CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 74

Un grande Alessandro Haber nelle nevrosi di Zeno Cosini

La coscienza” al Carignano sino a domenica 19 gennaio

Ettore Schmitz iniziò a scrivere “La coscienza di Zeno” nel 1919 e lo diede alle stampe, a spese proprie, nella primavera del ’23, dopo che l’editore Cappelli ebbe affidato al suo redattore di fiducia, Attilio Frescura, la revisione del romanzo su cui esprimeva le proprie riserve linguistiche e non soltanto. Un successo poi ma un successo un po’ sbiadito e sudato (“occorreva riscriverlo tutto”, gli scriverà Frescura), con recensioni affatto soddisfacenti, deludenti per il borghese ebreo triestino se non fosse arrivata l’amicizia e l’apprezzamento di Joyce, se non ci avessero pensato i francesi a fare di Svevo “le premier romancier d’analyse qu’ait produit l’Italie”. Insomma erano in pochi a filarselo da noi, nella critica e tra i comuni lettori, se ancora un vecchio compagno d’ufficio – come c’insegna Claudio Magris nel bel volumetto che accompagna, ricco di vari interventi, la riduzione del romanzo in scena al Carignano sino a domenica prossima per la stagione dello Stabile torinese -, venuto a sapere che aveva scritto dei romanzi, aveva esclamato: “Chi, quel mona de Schmitz?”. In Italia sarebbe in seguito arrivato Eugenio Montale a scoprire tutta la grandezza di Italo Svevo, con tutto quel diritto che pretendeva, e sappiamo bene quanta sia stata la strada percorsa.

Bene ha fatto il Teatro Stabile Friuli Venezia Giulia a riproporre quel romanzo, nella scorsa stagione e poi una lunga tournée, nel ricordarne il centenario della pubblicazione, l’adattamento nuovissimo è di Paolo Valerio (anche regista illuminato) e Monica Codena, a dare una veste nel nuovo millennio a una figura caposaldo della letteratura italiana dopo che nei decenni ormai lontani un grande Tullio Kezich e altri avevano affidato il ruolo a Lionello, Montagnani, Bosetti, Pambieri, Dorelli, tra le tavole del palcoscenico e lo schermo televisivo. Oggi, qui, Zeno Cosini è Alessandro Haber, una grande poltrona ad accoglierlo, il bastone in una mano, l’abito grigio a conclamarne il grigiore di spirito e di vita (con il perenne spegnersi dell’esistenza il grigio accompagna tutti i costumi, accompagna la cornice fatta di ampi tendaggi a delimitare il chiuso di una casa, di un salotto dove sono immaginati volumi e quadri di famiglia, dove un ampio spazio tondo riflette visi e panorami triestini, la luna e il luccicare del mare, una scatola chiusa dove crescono nevrosi, dove è impossibile sentirsi in sintonia con il mondo: ogni cosa dovuta all’estro di Marta Crisolini Malatesta) e il personaggio ne esce fuori con un disincanto, con una proprietà di gesti lasciati perdersi nell’aria – certi giochi delle mani da imprimersi nella memoria accompagnano le parole e non pochi silenzi -, con una ironia e una precisa contraddittorietà che intelligentemente lo ingigantiscono e lo trasmettono appieno a chi guarda. Attraverso il sipario ancora chiuso inizia ad arrivarci un grande occhio – l’acceso indagare di quello che per Zeno è il dottor S. che rimanda alle teorie del viennese Sigmund -, poi tutto con estrema e tangibile leggerezza si concretizza, come leggeri sono quei movimenti coreografici (dovuti a Monica Codena) che tutti gli altri personaggi intonano, in uno spazio che s’alleggerisce o si riempie di sedie – che possono anche diventare letti di morte – e di presenze ininterrotte, come fantasmi che ritornano a guidare, a sopportare, a intessere rapporti continuamente deboli o sbagliati. La cena col padre con cui intellettualmente non c’è nulla di comune, le visite in casa Malfenti e la irrisa seduta spiritica, l’innamoramento per Ada e il ripiego su Augusta in seguito tradita con la giovane Carla pronta a trarre profitto dalla relazione mentre guarda già altrove, i rapporti con il suocero e con lo sfortunato quanto inconcludente cognato Guido, un rapporto di amore e odio, un appoggio nell’economia dell’ufficio e un abbandono (“Egli mancava di tutte le qualità per conquistare od anche solo per tenere la ricchezza”), una girandola di proponimenti e di U.S. che stanno a significare “ultima sigaretta”, il recupero di una salute che si travestirà da “inguaribile malattia”, sino allo scorcio finale che s’allinea con le pagine del romanzo, a guardare avanti ai misfatti del mondo, tra gas velenosi ed “esplosivi incomparabili”, più potenti, più feroci, dove quelli già a disposizione messi a confronto parranno degli “innocui giocattolini”, dove la terra tornerà ad essere una nebulosa che “errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.

