CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 742

Suggestioni d’Italia

DAL NEOREALISMO AL DUEMILA. LO SGUARDO DI 14 FOTOGRAFI. FINO AL 23 SETTEMBRE

Cinquant’anni di Bel Paese. Quelli che abbracciano il secondo dopoguerra di un’Italia in cui riesci a ritrovarti a memoria o per esperienza e vissuto personale così come sul filo di cose dette e raccontate, ma anche di un’altra Italia fermata per caso – in un attimo di buona sorte o circuita e a lungo corteggiata e annusata – per fartela arrivare lungo vie traverse dell’anima (chiamiamole ispirazione o intuito o bizzarria sperimentativa) che ti fanno veleggiare fra immagini inaspettate eppur così vere e reali da lasciarti senza fiato e metterti i brividi in corpo e fiaccarti di emozioni: tutto questo troviamo nelle oltre cento fotografie focalizzate sul Paesaggio Italia e sulle “Suggestioni d’Italia” realizzate da 14 fra i più grandi Maestri italiani dell’ottava arte e raccolte in una grandiosa mostra ospitata alla GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. Dal Neorealismo ai primi vagiti del Duemila. Pagina dopo pagina, la rassegna vuole essere un viaggio lento che vieta la fretta, fra campagne e città, periferie e centri urbani mai univoci mai scontati, feste sull’erba, arrotini, spazzini e ombrellai, baci alla luce del sole, lotte sociali, noi immigrati e valigie di cartone, il volto che racconta fatica dei contadini e i gesti larghi e chiassosi di un’esuberante donna del sud. Scatti in bianco e nero che arrestano con forza il trascorrere del tempo e altri che esplodono di colore, attratti dalle sirene pittoriche delle avanguardie astratte dell’epoca. Sono immagini che cavalcano la penisola, raccontandone anima e corpo, testa e pancia, dall’estremo Nord al più basso Sud. Paesaggi, luoghi e “non-luoghi”, per una mostra che nasce in casa con fotografie provenienti dagli archivi della stessa Gam, raccolte soprattutto durante la direzione Castagnoli (albori del Duemila) per essere intelligentemente ripescate oggi da Riccardo Passoni, neo-direttore della Galleria e curatore della mostra che racconta: “Ci è parso giusto tornare a focalizzare la nostra attenzione sul tema della fotografia, tralasciato dalla programmazione da circa dieci anni. E questo anche perché a cavallo del Duemila, la Gam prima e la Fondazione CRT per l’Arte Contemporanea poi, avevano costituito una ragguardevole collezione di fotografia dal secondo dopoguerra in avanti. Quasi tutti i grandi nomi di questo linguaggio sono entrati a far parte delle nostre collezioni”. Nino Migliori, bolognese del ’26, è il primo artista che si incontra in rassegna con la sua “Gente dell’Emilia” del ’57 di cui fa parte lo stupendo, divertito e divertente, siparietto neorealista dei cinque uomini con bambino fuori dal negozio di “Renato: parrucchiera per signora”, con la signora che sbuca a destra dalla tenda e il bambino, a sinistra, assai poco interessato alle chiacchiere di quella curiosa combriccola. Bellissimo é anche il bacio della “Venezia” del ’59 di Gianni Berengo Gardin (“Quando ero giovane in Italia – ricorda il grande fotografo genovese – era proibito baciarsi in pubblico. Così, quando sono arrivato a Parigi, dove tutti si baciavano continuamente, sono diventato un guardone, avido di rubare queste fotografie di baci”); esemplari, a seguire, gli scatti milanesi di Uliano Lucas che raccontano almeno quarant’anni di storia del capoluogo lombardo ( fra lotte sociali, disagi sofferenze e i risvolti luccicanti della “Milano da bere”), così come la Napoli – ma non solo- ad alta intensità emotiva di Mimmo Jodice e le “dure” campagne di Mario Giacomelli. E il viaggio continua fra gli “scuri” di Ugo Mulas e i “chiari” di Luigi Ghirri – con i suoi paesaggi “vuoti”, quasi non sfiorati dalla presenza umana – accanto alle metafisiche astrazioni dai colori accesi del modenese Franco Fontana. Territorio e memoria – le “cave” – sono anche i punti cardine di Mario Cresci che in mostra presenta opere risultato del passaggio dalle tecniche analogiche (stampe ai sali d’argento) alle tecniche digitali, mentre la dimensione urbana e industriale regolata da geometrie ricercate e perfette domina gli scatti in bianco e nero di Gabriele Basilico. Sempre in bianco e nero é anche la Sicilia di Ferdinando Scianna (sapientemente giocata su contrasti di sole-luce/buio) e quella ricca di mistero e “apparizioni sorprendenti” di Enzo Obiso. Unica donna del gruppo è Bruna Biamino, torinese classe ’54. Bellissimo il suo “Lago di Avigliana” del ’98, esempio significativo di una narrazione sempre allusiva ad una sorta di “sogno lattiginoso” e spaesante. Condotto dalla Biamino e da Obiso, con il GAM Photo Project, è anche in programma nel mese di luglio un workshop teso a coinvolgere la popolazione social attraverso Instagram (per info: tel. 011/4436999 – 011/4429544). A chiudere infine la rassegna espositiva, il toscano di Pistoia Aurelio Amendola che ci regala imperdibili e rigorosi scatti dell’Abbazia cistercense di San Galgano nel senese. Il linguaggio è di semplice e intima religiosità.

