CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 743

Benedetto espone al Polski Kot

Presso il centro Polski Kot, un angolo stupendo di Polonia a Torino, oggi si inaugura la mostra fotografica di Claudio Benedetto, cui seguirà un concerto. Sì intitola “Polonia Polska” l’esposizione fotografica che inaugura sabato 4 marzo alle 18 presso il centro Polski Kot in via Massena 19/A e raccoglie i lavori fotografici di Claudio Benedetto, vale a dire gli scatti più recenti dedicati al Paese che si affaccia sul Baltico. Sarà aperta a partire dalle 18; tra le 19 e le 21 sarà possibile degustare bigos, la specialità polacca a base di cavoli, funghi e carne, accompagnata da pane nero e birra tipica a 5 euro. Dalle 21 prenderà avvio il Concertino per tastiera dell’artista macedone Marko Chvarko, accompagnato dalla propria voce narrante, che permetterà agli ascoltatori di scoprire uno dei Paesi più affascinanti d’Europa a partire dalla sua musica.

MM

Višegrad, dove la Drina diventò la più grande fossa comune della Bosnia

“VIŠEGRAD.L’odio, la morte, l’oblio” (Infinito edizioni) è l’ultimo libro di Luca Leone e uscirà tra breve nelle librerie. Il volume, con la prefazione di Riccardo Noury e l’introduzione di Silvio Ziliotto, racconta una storia spesso dimenticata o taciuta. Nella primavera del 1992, all’inizio del conflitto che sino alla fine del 1995 insanguinerà la Bosnia Erzegovina, Višegrad venne sottoposta a un intenso bombardamento da parte dell’esercito regolare jugoslavo. Ritiratesi le forze armate, millantando una situazione ormai sicura e sotto controllo, la cittadina della Bosnia orientale finì sotto il controllo di un gruppo paramilitare guidato dai cugini Milan e Sredoje Lukić, che inaugurarono un regime del terrore e dell’orrore.

In pochi mesi la pulizia etnica ai danni dei musulmani-bosniaci – che costituivano il 63 per cento della popolazione locale – venne portata a termine con operazioni di rastrellamento, deportazioni, omicidi di massa e persino attraverso la combustione, in almeno due casi, di decine di civili all’interno di case private. Circa tremila persone vennero uccise e fatte scomparire. Lo stupro etnico ai danni di donne, bambini e uomini divenne pratica comune. Il fiume Drina mirabilmente cantato dal premio Nobel per la letteratura Ivo Andrić si trasformò nella più grande fossa comune di quella guerra. Questo reportage scritto sul campo racconta quelle vicende e, per stessa ammissione di Luca Leone, è un libro corale. Voci, storie, dolori e violenze che riempiono ricordi e incubi, le speranze riposte in una giustizia, che ancora non si è compiuta, prendono forma e aiutano a capire perché ciò che è iniziato a Višegrad è poi finito a Srebrenica in una sequenza terribile e disumana.

 

Višegrad è un esempio terrificante di pulizia etnica e la cattiva coscienza di coloro che hanno troppi scheletri nell’armadio tende a giustificare la rimozione collettiva, motivandola con la pesantezza dei ricordi e del disagio che questi provocano. Alcuni capitoli sono come un pugno nello stomaco; duro, ma necessario. Il racconto, colmo di passione civile e preciso, quasi chirurgico nel mettere in ordine fatti e testimonianze, riporta al clima terribile di quei giorni e di quei mesi dove tutto iniziava: i furti, la distruzione sistematica delle proprietà dei cittadini bosniaci-musulmani, le torture e le sparizioni, l’omicidio e lo stupro di massa. E’ un orribile calvario quello vissuto da migliaia di persone sulla linea di confine tra la Bosnia e la Serbia. Un albergo può chiamarsi “Vilina Vlas”       ( “capelli di fata”, come nelle fiabe) e nascondere tra le sue mura l’orrore puro? A Višegrad è accaduto. E’ lì che avevano il loro quartier generale i “signori neri di Višegrad”, i due cugini Milan e Sredoje Lukić. Due assassini e stupratori, condannati all’ergastolo e a 30 anni dal tribunale dell’Aja, che incutono ancora oggi timore al solo nominarli. In fondo da quelle parti, sulle sponde della Drina, è come se il genocidio continuasse. Per questo ha ragione Luca Leone nel ricordarci che occorre non dimenticare. Anzi: bisogna “leggere per capire”.  Anche se è difficile. Anche se viene voglia di chiudere gli occhi e la mente davanti agli orrori narrati nel libro. Ma bisogna sapere. Perché sulle terre di quella che un tempo è stata la Jugoslavia soffia ancora forte il vento del nazionalismo. E semina un po’ ovunque le spore del negazionismo. E’ pur vero che la guerra appartiene ormai ad un passato lontano, ma il germe della violenza è ancora ben vivo e inquina la vita di tutti i giorni. Bisogna cercare “sotto al tappeto la polvere grigia del dolore e della tragedia che piedi nazionalisti hanno cercato malamente e vigliaccamente di nascondere, dopo aver dato fuoco alla stoppa ed essere rimasti a godersi, applaudendo, l’incendio”.

