CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 743

LA SFERA DI   CRISTALLO

Al Gobetti una commedia tragico-esoterica di Giancarlo Guerreri
gobetti alterio

 

E’ una commedia che induce lo spettatore a riflettere sul concetto di Tempo, applicando alla vicenda narrata tutti i possibili paradossi e i nuovi aspetti scientifici legati a tale nozione. Sogni lucidi legati ad esperienze di vite passate, paradossi spazio-temporali e vicende umane di natura grottesca, condite con una buona dose di umorismo, sono l’essenza del Lavoro di Giancarlo Guerreri, messo in scena dalla regista Anna Cuculo e dal suo gruppo teatrale, l’”Anna Cuculo Group”.Un primo Lavoro dell’Autore torinese che esordisce al Teatro Gobetti di Torino Venerdì 26 Febbraio 2016.

Una donna, una Strega, ha il potere di agire sul tempo, comportandosi da “deus ex machina”, di tutta la vicenda. La Strega modifica la cronologia degli eventi creando evidenti disagi ai personaggi. Un grande orologio domina la zona occupata dalla Strega. Le dimensioni del Tempo e del sogno si intrecciano per creare una trama dinamica e articolata.A casa di Ermengarda, Maria, sua carissima amica, racconta di un sogno che riguarda Arturo, un loro comune conoscente.

Compare Arturo che a sua volta racconta un sogno molto realistico che sembra essere il ricordo di una vita passata, vissuta da entrambi nel ‘600.Il giorno seguente Maria torna a casa di Ermengarda e le racconta una nuova esperienza onirica che sembra essere in relazione con quella di Arturo: Ermengarda sembra molto infastidita da queste rivelazioni.

Il giorno seguente è proprio Ermengarda a fare un sogno particolare, si tratta di una rivelazione simbolica durante la quale viene divorata da una leonessa e partorita dalla stessa creatura.

Maria invita Anacleto, un suo amico che lavora nel settore funebre, esperto di sogni, affinché possa proporre un’interpretazione all’esperienza di Ermengarda.In seguito Ermengarda riceve una lettera da parte di Giulio, un giovane conosciuto in Egitto dodici anni prima, con il quale ebbe una relazione. La lettera di Giulio riporta una data di spedizione che indica che è stata spedita dodici anni prima.Ermengarda decide di realizzare una sorta di gioco rispondendo come se la loro relazione non si fosse mai interrotta e come se non esistesse quell’evidente squilibrio temporale. Giulio risponde dopo breve ma le date sulle lettere non sono compatibili con la realtà. Dopo varie vicissitudini epistolari Ermengarda, che non comprende bene se si tratti di un scherzo o di uno gioco del destino, scrive una lettera in cui dice di voler chiudere la storia con Giulio.

Giulio risponde con una mail disperata dicendole che non si rassegna e che verrà a cercarla.

Ermengarda sembra riconsiderare la cosa e si apre verso l’amore.La strega appare sconfitta, non riesce più ad agire sul tempo e cade a terra esanime. Suonano alla porta, Ermengarda si alza lentamente per vedere chi ha suonato, la strega sembra rianimarsi, tocca le lancette ma un attimo dopo muore. Ermengarda apre la porta…

 

PERSONAGGI

           

Strega: La signora del tempo che modifica gli eventi a suo piacimento         Anna Cuculo

                                     

Ermengarda: La protagonista che vive una trasformazione iniziatica         Rossana Bena

 

Maria: Amica di Ermengarda                                                           Claudia Vianino

 

Arturo: Amico di Ermengarda, ex amante di Maria                              Albino Marino

 

Anacleto: Il saggio che porta la Conoscenza                                        Roberto Briatta

 

Giulio: Interlocutore virtuale ex amante di Ermengarda (voce fuori campo)         Albino Marino

Giovanni Polli e i primi esperimenti di cremazione

CREMAZIONE36“Tutto ha origine e tutto ritorna nel fuoco”

 

