesso recupera l’atmosfera e i fatti di quel periodo storico, quello degli Anni di Piombo, insieme ai sentimenti degli Italiani di allora. Il film racchiude anche un messaggio importante, come sottolinea Alice Filippi, , ” rappresenta cioè una storia di speranza e determinazione. Usando intelligenza e fermezza senza mai strafare si può arrivare al raggiungimento dell’obiettivo prefissato, E il rischio calcolato di mio padre ne è stata la conferma.” “Vai piano ma vinci” sarà nelle sale domenica 26 novembre alle 20,30 e lunedì 27 alle 11,30 al Cinema Reposi.
Borg McEnroe – Drammatico/biografico. Regia di Janus Metz Pedersen, con Shia LaBeouf, Sverrir Gudnason e Stellan Skarsgård. Due campioni, due storie e due personalità diversissime, gli stili che catturano opposte folle di fan, i movimenti freddi e calibrati dell’uno contro quelli nervosi e impetuosi dell’altro, la calma contro il nervosismo, la loro rivalità che li vide a confronto per 14 volte tra il ’78 e il 1981, fino alla finale di Wimbledon, che qualcuno ancora oggi considera una delle più belle partite della storia del tennis. Fino alla loro amicizia, fuori dai campi. Durata 100 minuti. (Centrale V.O., Massaua, Due Giardini sala Ombrerosse, F.lli Marx sala Chico, Ideal, Reposi, The Space, Uci)
Libero De Renzo, Matilde Gioli e Luigi Diberti. Alex è rimasto al verde: non gli rimane che chiedere un prestito alla sorella e ai gemelli amici. Per aiutarlo, di comune accordo decidono di vendere la casa del padre Sergio, che da anni è in coma irreversibile. Ma un bel giorno il padre da quel coma esce: con quali risultati? Durata 95 minuti. (Reposi, The Space, Uci)
Benny Safdie. Connie e Nick, due fratelli, una rapina in banca per sottrarre alla cassa 65mila dollari. L’uno è l’asse portante della coppia, il motore che fa girare la vita dell’altro e le differenti storie tutte intorno, Nick è il ragazzo più debole, che si fida ciecamente del fratello, quello fuori di testa che va sorretto ad ogni istante. La rapina non è proprio un successo e Nick ci casca, carcere e ospedale, anche con il tentativo di Connie di rapirlo e strapparlo alla struttura, con il risultato di portarsi l’uomo sbagliato. Intorno la notte, la New York dei Queens, gli altri sbandati incontrati per strade: con la critica unanime a ripetere che Pattinson, nella gran voglia di scuotersi di dosso il personaggio di “Twilight”, sta sulla scena con la verità di un consumatissimo e maturo attore. Durata 100 minuti. (Classico anche in V.O.)
IT – Horror. Regia di Andrés Muschietti, con Bill Skarsgård, Sophia Lillis, Jeremy Ray Taylor e Jaeden Lieberher. Tratto dal romanzo del “maestro” Stephen King, perla rara nel genere ai recenti botteghini Usa. Durante un temporale, il giovanissimo George guarda la sua barchetta di carta scendere giù per i rivoli d’acqua e scomparire nella fogna di Derry, piccola città del Maine che sembra il ricettacolo di ogni male. Là è nascosto IT, che si nasconde sotto gli abiti e il viso colorati di Pennywise, vero orco per le giovani vittima che scoverà in città. Sette ragazzini pieni di paure, molestati, dalla debole salute, grassi e spaventati, con grosse lenti poggiate sul naso, neri ed ebrei. Tutti pronti a unirsi pur di distruggere il Male. Salvo rimandare la conclusione delle gesta ad un prossimo capitolo, buttato al di là di una trentina d’anni, in un’età più che matura. Durata 135 minuti. (Uci)
Ogni tuo respiro – Drammatico. Regia di Andy Serkis, con Andrew Garfield e Claire Foy. È la storia vera dei genitori del film, Jonathan Cavendish. L’avventuroso e carismatico Robin Cavendish ha tutta una vita di successi quando si ritrova paralizzato a causa della poliomielite che contrae nel continente africano. Contro il parere di tutti, sua moglie lo fa dimettere dall’ospedale e lo porta a casa, dedicandosi completamente a lui e usando intelligentemente tutta la determinazione di cui è capace. Non vogliono diventare prigionieri della malattia di lui, appassionano e incantano gli altri con il loro umorismo, il coraggio, l’intera sete di vita. Durata 117 minuti. (Eliseo Grande, F.lli Marx sala Groucho, Romano sala 2, The Space, Uci)
