Si è aperta martedì 28 la mostra d’arte contemporanea realizzata nell’ambito della terza edizione di Art for Excellence, in programma dal 29 novembre al 13 dicembre, con proroga fino al 17 dicembre, presso Palazzo Carignano a Torino, sede del Museo Nazionale del Risorgimento Italiano.

Art for Excellence è un’iniziativa di marketing culturale non convenzionale destinata alla promozione dell’imprenditoria d’eccellenza. Il progetto, nato da un’idea di Sabrina Sottile con un format innovativo per contenuti e finalità, crea un dialogo tra due mondi spesso considerati molto lontani tra loro, quello artistico e quello imprenditoriale: l’obiettivo è esaltare e comunicare i valori delle imprese, attraverso lo sguardo, la creatività e lo stile di artisti di talento.
Il progetto prevede la realizzazione e l’esposizione di una collezione d’arte inedita, che comprende opere di pittura, fotografia, scultura e performance artistiche, nate dal lavoro condiviso di artisti e imprenditori illuminati: le opere realizzate esprimono e rispecchiano liberamente i valori trasmessi dalle aziende, diventando il simbolo tangibile del loro impegno in ambito artistico e culturale. Gli artisti sono stati scelti dalla curatela, quest’anno affidata al gallerista Riccardo
Costantini, direttore artistico dell’iniziativa, e al curatore e critico d’arte Michele Bramante, per le loro capacità nel saper utilizzare nuovi linguaggi espressivi, per la loro originalità nell’interpretazione del mondo produttivo e per le loro affinità con le aziende d’eccellenza, selezionate tra quelle con una storia imprenditoriale importante, un forte legame con le tradizioni del territorio e una grande sensibilità nei confronti dell’arte e della cultura.
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Le aziende e gli artisti che hanno partecipato al progetto Art for Excellence 2017 sono: Gruppo Building con Mimmo Borrelli, Bus Company con Neri Ceccarelli, Chiusano & C. Immobiliare con Anila Rubiku, Ci-Bi con Francesco Pergolesi,Roberto Demeglio con Nicola Bolla, Gruppo Ferrero con Piero Gilardi, Fior di Loto con Pablo Mesa Capella, Galup con Max Ferrigno, Gustevole con Salvatore Zito, Inamorada con Vanni Cuoghi, Mabele con Nicola Ponzio, Mazzetti d’Altavilla con Paolo Albertelli e Mariagrazia Abbaldo, Birra Menabrea con Jins, Mepit con Enrico Tommaso De Paris, Piatino Pianoforti con Machine MMLF°°V (Pusole e Visentin), Piemont Cioccolato con Carlo Galfione, Olio Roi con Radu Dragomirescu, Acqua Sant’Anna con Andrea Caretto e Raffaella Spagna, Secap con Bruno Pontecorvo vs Pierluigi Pusole e Studio Sistema con Gianni Colosimo.
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La mostra di Art for Excellence è aperta al pubblico dal martedì alla domenica, con orario 10.00/19.00 e ingresso libero fino a esaurimento biglietti scaricabili gratuitamente dal sito www.artforexcellence.it. Sono inoltre in programma visite guidate per il pubblico durante le quali saranno presenti il curatore e alcuni degli artisti coinvolti nell’iniziativa. Per informazioni e prenotazioni: info@artforexcellence.it.
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La collaborazione tra Art for Excellence e il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano per l’edizione 2017 è nata con l’idea di realizzare un ponte tra epoche e stili artistici differenti, nell’intento di proporre al pubblico un percorso espositivo ancora più fantasioso ed originale: per il Museo ospitare una mostra temporanea all’interno della Aula della Camera Italiana è senz’altro un avvenimento inedito che, per la prima volta nella sua storia, ha permesso a opere d’arte contemporanea di dialogare con i vari tesori e cimeli storici contenuti nella sala. Art for Excellence ha ottenuto un grande successo nelle sue prime due edizioni, grazie al coinvolgimento di 37 aziende e 37 artisti e alla loro partecipazione attiva a tutte le diverse fasi del progetto, ha goduto di una grande affluenza di pubblico, facendo registrare in due anni circa 13.000 visitatori, e di un’importante copertura mediatica su carta stampata, testate online e media radiotelevisivi. Nel 2016 Art for Excellence ha ricevuto il prestigioso riconoscimento di “Miglior progetto imprenditoriale in ambito culturale dell’anno” da parte del 2i3T – Incubatore d’Impresa dell’Università degli Studi di Torino.