Villa “Solitudine”, immersa in un vasto parco, si trova nel tratto di litoranea che passa da Oggebbio, località  sulla sponda piemontese dell’alto lago Maggiore, a quindici chilometri dal confine con la Svizzera. E’ lì che viveva il personaggio più famoso del comune rivierasco, il  professor Giovanni Polli che nel 1876 effettuò la prima cremazione umana in Europa al cimitero monumentale di Milano. Nato ad Oggebbio il 1° ottobre 1812, Polli si laureò in medicina e chirurgia a Pavia. Fu professore di chimica all’Istituto Tecnico Superiore di Milano e membro anziano del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. Nella sua carriera di medico e ricercatore effettuò studi approfonditi sul sangue e fu il propugnatore della purificazione dei cadaveri col fuoco tanto che,  nella  sua “Villa Solitudine”, realizzò i primi esperimenti  crematori. L’illustre studioso , nel corso dell’Ottocento ( morì nel 1880) , CREMAZIONE3fu un vero pioniere della scienza medica che si distinse anche per le sue sperimentazioni con la cannabis, risultando  in assoluto uno dei primi a studiarne gli effetti e le potenzialità. Ma è stato il suo ruolo nella lotta a favore della cremazione dei cadaveri, conclusasi con l’incinerazione della salma di Alberto Keller effettuata a Milano il 22 gennaio 1876, di fatto la prima cremazione ufficiale in Italia, a consegnarlo alla storia. Quando il 23 gennaio del 1874 morì il cavalier Alberto Keller, ricco industriale di Milano, noto per le sue opere filantropiche, si apprese che nel testamento aveva disposto che la sua salma venisse data alle fiamme. A tal fine nominava esecutore testamentario proprio il  professore piemontese ,destinando  una somma notevole per gli studi sperimentali sulla cremazione. Pur non esistendo in Italia una legge che ammettesse la cremazione, il Polli, che aveva già fatto numerosi esperimenti , d’intesa  con l’ingegner Clericetti, fece costruire un tempio crematorio, (opera dell’architetto Carlo Maciachini) reso possibile dalla generosità finanziaria della famiglia Keller e dalla cessione gratuita del terreno nel Cimitero monumentale da parte del Comune di Milano. Fu quello il primo tempio crematorio costruito in Italia e nel mondo, funzionante a gas illuminante. Venne inaugurato il 22 gennaio 1876 (“ un gelido giorno di fango e neve”, secondo le cronache del tempo)  per cremare la salma imbalsamata di Keller, deceduto due anni prima. Le modalità furono in seguito descritte con precisione: dall’iniezione nel corpo (arti superiori ed inferiori, cavità toracica e cavità addominale) del liquido antisettico composto da fenolo, alcool e canfora fino alla bendatura finale con fasce inumidite. La salma , adagiata all’interno della cassa mortuaria, collocata sopra una griglia di ferro e coperta da un funereo velo, venne  sospinta nell’urna  dove 280 fiammelle a gas determinarono rapidamente la combustione. Si poté leggere nella relazione come  i primi secondi garantirono l’evaporazione dell’acqua contenuta nei tessuti del corpo e successivamente la combustione del carbone formatosi lasciando del signor Keller circa tre chilogrammi di cenere, polvere e minuscoli frammenti ossei. In quello stesso anno nacque la Società milanese di cremazione. Successivamente sorsero le prime Società di cremazione (SO.CREM.) un po’ ovunque che, nel tempo, tra mille difficoltà, ostacoli e anche divieti hanno consentito lo sviluppo della cremazione in Italia. Ad essere precisi, la prima cremazione in Italia risaliva al 1822 allorché venne cremata la salma del poeta inglese Percy Bysshe Shelley, annegato nel golfo di La Spezia. Il suo corpo fu bruciato nella spiaggia di Viareggio sopra una pira sparsa di balsami per volontà dell’amicoCREMAZIONE1 e poeta Lord Byron. Ma si trattava più di una sorta di rito che di una vero e proprio esperimento crematorio.  Alla morte di Giovanni Polli, Il Corriere del Verbano, nella sua edizione di mercoledì 23 giugno 1880,  scriveva : “ Oggebbio ha perduto, lunedì 14 corrente alle 3 pomeridiane, il suo più distinto cittadino, il chiarissimo professore commendatore Giovanni Polli…Nato il 1 ottobre 1812 da Giuseppe Polli e da Angiola De Filippi nativa di Cannobio, fin dai primi anni dimostrò grande amore agli studi ed ingegno svegliatissimo. Ancor giovane ottenne nell`Università di Pavia la Laurea in medicina e chirurgia; subito in Milano ebbe una clientela estesissima e fra le migliori famiglie patrizie, perché alla scienza univa modi affabilissimi, inspirava agli ammalati grande fiducia.…Fece studi profondi sul sangue, e ne pubblicò opere importantissime. Introdusse pel primo l`uso dei solfiti nelle malattie da fermento morbifico e con grande vantaggio. Fu promotore della Cremazione dei cadaveri. Nella sua carriera medica ebbe dal Governo e dal municipio di Milano continui ed importanti incombenti. Godeva fama di medico valentissimo in Italia e fuori. Fu fregiato di più ordini cavallereschi nostrali ed esteri”. Il rimpianto per la scomparsa emergeva potente dal testo: “…Già da molti anni in Milano ogni giovedì l`aveva destinato alle visite gratuite dei poveri, e chi scrive ebbe molte volte a vedere la via Amedei piena di ammalati, che correvano da lui per farsi visitare.  Come potrà dunque Oggebbio dimenticare il suo Polli? Ah! no, o caro Giovanni, la tua memoria sarà indelebile in quei cuori riconoscenti”. E le stesse esequie, solennemente celebrate nella cattedrale di Milano, videro “ la società di Cremazione inaugurare mestamente il suo stendardo accompagnando all`ultima dimora la salma del compianto prof. Polli.  Lo stendardo è semplicissimo , nero, ricamato in bianco e sormontato da urna cineraria d`argento, di bella fattura, che tien posto della lancia”. Ovviamente anche la salma del Polli venne cremata, così che “dell`uomo illustre non rimanevano che poche bianchissime ceneri”. Per l’esattezza la sua cremazione era la 68° eseguita in Milano dal gennaio 1876 “… tempo in cui Giovanni Polli purificava per la prima volta colle fiamme del suo crematoio la salma di Alberto Keller”.

 

Marco Travaglini

 

"LOVEfEVER sex@love", sesso e amore diventano arte

sesso mostrasesso mostra 3sesso mostra2La chiave di lettura è l’ironia; a partire dall’immagine della locandina in cui campeggia un divertente Pippo che pare insidiare la virtù di Clarabella nella Pippo dance. In mostra a Internocortile

 

Sesso e amore diventano arte nella mostra collettiva “LOVEfEVER sex@love”, allestita a Internocortile a Torino, dal 9 febbraio all’11 marzo. Nello spazio creativo ideato da Silvia Tardy (aperto alle nuove tendenze artistiche e di design) l’amore è di gruppo, con 6 giovani e affermati artisti che affidano a sculture, fotografie, pittura e installazioni, il loro racconto di momenti reali o fantastici legati alla sessualità e al sentimento che la infiamma. La chiave di lettura è comunque l’ironia; a partire dall’immagine della locandina in cui campeggia un divertente Pippo che pare insidiare la virtù di Clarabella nella Pippo dance.

 

Alfredo Cabrini, (ideatore del progetto milanese “Terrariumart”) ha creato per”LOVEfEVER sex@love” una decina di vasi di vetro, in cui, tra muschio e felci, ambienta tante scene in miniatura che parlano di vita amorosa ed ironici incontri sessuali. In “Social sexual” una coppia nuda fa sesso en plein air, su un letto nel bel mezzo di un parco, con una variegata schiera di spettatori ad ammirare tanta passionalità. Poi “Cupido lottery”, in cui la magica freccia potrebbe colpire anche una vecchietta in trepida attesa. E non manca il più che mai attuale amore gay in “AILOVEIU”: terrario in cui la classica dichiarazione  in ginocchio, con tanto di fiori in mano, la fa un uomo, ma ad un altro uomo. E se il sesso in miniatura decidete di portarvelo a casa, la buona notizia è che la manutenzione sarà ben più facile di quella del reale rapporto di coppia. Istruzioni per l’uso: ogni tanto arieggiate togliendo il coperchio e una sola volta al mese spruzzate pochissima acqua piovana o demineralizzata. Poi divertitevi anche ad immaginare come potrebbe commentare l’evoluzione hard del suo Terrarium (piccole felci e muschio che vivono e crescono in una bottiglia di vetro chiusa) il fisico inglese Ward che lo inventò nell’800. 