Gianni Milani

“Suggestioni d’Italia – Dal neorealismo al Duemila. Lo sguardo di 14 fotografi”

GAM- Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31, Torino; tel. 011/4429518 – www.gamtorino.it Fino al 23 settembre

Orari: da. mart. a dom. 10/18, lunedì chiuso

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Foto

– Nino Migliori: Da “Gente dell’Emilia”, stampa ai sali d’argento, 1957
– Gianni Berengo Gardin: “Venezia”, stampa ai sali d’argento, 1959
– Uliano Lucas: “Piazza Accursio, Milano”, stampa ai sali d’argento, 1971
– Franco Fontana: “Landscape, Sicily”, stampa cromogenica, 1988
– Ferdinando Scianna: ” Italia, Pantelleria”, stampa ai sali d’argento, 1962
– Bruna Biamino: “Lago di Avigliana”, stampa da negativo colore, 1998

TOdays Festival, l’edizione dei sold out

Tre giorni, tutti sold out, trentamila volti. E di ogni singolo istante, ricorderemo soprattutto quando, all’improvviso, mani e cuori sotto palco hanno iniziato a battere tutti insieme

Da venerdì 24 a domenica 26 agosto oltre 30 mila persone, provenienti da tutta Italia e dall’Europa, hanno attraversato la  periferia di Torino per assistere alla quarta edizione di TOdays Festival, che sarà ricordata come l’edizione dei continui “sold out” ovunque, capace di trasformare Barriera di Milano per l’intero week end in un centro nevralgico di arte, innovazione, workshop unici e grandi concerti, nella certezza di non avere mai un live sotto un livello giudicato da ottimo a eccellente. Da sempre, capace di mescolare leggende internazionali e il meglio della nuova musica italiana, Todays si conferma per il quarto anno uno dei festival più ambiziosi della stagione estiva, appuntamento di richiamo internazionale con una line up ricercata e location per nulla ordinarie.

 

TODAYS FESTIVAL

 

Voluto dalla Città di Torino e segnalato da tante testate nazionali come il miglior festival d’ItaliaTOdays ha trasformato Torino in un palcoscenico urbano di spazi rigenerati, luoghi di condivisione e aggregazione culturale e sociale lungo l’asse nord della città: sPAZIO211, l’ex fabbrica INCET, la galleria d’arte Gagliardi e Domke, i Docks Dora, il futuro centro del design Plartwo e il Parco urbano Aurelio Peccei sono stati l’epicentro valorizzato e valorizzante di una modalità di fruizione partecipata e trasversale. TOdays è una fotografia schietta, sincera, viva e dinamica, di chi anziché rincorrere quello che è stato o anticipare ciò che verrà, vive semplicemente il presente, confermandosi uno degli appuntamenti estivi in Italia di richiamo davvero internazionale da non perdere, in una città, Torino, che da sempre dimostra una grande capacità di rinnovamento, volta verso la musica del futuro. E’ ulteriormente aumentata la percentuale di pubblico preveniente da fuori città e regione (44,6%) e pubblico proveniente dall’estero (Inghilterra, Belgio, Germania, Stati Uniti…) che ha segnalato l’alto gradimento degli spettacoli e dell’organizzazione definita dagli addetti ai lavori all’altezza dei festival europei consolidati.

(cs)

“Tu, tu non mi basti mai”