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Art for Excellence 2017
DURATA: dal 29 novembre al 13 dicembre (con proroga fino al 17 dicembre)
LUOGO: Museo Nazionale del Risorgimento Italiano – Palazzo Carignano, Torino
ORARI: dal martedì alla domenica dalle ore 10.00 alle ore 19.00
MODALITÀ DI ENTRATA: ingresso libero fino a esaurimento biglietti scaricabili gratuitamente dal sitowww.artforexcellence.it
CONFERENZA STAMPA, PREVIEW MOSTRA E LIGHT LUNCH: 28 novembre ore 11.00
INAUGURAZIONE MOSTRA: 28 novembre ore 18.00 con ingresso libero senza necessità di registrazione
PERFORMANCE DI LIVE PAINTING: nel porticato del Museo a ridosso dell’inaugurazione
VISITE GUIDATE SU PRENOTAZIONE: negli orari di normale apertura della mostra con modalità gratuita (presenti il curatore e alcuni degli artisti coinvolti nell’iniziativa). Per informazioni e prenotazioni: info@artforexcellence.it

contrario li vede, e di ombrelli rossi che come in un quadro di Magritte riempiono il cielo della metropoli. Nella confezione sfuggente tutto diventa abbastanza ridicolo, nel modo di pronunciare le battute, nei silenzi e nelle pause incomprensibili, nella musica roboante che nulla ha a che fare con il resto, nei movimenti robotici che occupano lo schermo e nella inespressività che al pubblico torinese fa riprendere l’uscita a una mezz’ora dall’inizio o strappa sonore risate poco rassicuranti per la troupe seduta a metà della sala. Al di là della presentazione in cartella stampa, ti è difficile ritrovare qualcosa di “affascinante e misterioso” e non ti accontenti certo di una cura formale che scivola immediatamente nel banale. Rispedendo al mittente quella “limpidezza di intenzioni” che fa a pugni con lo svolgersi ingessato della vicenda.
giravolte, che le richiede dedizione completa e la cancellazione della sua vita di ragazza, sino a chiedersi quanto sia stufa o quanto lo faccia per ubbidire agli sforzi di una madre. Mentre deve combattere contro le compagne che la deridono e la emarginano, contro un allenatore che la insulta senza mezzi termini. Sul fronte della ribellione c’è la festa notturna nel bosco a suon di alcol e spinelli o le chiacchierate con le nuove amiche, con tanto di immagini delle loro parti intime sparate su social (e immediata risposta maschile), o la ricerca del primo ragazzo con la paura che lui la cerchi per farci soltanto sesso, mentre la sorella maggiore la tempesta di “l’hai già fatto?”. Il film tenta di entrare nel mondo giovanile ma lo fa in modo quantomai scontato, tenendo lontano lo spettatore da immedesimazione o pietà, subendo la trappola di slungare oltre il dovuto certe situazioni che dovrebbero approfondire il discorso giovanile ma che finiscono con lo svilirlo del tutto. Tutto quanto diventa ancor più antipatico se si pensa che il punto di partenza è stato un documentario sullo stesso ambiente e con lo stesso tragitto, nessuno sentiva il bisogno di gonfiarlo con una storia che alla fine risulta elementare e vuota.