 

Bixio Braghieri, milanese, ha al suo attivo numerose personali e collettive, sia in Italia che all’estero (fra cui la mostra indiana itinerante “Dadaumpop”, da New Delhi a Mumbay e Calcutta).

E’ decisamente esplicito e provocatorio nel raccontare le molteplici sfumature della sessualità.

Su una parete nera di Internocortile saltano subito all’occhio i suoi “Hot water color”. Acquerelli molto piccoli (9X12) e più grandi (50X50) con tutte le declinazioni possibili (e oltre) di sesso orale, contorsionismo e varianti assortite di ginniche posizioni erotiche. I colori sono tenui, le tonalità per lo più calde; ma mai quanto i contenuti…decisamente bollenti. Se per caso alla mostra ci andate con  piccola prole al seguito -e non siete ancora pronti a rispondere a ingenue curiosità- incominciate pure ad ingegnarvi per indirizzare la loro attenzione altrove.

 

Francesco De Molfetta, giovane con curriculum di tutto rispetto, affida a tecnica mista e massicce dosi d’ironia la sua idea di sesso e amore. Spiazza ogni luogo comune e affila l’ingegno per sottolineare la precarietà dell’impeto amoroso, a volte anche in modo estremo. Come nell’installazione “Lam’ore” in cui due teste infilzate su un’enorme forbice cercano di baciarsi, ma pericolosamente in bilico su lame taglienti. O in “Jack lo squartatore”, opera in cui la carta del fante di cuori -il principe per eccellenza- domina dall’alto un parterre di carte al femminile -regina di cuori compresa- strappate, fatte a pezzi e insanguinate. La critica è più sottesa, ma ugualmente spietata in “BI-CI VEDIAMO” dove incornicia un paio di occhiali con un uomo e una donna in bicicletta che pedalano per incontrarsi; non ci riusciranno mai dal momento che sono come imprigionati ognuno dentro una lente… beffardamente …rosa. E non meno interessante è “Il pazzo” che sbuca dalla cerniera di un jeans.

 

Decisamente più soft Giorgio Maggiorelli che da bambino dipingeva ascoltando musica con i genitori, immerso in personalissimo caleidoscopio di sogni. E si vede. Da come attinge soprattutto dal mondo dell’infanzia e, negli oli su tela, mescola atmosfere, luoghi e colori che parlano di intimità domestica e senso di protezione degli affetti. Ma non c’è solo il rassicurante azzurro carta da zucchero nelle sue opere. Anche lui individua ed esprime l’inevitabile contrasto tra ideale e realtà, e racconta quei lati oscuri dell’amore, fatti di ambiguità e pericolo. Un esempio? Il Mickey Mouse per metà sorridente e con un pacco dono in mano; nell’altra metà, invece, agghiacciante ghigno da serial killer e un coltello stretto nel pugno.

 

Anna Turina mette a fuoco la doppia valenza del concetto di “casa”: luogo per eccellenza della relazione con se stessi e con gli altri, denso di certezze, ma anche impregnato di limiti e compromessi. Le sue sculture in ferro e vernice nera raccontano come nella domus ci si può non solo adagiare; ma anche restare sospesi tra dentro e fuori, in bilico tra condivisione e voglia di privacy. Le sue “case abitate” lo sono solo a metà e le gambe che escono penzolanti sembrano quasi anticipare un possibile scatto di fuga. In mostra però porta anche altre 2 serie di casette, molto più serene e accomodanti. Sono quelle corporee, piccole e meno cupe, da cui spuntano faccine di bimbi che sorridono nel sonno; o quelle accoglienti che porgono antichi vasi di farmacia con sostanze curative per l’amore.

 

Si intitola “Breadcrum” il progetto della fotografa e videoartist Chiara Paderi , che presenta una serie di stampe fotografiche su ceramica di piatti d’epoca. Le sue creazioni sono metafora delle tante fasi della complessa ed articolata vita amorosa. Così, varie sono le portate di cui a fine pasto, nelle stoviglie rimangono i resti di ciò che ha nutrito il sentimento. Dal sonno sognante che rappresenta la fase dell’innamoramento, al movimento di gambe che esprime il corteggiamento, alle briciole come  tracce di  vita amorosa, per finire ad un frammento di cuore di  cioccolato, simbolo del dono d’amore che, una volta assaggiato dal partner, giace rotto e tristemente spezzato sul fondo del piatto.

Laura Goria

 

How to: “LOVEfEVER sex@love”, mostra collettiva a Internocortile

Via Villa Glori 6 (zona P.zza Zara)

Torino

 

Dal 9 febbraio all’11 marzo 2016-02-07

Inaugurazione: martedì 9 febbraio, dalle ore 18

Orari mostra: da martedì a sabato 11-13 e 15,30-19.

In altri orari: su appuntamento.