Correva l’anno1996, e un tale, Lucio Dalla, genio indiscusso pubblica un album di grande successo, ed all’interno una tra le piu’ belle dediche d’amore di tutti i tempi. Ambrogio Borsani, in un suo libro che lessi qualche anno fa, riportava la frase “ciò che non si ha non basta mai”. Come è vero. E quando lo si ha non lo si apprezza abbastanza, aggiungerei io. Certe cose oggi, con il mio trascorso, mi sembrano piu’ importanti di brani che hanno avuto più successo, per questo voglio parlarvi di una raccolta del grande Lucio, “Questo è amore”, una raccolta che ha il sapore di un completamento (passatemi il termine) della antecedente “12000 lune” che già si presentava zeppa di amore cantato, narrato, respirato, ma che, a parer mio, mancava di brani cosi pesantemente leggeri come “tu non mi basti mai”. Progetto, questo, realizzato con Marco Alemanno dopo due album in studio non particolarmente fortunati. All’interno parecchi remakes e brani non conosciutissimi perché da lui non presentati ai suoi concerti, che a molti di voi risulteranno sconosciuti come “malinconia d’ottobre” o “questo amore”. L’unica canzone del tutto nuova è “Anche se il tempo passa (amore)”. “Noi la vita la annusiamo in tutti i posti, ma lei passa senza neanche un ciao/ oppure vola come i ladri sopra i tetti, se ci provi non la puoi fermare”, è l’attacco su una base che assorbe senza sforzo le più attuali tendenze del pop anglosassone dai Coldplay in poi, con un leggero tocco di Sigur Ros – band che lo affascinava molto, e che Lucio ha conosciuto grazie al giovane Alemanno. Spiazza invece la nuova versione di “Meri Luis” in coppia con Marco Mengoni – non tanto per lo stile e le doti vocali di quest’ultimo, che possono essere o meno “la nostra tazza di the”, ma per il fatto che Dalla non ha ricantato il pezzo del 1980 e che la voce del giovane collega emerso da X-Factor è dunque sovrapposta all’incisione originale. Una scelta che potrebbe tradire pigrizia, o una decisione dell’ultimo momento. E qui, in “Questo è amore” di nuovo dura come la roccia “tu non mi basti mai” Ognuno di noi ha il disco che è rimasto più nel cuore, o il proprio brano preferito di Lucio Dalla cui si sente più legato, e qualcosa potrebbe anche non essere né qui né su “12000 Lune”. Io invece, la ripropongo per la terza volta, perchè a me questo brano è particolarmente caro, e non voglio scordarlo mai, almeno fino al 2047. Vi invito all’ascolto di una carezza tra le più incantevoli. “Non mi basta tutto, voglio anche il resto.” Paolo Dune, Al di qua dell’aldilà, 1998-2016

https://www.youtube.com/watch?v=ez75GMRD4bQ&pbjreload=10

Chiara De Carlo

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Chiara vi segnala i prossimi eventi … mancare sarebbe un sacrilegio!

GIOVEDI 07 SETTEMBRE 2018

Ultima audizione Torino Music Contest.  Presso GV pane & caffè Via Tiepolo 8/d – Torino

Scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

 

Quel 27 agosto del 1950 l’addio a Cesare Pavese

OGGI ACCADDE  / Si concludeva in un albergo in piazza Carlo Felice, a Torino, con il suicidio, il suo dramma esistenziale

27 agosto. Il mondo delle lettere, non solo quello italiano, celebra oggi l’anniversario della scomparsa di Cesare Pavese. Un motivo in più per ricordarlo qui in Piemonte perché Pavese era nato proprio a Santo Stefano Belbo, nelle amate Langhe, il 9 settembre 1908 e la sua vita si concluse, con il gesto risolutivo del suicidio, a Torino, il 27 agosto 1950, presso l’hotel Roma, nella centrale piazza Carlo Felice. Per capire ciò che sta a monte della drammatica fine di uno dei grandi scrittori taliani del Novecento, si può attingere alla categoria della maturità, di cui Pavese aveva fatto un mito. Secondo lui, attingendo anche alla celebre tragedia shakespeariana del Re Lear, “ripeness is all”, “la maturità è tutto”. Proprio questo mito gli sarebbe costato l’esperienza amara del confino, prima, e del suicidio poi, ma anche della certezza, come egli stesso scrisse quattro anni prima della morte, di “una fondamentale e duratura unità di tutto ciò che scriveva”. In lui la poetica avrebbe attinto al magistero di un grande maestro, il noto professore torinese Augusto Monti.

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La nativa Santo Stefano Belbo e la stessa Torino avrebbero trovato un successivo sviluppo in una geografia dell’anima, della coscienza, della natura e della storia. Il suo ingresso nel mondo degli adulti avvenne con le liriche di “Lavorare stanca”, che fecero da apripista a strade che avrebbe poi percorso da scrittore. Nella sua opera letteraria il racconto si faceva poesia, arricchito di continui riferimenti culturali, presenti in “Paesi tuoi”, “La bella estate”, “La spiaggia”, “La casa in collina”, “Il diavolo sulle colline”, “La luna e i falò “, e nella svolta mitico-antropologica e psicoanalitica dei “Dialoghi di Leuco’”. Pavese era convinto del fatto che “sulle colline il tempo non passa”, come ebbe modo di scrivere nella “Luna e i falò”, la cui epigrafe si faceva portavoce del pensiero “Ripeness is all”. Attraverso la scrittura Pavese aveva compreso che “crescere è un po’ morire”. A fianco del letto, nell’albergo in cui si diede la morte, lasciò un biglietto, un semplice cartellino di prestito della Biblioteca Nazionale di Torino, che fu rinvenuto in un suo romanzo, recante la data antecedente del 16 gennaio 1950, e contenente le parole “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. In realtà nulla dobbiamo perdonargli, ma ancora oggi chiedergli perdono per non aver compreso allora il suo dramma esistenziale.