Questi due decenni post bellici hanno visto di tutto: crisi economica, speculazione, aumento delle disuguaglianze, criminalità e corruzione. Accompagnate dalla mancata o ritardata e parziale giustizia, dall’impunità dei colpevoli alla frustrazione delle vittime, spesso obbligati – gli uni e le altre – a vivere fianco a fianco. Il potere costituito, quello dall’anima nera, vorrebbe dimenticare e far dimenticare cos’è accaduto. Cosa c’è di più catartico che omettere, nascondere responsabilità su crimini e aberrazioni? Il genocidio non avviene a caso, non è il frutto di un incidente, di un raptus dentro una logica violenta. Il libro di Luca Leone – e tutti gli altri che ha voluto dedicare, con coraggio e impegno, alla Bosnia – è di grande importanza perché rappresenta un formidabile antidoto contro il negazionismo. Negli ultimi vent’anni, i serbi bosniaci e la Serbia si sono impegnati a negare il genocidio, a classificare quello che è accaduto come uno dei tanti crimini che vengono commessi durante un conflitto. Così, il negazionismo è diventato una sorta di strategia di Stato. Qualcosa di simile ad una auto-assoluzione considerato il fatto che molti degli attuali politici sono le stesse persone che avevano qualche responsabilità o ruolo nell’apparato politico serbo all’epoca del genocidio. E la loro ideologia è ancora la stessa: un marcato nazionalismo che, negando i fatti, nega le proprie colpe e continua a provocare dolore e sconcerto alle vittime di tanta violenza. Nel libro che offre, appunto, una documentata testimonianza “corale”, parlano uomini straordinari come Amor Mašović ( il presidente dell’ente federale bosniaco per la ricerca delle persone scomparse), Rato Rajakil sindaco di Rudo (“gigante dalle spalle un po’ curve e dalla mente illuminata”) –  o l’ex generale Jovan Divjak, l’eroe serbo che difese Sarajevo. Ma sono soprattutto le donne ad essere protagoniste, vittime, ma anche testimoni determinate, inflessibili. Il dolore di Dzana, Lejla emerge, potente e drammatico, insieme al loro coraggio e a quello di tante altre donne. I racconti di Bakira Hasečić, la “lady Wiesenthal“ della Bosnia, lasciano senza parole. Una narrazione lucida, dolorosa, che strappa le parole e le memorie come pezzi dell’anima. Ogni ricordo è un morso nella carne. Per questo reportage e per tante altre storie e racconti bisogna essere grati a Luca Leone – autore anche di“Srebrenica. I giorni della vergogna” ,  “Bosnia Express” , “I bastardi di Sarajevo” e molti altri testi – uno dei più attenti e informati “testimoni” delle vicende bosniache.

Marco Travaglini

 

Il senso di Beppe Navello per il teatro

Beppe Navello, classe 1948, dopo gli studi universitari alternati tra Italia e Francia, si forma allo Stabile torinese come regista assistente di Mario Missiroli, attraverso le personali prove con testi di Gozzi, Gadda e Ibsen viene chiamato a insegnare alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, per due volte è nominato direttore dello Stabile dell’Aquila, poi al Teatro di Sardegna, per spostarsi in Francia per un brechtiano Cerchio di gesso del Caucaso. Poi saranno gli anni di Alfieri, di Ibsen, di Strindberg e del contemporaneo Jean-Claude Carrière con Il catalogo. All’inizio del nuovo millennio, vara la fondazione dell’associazione “Teatro Europeo” per cui mette in scena a Parigi Sibilla d’amore di Osvaldo Guerrieri con Anna Galiena, da dieci anni è direttore della Fondazione Teatro Piemonte Europa. Il TPE ha oggi una propria casa al teatro Astra. E oggi Navello può sottolineare il successo del goldoniano Una delle ultime sere di carnevale, con cui in veste di regista chiude un percorso attraverso il teatro settecentesco, dopo le esperienze del Divorzio di Vittorio Alfieri e Il trionfo del Dio Denaro di Marivaux.

Perché, Navello, la scelta di questo terzo testo e qual è il fil rouge che unisce le tre commedie?

Ho sempre amato questo testo di Goldoni, e da molto tempo sognavo di poterlo mettere in scena, da quando lo vidi nell’eccezionale edizione di Squarzina per lo Stabile genovese. Ero allora un giovane universitario che si divideva tra Torino e Parigi, inseguivo già una doppia cultura, nella convinzione che la mia professione futura potesse mettere le proprie radici proprio in Francia. È chiaro come già sentissi allo stesso tempo una certa nostalgia per il mio luogo di nascita e quegli stessi sentimenti che io nutrivo ormai decenni fa il pubblico può vedere come siano lo scheletro della commedia che ho adesso messo in scena. Forse più di quarant’anni fa Squarzina privilegiava il compito e il carattere dell’artista, oggi la situazione che troppi dei nostri ragazzi stanno vivendo, l’urgenza contemporanea che ne deriva, mi hanno fatto approfondire altre letture. Per quanto riguarda il fil rouge, esiste ed è il denaro che trovo nel vecchio amore che per me è Alfieri, capace di passare dalla tragedia che ha ormai fatto il suo tempo alla commedia che meglio frusta i costumi, con la sua invettiva contro i costumi italiani che ci fanno vergognare di fronte all’Europa tutta, “o fetor de’ costumi italicheschi”, scrive a un certo punto; come lo trovo in Marivaux, che non è soltanto l’autore dei giochi e dei dispetti d’amore ma anche quello del teatro civile, L’isola degli schiavi un titolo per tutti, che scrive Le triomphe de Plutus e mi dà l’occasione immediatamente di ripensare al berlusconismo e ai suoi vent’anni di governo. Avverto un grande disagio nazionale, un dibattito e un confronto quotidiani, del resto già erano messi in scena insospettatamente nel 1762 da un genio teatrale come Goldoni.

