Le dolci colline delle campagne astigiane, rivestite di vigneti, boschetti e pascoli, custodiscono sorprendenti testimonianze di fede ed arte medioevale, le pievi romaniche

Per comprendere l’origine di questi edifici di culto, oggi immersi nel verde della campagna, a mezza costa o in cima a bricchi coperti di viti, più raramente nelle aree di fondovalle, occorre proiettare il proprio sguardo indietro nel tempo. Nella seconda metà del Cinquecento, a seguito delle “ispezioni” condotte da vescovi e visitatori apostolici in conformità alle direttive del Concilio di Trento, concluso nel 1563, emerse un fenomeno diffuso nei territori astigiani con sconfinamenti nelle aree limitrofe, dal Chierese orientale all’Acquese: l’esistenza di un significativo numero di chiese cimiteriali o campestri, che conservavano pressoché inalterata la struttura romanica originaria, presentandosi agli occhi dell’osservatore come dei veri e propri “reperti archeologici” risalenti come fondazione al IX-XII secolo. Di questi edifici, quasi sempre
privi di manutenzione se non quella minima, indispensabile per evitare crolli, si rilevava la vetustas, cioè l’antichità, l’uso occasionale per le feste del santo titolare, una volta l’anno, e la lontananza dai centri abitati. Fu proprio l’isolamento, messo in evidenza già nelle relazioni del tempo, a consentire la perfetta conservazione di queste chiese che, non dovendo più servire nella maggior parte dei casi come parrocchie, non vennero mai modificate, ampliate o ritoccate nel loro aspetto architettonico, mantenendo la purezza delle forme romaniche. L’isolamento, però, non deve ingannare perché non è una condizione originaria di questi edifici sacri, che si trovavano invece, all’epoca della loro costruzione, nel mezzo di villaggi e centri abitati. In seguito, a partire dal XIV secolo, per ragioni legate al decremento demografico dovuto al comparire delle pestilenze, alle feroci razzie compiute dalle compagnie di venturieri ed al mutare del quadro politico, questi villaggi scomparvero, lasciando le chiese, costruite in muratura, come unica traccia materiale superstite, mentre le abitazioni, non più curate, andarono in rovina, affogate nella vegetazione e inghiottite dall’inesorabile fluire del tempo. Queste chiesette, ora immerse nella quiete campestre, presero forma tra IX e XI secolo, talvolta innestandosi su edifici più antichi in legno, strutturandosi come pievi di villaggio, dove per pieve s’intende una chiesa
avente diritto di battesimo e di sepoltura e centro fisico del piviere, l’unità territoriale di base dell’antica organizzazione ecclesiastica del territorio o, in certi casi, come oratorii e tituli, chiese minori dipendenti da una pieve. Nei dintorni di Montechiaro d’Asti, tra le valli Rilate e Versa, sorgono due preziosi esempi di romanico astigiano, la pieve di Santa Maria Assunta di Pisenzana, a nord dell’abitato, e la chiesa dei Santi Nazario e Celso, in località Castel Mairano.