Nell’attraversare gli otto capitoli del romanzo, Valerio mette ordine a quel continuo intersecarsi di passato e di presente che è stato dell’autore, ponendo un filo di temporale logicità, di narrazione ordinata. Creando altresì nella elasticità del racconto la figura di un Cosini giovane, che commenta e che (ri)vive, immerso nelle proprie avventure, mentre il grande vecchio fumatore rimane a guardare o impone la sua stessa parola quando il fatto del momento più gli sta a cuore. Avventurandosi ancora ben oltre, come in un gioco di matrioske o in inaspettato cappello a cilindro, corporizzando da dietro le quinte un altro “attore”, definito tout court “il mio suggeritore”, in uno straniante esperimento teatrale neppure uscito dalla penna di Pirandello. Accanto a quella di un Haber (che abbiamo al termine visto estremamente sofferente ma riconoscente a chi lo aveva seguito chiamando a testimone un ragazzino seduto in prima fila) in vero stato di grazia, sono da sottolineare le prove di Francesco Godina (il giovane Zeno), di Meredith Airò Farulla (Augusta) e di Chiara Pellegrin (Ada), di Emanuele Fortunati assai bravo come frastornato Guido. Una trasposizione, quella vista poche sere fa, pienamente convincente, moderna e divertente, leggera nell’esprimere pensieri alti, seguita e applaudita con calore da tutto il pubblico presente in sala.

Elio Rabbione

Le foto dello spettacolo sono di Simone Di Luca.

Il Piccolo Teatro Comico presenta Matteo Cionini in “Voice Over”

 venerdì 17 gennaio alle 21 in via Mombarcaro 99/B zona Santa Rita

 

L’associazione Culturale Piccolo Teatro Comico aps, in via Mombarcaro 99/b, propone per venerdì 17 gennaio alle ore 21 lo spettacolo “Voice over” di e con Matteo Cionini.

La stagione teatrale 2024-2025 ha come tema “Punti di vista, incontro”. Si tratta di una stagione comprendente diverse forme teatrali, quali il teatro comico, il teatro di prosa, il teatro lgbtq+, il teatro danza, la stand up comedy, il teatro canzone e la commedia.

Il progetto nasce da un’esigenza da parte del Piccolo Teatro Comico di rendere la cultura una via da percorrere, incrociando il cammino di uomini e donne che hanno esperienze sempre diverse, tutte preziose, che si arricchiscono incontrandosi, scontrandosi e permeandosi le une con le altre, tenendo conto delle basi culturali di integrazione e rispetto verso se stessi, gli altri e l’ambiente 2che ci circonda.

Lo spettacolo di Matteo Cionini rappresenta il primo studio sulle possibilità che si aprono quando il mimo incontra la parola ma non ne dice neanche una. Che cosa vuol dire scoprire di avere tante voci che parlano dentro e fuori di noi?

Quello che diciamo è frutto di nostri pensieri oppure quando parliamo diamo voce ad altri che parlano attraverso di noi?

Per informazioni e prenotazioni Franco Abba 3393010381

 

Mara Martellotta

Uccellini: al teatro Gobetti un progetto de lacasadargilla 

Debutto al teatro Gobetti martedì 21 gennaio prossimo, alle19.30, dello spettacolo “Uccellini” di Rosalinda Conti, per la regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni.

Si tratta di un progetto lacasadargilla prodotto da La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello in coproduzione con RomaEuropa Festival e Piccolo Teatro di Milano, teatro d’Europa, che rimarrà in scena fino al prossimo 26 gennaio.

La vicenda si svolge in una casa nel cuore del bosco, pochi mesi dopo la scomparsa di Matilde, esperta studiosa di volatili e ultima abitante della dimora dove adesso risiede il fratello Theo. A fare ritorno è il fratello maggiore Luka, accompagnato dalla nuova fidanzata Anna. Questa pièce teatrale si immerge in un mondo sospeso tra presenze e assenze, esplorando la sottile interazione tra esseri umani (vivi e morti) e animali ( vivi e morti). Il lavoro teatrale racconta delle paure che nelle nostre azioni quotidiane prendono forma, delle strategie di comunicazione tra esseri viventi e delle trame ingannevoli che spesso tessiamo e in cui rimaniamo intrappolati. Risuona, sullo sfondo di queste dinamiche, il cinguettio di uccelli, ora vivi e liberi, ora diventati esemplari preziosi da collezione. Si tratta di un’opera teatrale che invita a riflettere sulle relazioni tra gli esseri viventi e le paure che si nascondono in ciascuno di noi.