Si continua a intravedere rimandi al teatro di un altro paese e la ricerca di collaborazioni con l’estero, come ormai con il TPE ci ha abituato…

Sono sempre più legato a questo messaggio di collaborazione che valichi le Alpi e non soltanto, c’è la necessità di lavorare qui ma certi parametri sociali, temporali, culturali quasi ti impongono di aprirti ad un’attività senza confini. Per il prossimo “Teatro a corte”, in estate, riprenderemo la collaborazione con Anna Senatore, anticipando il lavoro che presenterà ad Avignone, e con Jerôme Thomas che lavorerà anche a Chambord. Come esiste un progetto, che doveva già essere pronto per questa stagione ma che per il momento è stato rimandato all’autunno prossimo: una mia regia di Arlecchino servitore di due padroni, ancora Goldoni, con il Teatro Slaski di Katowice in Polonia. Un’esperienza che continua, dopo il successo di Cinéma! circa dieci anni fa.

Uno dei punti di forza del TPE è ormai la compagnia di giovani che il pubblico sta ammirando nelle vostre ultime produzioni.

Tutto è iniziato con un seminario sul verso, le risposte di ragazzi arrivati oggi intorno ai 35, prima con una guardinga diffidenza, poi una presenza pressoché costante che poco a poco abbiamo cominciato ad apprezzare l’uno dell’altro. È stata un’esperienza che ci e li ha portati ormai attraverso titoli che vanno dal Divorzio a Zio Vania, da Woyzeck a Tre sorelle, dall’avventura straordinaria dei Tre moschettieri all’attuale Goldoni. Solo una delle sere scorse, un signore che aveva ammirato la prova dei Moschettieri si è voluto sincerare che nel Carnovale ci fossero quegli stessi attori, poi ha acquistato il biglietto.

Una compagnia che è pure un importante impegno economico.

Viviamo con i problemi che si susseguono giorno dopo giorno, ne risolviamo uno perché se ne presentino dieci. In una vita teatrale che fino a quattro cinque anni fa era un disastro e che adesso ha visto una riforma che è un salutare scossone, per la continuità, per l’intensificazione delle produzioni, per la stanzialità, il grosso problema di sempre è far quadrare i conti, magari dovendo combattere con somme stanziate che non sono arrivate nella loro interezza. Sappiamo tuttavia di poter contare sui 600 mila euro del ministero come sui 900 della Regione, come sui soldi che il Comune e le Fondazioni bancarie ci mettono a disposizione. Altri teatri badano con maggior peso alla macchina gestionale, noi preferiamo rivolgerci alla produzione pur senza avventurarci in spese spropositate, senza ad esempio ricorrere al nome che ha tutti i numeri per fare cassetta, preferendo una nostra continuità artistica che porta in risultati che oggi stiamo vedendo. Direi perseverando anche in quegli esempi che hanno fatto la nostra immagine come i Moschettieri, per cui stiamo pensando ad un altro serial, di un autore contemporaneo, magari già la prossima stagione.

Al di là delle problematiche come pure di una certa stabilizzazione, quale messaggio può dare il teatro oggi?

In un’epoca in cui avanzano la rete o le nuove tecnologie, in cui allo stesso tempo si tende all’isolamento, il teatro come le altre discipline a lui prossime è un’enorme risorsa, è la fruizione delle idee, è la sua continua forza millenaria, è l’immagine concreta di un grande quanto insperato futuro, è il controllo diretto della partecipazione. È il piacere di avvicinarsi gli uni agli altri e il fenomeno di collegamento, che continua a crearsi tra il palcoscenico e il pubblico.