Mara Martellotta

 

Ermal Meta in tour a Carmagnola

“Non mi avete fatto niente” Area spettacoli “Il Foro”, Piazza Italia angolo via Gobetti

Biglietto acquistabile su ticketone.it anche con il bonus Cultura per diciottenni e Carta del Docente. Ingresso gratuito per bambini sino a sei anni di età. Evento del nuovo “Il Foro Festival” che va ad ampliare la grande proposta di eventi e spettacoli della Fiera Nazionale del Peperone in programma tra il 31 agosto ed il 9 settembre

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“Il Foro Festival” è un nuovo grande evento della Città di Carmagnola, organizzato da Comune, Pro Loco e Consulta Giovanile nei giorni 2 e 3 settembre 2018 in contemporanea con la celebre Fiera Nazionale del Peperone [ www.fieradelpeperone.it ] che si svolge tra il 31 agosto e il 9 settembre con un ricco cartellone di eventi per tutti i sensi e per tutte le fasce di età. In un nuova area spettacoli, allestita all’interno del Foro Boario di Piazza Italia, Il Foro Festival propone due eventi:  una Silent Disco nella serata del 2 settembre ed il concerto di Ermal Meta il 3 settembre, unica data ancora in programma in Piemonte del suo tour “Non abbiamo armi – Live” per la quale è possibile acquistare i biglietti su ticketone.it, anche con il bonus Cultura per diciottenni e Carta del Docente. ERMAL META è un cantautore, compositore e polistrumentista albanese naturalizzato italiano, oggi tra i più importanti e stimati nel nostro Paese con 6 dischi di platino e 4 ori ottenuti solo negli ultimi due anni. Nato a Fier, all’età di 13 anni si è trasferito con la madre, il fratello e la sorella a Bari, troncando ogni rapporto con il padre, da lui definito violento. Cresciuto ascoltando musica classica, la madre è violinista professionista, ha cominciato a suonare a 16 anni pianoforte e chitarra e con il gruppo Ameba 4 ha partecipato al Festival di Sanremo 2006 nella sezione Giovani. Nel 2007 ha fondato il gruppo La Fame di Camilla, con il quale ha realizzato tre album e un’intensa attività dal vivo che li ha portati ad esibirsi nella sezione giovani del Festival di Sanremo 2010. In qualità autore ha scritto brani per molti interpreti italiani come Emma, Francesco Renga, Patty Pravo, Chiara, Marco Mengoni, Francesca Michielin, Francesco Sarcina, Giusy Ferreri e Lorenzo Fragola. Il 5 febbraio 2016 è stato pubblicato il suo primo album in studio intitolato Umano e nel 2017 ha preso parte al Festival di Sanremo nella sezione Big con il brano Vietato morire, con il quale è giunto terzo, ha vinto il premio di miglior cover interpretando Amara terra mia di  Modugno ed il Premio della Critica Mia Martini. Ha vinto il Festival di Sanremo 2018 insieme a Fabrizio Moro con il brano Non mi avete fatto niente e si sta esibendo con grande successo in numerose date del suo tour Non Abbiamo Armi – Live

Santa Liberata tra storia e fede

Sul territorio del Comune di Villamiroglio, nella località Case Alemanno (nome che forse ricorda l’antica presenza dei Longobardi in Valcerrina), in una valletta isolata e a diretto contatto con la natura, si trova la chiesa di Santa Liberata

Proprietà dell’ente ecclesiastico Parrocchia dei Santi Filippo e Michele di Villamiroglio, la sua edificazione viene fatta risalire al XVII secolo. Della sua esistenza se ne parla negli atti di una visita pastorale effettuata nel 1619, in cui si riferisce della chiesa e dell’adiacente romitorio, piccolo convento in cui i monaci si ritiravano in preghiera a contatto con la natura. Notizie sul luogo di culto della Santa, alla quale si rivolgevano le partorienti, risalgono anche al 1685 con l’accenno all’altare laterale dedicato a San Luigi Gonzaga, sovrastato da una tela che raffigura il Beato con l’angelo dell’Apocalisse ed alla base lo scritto “Vero ritratto del Beato Luigi Gonzaga della Compagnia del Gesù”, del 1710 e del 1725 redatto in occasione della visita del Vescovo di Casale Monferrato, Radicati. Tra il 1658 ed il 1685 venne costruito presso la chiesa un romitorio, piccolo convento in cui i monaci si ritiravano in preghiera a contatto con la natura. L’edificio si presenta come una chiesa campestre (una delle più antiche della Valcerrina) di discreta grandezza, con sagrato recintato da un muretto ed una facciata ottocentesca con quattro lesene in doppio ordine, culminante con un timpano in cui si prolungano le due lesene mediali. Sul lato sinistro è conservato il porticato seicentesco, molto suggestivo, mentre nella zona posteriore c’è il piccolo romitorio di cui si scriveva poc’anzi. All’interno le pareti del presbiterio presentano affreschi murali che risalgono ad un’epoca a cavallo tra il tardo Cinquecento e l’inizio del Seicento, recuperati alla memoria collettiva in occasione di lavori effettuati al suo interno. In particolare sulla parete di fondo si vede, interrotta dal successivo inserimento di una nicchia, una processione di sacerdoti e di personaggi abbigliati con una foggia che ricorda la seconda metà del XVI secolo, con sullo sfondo quel che rimane di un castello. Su quale fosse il maniero (quello dei signori Miroglio che hanno dato il nome a comune o altro) e su un motivo tanto inconsueto, quale quello della processione dei sacerdoti, l’interrogativo è aperto. Sulle pareti laterali sono raffigurati, a sinistra, 9 Santi, per alcuni dei quali non si è raggiunta l’identificazione, mentre a destra riaffiora un precedente affresco con gli stessi Santi ed un curioso effetto di sdoppiamento delle immagini. Il luogo di culto, che era stato danneggiato dal terremoto dell’agosto del 2000, è stato sottoposto ad intervento di consolidamento, mentre il restauro dell’interno è stato completato sette anni orsono, nel 2011. Da notare il particolare impegno del parroco don Davide Mussone, che alternando i suoi impegni parrocchiali a quelli di giudice rotale e di cancelliere della Diocesi di Casale, ha seguito i lavori ed effettuato, anche manualmente, alcuni interventi, contribuendo al consolidamento, al restauro ed all’abbellimento della chiesa che era ad inizio anni Duemila pericolante. Nel 2016 è stato depositato alla Sovrintendenza, e da questa autorizzato un intervento per la facciata, l’aggancio e la sistemazione dei coppi del tetto, ed altre opere di sistemazione, ma che necessità di fondi. Nel luogo di culto, il più antico di quelli che si trovano nel territorio comunale di Villamiroglio, viene celebrata la Messa, come è avvenuto in occasione del recente raduno annuale della sezione Avis della frazione Vallegioliti, alla presenza di numerosi amministratori dei comuni della Valcerrina, a partire dal sindaco di Villamiroglio, Paolo Monchietto, dell’Unione dei Comuni della Valcerrina e dell’assessore regionale Gianna Pentenero.