Mara Martellotta

Il carteggio inedito di Primo Levi agli Acquario Studios

Giovedì 16 gennaio alle ore 18.30 presso la libreria Acquario Studios a Torino (via Ormea, 2e) si terrà la presentazione del libro, edito Einaudi, Il carteggio con Heinz Riedt di Primo Levi. Interverranno la curatrice Martina Mengoni oltre a Walter Barberis, Maurizio Crosetti e Fabio Levi.  Il libro racconta la storia di Heinz Riedt era un tedesco molto diverso da quelli che Primo Levi conobbe ad Auschwitz: fu soldato nella Wehrmacht e poi partigiano nella Resistenza veneta; lavorò con Brecht e tradusse Goldoni, Calvino e Pinocchio; visse a Berlino Est e poi fuggí in Germania Ovest con la famiglia. E fu lui a tradurre in tedesco Se questo è un uomo e Storie naturali. Ai quesiti lessicali che Riedt gli pone, Levi risponde rievocando il gergo e le espressioni del Lager. La ricerca della parola piú adatta costringe Levi a rituffarsi nella sua drammatica esperienza per riportarla nella lingua in cui l’ha vissuta: il tedesco. Ma le loro lettere non riguardano solo il lavoro tecnico della traduzione: a poco a poco diventano un dialogo fra amici che si scambiano opinioni sulla letteratura, sulla politica, sul mondo editoriale, e sulle rispettive vite. Questo con Heinz Riedt è il primo carteggio di Levi pubblicato in volume.

“A/B” di Kaleo, mix di molteplici generi musicali

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MUSIC TALES

La sera è nostra e (anche) la primavera nella foresta Vagla,

stiamo per accamparci nei campi di bacche verdi.

Guidami, amico/a, al boschetto di ieri,

lì (dove) la primavera sussurra e crescono le betulle.

L’album è “A/B” e porta la firma inconfondibile di Kaleo.

E’ un mix di molteplici generi musicali discostanti tra di loro, si passa dal Hard rock, al Blues, al Country fino ad arrivare a melodie Pop Rock più “rilassanti”.

È un concentrato di stati d’animo.

Per chi non lo sapesse, I Kaleo sono un gruppo rock islandese formatosi nel 2012 a Mosfellsbær.

Il loro album di debutto A/B è uscito nel giugno 2016. Il brano Way Down We Go, uscito come secondo singolo nel 2016, ha ricevuto ai Grammy Awards 2018 la candidatura nella categoria miglior interpretazione rock.

Qualche settimana fa, guardando una serie TV su Sky, mi imbatto in queste sonorità bellissime e voilà, una shazammata ed eccomi volare nei cieli islandesi inaspettatamente.

Vor í Vaglaskógi” è l’unica canzone dell’album sopra citato cantata in islandese, la lingua madre dei Kaleo. Inizia con una lenta melodia di chitarra arpeggiata che ci trasporta nelle lande islandesi e che ci fa capire come questa lingua considerata da molti dura e poco melodica riesca a creare una canzone perfetta sotto ogni punto di vista. Secondo me i Kaleo hanno fatto un azzardo a mettere un brano in islandese, ma un azzardo ben riuscito che ha dato maggior visibilità a questa lingua che non conoscevo affatto e che sarebbe bello che sempre più persone riuscissero ad apprezzare a pieno.

““Se un uomo non intende correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui.””.

(Ezra Pound)

Ascoltatela bene ma bene proprio. Ve ne prego.

CHIARA DE CARLO

KALEO – Vor í Vaglaskógi (official video)

 
 

scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

Ecco a voi gli eventi da non perdere!

Vi invito a seguire le pagine sottostanti per far parte di una comunità che vuole cambiare le cose.

Che vuole più educazione al rispetto per le donne e lo fa con uno spettacolo chiamato “Respect” che, a breve, sarà nelle vostre piazze.

Uno spettacolo intenso interamente cantato da uomini affinchè sia la voce maschile ad esortare al rispetto per le donne.

Oltre 30 artisti tra cantanti musicisti ballerini e performer, al lavoro per offrire un’esperienza immersiva che trasmette un grande senso di appartenenza e gruppo.