 

Elio Rabbione

Incisori olandesi del Seicento alla Sabauda

 Musei Reali 8 novembre 2016 – 17 aprile 2017

Il “secolo d’oro” delle incisioni raccontato attraverso le opere dei grandi maestri olandesi raccolte nelle collezioni della Galleria Sabauda: le acqueforti di Rembrandt, Both, Waterloo, Du Jardin, Berchem, van Ostade e altri ancora sono le protagoniste della mostra L’occhio fedele. Incisori olandesi del Seicento, a cura di Giorgio Careddu, che si svolge presso i Musei Reali di Torino da martedì 8 novembre 2016 fino a domenica 26 febbraio 2017. Un’esposizione che mira a dare spazio le straordinarie collezioni dei Musei Reali, spesso poco conosciute al grande pubblico, e ora oggetto di attività di valorizzazione specifiche. L’arte olandese del Seicento è conosciuta come “il secolo d’oro” per la grandezza e l’abbondanza della produzione figurativa che accompagna l’ascesa della giovane repubblica dei Paesi Bassi settentrionali. Con il distacco dalle provincie fiamminghe dominate dalla Spagna (1585), in Olanda prende vita un mercato artistico sostenuto dal ceto borghese, per lo più dedito al commercio, intraprendente, colto e amante dell’arte. Le incisioni a stampa hanno in questo periodo un campo di diffusione molto vario: calendari, libri illustrati, vedute di città, paesi, castelli, navi, costumi, ritratti e riproduzioni di dipinti celebri, stemmi e fregi. La mostra presenta 32 fogli tratti dalla collezione della Galleria Sabauda, che documentano alcuni dei generi più diffusi, ma anche la capacità di osservazione e di descrizione attenta della realtà, ciò che un grande scienziato inglese del tempo, Robert Hooke (1635-1703) definì il frutto di “una Mano schietta e un Occhio fedele”.

Il percorso si sviluppa in quattro tappe:

 

  1. Il paesaggio: Rembrandt van Rijn e Jacob van Ruisdael

La pittura olandese del Seicento è ricca e varia nell’osservazione della realtà, domestica e accattivante nei suoi soggetti. È qui che il genere del paesaggio si afferma come visione pura, come restituzione fedele di un frammento di mondo reale, senza commistioni con soggetti narrativi derivati dalla religione, dal mito o dalla storia. Guardando le vedute di Rembrandt, sentiamo che lo spazio rappresentato potrebbe continuare all’infinito, placidamente sereno come in un qualsiasi giorno. L’attenzione di Ruisdael si posa invece sulla descrizione degli alberi e delle nuvole, che avvolgono come onde inquiete la silente vita degli uomini.

 

  1. Scene di vita: Adriaen van Ostade

Le case e le taverne sono un soggetto molto frequente nella pittura olandese del Seicento. Lo sguardo si appunta su momenti di vita familiare, su musici o viandanti, o anche su piccole scene aneddotiche di ubriachi e di prostitute. Sempre, le piccole azioni quotidiane degli uomini si accompagnano alla descrizione accurata del mondo che li circonda, fatto di innumerevoli oggetti d’uso e anche di animali raffigurati nei loro peculiari momenti di vita, come un maiale che si abbandona al sonno nel sole.

 

  1. La campagna di Paulus Potter

Pittore di paesaggi e di animali, Potter lavorò ad Amsterdam, dove morì a soli ventinove anni. La sua opera più celebre è Il toro (1647), esposto al museo Mauritshuis dell’Aia. Un dipinto di grandi dimensioni, dove l’artista mette a frutto anni di studi e di ricognizioni intorno al mondo animale. Le sue mucche, affacciate sugli orizzonti di una placida campagna, documentano la cura dell’arte olandese per la descrizione del reale, ma suggeriscono anche un’atmosfera sognante e sospesa, una sorta emblematica meditazione sul mondo, attraverso lo sguardo delle sue creature più umili.

 

  1. Gli animali

La raffigurazione di mucche, cavalli, asini, pecore e cani costituisce un filone particolarmente apprezzato della pittura olandese del Seicento e uno dei modi con cui gli artisti documentano la varietà del creato, attenti a riportare lepeculiarità delle razze ela diversità delle posture.

 

 

La visita de L’occhio fedele. Incisori olandesi del Seicento è inclusa nel biglietto dei Musei Reali.

 

Piemonte Movie gLocal Film Festival

La rassegna, giunta alla 16a edizione, è realizzata con il riconoscimento della Direzione Generale Cinema MIBACT, con Regione Piemonte, Città Metropolitana di Torino, Città di Torino, Fondazione Crt, Film Commission Torino Piemonte, Museo Nazionale del Cinema e Torino Film Festival  e si terrà dall’8 al 12 marzo al Cinema Massimo (Via Verdi 18)

 16a edizione porta con sé due importanti novità: per la prima volta l’intera manifestazione si terrà al Cinema Massimo (Via Verdi 18), principale luogo festivaliero della città; inoltre ha preso vita sotto una nuova direzione artistica, quella di Gabriele Diverio. Aria nuova per un festival che mantiene le radici salde sul territorio con il suo spirito glocal e indipendente, fatto di relazioni costruite negli anni e stimoli raccolti dalle diverse realtà cinematografiche che in Piemonte operano e che vengono restituiti al pubblico nei 5 giorni di festival e nei 53 film in programma, di cui 4 presentati in anteprima assoluta, 5 in anteprima regionale e 1 in anteprima nazionale.