Massimo Iaretti

 

 

Castellamonte, ceramica in mostra sotto il segno dell’amore

Il manifesto ufficiale della Mostra, già di per se’, la dice lunga. Creato da Guglielmo Marthyn, artista poliedrico e geniale fantasioso ceramista (di origini valdostane ma canavesano di adozione), presenta un’immagine di raffinato erotismo sospesa fra sogno e realtà – che è consueta cifra stilistica della ceramica d’arte di Marthyn – tratta da una delle opere più celebri del “Louvre” di Parigi, l’“Amore e Psiche” di Antonio Canova. Nientemeno. Nasce infatti sotto il segno dell’ “Amore” l’edizione 2018, la cinquantottesima, della “Mostra della Ceramica” di Castellamonte che, da sabato 18 agosto a domenica 2 settembre, tornerà a fare della cittadina canavesana la capitale italiana di un’arte antica quanto il mondo e che quest’anno si presenta con la grande novità di un concorso internazionale promosso dal Comune e dal curatore della rassegna, Giuseppe Bertero, che ha come tema e titolo, per l’appunto, “Ceramics in love…”. Amore declinato in ogni forma di ceramica artistica. Dalla più ligia ai canoni della tradizione artigianale ad altre totalmente immerse nella creativa estrosità di un connubio terra e fuoco e colore, più al passo coi tempi e interamente giocato su schemi di totale libertà compositiva e creativa. “L’obiettivo – sottolineano gli organizzatori – è proprio quello di allargare gli orizzonti sulla contemporaneità dell’arte ceramica, tanto antica quanto moderna e sempre attraente per la qualità delle sue forme, dei colori, delle dimensioni e delle tecnologie innovative”. Enorme e inaspettato il successo del concorso: 130 sono state infatti le adesioni di artisti provenienti da tutta Italia e dall’estero (da Francia, Russia, Croazia e Grecia) e 150 le opere presentate, che saranno esposte a Palazzo Botton – dove si potranno anche ammirare le Collezioni Storiche con firme di altissimo prestigio insieme alle celebri “stufe” di Castellamonte – e al Centro Congressi “Piero Martinetti”. Ma la Mostra permetterà anche agli artisti locali e alle numerose botteghe d’arte aperte sul territorio di presentare le loro più recenti creazioni. Da segnalare inoltre le stranianti e seducenti “ceramiche da indossare” portate a Castellamonte da CNA (la Confederazione Nazionale dell’Artigianato e delle Piccole e Medie Imprese). Anche per l’edizione di quest’anno sono confermati i punti espositivi pubblici e privati che da sempre accompagnano il percorso ufficiale della Mostra. Fra i siti pubblici, oltre ai già segnalati Palazzo Botton e Centro Congressi “Piero Martinetti”, tappa d’obbligo sarà come sempre il Liceo Artistico Statale “Felice Faccio” (partner ufficiale della manifestazione) che presenterà le opere realizzate – anche attraverso il linguaggio 3D- dagli studenti dei corsi di Architettura e Ambiente, Grafica, Design Moda e Design Ceramica. Fra i punti espositivi privati – luogo di confronto e di dialogo fra artisti e appassionati dell’arte ceramica – il “Cantiere delle Arti”, la ditta “La Castellamonte”, la “Casa Museo Allaria”, le “Fornaci Museo Pagliero”, le “Ceramiche di Castellamonte” di Elisa Giampietro, le “Ceramiche Camerlo”, le “Ceramiche Grandinetti” e la Bottega d’Arte di Teresa Rosa Maria. Da non perdere la visita ai “castelletti”, da dove si ricava la famosa argilla rossa di Castellamonte e raggiungibili con apposita navetta gratuita (partenza di fronte al Centro “Martinetti”) nei giorni prefestivi e festivi dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19. Numerose sono anche le iniziative collaterali in programma, dalle conferenze a tema agli spettacoli musicali e teatrali alla presentazione di libri fino alla “Festa della birra” e al concerto serale per pianoforte di Alessandro Rosso che, domenica 2 settembre alle 21, concluderà la manifestazione alla “Rotonda Antonelliana”.