Informazioni: www.internocortile.it

"Il caso Spotlight": assolutamente da vedere, l’avvincente ricostruzione di un’inchiesta

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a cura di Elio Rabbione
 
 

Nel luglio del 2001 Marty Baron passò dal Miami Herald al Boston Globe (oggi è alla direzione del Washington Post, il quotidiano del Watergate, il grande salone e le poche luci accese sino a tardi, le ricerche e l’inchiesta di Tutti gli uomini del Presidente) e vi trovò il team di Spotlight, un gruppo di giornalisti d’assalto, in un periodo di stanca. Andò a rispolverare un articolo che a metà degli anni Novanta era stato relegato alle pagine cittadine, ritenuto di poca importanza (e che già avrebbe potuto segnare un punto di partenza se qualcuno gli avesse prestato un’attenzione maggiore, riconoscerà anni dopo il capo equipe), quello su di alcuni sacerdoti accusati di abusi su minori, mai approfondito a sufficienza, mai scavato per venire a conoscenza se tra i vari casi successi ci fosse un legame, per comprendere se la Chiesa fosse a conoscenza e se se ne fosse occupata. Esiste un altro caso di pedofilia, quello che coinvolge padre John Geoghan, su cui l’arcivescovo Bernard Francis Law, a capo dell’intera comunità cattolica bostoniana, pur al corrente, ha sempre fatto di tutto perché non si indagasse, forte della tanta documentazione secretata. La squadra si mette a indagare, scopre vittime e documenti, soprattutto l’omertà di un’intera comunità che è ben lontana dalla volontà di far piena luce sull’accaduto. Grazie all’apporto dell’avvocato chiamato a salvaguardare i diritti delle parti lese, si comprende come i casi si moltiplichino, una decina in un primo tempo, poi dilaghino smoderatamente, coinvolgendo un’ottantina di sacerdoti.

Abusi sistematicamente praticati con le gerarchie ecclesiastiche pronte a mettere ogni cosa a tacere. Il lavoro risultò frenetico, le prove finalmente si susseguivano alle prove, anche se gli attentati alle Torri Gemelle arrestarono per alcune settimane indagini e risultati, alla fine, nel gennaio dell’anno successivo, il primo articolo venne dato alla stampa. In seguito nacquero più di seicento articoli per raccontare e per condannare, per raccogliere quelle prove per cui l’arcidiocesi di Boston pagò circa 85 milioni di dollari come risarcimento nei confronti di molte delle vittime di abusi e fu indotta a pubblicare una lista con i nomi di 159 preti accusati di pedofilia.

Il caso Spotlight, diretto da Thomas McCarthy, è uno dei film più significativi di questa stagione, raccontato senza retorica, con un ottimo ritmo incalzante, appassionante, che non sarebbe così coinvolgente se anche non potesse contare su un gruppo d’attori in vero stato di grazia forse sopra tutti Lev Schreiber, perfetto Baron a tenere i fili a volte esilissimi dell’intera operazione: ma tutti quanti sono davvero eccezionali -, candidato a sei premi Oscar (tra cui miglior film e miglior regia, ma pure miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio auspicabilissimo -, migliori attori non protagonisti, Mark Ruffalo e Rachel McAdams), fedele all’inchiesta che portò il team ed il giornale alla vittoria del Pulitzer nel 2003, ricostruita passo passo con le ricerche affannose, con la lettura dei tanti dossier o la riscoperta dei vecchi articoli troppo in fretta dimenticati, con le sconfitte e quei successi in cui nessuno aveva più il coraggio di sperare, con il sostegno dovuto alle vittime e lo sconcertante incontro con alcuni individui, incapaci di dare un peso giusto e umano alle proprie colpe, con le chiacchiere dolciastre con quanti avevano tutto l’interesse a far sì che ogni cosa continuasse a rimanere sepolta.

A Sarajevo il 28 giugno

 Iniziò di fatto il Novecento, il secolo breve e del sangue. Se si guardano da vicino, quelle ore traversate da un invisibile con­fine,  appaiono come un groviglio di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri determinati dal caso

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Una domenica di giugno, a Sarajevo, avvenne il fatto che divise in due la storia del ventesimo secolo: l’at­tentato in cui furono uccisi l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este e sua moglie, Sofia Chotek von Chotkowa. Dopo quel giorno, il 28 giugno, nulla fu come prima e, scardinata in un battibaleno la  belle époque – dilapidandone il patrimonio culturale ed artistico che aveva fatto grande l’Europa – iniziò di fatto il Novecento, il secolo breve e del sangue. Se si guardano da vicino, quelle ore traversate da un invisibile con­fine,  appaiono come un groviglio di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri determinati dal caso. Gilberto Forti, giornalista e traduttore dall’inglese, tedesco e svedese oltre che dei grandi autori della tradizione mitteleuropea, nel suo stupendo “A Sarajevo il 28 giugno” ha guardato dentro quella giornata, estraendone undici «storie in versi», poesie narrative in endecasillabi di straordinaria sobrietà. A parlare sono, di volta in volta, personaggi immaginari che raccontano la real­tà di quella giornata-spartiacque. Leggendole vengono incontro sarajevo fortivoci e figure diverse, dal­l’Im­pe­ratore Francesco Giuseppe, che “si dà pensiero per i funerali / come se tutto il resto non contasse”, all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte a Gavrilo Princìp, l’attentatore, da una vecchia duchessa a un ingegnere ungherese. E gesti, episodi, parole si dispongono come d’incanto tutt’attorno ad un fatto centrale: l’uniforme troppo stretta di Francesco Ferdinando che ancora oggi si può vedere, con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Una catena infinita dei casi, di  volontà inconsce, di consapevoli disegni portano a quei colpi di pistola quasi fossero una calamita,  cambiando il corso della storia, all’incrocio del ponte Latino di Sarajevo. L’unica figura che nel libro non parla è la vittima principale, Franz Ferdinand, ma non occorre che lo faccia: sono gli altri  che parlano di lui. E, dal sovrapporsi delle voci, Gilberto Forti riuscì a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia ( il libro uscì nella Piccola Biblioteca Adelphi nel 1984 ): l’arciduca cacciatore seriale (più di trecentomila animali furono uccisi da lui ), appassionato di fio­ri (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri, costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico ( Sofia era di rango sociale inferiore e questo impediva il passaggio alla moglie dei titoli e dei privilegi del marito), uomo con difetti e pregi. sarajevo eccidioL’arciduca finì dissanguato sotto i colpi del giovane Gavrilo anche perché nessuno seppe aprirgli subito l’uni­forme, che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’in­ci­piente obesità. Un eccesso di vanità e di “etichetta” che gli fu fatale. Ripercorrendo e scandagliando  gli eventi della giornata che fece da detonatore alla Prima guerra mondiale, Gilberto Forti utilizza la figura dell’arciduca erede al trono come metafora della complessità e delle fragilità dell’Impero alla vigilia del conflitto che lo portò alla dissoluzione. Chi l’ha definita, acutamente, una sorta di Spoon River in terra balcanica ha colpito nel segno.  Nelle parole che Forti fa pronunciare al  sergente Koppenstatter, si trova una delle metafore più intense  del libro: “Francesco Ferdinando se ne va, e con lui se ne va la disciplina, la stessa disciplina che l’ha ucciso, la disciplina delle cuciture che tenevano assieme il vecchio impero”.