Un festival che parte con l’anteprima nazionale del documentario Ninna Nanna Prigioniera di Rossella Schillaci; passa per i documentari e i cortometraggi in gara nelle sezioni Panoramica Doc e Spazio Piemonte per aggiudicarsi il titolo di migliore prodotto cinematografico – documentaristico e in forma breve – dell’anno passato; e conduce fino agli omaggi a due autori che hanno fatto la storia del nostro cinema, il regista torinese recentemente scomparso Corrado Farina e il Carlo Ausino di Torino violenta, film che quest’anno compie 40 anni dall’uscita in sala e che ci darà l’occasione per spingerci in altre città ‘violente’ con la rassegna Guardie & Ladri Poliziottesco all’italiana. Il gLocal Film Festival farà poi tappa tra festival gemellati come Skepto, Seeyousound, il neonato Alessandria Film Festival e realtà cinematografiche con cui collaboriamo da anni come La Danza in 1 minuto, O.D.S. e ci porterà fino alla chiusura con il lungometraggio in anteprima regionale Babylon Sisters di Gigi Roccati; il tutto come sempre lungo il fil rouge del Piemonte e sotto la nuova direzione artistica di Gabriele Diverio. Inoltre il gLocal Film Festival ospiterà la Masterclass di scrittura per cinema e tv tenuta dallo sceneggiatore Nicola Guaglianone, autore tra gli altri di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, diIndivisibili di Edoardo De Angelis e della serie Suburra prodotta da Netflix.

Un laboratorio di cinema e teatro per imparare l’Italiano

Parole, gestualità ed immagini per capirsi meglio ed integrarsi: ecco l’anima della campagna di crowdfunding lanciata dalla Fondazione TPE (Teatro Piemonte Europa) per realizzare corsi di teatro per stranieri, con il sostegno di Fondazione Sviluppo e Crescita Crt.

Dal 22 febbraio, per i prossimi 40 giorni, è online la raccolta fondi sulla piattaforma Eppela (prima piattaforma italiana di crowdfunding reward based) per dare vita a 10 lezioni-laboratorio di lingua italiana e tecniche teatrali e cinematografiche rivolte a giovani cittadini stranieri, di età compresa tra 16-20 anni. Si svolgeranno al Teatro Astra di Torino durante la stagione autunnale e invernale 2017.

Obiettivo economico è raccogliere 10mila euro; se metà della cifra arriverà dal web, ovvero da tutti voi con le vostre offerte, allora scatterà il cofinanziamento da parte di Fondazione Crescita e sviluppo Crt. E i fondi saranno utilizzati per gestire ed organizzare il progetto e retribuire insegnanti e tecnici.

L’integrazione culturale come gioco da ragazzi: così è concepita dalla Fondazione TPE che gestisce il Teatro Astra a Torino, ma guarda lontano, ben oltre le barriere dei confini. Per chi non vede di buon occhio Donald Trump che oltreoceano imperversa con muri e ingressi off limits, iniziative piccole ma importanti come questa possono rivelarsi utili tasselli utili sulla via dell’ integrazione.

 

Il corso gratuito, previsto per un massimo di 20 partecipanti, sarà proposto al Teatro Astra, articolato in 10 incontri settimanali della durata di circa 2 ore, tenuti dagli artisti e registi Gianluca e Massimiliano De Serio e da altri professionisti de Il Piccolo Cinema. L’approccio didattico sarà decisamente innovativo perché agli studenti verranno proposte situazioni di vita quotidiana -dal fare la spesa al salire sui mezzi pubblici, da come   usufruire dei servizi dell’anagrafe a quelli ospedalieri- tutti momenti che verranno teatralizzati grazie alla sperimentazione in scena e al racconto di quanto appreso.

Poi c’è un’altra valenza del progetto che mira ad allargare e diversificare il pubblico. Troppo spesso infatti si rinuncia a promuovere l’accesso dei cittadini stranieri agli eventi culturali. La Fondazione invece è convinta che la crescita della collettività   passi anche attraverso la sensibilizzazione e l’avvicinamento degli stranieri al meraviglioso mondo teatrale.

Nata nel marzo 2007, la Fondazione Teatro Piemonte Europa è stata riconosciuta di rilevante interesse dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. L’idea di fondo è quella di creare un polo teatrale alternativo, in cui produrre e portare in scena spettacoli che travalichino le frontiere, in dialogo costante con altri centri di cultura teatrale a livello europeo. Tra i fiori all’occhiello della Fondazione c’è il Festival Teatro a Corte che porta spettacoli dal vivo   e creatività contemporanea nella splendida e storica cornice nelle residenze sabaude (Reggia di Venaria Reale e nei Castelli di Rivoli, Agliè e Racconigi).Ed un altro punto d’orgoglio è la Stagione Teatrale, dapprima alla Cavallerizza Reale e dal 2009 al Teatro Astra durante tutto l’anno. Tra i docenti anche Gianluca e Massimiliano De Seri che lavorano insieme dal 1999. In collaborazione hanno prodotto vari film brevi e documentari, presentati nei principali festival di cinema nazionali ed internazionali, vincitori di vari premi e riconoscimenti. Dal 2005 partecipano con film e videoinstallazioni a diverse mostre personali e collettive. Mentre a partire dal 2015 si sono dedicati alla regia e scrittura teatrale ed hanno realizzato spettacoli ospitati nei festival internazionali Teatro a Corte e Festival delle Colline. Insegnano all’Università degli   studi di Torino e alla NABA (Nuova Accademia di belle arti) di Milano. Il loro ultimo documentario lungometraggio “I ricordi del fiume” è stati presentato nella Selezione ufficiale alla 72° Mostra del Cinema di Venezia.