In aiuto all’associazione Scarpetta Rossa per un sostegno concreto a chi, dall’inferno della violenza, è già passato ed è riuscito a fuggire.

Vuoi far parte della rivoluzione? Seguici!
 

https://www.instagram.com/respect_lo_spettacolo?igsh=MTU2dTY0M3kwMnJu&utm_source=qr

Superati 50mila euro per i cinque smalti del Cofano di Guala Bicchieri

Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica di Torino è lieto di annunciare che, grazie alla straordinaria generosità di 742 piccoli e grandi donatori, ha superato l’obiettivo di 50.000 € nella sua campagna di crowdfunding, lanciata dal 28 marzo al 31 dicembre 2024 per acquisire cinque ornamenti in smalto di Limoges provenienti dal cofano di Guala Bicchieri, capolavoro identitario della sua collezione.

I cinque ornamenti – elementi metallici con decoro floreale in smalto champlevé – che decoravano originariamente il cofano del cardinale vercellese Guala Bicchieri (1160-1227), saranno acquisiti grazie all’eccezionale contributo di un ampio pubblico di appassionati e sostenitori del patrimonio storico e artistico dei Musei Civici di Torino.

Una raccolta fondi inaugurata dalla generosa donazione di Sir Paul Ruddock, grande collezionista di arte medievale ed estimatore del Museo Civico torinese, e quindi conclusa grazie al significativo sostegno della Fondazione CRT, che da sempre è accanto a Palazzo Madama in tutti i suoi progetti.

 

Il cofano del cardinale Bicchieri, realizzato in legno e decorato con smalti e oreficeria, è uno degli esempi più importanti dell’arte medievale e rappresenta un unicum nella storia dell’arte di Limoges.

Originariamente impreziosito da quaranta medaglioni e numerosi elementi decorativi in rame sbalzato e smalto champlevé, ha visto la perdita di diversi componenti durante la suo lungo e travagliato passato.

A marzo 2024 Palazzo Madama ha lanciato la campagna di crowdfunding con l’obiettivo di acquistare i cinque preziosi frammenti, che per secoli sono stati parte di questo capolavoro della storia, e di riportare il cofano alla sua originaria bellezza. Tali smalti furono verosimilmente trafugati a fine Settecento nel periodo delle guerre napoleoniche – quando il cofano era conservato nella chiesa di Sant’Andrea di Vercelli – e successivamente confluirono nella collezione di Jules Chappée, industriale ed erudito di Le Mans, quindi vennero dispersi dagli eredi e infine approdarono presso l’antiquario parigino che li ha ora messi in vendita.

Con l’acquisizione di queste cinque opere, il museo è ora in grado di restituire una ulteriore parte del decoro originario all’opera, ricollocandole sul retro del cofano, che oggi risulta privo di queste decorazioni.

Il successo di questa campagna è una commovente e profondamente significativa testimonianza della forza e dell’impegno della comunità che sostiene Palazzo Madama e i Musei Civici di Torino“, ha dichiarato Giovanni Carlo Federico Villa, Direttore di Palazzo Madama. “Grazie alla generosità di centinaia di donatori, non solo aggiungiamo parti essenziali al cosiddetto ‘cofano di Guala Bicchieri’, ma poniamo nuovamente l’attenzione su un momento fondamentale della storia e del farsi d’Europa per il tramite di uno dei suoi grandi protagonisti. Sincera è la gratitudine per i numerosissimi che hanno voluto prendersi il tempo di contribuire a questo importante progetto, dando un senso al concetto di cittadinanza attiva e di memoria”.

I cinque smalti che ora riusciremo ad acquisire considerati da soli sono semplici frammenti della raffinata arte di Limoges nel Duecento, ma la loro importanza risiede nell’appartenere ad un capolavoro, cui ora possiamo ricongiungerli. Il loro riposizionamento sul cofano, a distanza di più di duecento anni, è un’operazione filologica importante che permetterà – come avviene in pittura quando una predella perduta torna accanto alla tavola cui era associata – di poter ammirare il cofano completo di alcune delle sue parti mancanti, così come esso doveva apparire a Guala Bicchieri nel 1220” – dichiara Simonetta Castronovo, conservatrice di Palazzo Madama, che fu già protagonista dello studio e acquisizione del cofano del cardinale da parte della Città di Torino e della Regione Piemonte nel 2004.