Ammirando San Nazario, attestata sin dall’XI secolo come chiesa soggetta al priorato benedettino della Torre Rossa in Asti, dipendenza dell’abbazia della Fruttuaria, e l’Assunta di Pisenzana, la cui prima attestazione risale al 907, dobbiamo quindi immaginare questi luoghi di culto, ora avvolti dal silenzio campestre, originariamente circondati dalle modeste case d’un villaggio che, in una fase successiva, si spopolò per quella serie di cause politico-economiche che, tra XIV e XV
secolo, portarono alla modifica della cartina dell’insediamento umano nel Piemonte medievale, così come nel resto d’Europa. Tra XII e XIII secolo i Comuni più potenti, come Asti, estesero la sfera d’influenza sul contado, in competizione con signori rurali e principati territoriali, elaborando strategie di “colonizzazione” come la fondazione di nuovi aggregati, borghi franchi o villenove, talora derivanti dalla fusione di più villaggi preesistenti. Fu proprio per iniziativa del Comune di Asti che, nel 1200, i signori di Mairano, Pisenzana, Maresco e Cortanze, seguiti dalla popolazione, si aggregarono fondando la villanova di Montechiaro. Lo spopolamento delle sedi originarie, con l’eccezione di Cortanze, non compromise però la sopravvivenza delle pievi di villaggio che, per un certo periodo, continuarono ad esercitare le loro funzioni o comunque a servire come luoghi di sepoltura. Mentre la pieve di Pisenzana, tra le più antiche dell’Astigiano, è poco discosta dall’abitato di Montechiaro e appare ancora circondata da alcune lastre tombali dell’antico cimitero, la chiesa dei Santi Nazario e Celso sorge isolata nella campagna e si raggiunge lasciando l’auto alle pendici del Bric San Nazario per poi salire a piedi in cima all’altura. L’edificio, riparato nella zona absidale e ai lati da un boschetto cresciuto sul ciglio della vetta, lasciando libero solo lo spiazzo di fronte all’ingresso, colpisce per la sproporzione tra l’alto
campanile, di quattro piani fuori terra, e l’impianto della chiesa, ad aula unica e con facciata a capanna. La tessitura muraria si caratterizza per l’armonico alternarsi di file di mattoni e di blocchi di pietra arenaria, che conferisce all’insieme quell’effetto coloristico tipico del romanico astigiano. Qui si nota meno l’esuberanza dell’apparato ornamentale e scultoreo, più evidente in altri casi, però spicca la bellezza delle cornici dell’arco sopra il portale, con file di cornucopie, antico simbolo di abbondanza, e decorazioni a nastri intrecciati e a “dente di lupo”. A una manciata di chilometri da Montechiaro d’Asti, in val Rilate, sorge poi la splendida chiesa di San Secondo di Cortazzone, che si trova in località Mongiglietto, in cima a un bricco prospiciente il paese di Cortazzone, per molti anni feudo della potente famiglia astese dei Pelletta e ancor oggi dominato dalla massiccia mole del castello, più volte rimaneggiato nei secoli. Il nome della località, Mongiglietto, evoca radici pagane; se ne ipotizza la derivazione da Mons Jovis, monte di Giove, ma altri collegano il toponimo al francese antico Mont-joie e alle “mongioie”, cumuli di pietra che venivano posti già in età celtica lungo le strade come segnavia e anche per ragioni cultuali, propiziatrici del viaggio. La facciata, in parte alterata nel Seicento con una sopraelevazione in mattoni culminante in un campaniletto a vela, mostra un elegante portale d’ingresso sovrastato da una cornice orizzontale in cui s’inserisce come decorazione una fila di conchiglie, segno evidente che indica la chiesa come luogo di sosta per i pellegrini lungo quel fascio di percorsi che componevano la Via Francigena. Ciò che maggiormente sorprende nella visita di questo edificio, che fu dipendenza del vescovo di Asti e poi dal 1345 della pieve di Montechiaro, è il ricco apparato scultoreo. Esternamente è il lato sud a colpire non solo per la varietà di decorazioni, che rispecchiano il repertorio del romanico astigiano, dalla cornice a “damier” alle file di archetti pensili poggianti su mensole con decori a motivi vegetali e geometrici, ma anche per la singolarità di certe figure scolpite che paiono poco consone a un luogo di culto. Tra queste risalta, nella parte alta della navata centrale, una scena di accoppiamento che, rifacendosi a schemi ancestrali, pare un richiamo ad antichi riti propiziatori della fertilità o anche leggibile come una sorta di ex voto per parti difficili. L’interno, suddiviso in
tre navate terminanti in absidi, invita all’esercizio della fantasia, con una vera e propria foresta di figure zoomorfe, antropomorfe, fantastiche, ibride e chimeriche, che popolano i capitelli e che, in perfetta sintonia con la passione medioevale per i simboli, evocano principi e concetti non sempre intellegibili per l’uomo di oggi. Compaiono varie figure, come la lepre, che esemplifica bene l’ambiguità e ambivalenza del simbolo, richiamando sia il concetto di lussuria, evocato dalla nota prolificità dell’animale, sia la caducità della vita, data la sua proverbiale rapidità di movimento, ma anche scene più articolate, con volatili con un’unica unica testa intenti a beccare, cavalli con le zampe curiosamente morsicate da teste bovine, gruppi di sirene con coda bipartita o coda ad arco “tenuta da ambo le mani”. Infine i tre capitelli disadorni, lasciati allo stato grezzo, paiono rivelare nella loro incompiutezza il senso della finitezza umana dinnanzi all’onnipotenza e perfezione di Dio. Osservando i caratteri stilistici delle chiese romaniche astigiane si riscontrano evidenti affinità, che indussero il Porter e altri studiosi a teorizzare l’esistenza di una vera e propria “Scuola del Monferrato”, nata da una commistione di influssi padani, borgognoni e provenzali, accostati a tratti originali: l’effetto coloristico dato dall’alternanza nella tessitura muraria di conci di pietra e mattoni; l’assenza di cupole e transetto; la sopraelevazione della zona presbiteriale; l’esuberanza dell’apparato scultoreo e ornamentale, con decorazioni a “dente di lupo”, “dente di sega”, “damier”; la presenza di elementi forse rivelanti influssi orientali, come l’arco falcato e oltrepassato; le paraste angolari delle facciate, che rafforzano lo spigolo e delimitano i volumi; la composizione delle absidi, con la superficie esterna suddivisa in campiture da due o tre lesene, che poggiano su un basamento e portano serie di archetti pensili.