 

Laura Goria

Cappella reale, restaurato il gioiello di Carlo Alberto

Ai Musei Reali torna nel percorso di visita uno dei gioielli dell’artista Pelagio Palagi: la Cappella privata di Carlo Alberto, sita al piano nobile di Palazzo Reale di fianco alla Sala delle Udienze, è nuovamente visibile al pubblico da martedì 28 febbraio 2017.

 

Il piccolo e prezioso ambiente è stato recuperato tra il settembre e il dicembre 2016 grazie alla collaborazione tra i Musei Reali e il Consiglio Regionale del Piemonte. L’intervento è frutto di un protocollo di intesa che prosegue nel tempo con progetti di recupero e di valorizzazione degli spazi e delle decorazioni del Palazzo Reale.

La cappella di Carlo Alberto è un piccolo ambiente ideato per il raccoglimento e la preghiera del sovrano. Fu progettata da Pelagio Palagi nel 1837, nell’ambito della grande campagna di restauri promossa da Carlo Alberto nelle residenze di Torino e di Racconigi. Ospita un altare di forme quattrocentesche, fiancheggiato da colonnine tortili di gusto neo-medievale e ornato da un bassorilievo con la Cena in Emmaus, con Gesù che benedice il pane davanti ai discepoli.

Corona l’altare la bella tela che raffigura la Sacra Famiglia con San Giovannino, dipinta da Palagi nel 1845 e ispirata ai modelli della grande pittura cinquecentesca, tra Raffaello e Correggio. La doratura sfolgorante delle porte, dell’altare e delle cornici si staglia sullo sfondo vermiglio del velluto in seta che riveste le pareti.

Il restauro, condotto dalla ditta Doneux con la direzione di Maria Carla Visconti e Franco Gualano, ha ripulito le superfici da un pesante deposito di particellato atmosferico e ha consolidato le lacune e le fenditure, restituendo l’originaria brillantezza della doratura ottocentesca applicata a guazzo. Particolarmente complesso e delicato è stato l’intervento sul soffitto, che ha consentito anche la ricollocazione di tratti di cornice ritrovati nei depositi. La tela con la sacra Famiglia, allentata, presentava alterazioni in corrispondenza di vecchi restauri eseguiti sulle figure ed era segnata da crettature diffuse con alcune piccole cadute di pellicola pittorica. La superficie è stata pulita, consolidata e integrata. La tappezzeria in velluto presentava condizioni decisamente critiche dovute a un consistente deposito particellare di superficie, che formava una patina grigiastra, con abrasioni, tagli e lacerazioni che minavano la stabilità strutturale dell’insieme. È stata smontata, pulita e consolidata mediante l’applicazione di un nuovo supporto.

4 marzo, #TrustinMusic: ed è Reload Music Festival

#TrustinMusic è il claim della terza edizione del Reload Music Festival di sabato 4 marzo 2017 al Lingotto Fiere di Torino con l’apertura dei cancelli alle ore 13 fino alle ore 6 come nei più importanti festival europei.

L’edizione 2017 sta raccogliendo interesse a livello nazionale, anche perchè non esistono punti di riferimento della scena EDM di così grande spessore e intuizione e ci si aspetta molti giovani in arrivo da tutta Italia come lo dimostra il www.reloadmusicfestival.com ,sito che in due mesi ha realizzato 18mila views e una pagina FB di così grande interazione da far capire l’interesse che in Italia si ha verso questo mood musicale, non così conosciuto in tutto il territorio.

Un Mainstage di oltre 25 metri , innovativo e con un disegno accattivante quasi avveniristico. sotto la direzione artistica di Mario D’Eliso, accoglierà ospiti internazionali, di grande rilievo della scena EDM, Psy trance, Big room, Trap style. Fra i nomi di punta, alcuni per la prima volta in Italia, TigerLily, Carnage, Getter, Will Sparks, Brennan Heart, Tatanka, Shapov, W&W, DROP e altri come il duo Outlow, vincitori del contest nazionale di venerdì 17 febbraio alla metro Porta Nuova e lo showcase del violoncellista Ema Olly. L’intera illuminotecnica del palco è basata su luci a LED per un risparmio energetico ed un minor impatto ambientale su disegni di Andrea Moi con la supervisione di Matteo Rao.Schermi ledwall a passo 4 ad altissima risoluzione ed effetti speciali fanno da cornice scenografica al palco. Lo storico palco Live del Reload porta invece sulla scena, guidati dall’intuizione di Virginia Sanchesi, gruppi rap, trap rap, dubstep, progressive house, classica con base elettronica di grande interesse in una produzione e progetto unico con nomi come Ema Olly, Spikeseven, Blue Virus, Rödja, Smash up, Sku, Hardecibel, Discordya, Christian Stefanoni, Ace, Atlante, Carolina, Rhime, AmosDj e per finire con VioM, il vincitore del contest Reload DjSchool in collaborazione con le Case Quartiere di Torino,di sabato 17 febbraio alla stazione metro di Porta Nuova.