Durante tutto il corso del 2024 Palazzo Madama ha organizzato un intenso programma di sensibilizzazione, con incontri, conferenze, laboratori, visite guidate e dibattiti che si sono svolti non solo in museo ma in diverse sedi del territorio piemontese. Un ringraziamento particolare anche allo storico Alessandro Barbero, che ha unito la sua voce a quella di Palazzo Madama per sostenere la campagna.

Il risultato è stato ottenuto attraverso la piattaforma online di crowdfunding Rete del Dono, che ha permesso ai numerosissimi donatori – singoli, gruppi, famiglie, fondazioni e associazioni – di partecipare all’iniziativa.

Nella primavera 2025 Palazzo Madama offrirà a tutti i donatori l’opportunità di vedere in anteprima gli smalti appena acquisiti, in una presentazione in museo riservata ed esclusiva.

Palazzo Madama dimostra ancora una volta di essere un punto di riferimento fondamentale per la cultura italiana ed europea, e il successo di questa campagna di crowdfunding conferma l’importanza di collaborazioni e partecipazione per garantire la conservazione e la valorizzazione del patrimonio dei Musei Civici di Torino. Un patrimonio comunitario. Un patrimonio di tutti.

Tutte le info qui: https://www.palazzomadamatorino.it/it/evento/ritorno-a-casa-il-cofano-ritrova-smalto

I pianeti fantascientifici di Holst con l’OSN Rai diretti dall’americano John Axelrod

 

 

Torna sul podio dell’OSN Rai l’americano John Axelrod, protagonista del concerto in programma all’Auditorium Arturo Toscanini di Torino giovedì 16 gennaio alle 20.30, con replica in diretta su Radio 3. La replica di venerdì 17 gennaio, alle 20, è trasmessa in live streaming sul portale di Rai Cultura.

Attuale direttore Principale Ospite della Kyoto Symphony e direttore Principale della Real Orchestra Sinfonica de Sevilla, Axelrod è apprezzato in tutto il mondo per la sua versatilità ed energia. Con la compagine Rai è stato protagonista di una tournée nel sud Italia nell’estate del 2022, che ha toccato Catania, Catanzaro, Salerno, Matera, Brindisi. Ad aprire la serata sarà il “Rendering”, il restauro realizzato da Luciano Berio tra il 1988 e il 1990 sugli schizzi lasciti da Schubert a proposito della sua Decima Sinfonia, mai completata.

“Erano anni che mi veniva chiesto da varie parti di fare ‘qualcosa con Schubert’- spiegò Berio nelle note alla partitura – e non ho mai avuto difficoltà a resistere a quell’invito tanto gentile quanto ingombrante, fino al momento in cui ricevetti copia degli appunti che il trentunenne Franz andava accumulando nelle ultime settimane di vita, in vista di una Decima Sinfonia in Re maggiore D 936 A. Si tratta di appunti di notevole complessità e di grande bellezza, che costituiscono un segno interiore di nuove strade, non più beethoveniane, che lo Schubert delle sinfonie stava già percorrendo. Sedotto da questi schizzi, decise dunque di restaurarli e non ricostruirli”.

Nella seconda parte del concerto, Axelrod interpreta “The planets”, la suite opera 32 per coro femminile e orchestra scritta da Gustav Holst tra il 1914 e il 1915. In quegli anni il compositore britannico, di mente aperta e curiosa, era particolarmente influenzato dal wagnerismo e dall’espressionismo, e venne introdotto all’astrologia dallo scrittore Clifford Bax durante una vacanza sull’isola di Maiorca. Nacque così la partitura che lo rese celebre e che infuse di mirabile maestria coloristica oltre che di visionaria fantasia. Il successo del lavoro fu tale da rendere una sorta di modello per la musica cinematografica successiva, specie per le pellicole di ispirazione fantascientifica. L’opera, composta da sette movimenti ispirati al significato astrologico dei pianeti del sistema solare, vede impegnato un organico orchestrale enorme che include strumenti come il flauto basso, l’oboe basso, l’eufonio e l’organo.

Nell’ultimo movimento interviene anche il coro femminile del Teatro Regio di Torino preparato da Ulisse Trabacchin. L’ultima esecuzione di “The planets” da l’arte di una compagine Rai a Torino risale al 1957, con Sir John Barbirolli alla testa dell’OSN di Torino della Radiotelevisione Italiana.