Paolo Barosso
principessa Mafalda celebrate nella dimora cuneese. Ma ora l’attenzione è focalizzata sulle dame della grande famiglia dei Savoia. Il Castello Reale di Racconigi ha ospitato sovrani, principi, regine, capi di Stato e di governo e oggi è un museo molto frequentato all’interno del circuito delle residenze sabaude del Piemonte con un numero di visitatori che negli ultimi due anni è balzato da 80.000 a 140.000. Per celebrare i trent’anni dell’apertura al pubblico del Castello è iniziata, lo scorso anno, una lunga festa con mostre, iniziative ed eventi che proseguono adesso
nei saloni del maniero con la rassegna “Sovrane eleganze: al castello di Racconigi protagoniste le donne di Casa Savoia”, inaugurata dalla principessa Maria Gabriella di Savoia, che fino al 10 giugno ripercorre dieci secoli di storia della dinastia attraverso l’arte, la moda e lo stile. Al centro della mostra spiccano le figure di Adelaide di Susa, che nell’XI secolo sposò Oddone di Savoia, Maria Cristina di Francia, la prima Madama Reale nel Seicento, Anna Maria d’Orléans, prima regina di Sardegna, moglie di Vittorio Amedeo II e nipote del Re Sole, mecenate di artisti nel Settecento, Margherita di Savoia, consorte di re Umberto I e prima regina d’Italia, Elena del Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III e Maria José del Belgio, la “regina di maggio”. Non solo proprietarie di terreni e immensi patrimoni ma donne ricche culturalmente, studiose di arte, letteratura e musica, attente a proteggere gli artisti e i letterati, esempi di bellezza ed eleganza. Personaggi femminili visti e apprezzati attraverso i ritratti delle collezioni del Castello di Racconigi insieme agli abiti storici, ai vestiti da cerimonia con gioielli e pettinature che seguivano la moda dell’epoca, con costumi provenienti dalla Sartoria Tirelli e dalla Fondazione Tirelli Trappetti e con abiti vintage e contemporanei degli stilisti internazionali più famosi . Un’occasione preziosa per rivivere le vicende e lo stile di vita della Casa regnante attraverso un itinerario espositivo in cui scopriremo, tra l’altro, come i Savoia furono sedotti dal fascino per l’Oriente allestendo vere e proprie “sale
cinesi” in varie residenze sabaude come a Racconigi e nelle stanze di Villa della Regina a Torino. Una mostra con due percorsi, secondo Riccardo Vitale, direttore del Castello di Racconigi. “Nel primo le figure femminili di Casa Savoia sono la voce narrante della dinastia, celebrate come icone di stile ed eleganza, nel secondo il Castello di Racconigi si lega a doppio nodo con la storia dell’architettura e dell’estetica, mettendo in luce, sala per sala, in un grande museo diffuso, i suoi legami con le altre Residenze Sabaude”. Storia, arte, architettura e moda si fondono con l’impegno politico e sociale, l’amore per l’arte e la cultura di regine, contesse e duchesse di Casa
Savoia e per la loro determinazione come mogli, madri e reggenti. “La piramide dei poteri dinastici si è sempre fondata sulle armi, sulle arti e sui matrimoni. Ma dell’importanza straordinaria del ruolo femminile si è parlato spesso con superficialità, ha osservato Umberto Pecchini, ideatore della mostra con Loredana De Robertis, questa esposizione ribalta l’approccio e tra Corte, cultura, diplomazia, arte e moda pone la donna al centro di una rilettura innovativa. Donne sabaude fissate nella solennità del ritratto e nella storicità di un abito che è rappresentazione del loro tempo; ma anche reinterpretate nella rivisitazione contemporanea di quel gusto attraverso i modelli delle più note collezioni della sartoria italiana”. La sensazione che ho avuto visitando i saloni, ha aggiunto Alessandro Lai, curatore della mostra, percorrendo corridoi, scale, gallerie e entrando nelle varie stanze, è che si trattasse di una residenza abitata fino a poco