Le case quartiere coinvolte sono Cecchi Point della Circoscriz VII,Casa nel Parco Mirafiori,Cascina Roccafranca ,Vallette e San Salvario. Di particolare rilievo la creazione nella Sala Rossa, dentro il padiglione 1, di un Meeting Red Point in cui gli artisti potranno far ascoltare le loro tracce ai professionisti del settore per l’attività di scouting collegata all’etichetta @Reload Music ,patrocinata e supportata da Sony Music e creata con la collaborazione di Trumen Company, realtà indipendente del panorama discografico nazionale con sede a Torino. (scrivere a info@reloadmusicfestival.com per fissare l’audizione della traccia) La collaborazione collaudata con l’Associazione Culturale EloVir92 apre il corridoio delle esperienze in cui è allestito un percorso di multiculturalità e giochi interattivi sui principali temi del secolo dei Millennials basato sul percorso della fiducia, valore che oggi è precario e latita: ambiente, dipendenze, bullismo, mobilità, innovazioni digitali, prevenzione sia in campo medico che sociale. Partners di questa iniziativa oltre al Cus Torino, sono l’associazione Vol.TO, Croce Rossa Italiana, l’Ordine degli Psicologi del Piemonte, SISM (Segretariato Italiano Studenti Medicina), PIN (Progetto Itinerante Notturno), la scuola professionale di trucco ed estetica SEM, la scuola Bodoni Paravia con il progetto alternanza scuola/lavoro, Ravefriendz con uno spazio dedicato alla musica e alla sua storia. Punti bar di ogni genere sono posizionati all’ interno del pad 1 compreso un punto “analcolic bar “con birra e spumanti a zero gradi e soft drinks cosi’ come un punto raccolto di street food e area relax che pone attenzione anche a chi ha intolleranze o e’ vegano che permetteranno a tutti di mangiare e bere durante la kermesse. 

Importante la collaborazione con GTT per supportare il messaggio della mobilità in tutta sicurezza con l’apertura straordinaria della metro alle ore 6 di domenica 5 marzo.  Altri mobility partners sono stati, a livello nazionale, BlaBlaCar, FlixBus e GogoBus che permetteranno a tutti i giovani di raggiungere con costi accessibili, da ogni parte d’Italia, il festival in assoluta tranquillità. La collaborazione con Booking.Piemonte ha permesso di collocare,a prezzi competitivi, i ragazzi fuori territorio, assistendoli nella ricerca di strutture low cost e di presentare una versione di Torino accogliente e easy. La visione del Reload 2017 si proietta verso la fiducia nel prossimo, valore oggi latitante, che attraverso la musica si puo’recuperare, generando l’energia necessaria per una visione innovativa di un altro futuro che non può più essere quello attuale dove l’oggi è già ieri, ma che riserva infinite possibilità di realizzazioni in altre modalità.

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Metro:
Due date, sabato 11 e venerdì 17 febbraio, realizzate in collaborazione con GTT e Radio GTT nella stazione metropolitana Porta Nuova hanno anticipato la big data del 4 marzo.
Sabato 11 un Dj Contest in collaborazione con le Case Quartiere di Torino e la ReloadDj School che porterà sul palco Live giovani protagonisti preparati in pochi mesi da professionisti e si chiuderà con il live come anticipazione di cosa accadrà sul secondo palco del Reload con Ema Olly, RÖDJA, Christian Stefanoni, SKU e molti altri. Venerdì 17 la seconda edizione del Dj Contest nazionale in cui 8 Dj Producer hanno presentato le loro tracce ad una giuria di professionisti del settore e dei più importanti festival italiani. Il vincitore avrà l’onore di suonare sul Mainstage sabato 4 marzo.

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Per info: Libra Concerti 011/591709 info@libraconcerti.it

Sito: www.reloadmusicfestival.com

Pagina FB: https://www.facebook.com/reloadmusicfestivaltorino/

Biglietteria: Xceed, DIY Ticket,TicketOne, CiaoTickets, Piemonte Ticket

Limbico limbo

Le poesie di Alessia Savoini

 

Il limbo è la frustrazione di un credo

Un eterno punto fermo nel buio

La fragilità di un dio confuso nel finito

Tra le parole di un uomo troppo attaccato alla sua terra.

 

Fedeli in coda per questioni di merito

In attesa della grazia o della sentenza eterna;

Meritarsi il paradiso è impegno e promessa

Ignorando che il cibo non è meritocrazia.

 

Tra le macerie il frutto di un’opera meschina

In silenzio il popolo recita la messa

Parole vane in nome della salvezza

Stiamo morendo e non ci accorgiamo di non avere più sete.