FINO AL 17 DICEMBRE
pittura e soprattutto il disegno e l’opera grafica: suo in mostra un rigoroso “Autoritratto”, linografia su carta del 1936-’37, palese dimostrazione di un’abilità tecnica (nell’uso marcato e attento del lavoro di sgorbia) che andava ben oltre il semplice diletto del fare. La rassegna s’avvia con il bellissimo “Beccaccino”, regalato da Filippo De Pisis a Eugenio Montale (entrambi classe 1896, conosciutisi nel 1919 post-bellico): dono che voleva ricambiare l’omaggio fatto dal poeta ligure di una copia delle sue “Occasioni” con tanto di dedica al pittore ferrarese, che Montale sapeva essere anche buon poeta. E in mostra (dove di De Pisis scrittore troviamo manoscritti di poesie, libri rari e tele che rappresentano il tema del libro, della penna-piuma e del sonetto) scopriamo la lettera in cui, fra orgoglio e ironia, Montale confida al De Pisis: “Lei non lo sa, ma sono anche io pittore, e forse più bravo di lei”. Parole audaci se raffrontate ai risultati pittorici
“non brillanti” ma “pugnaci”: incisioni, tele, bozzetti a pastello. Insieme a carte, lettere, autografi e fotografie. Allievo a Bologna, come De Pisis, di Roberto Longhi, anche per Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 – Ostia, 1975) la passione per l’arte e la pittura è per tutta la vita compagna fedele della sua attività di regista-scrittore-poeta-giornalista. In mostra ad Alba, troviamo disegni, scritti poetici e autoritratti. Particolarmente suggestivo il pirandelliano“Autoritratto con il fiore in bocca” realizzato a 25 anni, il volto verdastro ferito da violente pennellate bianche e nere, un fiore rosso in bocca e un disegno di ragazzo alle spalle; opera – s’è scritto – che parla già di “sconcertante anticipazione del tocco distorto di Francis Bacon”. Curiosa e abbastanza unica anche la caratteristica di Pasolini, messa in luce dalla rassegna (che propone anche spezzoni scelti e montati del suo cinema), di dipingere non solo con i colori tradizionali, ma con stramberie come fondi di caffè, olio e vino. E che dire di quello stravagante divertissement che pare essere il “Ritratto di De Pisis col pappagallo” realizzato da Carlo Levi (Torino, 1902 – Roma, 1975) nel ’33? Quanto lontana è la lezione casoratiana e l’elementare monumentalità dei ritratti della gente di
Lucania! Qui Levi bonariamente ironizza sull’eccentrica personalità di De Pisis, appassionato collezionista di strane “chincaglierie da Wunderkammer”, immortalandolo con giacca di un azzurro “polveroso” su cui trionfano chiassose medaglie, il fiore all’occhiello, la cravatta a pois e sul viso bello tondo il monocolo e l’orecchino, a far da pendant con gli anelli sopra il guanto di pelle. E, per finire, sulla spalla destra il “pappagallo Cocò”. Verso il “fantastico visionario” volano invece le opere di Giuseppe Zigaina (Cervignano del Friuli, 1924– Palmanova, 2015), apprezzato pittore ma anche superbo letterato, soprattutto per l’attività critico-interpretativa degli ultimi testi di Pasolini, di cui fu amico d’infanzia e con cui collaborò a vari film. In un ambito di singolare eccentrica “visionarietà” si collocano anche i disegni, i dipinti e le bozze di romanzi di Mario Lattes (Torino, 1923 – Torino, 2001): campi di creatività diversi, ma tenuti vivi con grande maestria, così come fu per Alfonso Gatto (Salerno, 1909 – Orbetello, 1976), poeta, scrittore, critico d’arte e perfino gallerista, ma anche pittore di deliziosi acquerelli, oli, tempere e disegni. Suo il libro “Coda di paglia”, illustrato da Mino Maccari (Siena, 1898 – Roma, 1989), anche lui pittore e incisore, ma pure scrittore e giornalista. Fu perfino caporedattore a “La Stampa”, sotto la direzione di Curzio Malaparte. Pittura “ricca e furente”, la sua; “anarchico e geniale”, per Pasolini disegna anche un manifesto di “Accattone”.