tempo prima. “Da subito ho quasi percepito le presenze di chi l’ha vissuta ed è proprio questa semplice sensazione che ha messo in moto la mia immaginazione ispirando un allestimento fatto di “presenze”. Ecco definirsi allora le riproduzioni leggere dei quadri piemontesi delle donne di Casa Savoia e i costumi della Sartoria Tirelli che li ricordano o che, nel caso di Margherita di Savoia, sono stati ricostruiti nei dettagli”. La mostra è organizzata dall’Associazione Terre dei Savoia e dal Castello di Racconigi. È aperta al pubblico fino al 10 giugno, da martedì a domenica con orario 9.00-17,30. Sono possibili visite guidate, telefono 0172/ 86472 – info@leterredeisavoia.it
indagine con tanto di lente d’ingrandimento appiccicata all’occhio, provate a ripensare alla Verità sul caso D. scritto a sei mani con la complicità di Charles Dickens) all’horror, dal teatro alla traduzione, visitando Borges e Beckett, Stevenson e Verne -, praticando in un unico battito l’arte di costruire storie con intelligenza sempre e con piacevolezza. Attraverso le pagine di I ferri del mestiere. Manuale involontario di scrittura con esercizi svolti e la voce di Gabriele Lavia (a Torino in una pausa del Padre di Stridberg, uno degli spettacoli di più forte personalità dell’annata teatrale), con l’introduzione di Domenico Scarpa, saranno essi, stasera alle 21 nell’Auditorium del grattacielo di corso Inghilterra, a raccontarci quale è stato il segreto per portare al successo il loro tandem, si disse l’abitudine a scambiarsi l’un l’altro quel capitolo che in precedenza e in solitudine ognuno di loro aveva scritto, la cultura coltivata in ogni angolo, l’estrema complicità, il confrontarsi ad ogni istante, la sottile ironia e la leggerezza che alimentava ogni loro parola. Chissà. Fu proprio Domenico Scarpa a rintracciare e a rimettere in ordine in volume – ben lontano dalle intenzioni dei due autori “la tentazione di mettere insieme una loro teoria letteraria” – quanto negli anni avevano disseminato, volontariamente o no, in prefazioni e schede, in quarte di
copertina e introduzioni, ovvero personalissimi pensieri, insegnamenti, consigli. Nacque I ferri del mestiere che subito il New York Review of Books paragonò agli Aspetti del romanzo di Foster o alle “Prefaces” di Henry James. Fu scritto: “Il bilancio di una lunga e allegra carriera, ma soprattutto un manuale imprescindibile (benché preterintenzionale) di scrittura creativa, di cui nessun aspirante scrittore (né lettore consapevole) dovrebbe fare a meno”. Mercoledì 4 aprile, sempre alle 21, Licia Maglietta proporrà brani della Donna della domenica, i tanti angoli di Torino, Anna Carla e Santamaria, l’architetto Lamberto Garrone e l’americanista Bonetto, i fratelli Zavattaro marmisti, Massimo Campi e Lello, le sorelle Tabusso, Boston o Bàston, il Balôn che non hanno bisogno di parole di presentazione: con l’aiuto filmico di Comencini, chi non ha ben impressi nella memoria fatti e persone, quelle ben “informate sui fatti?”. Ingresso libero, prenotazione obbligatoria sul sito
FINO AL 21 APRILE
lavorare con certosina maniacalità di segno e colore, ma anche di straniarsi dai vincoli del quotidiano per depurarlo dai limiti del contingente, giocando, fantasticando e pur anche ironizzando con sogni, memorie e magie di libertà interpretativa di grande fascino e suggestione. A dirla lunga sul peso e sul singolare significato che nell’arte del Novecento ebbe l’opera del Maestro astigiano, basti citarne la presenza a ben cinque Biennali di Venezia e alle Quadriennali di Roma, senza dimenticare il primo premio “Città di Torino” conquistato nel ’50 alla Promotrice e la partecipazione a svariate mostre (la prima importante a “La Bussola” di Torino nel ’52 con presentazione di Italo Cremona), tutte corredate da un gran successo di pubblico e di critica.