Una serata (molto) anti Trump, tutti gli applausi per la compagine all black di Moonlight

Altro che the winner is! uno scambio di busta, gli incartapecoriti quanto stralunati Warren Beatty e Faye Dunaway, alla faccia dei bei tempi di Gangster Story, che si guardano per una manciata di secondi ed eccoli lì a decretare La La Land come best picture mentre al contrario i gusti del meccanismo cinematografico continuamente prosperante nello stato americano che comincia a sognare una Calexit hanno già deciso che il miglior film dell’anno è Moonlight di Barry Jenkins. Nemmeno il pensiero di mettere la testa al di là delle quinte, chiedere uno straccio di spiegazione, ritrovarsi tra le mani un’altra volta il nome di Emma Stone già premiata prima come migliore attrice protagonista proprio per la sua ragazza piena di sogni di La La Land e riabbinarlo al film.

Un pastrocchio, subito inondato di scuse da parte della PricewaterhouseCoopers che controlla le votazioni e ha il compito di consegnare le buste fatidiche, che a qualcuno potrebbe anche far sorgere il dubbio di uno sgarbo dell’ultima ora a Mr. President, che certo, se mai avesse seguito la cerimonia, non avrebbe visto di buon occhio tutti quegli uomini e donne di cinema all black a festeggiare e a baciarsi e ad abbracciarsi sul palcoscenico tutto lustrini del Dolby Theatre. Incidente che fisserà la 89ma edizione degli Oscar negli annali della storia del cinema. Nulla di disastroso, per carità, ma sono cose che nell’universo sfavillante delle statuette più ambite segnano uno scossone, un inciampo, un mancamento. Un incidente che ha l’abito del lapsus bell’e buono, scappato di bocca, con una vecchia Hollywood che reclama la nostalgia e i buoni sentimenti e quella nuova e decisamente più concreta – visceralmente concreta – che srotola quartieri malfamati, spacciatori, madri drogate, ragazzini che sono vittime di bullismo e avviati a scoprire poco a poco la propria omosessualità, pronti in mezzo alle loro debolezze a rifugiarsi in quel pantano pur di sopravvivere. Proprio quel mondo che per Mr. Donald Trump è fumo negli occhi, è il moscone che ti ronza intorno e non vedi l’ora di schiacciare contro il muro.

Non ci spaventa il diverso genere ma chi scrive continua a tifare, a giochi ormai fatti, per la storia tutta musiche e sospiri di Damien Chazelle – sei riconoscimenti, oltre la Stone, la miglior regia, la colonna sonora a Justin Hurwitz, quel fiore di canzone che è City of Stars che senti (o ti viene in mente di) canticchiare anche quando sei in coda al supermercato o alla posta, fotografia e scenografia -, per la leggerezza che si porta dentro, per i rimandi al cinema di Fred Astaire e Ginger Rogers e altri, Jacques Demy dei Parapluies de Cherbourg in testa, per la fluidità del racconto, per quell’impronta di sogno americano perennemente inseguito e raggiunto, per le soluzioni e l’amalgama perfetto che Chazelle ha impresso alla storia, per i numeri di ballo mozzafiato. Non ci spaventa il diverso genere ma quel premio a Mahershala Ali, il padre putativo di Moonlight, di colore e musulmano, ci pare voler mettere carne sullo stesso fuoco a tutti costi (magari andava premiata la eccellente prova di Naomi Harris, anche lei attrice di colore, la madre inguaiata fino al collo, che però andava a scontrarsi con la Viola Davis di Barriere, che infatti ha agguantato la statuetta) un’interpretazione non più che corretta, quando in campo c’era ad esempio una giovane promessa come Lucas Hedges con il suo ragazzo infelice e ribelle di Manchester by the sea. Film che al contrario, s’è portato a casa anche la miglior sceneggiatura originale, ha visto giustamente coronare la maiuscola interpretazione di Casey Affleck, mai così perfetto, umanamente contratto nei sentimenti, nelle ribellioni, nei silenzi della solitudine.

Il 2017 segnerà una frattura nel mondo degli Oscar, una spallata consistente in accordo con i tempi e in disaccordo con chi regge il timone, compatta e lontana da quegli esempi buttati qua e là, lungo gli anni, da Hattie McDaniel in poi. In questa edizione che ha preso le distanze da quella passata e che vede un’Academy certo non più accusabile con una campagna OscarSoWhite, la compagine all black avanza compatta a prendersi gli applausi mentre Mel Gibson guarda un orizzonte parecchio lontano, tuttavia forte del suo antimilitarismo e dei premi ai migliori montaggio e sonoro. Dal cuore asiatico resta a guardare l’iraniano Asghar Farhadi mentre altri si vedono consegnare la statuetta per il miglior film straniero per il suo Il cliente, Fuocoammare del nostro Rosi, dopo tanto sperare, dopo tante campagne di affettività sponsorizzate dalla “sopravvalutata” Meryl Streep cui il pubblico del Dolby ha decretato una standing ovation senza pari, è rimasto a bocca asciutta, semmai se la sono meglio cavata Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini con Christopher Nelson truccatori che felicissimi hanno stretto in mano il loro Oscar per Suicide Squad. E il nostro apporto all’estero è salvo.

 

Elio Rabbione