Nel cimitero di Père-Lachaise, il grande cimetière de l’Est sulla collina che sormonta la rive droite e il Boulevard de Ménilmontant, nel ventesimo arrondissement di Parigi, è sepolta, tra i tanti illustri defunti, Gerda Taro.
vero nome era Gerta Pohorylle, nasce nel 1910 a Stoccarda e, nonostante le sue origini borghesi entra giovanissima a far parte di movimenti rivoluzionari di sinistra. Le idee politiche, la militanza e la sua origine ebraica, con l’avvento del nazismo in Germania, la costringono a rifugiarsi a Parigi. Nella ville Lumière degli anni folli, magistralmente descritta da Ernst Hemingway in “Festa mobile”, la stella cometa della Taro travolge le vite degli amici e degli amanti con un’energia inesauribile. E’ a Parigi che Gerta Pohorylle conosce André Friedmann, ebreo comunista ungherese e fotografo, che le insegna le tecniche del mestiere. Formano una coppia e iniziano a lavorare insieme. L’atmosfera magica della città e l’estro creativo e vulcanico della giovane la portano a creare per il compagno una figura del tutto nuova. Nasce così Robert Capa, un fantomatico fotoreporter americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Con questo pseudonimo il mondo intero conoscerà Friedman e il fotografo finirà per sostituirlo al suo vero nome, conservandolo per tutta la vita. Lei stessa cambia il nome in Gerda Taro.
ullini erano intatti. Scattava a raffica in mezzo al delirio, la piccola Leica sopra la testa, come se la proteggesse dai bombardieri”. Gerda fotografa prevalentemente con una Rolleiflex, formato 6×6, mentre Robert preferisce la Leica. Poi anche lei inizia ad utilizzare la piccola fotocamera. Nello stile di Gerda predomina l’individuo, i suoi scatti mettono a fuoco i protagonisti della guerra, le vittime, i combattenti, le donne e i bambini, immagini forti che descrivono, in punta di obiettivo, l’evento storico che anticipò come un tragico prologo la seconda guerra mondiale. Le sue foto sono come la sua vita tumultuosa, simile ad una corsa a perdifiato, una vita segnata da passioni forti, da un’incredibile vitalità e da un desiderio di affermazione e di emancipazione che, storicamente, le donne avrebbero raggiunto solo molto più tardi. Questa vita viene spezzata dai cingoli di un carro armato che la travolge proprio mentre torna dalla battaglia di Brunete dove aveva realizzato il suo servizio più importante, che viene pubblicato postumo
sulla rivista “Regards”. Sotto quel carro armato si spengono i sogni, l’entusiasmo, tutte le foto che il futuro
avrebbe potuto regalarle e la breve ed intensa vita della 26enne Gerda Taro.Trasportata a Madrid, la fotografa resta cosciente per alcune ore, giungendo a vedere un’ultima alba: quella del 26 luglio 1937. Il suo corpo viene riportato a Parigi, la patria della sua vita di artista, e, accompagnato da un corteo funebre di duecentomila persone, viene tumulato al cimitero del Père Lachaise. Il suo elogio funebre viene scritto e letto da Pablo Neruda e Louis Aragon. Robert Capa, distrutto dalla morte della sua compagna di vita e d’arte, un anno dopo la scomparsa di Gerda, pubblica in sua memoria “Death in the Making“, riunendo molte delle foto scattate insieme. La vita di Capa, da quel momento, sembra procedere in uno strano, inquietante e provocatorio “gioco a rimpiattino” con la Morte che il fotografo
sfida, conflitto dopo conflitto, scattando immagini sconvolgenti e sempre fedeli al suo motto “se le foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino”. La morte gli dà scacco matto attraverso una mina antiuomo, nel 1954, nella guerra in Indocina, mentre Capa cerca, ancora una volta, di regalare all’umanità un’altra testimonianza dell’orrore dei conflitti bellici. Un fotoreporter, in fondo, non deve fare niente altro se non testimoniare la realtà e semplicemente “dare la notizia”.