Immagini” di Torino e nel ’91 un’antologica a “La Finestrella” di Canelli, seguita da altre due, nel 2001 e nel 2012, organizzate al “Palazzo Crova” di Nizza Monferrato e alla “Casa del Conte Verde” di Rivoli. Da allora, ci pare che, soprattutto a livello pubblico – torinese e piemontese – qualcosina in più si sarebbe potuto e dovuto fare per tenere viva la memoria del “nostro” Terzolo. Un plauso, dunque, all’iniziativa della Fondazione Bottari-Lattes di omaggiare l’artista con una contenuta ma significativa mostra organizzata allo “Spazio Don Chisciotte”, in via della Rocca, fino al prossimo 21 aprile. Perfetto quel titolo allusivo alla “realtà immaginata”, la retrospettiva è amorevolmente curata dai figli Luca e Paolo, in collaborazione con Vincenzo Gatti, e presenta sedici opere (in prevalenza oli su tela) accanto a una dozzina di disegni, schizzi rapidi e bozzetti preparatori realizzati “al volo” su taccuini o fogli sparsi per essere poi analizzati e ricomposti in studio sotto forma di opere ben definite e compiute. Visioni di una realtà sempre occhieggiante ad “altro”, in cui la narrazione “viene scissa e ricomposta – scrivono i curatori – secondo logiche interne solo alla logica dell’opera stessa”. Fatto
salvo un rigorosissimo dipinto del ’24, “I pini di Natale” appartenente alla collezione di Mario Lattes, tutti gli altri sono stati realizzati dai primi anni Sessanta e scelti attraverso una scrupolosa selezione tematica che ha imposto il sacrificio di opere iconiche, come quelle dei grandi paesaggi, delle cascine o delle fornaci. Al posto d’onore (solo per disposizione dei quadri) l’“Interno” del ’59: un tavolino in primo piano su cui poggiano un cono, una trottola e uno specchio che riflette una “realtà immaginata”, il fiume e la collina torinese che proprio non si vedevano dallo studio del pittore (già di Umberto Mastroianni), al civico 4 di via Perrone. Dietro appare a metà anche una figura femminile che sembra restia (o infastidita?) a rinunciare alla propria privacy. Ironia. Curiosità. Voglia di gioco e di evasione. Tutto ciò che troviamo anche nella “Ragazza con le galline” del ’75, unica opera in mostra senza firma. L’artista morì prima di ultimarla. E chissà se a quella fanciulla che corre impacciata nel tentativo d’acchiappare il pennuto ribelle, sotto gli occhi di un
bimbo con la palla in mano e l’indifferenza di un micio che si crogiola e si stiracchia sul muretto, Terzolo avrebbe voluto aggiungere qualcosa in più? Resta il dubbio, che non sminuisce la briosità dell’atmosfera. Come nel delizioso “La scelta della cartolina” del ’69, con tanto di cartoline realmente illustrate una a una, l’uomo con giacca a spalla e bretelle indeciso nella scelta, il cagnolino paziente in attesa e, sullo sfondo di un angolo della riviera ligure che parrebbe Noli, il roccioso isolotto che parrebbe l’isolotto di Bergeggi. Flash visivi. Piacevolissimi. Ma anche scombussolamenti della memoria. Di quell’antica infanzia rurale – con i carradori, i pozzi a bricola, le ruote, i tricicli da trasporto, lo schiacciasassi, le scale nell’aia sempre pronte all’uso e la vecchia bicicletta appoggiata al muro del cascinale – che tanto l’avrà legato all’amico Cesare Pavese, conosciuto nell’adolescenza a Reaglie, dove le famiglie furono per un buon periodo vicine di casa.