Gianni Milani

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“Ceramics in love…” – Cinquantottesima edizione dellaMostra della Ceramica di Castellamonte (Torino) Per info: tel. 0124/5187216, ingresso libero- Dal 18 agosto al 2 settembre- Orari: lun. – ven. 17/21, sab. e dom. 10/21

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Nelle foto

– Guglielmo Marthyn: Manifesto della mostra
– Interni di Palazzo Botton

 

Summer of Love. Ubi maior…

Si scrive Black Hills ma si legge “Memorial”. In South Dakota, presso le montagne sacre ai Lakota, si trovano i volti scolpiti di Washington, Jefferson, Th. Roosevelt e Lincoln sul Monte Rushmore (Mount Rushmore National Memorial) ma anche l’attualmente incompiuto Crazy Horse Memorial, nel ricordo di Tashunka Witko (“Cavallo Pazzo”), formidabile capo militare Oglala Lakota, le cui gesta con “Toro Seduto” (Tatanka Yotanka) e “Fiele” (Piji) ancora vivono nella storia della resistenza dei Sioux. Le Black Hills sono ad ovest, verso Wyoming e Montana; molte miglia mancano per raggiungere il fiume Missouri, che divide in due il South Dakota. Ad est invece, quasi al confine con Minnesota e Iowa, sorge Sioux Falls; più a nord “Huron”, eppure qualcosa non torna, poiché gli Uroni (Wyandot) erano nell’area canadese dell’Ontario, già nel XVII secolo decimati dalla forza d’urto degli Irochesi (Haudenosaunee). Fatto sta che Huron è nome di almeno altre sei città degli USA. Era solo un nome suggestivo? Probabilmente lo era anche quello di una band sorta proprio ad Huron nel 1963: The Torres, che da allora sarà sempre caratterizzata dal numero corposo dei componenti, finanche nelle più recenti reunions. Tutto ebbe inizio da Steve Manolis e Fritz Leigh (V, chit), cui si aggiunsero Rod Ramsell (batt) e Sherwood Moore (b); poi Mike Strub (org), Gary Myers (b) e, a distanza di un paio d’anni, Rick Gillis (batt), Mark Baumgardner (fiati) e Mark Huisinger (org). Le influenze musicali andavano dai Beatles, ai Byrds, ai Rascals, agli Association, senza tralasciare la componente Motown da Detroit. Il versante manageriale dei The Torres in tema di esibizioni e concerti fu gestito prevalentemente “in proprio” dagli stessi Huisinger e Gillis; tuttavia fu fruttuoso e frequenti furono le occasioni di esibizioni (anche in formazione variabile a rotazione) dapprima in feste di liceo e teen clubs, poi tra 1965 e 1966 nel giro di dance halls su un territorio più ampio, tra Iowa, Minnesota, North Dakota e Nebraska (dove per breve tempo furono assistiti dalla Eddie Haddad Agency). La rampa di lancio, come sempre, fu l’affermazione in una “Battle of the Bands” che si tenne a Sioux Falls nel 1964, che preparò il terreno ad una partecipazione a “Rock the Roof” presso il Roof Garden (lago Okoboji) in Iowa e anche all’esordio discografico dell’anno successivo. Nel 1965 uscì il primo 45 giri: “I’ve Had It” [Bonura – Ceroni] (Soma 1438; side B: “Ride On” [Leigh]), inciso presso i Kay-Bank Studios di Minneapolis (Minnesota) con etichetta Soma record co. Poi nel maggio 1966 il secondo 45 giri: “Play Your Games” [Manolis – Leigh] (IGL 45-114; side B: “Don’t You Know”), inciso a Milford (Iowa) con etichetta IGL (Iowa Great Lakes recording co.). Nel 1967 l’ultimo singolo, che tornò all’etichetta Soma: “Ride On” (Soma 1463; side B: “Tommy Tommy” [Leigh – Manolis]). In particolar modo nel 45 giri IGL del 1966 e nel brano “Play Your Games” emerge la componente armonica vocale di Leigh e Manolis, che diede buon successo al singolo specialmente nelle classifiche delle radio locali di South Dakota, Iowa e Nebraska. Nonostante tutto nell’estate 1967 (alla luce di eventi quali il Monterey Pop Festival e la Summer of Love di San Francisco) The Torres si sciolsero, avvertendo l’ormai mutato clima musicale generale, con la spinta incalzante e travolgente della “psychedelia” e con l’avvento di tecniche vocali, soluzioni acustiche e suoni innovativi e rivoluzionari. Tuttavia dal 2004 in poi i membri della band si sono più volte riuniti in forze (senza sostanziali defezioni dopo oltre 40 anni) in fasi successive nel 2007, 2009, 2011 e ad intervalli piuttosto regolari fino a tempi recentissimi, alle prese con nuovi e stimolanti gigs.