Marco Travaglini

Addio a Umberto Eco, il grande scrittore "mandrogno"

eco umberto2Eco nacque ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, senza mai dimenticare le sue origini e abbandonare i suoi tratti caratteriali “mandrogni”
 

Umberto Eco, celebre scrittore, filosofo e semiologo è morto a 84 anni, ieri sera, nella sua abitazione. La famiglia ne ha dato notizia al quotidiano “la Repubblica”, con il cui gruppo editoriale ha collaborato per decenni (sull’Espresso con la rubrica ‘storica’ “La bustina di Minerva”). Eco nacque ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, senza mai dimenticare le sue origini e abbandonare i suoi tratti caratteriali e l’accento “mandrogni”. Nella città piemontese, dove lo scrittore frequentò il Liceo Classico “Plana”, il suo ricordo è ancora vivo. “Baudolino”, una delle sue opere è intitolata al santo patrono della città. A Torino  studiò al Collegio universitario Renato Einaudi. Immortale tra i suoi libri ‘Il nome della rosa’ scritto nel 1980 (da cui venne tratto l’omonimo film che divenne successo mondiale) e ‘Il pendolo di Foucault’, nel 1988). Il suo ultimo lavoro, ‘Numero zero’, è stato pubblicato lo scorso anno. Eco ha scritto, inoltre, saggi di semiotica, estetica medievale, e filosofia.

Chiacchiere sull'amore con Valeria Parrella

L’appuntamento per l’intervista è nella hall dell’albergo ed è subito coup de foudre. Usciamo a fumare, poi mi offre un tè davanti al camino e via con una lunga chiacchierata sull’amore. Il suo modo di essere è abbagliante: sorride e ride spesso, emana simpatia e semplicità, intanto i suoi occhi, bellissimi e intensi, mandano lampi di intelligenza e profondità di pensiero

parrella

E’ grazie al Circolo dei Lettori di Torino che la scrittrice napoletana Valeria Parrella è planata nel capoluogo subalpino, per salire sul palco del festival organizzato (dal circolo) per San Valentino.

L’appuntamento per l’intervista è nella hall dell’albergo ed è subito coup de foudre. Usciamo a fumare, poi mi offre un tè davanti al camino e via con una lunga chiacchierata sull’amore. Il suo modo di essere è abbagliante: sorride e ride spesso, emana simpatia e semplicità, intanto i suoi occhi, bellissimi e intensi, mandano lampi di intelligenza e profondità di pensiero.

Per lei «L’amore muove il sole e le altre stelle. E’ un dilatatore dell’Io: perché quando ci innamoriamo, finalmente non siamo più chiusi in noi stessi, l’Io perde i suoi confini e ci si unisce con qualcosa di più grande». E sa bene di cosa sta parlando questa scrittrice di 42 anni, 2 matrimoni (quello attuale con il regista teatrale Davide Iodice) e un figlio. Dall’esordio nel 2003, l’amore (e le sue molteplici forme) l’ha raccontato in libri di successo e testi teatrali; e il suo romanzo “Lo spazio bianco” ha ispirato il film diretto da Francesca Comencini, protagonista Margherita Buy.

Parafrasando un tuo libro, quanta importanza si dà oggi all’amore?

«Ultimamente, specie in Europa si fa un gioco sporco: si tende a sminuirlo, mentre a livello personale è una cosa che ci onora e la si racconta in giro. L’amore inteso in un orizzonte più ampio. Per esempio, mia sorella che lavora per “Medici senza frontiere” non ha un uomo fisso, ma sicuramente è innamorata dell’umanità».

Oggi è più difficile amare?

«Non lo è mai e non è una questione di tempi, ma di come si è predisposti. Se si nasce aperti e curiosi si è pronti ad amare in qualunque momento».

La protagonista di “Lo spazio bianco” dice di essere troppo vecchia per le pene d’amore. C’è un timer?

«Con gli anni si diventa sempre meno dipendenti dall’amore. Più delusioni hai avuto e più sai che ce la farai, certo soffri, ma sai anche che puoi sopravvivere. Poi il primo amore è quello per se stessi e se si ha un’esistenza soddisfacente si para qualunque colpo».

Istruzioni per l’uso di questo sentimento?

«E’ una fregatura e il manuale non te lo danno, inoltre è specie/specifico e persona /specifico. Un po’ ci si roda con l’esperienza, ma dipende anche dall’altro. Il vero problema dell’amore e soprattutto di una relazione di coppia è che tu puoi arrivare solo fino ad un certo punto nel controllo e nella conoscenza; poi comincia il partner e la verità è che di lui non saprai mai nulla veramente».

L’amore si può anche imparare?

«Si va per prove ed errori, è sempre un esperimento cartesiano: al 5° sbaglio diventi un po’ più bravo. Ma il sentimento è così avvolgente che quando lo provi ti dimentichi tutto quello che hai imparato. In tal senso è auto rigenerante e in maniera sempre diversa».

Matrimonio o convivenza?

«Ho percorso entrambe le strade, comunque sono per il matrimonio: perché va benissimo sperimentare la convivenza, ma quando ti sposi sul tavolo da gioco metti una fiche più alta».

Oggi – tra famiglie allargate, coppie gay e discussione sulla stepchild adoption- la famiglia qual è?