FINO AL 27 MAGGIO
ritroviamo in una delle tante versioni de “Il Trovatore” (questa di Rivoli é del ’22 e molto attenta ai simbolismi dello svizzero Arnold Bocklin) per arrivare all’assoluta purezza metafisica de “Il saluto degli Argonauti partenti” (1920), di netta impronta classico-rinascimentale, con la marcata fisicità di nudi alla Luca Signorelli e “nel cielo la raffinata memoria dell’arte di Mantegna e Bellini“. Proseguendo ci si imbatte nel tema dell’autoritratto (tanto caro a de Chirico che ne eseguì più di cento), nodo centrale che pone in relazione “Autoritratto con la propria ombra” (ca. 1920) con l’imponente “L’architettura dello specchio”, eseguita nel ’90 da Pistoletto e che “abbraccia la molteplicità del reale, accogliendone l’inarrestabile mutevolezza”. A seguire il gruppo degli “interni”: “Interno metafisico” (ca. 1918), aperto al contrasto con le architetture immaginifiche di Ackermann, così come la “Composizione metafisica” del ’16 che dialoga con i meccanismi dell’immaginario collettivo evidenziati da Mauri e come l’altro “Interno metafisico” del ’17 affiancato, nell’attenzione per la semplicità degli oggetti d’uso comune, alla “quotidiana banalità” delle opere di Boetti. A completare il percorso l’interrelazione fra i “Due cavalli” (altro soggetto particolarmente amato da de Chirico) realizzati nel ’27 e “Novecento” (1997) di Cattelan, secondo un dialogo “nel quale l’impeto dionisiaco del maestro della Metafisica incontra la cinica e
sconsolata visione dell’artista contemporaneo relativamente al secolo appena trascorso”. Assonanze. Contraddizioni. Rimandi di immagini e pensieri capaci di rincorrersi e riproporsi oltre le mode e oltre il tempo. Con la potenza di gesti trasfiguranti che stanno anche alla base dell’altra mostra ospitata sempre al Castello di Rivoli, nella Manica Lunga, fino al 24 giugno, dal titolo “Metamorfosi. Lasciate che tutto vi accada”. Curata da Chus Martìnez, la rassegna intende proporre l’esperienza della metamorfosi nell’arte contemporanea attraverso le opere inedite – installazioni, sculture, azioni performative, dipinti e video – di sette promettenti artisti internazionali.
Genova, il secondo dagli acquisti dell’ingegner Giuseppe Canova. Quest’ultimo si recò in Siam come progettista della prima ferrovia da Bangkok a Phetchaburi, seguendo le orme di altri italiani, ed in particolare piemontesi, giunti in Asia tra Otto e Novecento per mettere le proprie competenze al servizio di Paesi che si stavano modernizzando. Interessante in questo senso è scoprire quali nuclei di reperti conservati al MAO o in altri musei torinesi derivino appunto da acquisti effettuati o doni ricevuti da tecnici e funzionari piemontesi, che si recarono in Oriente per ragioni di lavoro, diventando poi collezionisti di manufatti esotici. Tornando alla figura principale coinvolta nella formazione della raccolta di Agliè, il duca Tomaso di Savoia-Genova, questi era figlio di Ferdinando, fratello minore di Vittorio Emanuele II, e della principessa Elisabetta di Sassonia. Rimasto orfano di padre, morto di tubercolosi a soli 33 anni, venne affidato alla tutela del principe di Carignano Eugenio di Savoia, che indirizzò Tomaso alla carriera militare, inviandolo in Inghilterra, scelta non usuale per principi di casa Savoia, a studiare marineria. In veste di ufficiale della Marina compì la circumnavigazione del globo tra 1872 e 1874, ma fu soprattutto il viaggio intrapreso in Asia orientale tra 1879 e 1881, al comando della corvetta Vittor Pisani, a consentirgli di entrare più profondamente in contatto con quelle culture orientali da cui provengono i reperti raccolti ad Agliè, acquistati come souvenir di viaggio o ricevuti come dono diplomatico da personaggi d’alto rango, come l’imperatore del Giappone e il re del Siam Rama V.