 

Mara Martellotta

Se l’aspetto tecnico prevale sulla Storia e la Poesia

Sullo schermo l’ultimo controverso film di Robert Zemekis

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un vulcano che erutta e la natura che riprende a fiorire, un terreno su cui il magma esplode e gli incendi improvvisi divampano, una corsa di dinosauri e i nativi indiani che cacciano nella foresta vergine. I calessi del Settecento e la figura di Benjamin Franklin, la casa inconfondibile in stile georgiano costruita sul fondo dello stretto sentiero e una piccola casa, accogliente e confortevole, che le cresce accanto, una grande finestra per guardare il mondo che le si snoda davanti. E con lui i secoli e le decadi, incorniciati da una macchina da presa stabilmente poggiata, uno sguardo fisso sul salotto bello, che raccoglie e che accoglie, dove si festeggia il giorno del Ringraziamento o dove per maggiore comodità s’alloggia il padre malato, a riprendere i tanti cambi di divani più o meno antichi più o meno attuali, gli apparecchi tivù e il caminetto, gli alberi di natale e gli addobbi, i paraventi e i tappeti da spolverare e le lampade, le persone soprattutto che passano e s’avvicendano, in special modo tra le ultime generazioni, sino alle soglie del Covid, quelle che l’attraversano con visi e gesti tutti diversi, con amarezze e attimi felici, con aspirazioni e con sogni ormai buttati in fonda a un cassetto, dentro la grande Depressione e gli anni Quaranta dove un aspirante aviatore può dare vita al suo sogno (vedrà lo spettatore con quali esiti) e una coppia bohémien e desiderosa di successo può inventare una comodissima poltrona girevole e ribaltabile o più vicino a noi, dove un padre afroamericano catechizza con grande consapevolezza il figlio alla perfetta obbedienza al poliziotto se fermato ad un controllo di documenti e patente.

Questo e altro ancora passa dinanzi all’obiettivo ristretto di “Here” che Robert Zemeckis ha tratto dalla omonima graphic novel di Richard McGuire del 2014, riunendo ancora una volta attorno a sé – dopo il successo planetario di “Forrest Gump” trent’anni fa – l’amorevole cura dello sceneggiatore Eric Roth, delle musiche di Alan Silvestri, della coppia Tom Hanks e Robin Wright. Sono questi ultimi a vivere la storia del signore e della signora Young e della storia che vivono il regista ci fa sapere qualcosa di più, la passione della gioventù e l’amore sul divano sotto lo sguardo divertito del fratello di lui, il matrimonio celebrato proprio in quello stesso salotto e la nascita di una bambina, il lavoro di lui e i festeggiamenti per i cinquant’anni di lei: lei che passerà quasi l’intera esistenza recalcitrante tra quelle mura, a mugugnare, a sognare un luogo diverso, fatto di emancipazione e di completa padronanza. Ricordate la mamma di Forrest? la vita è come una bella scatola di cioccolatini e non sai mai quello che ti capita.

Libertà da quell’altra coppia Young, con le loro manie e loro premure invadenti, i genitori di lui (Paul Bettany, il più convincente di tutti, e Kelly Reilly), Al e Rose, che incrociano una guerra e un Vietnam per il quale l’altro figlio non vede l’ora di partire. Accadimenti e piccole e grandi imprese che sono una manna per un regista come Zemekis che da sempre è stato bravo a intessere nel suo Cinema quelle nuove tecniche che possono fare miracoli. Non soltanto il suo attore feticcio stringeva mani e riceveva onorificenze da presidenti degli Stati Uniti che avevano terminato la loro permanenza alla Casa Bianca oppure languiva nell’isola di “Cast Away” o entusiasmava grazie alla “permormance” o “motion capture” di “Beowulf” e di “Polar Express”: altresì – e siamo già giunti qui al tempo della autocitazione – la terna di “Ritorno al futuro”, Jessica Rabbit o il pilota di “Flight” mostravano un regista che precorreva e di parecchio i tempi. Tutti i processi tecnologici riempiono le facce di Hanks e di Wright, le rendono vive in ogni momento, li guardiamo giovanissimi e li ritroviamo con i tratti invecchiati, dentro una stanza e uno schermo che il regista spezzetta in innumerevoli quanto diversissimi – per posizioni e grandezze – riquadri, in quelle tante occasioni che potrebbero far diventare “Here” il film scoperta dell’anno. Dicevo di miracoli, se la tecnica non arrivasse ad affievolire la Storia, sovrapponendosi ad essa, imbrogliandola, anche impoverendola.