Il vento e il paesaggio dell’isola di Jersey fanno da sfondo a Beast di Michael Pearce che ha aperto i titoli in concorso del TFF 35
sospetti e attrazioni, costruisce rapporti intensi e un thriller delle anime che si fa seguire fino al termine, cercando lo spettatore dove stiano pirandellianamente la verità e la finzione: avendo una protagonista femminile bravissima nelle luci e nelle ombre del proprio personaggio, tesa come una corda di violino, esplosiva nel proprio passato come nel destino altrui. Magari già pronta a farsi avanti per il premio alla migliore attrice.
liscio come ognuno si augurerebbe, troppe cose andrebbero cambiate, troppe lacune andrebbero colmate. Potrebbe anche essere un racconto con il suo perché, se avesse una sceneggiatura capace di calarsi più a fondo e una regia non pronta ad appiattire tutto quanto, in cerca di sobbalzi narrativi ma facile al contrario a cadere in depressive (per lo spettatore) zone di noia, impelagandosi in inquadrature e in attimi stiracchiati oltre il dovuto. Ancora per la serie passiamoci sopra, l’argentino Arpòn, con contributi venezuelani e spagnoli, diretto da Tomàs Espinoza, che confessa di aver impiegato quattro anni tondi tondi della sua vista a portarne avanti i preparativi e solo quattro settimane per la realizzazione. Male per lui. Perché si è messo in testa di narrarci, e fin qui ci è riuscito, le strane, disordinate giornate di un preside che vive col chiodo fisso di andare a controllare gli zainetti di ogni singola sua allieva, con la decisione di trovarci chissacché. Capita che in quello di una piccola ribelli ci scovi una siringa che serve ad fare iniezioni nelle labbra delle compagne; ma che poi tutto si perda in sentieri affatto suoi e si sfilacci in incidenti, scomparse, sospetti, puttane e pappa, licenziamenti, nuovi incontri, dentro un film che rimane confuso, disordinato, inafferrabile.
Divertimento al contrario – anche se il bel carico di critica che ne potrebbe nascere rimane parecchio in superficie, pur costringendo lo spettatore a riguardare al “paese perfetto” e a quel tutto che si è sempre fatto per il bene del popolo – in The death of Stalin, a gennaio sugli schermi come Morto Stalin se ne fa un altro, di Armando Iannucci, di padre napoletano e madre gallese, ovvero i giorni che seguirono a quel 2 marzo del ’53, quando con la scomparsa del padre della patria sovietica, colpito nel suo studio da emorragia cerebrale, i suoi sottoposto Malenkov, Kruscev, Berja, Molotov e compagnia scalpitarono per nascondere documenti, imbandire alle masse i funerali, respingere le stesse per ordine e per terrore
con i mezzi più finali, soccorrersi e annientarsi a vicenda in un balletto di facce annichilite, impaurite, ancora disumane, affidare a Kruscev (uno sfrenato Steve Buscemi, che sa difendersi bene dalle altrettanto efficaci caratterizzazioni dei suoi colleghi) la nuova guida dei popoli. Forse se il regista avesse reso più “storico” il film e non fosse caduto, a tratti, nel trabocchetto dello sberleffo, tutto sarebbe apparso più tremendamente vero. Davanti alle immagini, ci regaliamo un sorriso infelicemente amaro. Qualcuno, forse, non riesce a spremere neppure quello.