coreano Gat (XIX sec) a larga tesa, tradizionalmente adoperato in estate per ripararsi da “mosche e zanzare”, come si legge sulle memorie di viaggio. Di particolare importanza, come occasione per implementare la raccolta, fu l’incontro di Tomaso con Rama V, re del Siam, che a quel tempo, nel 1881, era in lutto per l’improvvisa perdita dell’amata sovrana. Tomaso assistette alle cerimonie in onore della defunta e alcuni oggetti presenti ad Agliè sono riferibili proprio a questo evento, in particolare le riproduzioni di modelli di barche da parata cerimoniale utilizzate per l’occasione. Afferenti alla cultura siamese e visibili in mostra, sono anche la grande testa di Buddha in bronzo con tracce di doratura, risalente a fine XV secolo, e le maschere dei personaggi del poema Ramakien indossate dagli attori del dramma Khon.
petrolio) e oggetti realizzati in Occidente imitando modelli orientali. La visita alla mostra vuole anche essere un invito a scoprire il castello di Agliè, magnifico esempio di residenza sabauda extraurbana, che cominciò a svilupparsi, nelle forme in cui oggi la contempliamo, alla metà del Seicento quando l’allora proprietario, il conte Filippo San Martino d’Agliè, sentimentalmente legato alla prima Madama Reale, Cristina di Francia, volle trasformare la fortezza di famiglia, d’impianto medioevale, in residenza aulica, in grado di rivaleggiare con il palazzo ducale di Torino, chiamandovi a lavorare Amedeo di Castellamonte. Le successive stagioni di rinnovamento si situano nella seconda metà del Settecento, per opera di Ignazio Birago di Borgaro, dopo che nel 1763 re Carlo Emanuele III di Savoia aveva acquistato il castello dai San Martino per darlo in appannaggio al secondogenito, nato dalla terza moglie, Benedetto Maurizio duca del Chiablese, e nel periodo della Restaurazione sabauda, per opera di re Carlo Felice e della consorte, Maria Cristina di Borbone-Napoli, che affidarono i lavori a Michele Borda di Saluzzo. Con la morte di Maria Cristina il castello passò, infine, per eredità ai duchi di Savoia-Genova, che ne fecero la loro dimora, privilegiando la funzionalità degli arredi sulle esigenze di rappresentatività e apportando, quindi, modifiche non sempre in linea con la vocazione originaria degli ambienti.
L’Associazione socio-culturale Cromie-Vivere a colori organizza per i suoi soci un evento straordinario
Dimore e palazzi storici chiusi di solito al pubblico aprono le porte sabato 24 e domenica 25 marzo per le giornate di primavera del Fai
scrosciare delle acque si trasforma in un estenuante lamento confuso, sono ambientazioni perfette per fiabe e racconti fantastici, antri misteriosi in cui dame, cavalieri, fantasmi e strane creature possono vivere indisturbati, al confine tra la tradizione popolare e la voglia di fantasia.
2 / Castello della Rotta
piccole finestrelle dai vetri rotti. I pochi frammenti di lastra riflettono eccessivamente il sole, il riverbero luminoso colpisce la vista come contenesse in sé qualcosa di tagliente; il contrasto con l’interno non è una semplice contrapposizione luce-ombra, ma ricorda più una silenziosa quanto spaventosa dicotomia tra bene e male. L’ingresso principale è costituito da un serioso cancello ad arco, costruito in ferro, sopra il quale si staglia il bianco emblema della casata dei Valperga. Il sole incessante di quella giornata si scaglia contro il bassorilievo e risulta fastidioso osservarne il disegno: si tratta di un arbusto sovrastato da un becco. La lastra di pietra fu qui collocata nel 1455, dal Gran Priore dei Cavalieri gerosolimitani Giorgio di Valperga di Masino. Mi accorgo che io e la mia amica non parliamo, come non volessimo intimorirci a vicenda, stiamo ognuna concentrata a riguardare le proprie foto, lo facciamo con una meticolosità quasi morbosa, vedo che anche lei, come me, le ingrandisce all’impossibile e controlla che non ci siano strani aloni dietro le piccole finestre scure. Il portone è interamente ricoperto da scritte inneggianti a Satana. Esse sono di varia natura, quelle scalfite sembrano graffi animaleschi, quelle delineate con le bombolette ricordano gli schizzi di sangue di qualche animale sacrificale, per quanto sciocche, quelle parole incutono un certo timore, si evince che chi le ha incise o eseguite credeva fermamente nel gesto che stava compiendo.