«Io sono d’accordo con tutte le forme possibili e immaginabili di legame, anche gay e con figli, sono favorevole pure all’utero in affitto. I figli non sono mai cresciuti solo dai genitori: ci sono nonni, zii, tate, insegnanti e tante altre figure. E’ una bugia che ci sia solo la coppia uomo-donna. Poi puoi avere una famiglia tradizionale e a 16 anni andare già dallo psicologo; mentre magari hai 2 meravigliose zie, che sono come una coppia gay, che ti faranno crescere in maniera meravigliosa».

Hai detto che proibire i matrimoni gay è da Medioevo, perché?

«Perché è così bella l’idea di amarsi e proiettare questo amore su un piccolo essere da crescere. Poi vogliamo parlare della famiglia tradizionale? Non è mica perfetta: spesso ci sono genitori che litigano o si picchiano e che dire di genitori distanti, ognuno con i suoi amanti, mentre i figli crescono con la bambinaia?»

L’amore può essere per sempre?

«Sarei portata a dirti di no, ma ho l’esempio dei miei suoceri. 82 anni lei, 88 lui e sono ancora innamorati, teneramente gelosi l’uno dell’altra. Si sono sposati per amore, giovanissimi, lei rapita dalla bellezza di lui e viceversa. E sono ancora bellissimi. Forse non hanno neanche avuto il tempo di farsi venire dei dubbi».

In “Ma quale amore” citi l’inerzia che si impara dalle nonne per non sfasciare i matrimoni “…3 cose sono importanti: che la donna abbia la tavola apparecchiata, le veste pronta e la parola mancante”. Funzionerebbe ancora?

«E’ una formula maschilista che nessuno reggerebbe più, l’anticamera delle aggressioni e del femminicidio. Con l’emancipazione femminile si è guadagnato moltissimo ed è indiscutibile che sia meglio litigare e lasciarsi piuttosto che fare buon viso a cattivo gioco sperando di tenersi il marito».

Ma c’è un segreto per far durare più a lungo un legame?

«Una buona formula sarebbe notificare i cambiamenti in atto: in un matrimonio o lunga convivenza si cambia e se non lo manifesti vai in crisi, meglio discuterne».

In “Troppa importanza all’amore” hai scritto: “Un marito è una scelta fideistica e i guai cominciano se ti accorgi che Dio non esiste”. Usi l’ironia, ma il vero problema qual è?

«Nelle relazioni lunghe si deve sempre inventare qualcosa, ci deve essere una molla stimolante. Io   devo sentirmi un po’ preda e cacciatore: scappo io, scappi tu e poi ci si ritrova a casa. Ma conosco coppie che invece funzionano proprio perché entrambi sanno tutto l’uno dell’altro e si fidano al 100%».

La fedeltà esiste ancora o come ha detto una tua amica “…i fidanzati non si cambiano, piuttosto si aggiungono”?

«Le donne possono anche avere interiorizzato un concetto che era appannaggio solo maschile. La fedeltà è bellissima se è naturale, non se diventa imposizione. Paura e sensi di colpa sono campanelli d’allarme: se di fronte a un tentativo di seduzione provi disagio e senso di colpa, allora non sei pronta a quella liaison extraconiugale».

In un’intervista hai detto di essere stata molto libertina e che ti è piaciuto conoscere tanto della sessualità e dell’amore. Sesso ed amore si possono scindere?

«Si può fare magnifico sesso senza essere innamorati; ma non ci si può innamorare senza aver prima fatto sesso e aver capito come il partner vive la sessualità».

Consigli per quando un amore sta finendo?

«Quasi mai è bilaterale: finisce perché uno dei due si stufa. Se sei quello che vuole lasciare, devi accorciare le distanze. La formula me la suggerì ai tempi dell’università un’amica che studiava psicologia, l’ho utilizzata solo una volta ma è stata utilissima. “Se non l’ami più, vai e diglielo perché è l’unico modo di lasciarlo libero; magari così ti sembra di ucciderlo, invece è solo così che può ripartire”».

E per chi viene lasciato?

«Soffri moltissimo, però ricominci e il taglio netto è l’ideale in entrambi i casi».

Sei ospite del Circolo   dei lettori, i tuoi libri preferiti sull’argomento?

«Di Gustave Flaubert ”Madame Bovary”, Dino Buzzati “Un amore” e di Alice Munro la raccolta di storie “Amica della mia giovinezza”

 

Laura Goria

"La morte di Danton" al Carignano, i fiumi di sangue di ogni rivoluzione

Nel testo di Georg Büchner opera di un autore ventunenne, invischiato in una rivolta in Assia e fuggitivo -, scritto in poco più di cinque settimane, tra il gennaio e il febbraio del 1835, si descrive con estrema lucidità, in un variopinto affresco corale, come un moto rivoluzionario sfoci prima o poi in una arrogante quanto feroce e sanguinaria dittatura, quanto divergano le concezioni ormai agli antipodi di due uomini un tempo amici, Danton e Robespierre

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C’è, alle spalle della fatica odierna di Mario Martone, una strada recente, percorsa a cavallo tra cinema e teatro, che lo ha spinto a gettare uno sguardo approfondito, a comporre una precisa visione della Storia, ad analizzare i meccanismi di costruzione e di distruzione che coinvolgono gli uomini di questo o quel secolo: una strada che ha le sue tappe precise nelle Operette morali, in Noi credevamo, nel Giovane favoloso. Tappe che, dal canto loro, non sono momenti incrostati a quel preciso momento storico ma coinvolgono l’oggi che noi viviamo, andando a toccare i nervi dolorosamente scoperti della condizione umana, a farci ripensare alle ragioni rivoluzionarie e alle loro immancabili storpiature, al nichilismo, alle promesse gettate via, agli integralismi e al terrore. Assistendo oggi, sul palcoscenico torinese del Carignano per la stagione dello Stabile, alla messa in scena della Morte di Danton, senza alcuna forzatura registica, ci si accorge, nella limpidezza dello svolgersi dei fatti, nella frenesia della parola, nelle arringhe e nei tradimenti, nelle apparizioni di un popolo maldestramente vociante, nell’ammasso di teste rotolate giù dalla ghigliottina, quanto di rassomigliante esista a mettere a specchio epoche anche lontane tra loro. danton