 

 

Gian Marchisio

 

 

 

 

Oulx, la torre delfinale tra storia e leggenda

Svetta imponente sul paese di Oulx in alta Valle di Susa e domina l’abitato da molti secoli ma pochi se ne accorgono al di là di una veloce occhiata transitando in auto o a piedi. Non vederla è impossibile ma sono davvero pochi coloro che la raggiungono per visitarla. E pensare che ad agosto decine di migliaia di persone, tra italiani e turisti stranieri, passano per Oulx e molti si fermano per le vacanze estive. È la Torre Delfinale di Oulx che dalla collina del paese, sulla strada che sale a Sauze, fa bella mostra di sé. Dovrebbe esserci la fila di gente ma non c’è. Da centinaia di anni il monumento simbolo di Oulx racconta storia e leggende di una valle ricchissima di Storia, da Annibale (forse, chissà, non si saprà mai con certezza se è passato da qui) all’imperatore Augusto, che, tra l’altro, ringraziamo tutti per aver concesso, nel 18 a.C. , le vacanze ferragostane, le “Feriae Augusti” di duemila anni fa appunto, dai longobardi di Desiderio e Adelchi a Carlo Magno, dai terribili Saraceni a Carlo VIII e Francesco I di Francia che in qualche modo hanno avuto a che fare con questo paese e a tanti altri personaggi storici. La torre delfinale o torre saracena come viene erroneamente chiamata, di proprietà del Delfino di Francia, fu eretta su uno sperone roccioso nella seconda metà del Trecento. È stata anche definita “torre saracena” ma in realtà è di molto posteriore alle scorrerie dei mori e faceva parte del castello delfinale del Quattrocento. Dopo decenni di totale abbandono è stata riportata, alcuni anni fa, al suo antico splendore dal Comune di Oulx, Regione Piemonte e Compagnia di San Paolo con un complesso e costoso intervento di restauro. Anticamente la rocca serviva da magazzino per conservare il grano e in seguito fu trasformata in una torre merlata a scopo difensivo. Dal tetto si gode una bellissima vista sul borgo e la torre è ancora più suggestiva con l’illuminazione notturna. Un sistema multimediale racconta ai visitatori la storia della valle e il territorio di Oulx. Questo piccolo ma importante tesoro d’arte sorge nei pressi della chiesa di Santa Maria Assunta ed e’ gestito dalla Pro Loco di Oulx. Al suo interno si possono vedere mostre di pittori e artisti della valle.

Filippo Re

Al forte di Bard l’estate “calda” dell’arte

Per prima, una mostra assolutamente particolare e focalizzata su un periodo di altissima creatività nella vita artistica di Henri Matisse; a seguire gli scatti fra il metafisico e il surreale (“frazione di secondo di realtà”) del grande Henri Cartier-Bresson, autentico pioniere del foto-giornalismo e figura mitica nella storia della Fotografia del Novecento; per concludere, i pannelli scolpiti su legno che raccontano la storia della Vallée realizzati da Giovanni Thoux, oggi fra i più originali interpreti della scultura di tradizione valdostana. Il programma espositivo per l’estate 2018 riconferma per il Forte di Bard una collocazione di primo piano fra i poli artistico-culturali di maggior prestigio a livello nazionale e internazionale. Andiamo per ordine.

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“Henri Matisse. Sulla scena dell’arte” – Fino al 14 ottobre.

Mostra inedita. Incentrata sul rapporto che Henri Matisse (1869-1954) ebbe con il teatro e la produzione di opere legate alla drammaturgia, raccoglie oltre 90 opere realizzate dal 1919 fino alla morte dell’artista francese, avvenuta nel 1954. Siamo nel cosiddetto pèriode Nicoise, seguito al trasferimento (1917) di Matisse a Cimiez, sobborgo di Nizza sulla Costa Azzurra. Sono gli anni in cui il pittore lascia parzialmente alle spalle i primitivi istinti fauve per dedicarsi alle sue “odalische” e a quel dipingere in chiave esotica (retaggio dei precedenti e lunghi soggiorni in Algeria e in Marocco) la bellezza delle sue modelle. Semplificazione delle forme, fin quasi all’astrattismo, campiture omogenee di colore, sempre più Matisse rifiuta la tradizione occidentale e si inventa figure danzanti nell’aria, improbabili ed essenziali, di forte cifra decorativa. Questo troviamo nel percorso espositivo al Forte, curato da Markus Muller (direttore del “Kunstmuseum Pablo Picasso” di Munster, da cui proviene buona parte delle tele, disegni e opere grafiche esposte) e articolato in quattro grandi sezioni: dai “Costumi di scena” a “Matisse e le sue modelle” fino a “Le odalische” e a “Jazz”. Una selezione di opere illustra il rapporto fortemente interattivo fra l’artista e le sue modelle, per lui “attrici” della sua arte, mentre l’esposizione di tappeti, abiti, oggetti d’arte orafa, collezionati dall’artista e concessi in prestito dalla famiglia, documentano con evidenza il grande interesse dell’artista per certo decorativismo orientaleggiante. Gli anni Quaranta sono anche quelli in cui il pittore sviluppa la tecnica dei “papiers découpés” (o “pittura con le forbici”, carte ritagliate, sintesi perfetta per Matisse fra colore e precisione della linea) di cui le opere, dai colori dissonanti, della serie “Jazz” – che non poco ispirarono la “pop art” americana e lo stesso Andy Warhol – sono la testimonianza più importante.