Dicevo potrebbero. È chiaro che il saggezza dell’espediente, la tecnica perfettissima, la ricerca del particolare, l’immagine spezzettata, la frammentazione del Tempo che è il grande protagonista del film, in tutta la sua costruzione e nella sua de-costruzione, possono avvincere, interessare, essere guardati con grande curiosità: ma le tante sottotrame non hanno mai sviluppo – e capiamo benissimo che a Zemeckis non interessa che le abbiano: ma a noi quegli sviluppi mancano -, anche la coppia principale si alimenta di flash, di piccole se non deboli, stringate emozioni, fatte nel momento in cui essi vivono e non oltre, di fatti che potrebbero raddoppiarsi o scomparire e il risultato non cambierebbe. Non è per risollevarci il morale: ma in “Here” resta bella davvero quell’aria di malinconia che circola, quella poesia che già ha commosso altrove e che qui siamo obbligati a ricercarla e a stringercela ben stretta. Pur se claudicante, se “imperfetto” nella sua costruzione, “Here” merita di essere visto, forse soltanto per riuscire a intravedere quel che sarà il Cinema negli anni che verranno (o forse ci stiamo già dentro): merita per quel finale d’emozioni, per quell’attimo che vola alto, con la macchina da presa che finalmente girando su se stessa inquadra ciò che sinora è stato alle sue spalle, permettendosi di uscire da quell’unico spazio, con il piccolo colibrì, che abbiamo visto qua e là nei 100 e poco più minuti, arrestarsi per spiccare di lì a un attimo un volo più deciso. Come faceva la piuma bianca sotto gli occhi buoni di Forrest.

Le origini piemontesi di Giuseppe Verdi

 

I discendenti dei Walser provenienti dai villaggi del Monte Rosa emigrati in Valstrona dalla Val d’Ossola e Valle Anzasca generarono antiche importanti famiglie. I Gianoli di Chesio, fondatori della società mineraria per l’estrazione del ferro sull’Alpe Loccia con un ramo della famiglia Cane del condottiero Facino, emigrato da Casale alla Piana di Fornero per sfuggire alla prepotenza dei marchesi del Monferrato; i conti Gozzano di Luzzogno, proprietari del patrimonio più grande di sempre del Monferrato, marchesi di San Giorgio, Treville e nobili dell’impero austroungarico; i Guglielminetti di Sambughetto, antenati della scrittrice Amalia definita l’unica poetessa italiana da Gabriele D’Annunzio, amante del poeta Guido Gozzano di Agliè la cui famiglia era proveniente da Luzzogno; gli Uttini di Chesio, Otino o Utino del ramo materno di Giuseppe Verdi, giunti nel Ducato di Milano nel 1200 con il cognome Hutten.

È doveroso ricordare l’americana Mary Jane Phillips-Matz (1926-2013), per oltre 30 anni instancabile ricercatrice sulla genealogia del grande compositore, amica di Ezra Pound protagonista e forza trainante del modernismo poetico di inizio ‘900 con Thomas Eliot. La biografia su Giuseppe Verdi di Mary Jane fu pubblicata nel 1992 dalla Banca di Piacenza, nel 1993 dalla Oxford University Press e nel 1996 dalla casa editrice Fayard di Parigi. Già su un’edizione di Famiglia Cristiana del 1990 fu citata da Maria Grazia Gibelli con un inserto sulla famiglia verdiana, a conclusione delle ricerche negli archivi parrocchiali e alla  certezza storica ottenuta grazie alla collaborazione dei discendenti di Maria Filomena Carrara-Verdi adottata nel 1869, cugina del maestro e figlia del suo notaio personale.
Luigia Uttini filatrice, mamma di Giuseppe Verdi e prima moglie dell’oste rivenditore di sale Carlo Verdi, era figlia di Carlo Uttini e di Angela Villa, abitanti a Saliceto di Cadore nell’ufficio del negozio di alimentari della vecchia Posta, nonni di Giuseppe Verdi trasferiti a Busseto nel 1800. Mary Jane scoprì gli antenati del compositore, i bisnonni Lorenzo Uttini nato il 13-8-1708 nella parrocchia di Crusinallo di Omegna e la moglie Maria Bracco. Madrina del battesimo di Lorenzo fu la zia Maria Francesca Avanzini, sposata nel 1708 nella chiesa di San Vitale del comune piacentino di Besenzone con Francesco, fratello di Giacomo Antonio Uttini trisnonno materno di Giuseppe Verdi. Era originario di Cranna di Sopra, frazione di Crusinallo, piccola comunità montana nella Diocesi di Novara dove nel 1670 fu eretto il santuario di San Fermo martire.