Nel testo di Georg Büchner opera di un autore ventunenne, invischiato in una rivolta in Assia e fuggitivo -, scritto in poco più di cinque settimane, tra il gennaio e il febbraio del 1835, si descrive con estrema lucidità, in un variopinto affresco corale, come un moto rivoluzionario sfoci prima o poi in una arrogante quanto feroce e sanguinaria dittatura, quanto divergano le concezioni ormai agli antipodi di due uomini un tempo amici, Danton e Robespierre, quanto il primo tenti, pur con le mani grondanti sangue per le uccisioni di cui nei mesi precedenti s’è macchiato anche lui, di cancellare o per lo meno di allontanare gli eccessi di violenza dell’antico compagno, divenuto incorruttibile e implacabile, un leone pronto a negarsi ad ogni legame d’affetto e d’amicizia e a scagliarsi contro chiunque. Dalle parole di Büchner nascono due personalità possenti, splendidamente messe a fuoco, l’uno ormai legato ad ogni effetto della vita quotidiana, pronto a rendere una vita ormai inconsistente, quasi ieratico l’altro nella sua violenza senza ritorno, incastonate in una Storia più grande di loro, pronta ad agguantarli e a stritolarli, in un confronto spietato che non conosce più pause, ricordi, realtà eccessive con cui placidamente confrontarsi. Ai loro piedi i compagni dell’ultima ora e non soltanto, il popolo (qui affetto da troppa napoletaneità ad ogni costo, che forse ha il pregio di raggiungere ogni tempo e ogni luogo o il difetto d’accontentare gran parte della compagnia) arruffato, pronto a cadere in braccio a questo o a quell’altro, inconsapevolmente, disgustosamente.

In una perfetta cornice “teatrale”, La morte di Danton si muove entro un palcoscenico inventato da Martone stesso, cinque sipari di velluto rosso in continue aperture e chiusure, ove si concretizzano (e ricordiamo qui l’apporto non indifferente dell’intera squadra tecnica alla riuscita a tutto tondo dello spettacolo: corale, dicevamo, inevitabilmente quindi ancora bisognoso di ritocchi, di un riordino in certi passaggi, di briglie a questo o a quello per un amalgama maggiore, penso per esempio alla scena del carcere all’inizio della seconda parte, a certe “invasioni” popolane) tribunali, salotti, interni domestici, prigioni, strade che invadono con un bel colpo d’occhio per lo spettatore l’intera platea, fiumi in piena che nella loro corsa trascinano tutto e tutti. Una compagine di trenta attori a ricoprire un grumo della Storia del mondo nei bei costumi di Ursula Patzak, tra cui almeno vorremmo citare un veemente quanto amorevole Denis Fasolo che è Desmoulins, Fausto Cabra implacabile Saint-Just, perfetto nell’urlo della propria arringa, Irene Petris rassegnata Lucile, Paolo Graziosi un Thomas Payne ragionatore perfetto, Giuseppe Battiston che è Danton e soprattutto l’eccellente prova di Paolo Pierobon, per il ritratto che regala del suo Robespierre, chiuso nella torre d’avorio della propria sanguinolenta volontà di uccidere.

(foto: Mario Spada)

Elio Rabbione

 

Debutto europeo al Regio per la Tosca di Daniele Abbado

tosca regio teatroUn cast di livello internazionale per l’opera coprodotta dal Teatro comunale di Bologna

È un esempio di lirica di alto livello musicale la Tosca in scena dal 9 al 21 febbraio prossimo al teatro Regio, presentata in un nuovo allestimento in prima europea, coprodotta insieme al teatro Comunale di Bologna, e originariamente creata per lo Hyogo Performing Arts Center di Nishinomiya, per la regia di Daniele Abbado. Orchestra e Coro del Teatro Regio e del Conservatorio Giuseppe Verdi, sotto la direzione di Renato Palumbo, con Claudio Fenoglio maestro del Coro.

Il melodramma di ambientazione storica e dalle forti tinte drammatiche, rappresentato per la prima volta il 14 gennaio del 1900 al teatro Costanzi di Roma, vanta un cast di solisti di fama internazionale: Maria José Siri nel ruolo della protagonista, Roberto Aronica in quello di Mario Cavaradossi e Carlos Arvarez nei panni del malvagio barone Scarpia.

Il regista ha immerso le vicende dell’opera in un’atmosfera metafisica, senza rinunciare, però, ai simboli propri del libretto di Illica e Giacosa, tratto dal dramma omonimo di Victorien Sardou,  dalla chiesa romana di Sant’Andrea a Palazzo Farnese, fino alla celebre statua di Castel Sant’Angelo. Tosca, come tutto il teatro il teatro di Puccini, è concepita come un “dramma musicale”, un genere operistico nel quale non è il testo a adattarsi a un sistema di pezzi, quali arie, duetti o concertati preordinati secondo uno schema determinato da convenzioni, ma è la musica, invece, a adeguarsi al decorso del libretto.

In Tosca Puccini, ultimo grande esponente della tradizione italiana, fa prevalere, invece, la condotta discorsiva e dialogica, che spazia dal declamato all’arioso, sulla base di un discorso sinfonico basato sull’elaborazione di un nucleo ristretto di temi trattati, in modo piuttosto simile alla tecnica wagneriana del Leitmotiv.

Con Tosca il compositore nativo di Lucca affronta una drammaturgia lontana da quella presente in Manon Lescaut e nella Boheme, opere dallo sviluppo frammentario, dove l’approfondimento psicologico prevale sull’intreccio. Tosca, invece, si avvicina a una drammaturgia analoga a quella della tradizione incarnata da Verdi e proseguita poi dagli autori veristi,  grazie al confronto dei personaggi, nell’ambito di un’azione serrata e lineare, in cui sono esaltate le passioni elementari e esasperata la tensione emotiva, su uno sfondo storico capace di suggerire letture in chiave etico-politica. Nel libretto viene portato in primo piano il personaggio di Scarpia, che diventa l’eroe negativo per eccellenza, affidato al registro del baritono. Nel suo sadismo, efferato e al tempo stesso devoto, sensuale e aristocraticamente distaccato, sono stati riconosciuti dai critici un carattere dell’arte “fin de siecle” e la rappresentazione dell’emozione erotica nella sua dimensione patologica.