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“Henri Cartier-Bresson. Landscapes/Paysages” – Fino al 21 ottobre

Realizzata dal Forte di Bard in collaborazione con Magnum Photos International e Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi, la mostra presenta 105 immagini rigorosamente in bianco e nero, scattate da Henri Cartier-Bresson (1908-2004) fra gli anni Trenta e Novanta, in un curioso e attento girovagare, con l’inseparabile “Leica” al collo, fra Europa, Asia e America. Ogni scatto è rappresentazione di quell’“istante decisivo” che per l’artista – non a caso denominato l’“occhio del secolo” – è il “riconoscimento immediato, nella frazione di un secondo, del significato di un fatto e, contemporaneamente, della rigorosa organizzazione della forma che esprime quel fatto”. Raggruppate per soggetto – alberi, neve, nebbia, sabbia, tetti, scale, ombra, pendenze e corsi

d’acqua – le immagini documentano soprattutto la forte attenzione di Cartier-Bresson, co-fondatore nel 1947 della celebre agenzia “Magnum”, per l’ambiente; l’appassionata attrazione (con esiti non di rado surrealisti, ispirati all’arte fotografica di quell’altro grande che fu Eugène Atget) per il Paesaggio della Natura cui, tuttavia, si affianca a tratti un Paesaggio dell’uomo assolutamente integrato nella perfetta armonia di linee e geometrie formali che caratterizzano quel “mondo immenso del paesaggio” che l’artista “è riuscito a fare entrare nello spazio ristretto dell’immagine fotografica – come scrive Gérard Macérispettando i tre principi fondamentali che contengono la sua personale geometria: la molteplicità dei piani, l’armonia delle proporzioni e la ricerca di equilibrio”.

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“Racines. Eventi e protagonisti della storia valdostana” – Fino al 16 settembre

Ci sono tutti i passaggi chiave della storia locale, dall’insediamento di Saint-Martin-de-Corléans alla conquista romana e all’epoca medievale, fino ad arrivare ai tempi moderni, alla lotta di liberazione dai nazifascisti e alla conquista, il primo gennaio del ’46, dell’autonomia ( che ha permesso alla comunità di riappropriarsi della propria identità ) nei 25 stupendi pannelli scolpiti su legno di cirmolo firmati dall’artista valdostano Giovanni Thoux e ospitati fino al 16 settembre nelle sale dell’“Opera Mortai” del Forte. Nato a Verrès, nel ’35, Giovanni Thoux è figlio d’arte; eredita infatti dal padre falegname la passione per la lavorazione del legno. Dopo un lungo soggiorno in Giappone, a inizi anni Settanta rientra in Valle e affianca i fratelli nell’atelier di ebanisteria fondato dai nonni. Numerosi i premi e i riconoscimenti collezionati in un’ormai lunga attività che lo vede oggi fra i più originali interpreti di una scultura profondamente radicata (“Racines”, radici per l’appunto) alla storia e alla tradizione valdostana. In mostra troviamo bassorilievi in legno policromi, realizzati utilizzando colori ad acqua che l’artista fissa con vernici speciali trasparenti così da lasciare intravedere le venature del legno. A commento delle opere, testi a cura di Omar Borettaz, scrittore e bibliotecario della Biblioteca Regionale di Aosta.

Gianni Milani

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Forte di Bard (Aosta); tel. 0125/833811 – www.fortedibard.it

Orari: dal mart. al ven. 10/18; sab. dom. e festivi 10/19; lunedì chiuso. Aperto tutti i giorni dal 23 luglio al 2 settembre 10/19,30

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Foto

– Henri Matisse: “Il cowboy” da Jazz, stampa su stencil incollato su carta, Tériade Editore, Parigi 1947 – Kunstmuseum Pablo Picasso Munster/Succession H.Matisse/ S.I.A.E. 2018
– Henri Matisse: “L’incubo dell’elefante bianco” da Jazz, stampa su stencil incollato su carta, Tériade Editore, Parigi 1947 – Kunstmuseum Pablo Picasso Munster/Succession H.Matisse/S.I.A.E. 2018
– ph. Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos: “Brie, France”, 1968
– ph. Henri Cartier-Bresson/Magnum Photos: “A transatlantic arriving in the harbour”, New York City, USA, 1959
– Giovanni Thoux:”Saint Ours”, bassorilievo su legno di cirmolo