2003, flop colossale con un budget di 6 milioni dollari e un incasso di 1800. Con la ambiziosa volontà di inseguire i propri sogni, sempre lontano dall’arrendersi, con la frenesia intima e distruttiva di voler ripercorrere le strade di Ed Wood, Franco nelle vesti smoderate e senza ritegno di Wiseau dai teatrini in cui tenta di recitare Shakespeare piomba a Los Angeles in compagnia di Greg Sestero (sarà lui a raccontare in una autobiografia la storia di The room), un altro che vuole scalare il mondo della celluloide. Un rapporto nato sul culto di James Dean, fatto di amicizia e di speranza, di tanti tentativi, soprattutto di quella fiducia che vuol credere in Tommy. Non si sa da dove venga, né quanti anni abbia, né da dove gli arrivino tutti quei soldi che la produzione del film gli intacca, per tacere di un povero linguaggio in suo possesso che il doppiaggio prossimo dovrà rendere con esattezza. Se Greg è più timoroso e guarda anche ad altre occasioni umane e professionali, Tommy viaggia con i suoi capelli lunghi, con il suo lato eccentrico, con la doppia cinghia dei pantaloni a mettergli meglio in evidenza le chiappe, con il culo in piena visione per rendere assai più veritiera con la partner infastidita. Respinto
da un mondo che pur tra i suoi lustrini l’ha già messo da parte, Tommy il film se lo farà da solo, compra l’attrezzatura sia in pellicola che in digitale, mette su una troupe presto stanca, ripete nel ridicolo scena dopo scena. Sino alla serata della prima, tra le risate della sala. Non volute e non dovute per un drammone di una passione a tre risolto con un colpo di pistola, prologo all’etichetta di film culto nelle proiezioni di mezzanotte nei cinema americani. Un successo postume, mentre oggi Tommy insegue ancora parecchi progetti e si dedica ai suoi studi di psicologia. Da vedere, per il ritratto di questo squinternato attore/autore, per una memoria messa all’angolo, per l’operazione che James Franco costruisce, a cominciare dalla sua interpretazione, fantastica, per l’allineamento con l’esempio iniziale (e si resti in sala seduti per gustare l’appaiamento dei vecchi e dei nuovi brani), per i camei di certi colleghi (Sharon Stone, Melanie Griffith, Zac Efron), per il divertimento che sparge lungo la storia, per la approfondita “povertà” di un uomo che pur aveva creduto in un sogno.
italiana e del concetto di classe operaia.
disincanto – ossia di quelli che arrivano in fabbrica “già scazzati e con la voglia di essere altrove” – Eugenio Raspi ci offre un ritratto dall’interno. Con il suo romanzo Inox, Raspi – che per oltre vent’anni, fino al licenziamento, ha lavorato all’interno della Acciai Speciali di Terni – fa entrare il lettore in ciò che resta dell’ex cattedrale ternana dell’acciaio. Centro del racconto è infatti il lavoro in fabbrica: un lavoro “sporco”, fatto di turni pesanti, di gesti precisi fuori dai quali il rischio di incidenti è quasi sempre un rischio mortale, ma anche dei conflitti che si instaurano tra operai, capisquadra, dirigenza e sindacati a causa di un contestato e difficile passaggio di proprietà. Come spiega l’autore nella nota finale al testo, “questo romanzo è il mio personale omaggio alla fabbrica in cui ho lavorato per venti anni, ma non solo: è un omaggio alla grande industria italiana che sta scomparendo per l’impotenza – o peggio ancora l’indifferenza – delle forze economiche e politiche del nostro Paese”.


“Shakespeare in love”) scopra nel bel mezzo di una festa che il consorte con cui ha trascorso un’intera vita la tradisca da anni con la sua migliore amica. Detto pane al pane al fedifrago, si fionda dalla sorella Bif (Celia Imrie), spirito da sempre libero, che buttandola nella girandola della propria esistenza le fa conoscere una taumaturgica scuola di ballo, i più o meno attempati allievi, i piccoli problemi e le felicità e le giornate che non sono poi così male. Come i ragazzotti della monaca Whoopy Goldberg, anche i vegliardi parteciperanno ad un concorso, tra i cliché più scontati di una due giorni romana, per uscirne chiaramente vincitori: senza tuttavia potersi sottrarre alla tragedia, dolorosa per Sandra ma anche capace di farle compiere quel “salto di fede” che la legherà allo spirito innamorato di Charlie (Timothy Spall, l’eccellente pittore Turner, premiato a Cannes tre anni fa). A parte i quindici minuti finali pasticciati in un andare e venire di decisioni prese e cancellate, la storiella corre via prevedibilissima ma piace quel trio di facce britanniche e soci, il loro modo di recitare, l’impegno a guardare ancora una volta avanti, la sfacciataggine di prendere la vita con un bel grido d’allegria.

Con lo spettacolo Still My Heart Beats di Maria Olivero