 
(Foto: il Torinese)

Mara Martellotta

Adriana Zarri, la “vita compiuta” di una ribelle di Dio

zarri 3zarri 2zarri4Scrittrice, teologa, eremita, se n’è  andata nella notte tra il 17 e il 18 novembre 2010, a 91 anni. La frase riportata è l’epigrafe che aveva scritto per se stessa e che venne pubblicata nel 1971 nel volume “Tu. Quasi preghiere

 

“Non mi vestite di nero:è triste e funebre. Non mi vestite di bianco:è superbo e retorico. Vestitemi a fiori gialli e rossi e con ali di uccelli. E tu, Signore, guarda le mie mani. Forse c’è una corona. Forse ci hanno messo una croce. Hanno sbagliato. In mano ho foglie verdi e sulla croce,la tua resurrezione.E, sulla tomba,non mi mettete marmo freddo con sopra le solite bugie che consolano i vivi. Lasciate solo la terra che scriva, a primavera, un’epigrafe d’erba.E dirà che ho vissuto,che attendo. E scriverà il mio nome e il tuo,uniti come due bocche di papaveri”.Adriana Zarri, scrittrice, teologa, eremita, se n’è  andata nella notte tra il 17 e il 18 novembre 2010, a 91 anni. La frase riportata è l’epigrafe che aveva scritto per se stessa e che venne pubblicata nel 1971 nel volume “Tu. Quasi preghiere”. Sulla sua tomba – nel cimitero canavesano di Crotte, una frazione di Strambino, dove si trova il suo eremo di Ca’Sassino– venne seminato del trifoglio nano, in obbedienza alla richiesta di Adriana di avere “un’epigrafe d’erba”. Anche la sua salma venne composta rispettando il suo pensiero, come dissero gli amici più cari: “Le abbiamo messo una gonna con roselline molto delicate, una camicetta chiara ed un gilet che richiamava il colore tenue delle roselline. In mano un ramo e poi la Bibbia aperta al brano della Samaritana come ci aveva chiesto”. Dal settembre del 1975 si era trasferita in quella“vecchia cascina solitaria, dove conto di trascorrere i restanti anni della mia vita nella preghiera e nel silenzio”. Una decisione, quella di praticare l’eremitismo, comunicata agli “amici carissimi” con una lettera spedita da Albiano d’Ivrea  il primo settembre di quarant’anni fa.

 

Qualcuno dice che mi sono “ritirata” in un eremo; e io puntualmente reagisco. Un eremo non è un guscio di lumaca, e io non mi ci sono rinchiusa; ho solo scelto di vivere la fraternità in solitudine. E lo preciso puntigliosamente per rispondere all’obiezione che concepisce questa solitudine come un tagliarsi fuori dal contesto comunitario. E invece no. L’isolamento è un tagliarsi fuori ma la solitudine è un vivere dentro”. Così precisò, nel suo “Un eremo non è un guscio di lumaca”. Un libro che, come scrive Rossana Rossanda nella sua prefazione, è “ da leggere in silenzio,da ascoltare”. Lo è perché la voce che vi echeggia, forte e chiara, è quella “di un eremita che parla al mondo”. Perché dentro quelle pagine “ ci sono tanti suoni: lo stormire degli alberi, il gracidare delle rane, il rumore dell’acqua, le parole degli amici. E colori: il giallo di un limone, il rosso di un gatto, il bianco della neve che fiocca. C’è l’amore per il mondo e per la sua bellezza. C’è la voglia di capire e lottare, di raccontare e sentire”. Rossana Rossanda, giornalista, tra i fondatori del Il Manifesto, era legata alla Zarri da un’amicizia che durava da trent’anni e più volte ha sottolineato come “dal silenzio del suo eremo” faceva scaturire parole nuove ed incisive “che richiamano ad una fede essenziale o, per chi come me non è credente, a ritrovare una dimensione nuova all’agire per l’uomo“. Adriana Zarri, nella sua vita intensa, è stata tante cose. Dirigente dell’Azione cattolica prima e giornalista poi, teologa conciliare già prima del Vaticano II e scrittrice, anima nomade ( visse in diverse città italiane, soprattutto a Roma) e poi eremitica, tra Albiano, Fiorano e, infine, Strambino.

 

Nei suoi eremi, Adriana pregava, coltivava, si dedicava agli animali (amava moltissimo i gatti), accoglieva quanti passavano, e scriveva. La sua è stata una voce profondamente cattolica e profondamente dissenziente (collaborava  sia all’Osservatore Romano che al Manifesto), prima laica ammessa nel direttivo dell’Associazione teologica italiana nel 1969. Così è stata ricordata  qualche mese fa sul quotidiano edito nella Città del Vaticano: “Adriana Zarri è stata una donna libera, legata forse solo a un senso del sacro restituito dall’intreccio tra fede nuda,giustizia sociale, Vangelo,femminismo e amore per gli indifesi, i deboli e i perseguitati”. Un bel ritratto, in linea con lo stile di vita sobrio ed austero e l’atteggiamento esigente nei confronti della sua chiesa, amata e contestata per amore. Dei suoi inediti ricordi di vita, recuperati da articoli e carte personali, sono stati raccolti e pubblicati, postumi,  in “Con quella luna negli occhi” ma è “Un eremo non è un guscio di lumaca” il libro al quale Adriana Zarri lavorò con passione fino alla sua conclusione, potendone vedere le bozze definitive. Bozze che teneva ancora vicine sul suo comodino quando, la notte tra il 17 e il 18 novembre 2010, la sua “vita si è compiuta”.

 

Marco Travaglini