Le antiche tradizioni musicali degli Uttini ci riportano a Francesco Antonio Baldassarre, violinista e compositore marito di Rosa Scarlatti sposata nel 1753, cantante lirica  conosciuta a Firenze presso la Compagnia Teatrale Mingotti e nipote del compositore barocco napoletano Alessandro Scarlatti. Il violinista Uttini, membro dell’Accademia Filarmonica di Bergamo e Bologna, debuttò a Genova esibendosi davanti a Mozart e fu direttore dell’Orchestra Reale di Corte svedese. Alla morte della moglie Rosa sposò a Stoccolma nel 1788 la soprano svedese Sofia Liljegren, conosciuta come Sofia Uttini e il figlio Carlo fu attore e ballerino del Corpo Reale svedese. Ricordiamo l’esibizione della soprano Elisabetta Uttini nella basilica di San Marco a Venezia nel 1721 e don Carlo Uttini, sacerdote e grande pedagogista italiano, cugino del compositore di Busseto. Mary Jane scoprì una figlia illegittima di Verdi, abbandonata nell’orfanotrofio di Cremona avuta da Giuseppina Strepponi nel 1851, in quel momento amante ed in seguito sua seconda moglie. L’ardente patriota è considerato tuttora uno dei maggiori  compositori di tutti i tempi e la sua musica assimilata nella coscienza nazionale rappresenta un’epoca memorabile.
Armano Luigi Gozzano 

“Il cammino della speranza: poesia come cura per l’anima”

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TORINO TRA LE RIGHE

Per la rubrica Torino tra le righe, oggi voglio parlarvi di un libro molto toccante: “Il cammino della speranza”, scritto da un’autrice torinese che si firma con lo pseudonimo Good Vibes. Si tratta di una raccolta poetica profondamente commovente che esplora le cinque fasi del lutto attraverso la forza evocativa della poesia. Ogni poesia rappresenta un viaggio intimo e universale attraverso le fasi del lutto: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. La raccolta è stata concepita per aiutare il lettore a riconoscere e accogliere le proprie emozioni, offrendo al contempo un percorso verso la speranza e la rinascita.
Il libro si apre con un prologo in cui l’autrice spiega come scrivere queste poesie sia stato per lei un atto di sopravvivenza, un modo per dare forma al dolore che l’ha travolta quando ha perso entrambi i genitori. Questo processo di elaborazione personale si riflette nelle sue parole, che guidano il lettore attraverso le emozioni più profonde e dolorose, dall’incredulità iniziale alla rabbia, dalla negoziazione alla tristezza, fino alla scoperta di una nuova luce nell’accettazione. “Il cammino della speranza” diventa così uno specchio per chiunque abbia affrontato una perdita, un invito a sentirsi meno soli e a trovare conforto nella poesia.
Good Vibes, nata a Torino nel 1980, ha seguito studi classici e si è laureata in lettere moderne. La prematura perdita dei genitori l’ha costretta a mettere da parte il sogno di insegnare, spingendola verso una carriera nel mondo aziendale. Tuttavia, il bisogno di esprimere e comprendere il proprio dolore l’ha portata a scrivere. Con il tempo, ha trasformato questa attività in una missione: aiutare gli altri a superare il lutto attraverso le sue opere.
“Il cammino della speranza” non è l’unico libro in cui Good Vibes affronta il tema della perdita. “Il libro del vento”, ad esempio, trae ispirazione dalla toccante storia del “telefono del vento”, un monumento situato a Otsuchi, in Giappone, dove le persone possono metaforicamente “parlare” con i propri cari scomparsi. Un altro titolo significativo è “Nel tuo abbraccio: lettere dal cuore”, una raccolta di lettere intime in cui l’autrice tiene vivo il ricordo delle persone amate, offrendo al lettore una prospettiva sincera e confortante sul modo di affrontare il dolore.
Lo pseudonimo Good Vibes riflette il desiderio di trasmettere un messaggio di positività e di speranza, anche nei momenti più bui. La bellezza di queste raccolte risiede nel loro valore terapeutico: attraverso i versi, il lettore viene accompagnato in un percorso di riflessione, comprensione e guarigione. Alla fine del viaggio, la poesia illumina una strada verso una nuova serenità, ricordandoci che, anche nei momenti più difficili, la speranza può essere una guida preziosa.
Consiglio vivamente la lettura di “Il cammino della speranza” e delle altre opere di Good Vibes a chiunque senta il bisogno di ritrovare un senso nel dolore e di scoprire una luce nel buio. Questi libri rappresentano non solo un’esplorazione poetica del lutto, ma anche un abbraccio virtuale per chiunque stia affrontando una perdita.
Marzia Estini
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