emergere. Il castello ha origini medievali, i primi occupanti furono probabilmente Romani, in seguito venne occupato dai Longobardi, ai quali succedettero i Templari, che ne furono i padroni per oltre trecento anni; dopo di loro, verso il Cinquecento, divenne un bene dei Savoia. La roccaforte fu testimone, nel 1639, della disfatta di Tommaso Francesco di Savoia, principe di Carignano, inflittagli dall’esercito francese, successivamente, nel 1706, diventò un deposito di polvere da sparo durante l’assedio portato avanti dai Francesi nei confronti di Torino. Ci sono altre storie violente ambientate nelle inaccessibili stanze del castello: tra di esse la follia del re abdicatario Vittorio Amedeo II, re di Sardegna, che qui morì il 30 ottobre del 1732, dopo che il figlio Carlo Emanuele III lo costrinse a rimanere rinchiuso tra queste mura. Nel Settecento il castello cessò la sua funzione di fortilizio e venne adibito a dimora gentilizia. Continuo nel mio percorso e mi ritrovo in una sorta di cortile posteriore, qui la vegetazione ha assunto il completo controllo, erbacce e arbusti si intersecano come stessero lottando gli uni contro gli altri; in tale simbolico scontro greco romano il sole non prova nemmeno ad intromettersi e d’improvviso mi ritrovo sovrastata da un’ombra omogenea, che ricopre incondizionatamente le mura di sfondo, le finestre che si aprono su di essa, i resti ammuffiti di un vecchio pozzo e degli strani cumuli di rami che attirano la mia attenzione.
fuoco, né con la vista, né con la reflex. Fingo di non farci caso, ma le fotografie che fino ad ora ho scattato in quella zona sono tutte micro mosse. Forse quello non è il posto per noi, forse con i nostri rumorosi calpestii abbiamo disturbato il sonno di qualche spirito che lì aveva deciso di assopirsi. Avevo svegliato il cavaliere, o il sacerdote criminale, o qualche nobile suicida? Avevo interrotto la lettura del cardinale? o forse avevo infastidito l’anziana tata che aveva perso il bambino affidatole, oppure l’uomo in nero che passeggia ancora nei luoghi della sua morte? Non ebbi il coraggio di esplicitare la domanda. Proposi di ritornare verso la macchina senza esprimere una motivazione precisa, ma non mi trovai in disaccordo con la mia amica. Sedute nell’autovettura ci diciamo che sarebbe interessante provare a tornare la notte del 14 giugno, quando, secondo alcune testimonianze, si potrebbe assistere alla comparsa di un corteo rituale di alcuni monaci ecclesiastici. Giro la chiave e la macchina non parte, come nei classici horror anni ’80, guardo Martina e scoppiamo in una fragorosa risata apotropaica e al secondo tentativo la vettura si riprende. Sto ancora rimuginando sul fatto di tornare o meno la notte del 14 giugno.
negli spazi espositivi del Museo Nazionale del Risorgimento, in Palazzo Carignano a Torino. “Abbiamo pietà, vi prego – scrive Quirico – degli uomini che vedete in queste foto. Sono alle soglie della morte, o forse un po’ al di là ma lo ignorano”. E come non averne di pietà di fronte allo sguardo muto e perfino imbarazzato di Sergey, il soldato ucraino ritratto fra i resti di Promzona, un tempo la zona industriale di Avdiivka, nel cuore dell’annosa guerra del Donbass, dove i due eserciti governativo e filorusso si fronteggiano a poche centinaia di metri l’un dall’altro? Sergey guarda fisso l’obiettivo. Non è il terribile mirino di un nemico kalashnikov, ma l’occhio amico di una macchina fotografica. Armato fino ai denti, nel cinturone il soldato si porta addosso (e in fondo al cuore) un ben visibile crocifisso di metallo. Il tempo infinitesimale di uno scatto e