adattando per lo schermo un suo romanzo di successo. Narrando del detective Vogel inviato in un piccolo paese di montagna, vittima sotto choc di un incidente, incolume ma con gli abiti sporchi di sangue, un mite e paziente psichiatra che tenta di fargli raccontare quanto è accaduto. Vogel è lì per occuparsi della sparizione di una ragazzina di soli sedici anni, avvenuta alcuni mesi prima: un groviglio di segreti che arriva dal passato, un piccolo paese dove nulla è ciò che sembra e nessuno dice tutta la verità. Impianto ferreo ma pure con qualche scricchiolio nella parter finale; soprattutto un gioco di scatole cinesi che suona come uno snocciolarsi di colpi di scena ma che è anche un aggrovigliarsi che sbanda e fuoriesce dal campo della chiarezza. Servillo è ormai Servillo, quasi monumento a se stesso, Boni produce qualche bella emozione in più, la Cescon piuttosto inverosimile, gli altri a far parte di un piccolo presepe di montagna ormai cristallizzato. Comunque se dovessimo buttar giù una classifica con “L’uomo di neve” l’Italia batterebbe la fredda Norvegia per molti punti a zero: da noi c’è parecchia più vita, pur tra rapimenti e morti. Durata 127 minuti. (Ambrosio sala 3, Eliseo Rosso, Reposi, Uci)
The Place – Drammatico. Regia di Paolo Genovese, con Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Giulia Lazzarini, Silvio Muccini, Vittoria Puccini, Vinicio Marchioni, Alessandro Borghi. Un film corale, un’ambientazione unica, una bella carrellata di attori italiani per altrettanti personaggi che Paolo Genovese – l’autore di quel piccolo capolavoro che è “Perfetti sconosciuti” – ha basato su una serie americana, ripensata e adattata, “The Booth at the Edge”, creta dall’autore e produttore Christopher Kubasik nel 2010. Un uomo misterioso, giorno e notte ospite abituale di un bar, con il suo tavolo sul fondo del locale, e personaggi e storie che a lui convogliano, di uomini e donne, lui pronto a esaudire desideri e a risolvere problemi in cambio di alcuni “compiti” da svolgere. Tutti saranno pronti ad accettare quelle richieste? Durata 105 minuti. (Ambrosio sala 2, Massaua, F.lli Marx sala Harpo, Greenwich sala 2, Ideal, Reposi, The Space, Uci)
e Holly Hunter. È l’autobiografia del protagonista maschile del film, un giovane comico che di giorno a Chicago guida il suo taxi per conto di Uber e che la sera si fa conoscere nei piccoli club della città. La famiglia crede molto in lui, ritenendolo uno studente di successo e un ragazzo destinato al miglior partito pakistano che si possa immaginare. Sino al precipitare delle cose, l’amore che unisce Kumail e Emily, bianca e ancor più sposata, la malattia di lei, le due diverse famiglie che si ritrovano allo stesso capezzale. Durata 120 minuti. (Ambrosio sala 1, Due Giardini sala Nirvana, The Space, Uci)
Hauer, Franco Nero, Christopher Lambert e Michael Madsen. Nel futuro descritto dal film la carta è diventata un bene prezioso, quindi è proibito stampare e le biblioteche sono luoghi cui pochi studiosi possono accedere. L’arrivo in Italia di un celebre accademico è l’occasione per indagare su una serie di delitti, con strane testimonianze e indizi che scomodano Dante e Hieronymus Bosch. Girato in parte a Torino e in località facilmente riconoscibili dal pubblico piemontese. Solita compagnia di celeberrimi attori che da sempre (ri)vivono nel cinema di Nero. Durata 120 minuti. (Greenwich sala 1, Ideal, The Space, Uci)