Nelle vicende della vita, come per i corsi e ricorsi di Gianbattista Vico, avviene che cose sopite da tempo si ripetano e rinnovino e ci sia sempre un nuovo ciclo. A me è successo, da un pò di tempo di appassionarmi nuovamente ai gialli, noir e Thriller

Pensavo che fosse una passione sopita per dar sfogo ad altre letture, forse più impegnative, ma giallo, noir e Thriller mi fanno nuovamente compagnia. Tutto è ricominciato con Il Postino di Superga dell’accoppiata Carillo Tallone un paio di anni fa e, da allora, non passa settimana senza Giallo. Le vicende della protagonista Lola, una femminista sui generis mi intrigano fino ad arrivare ad altri autori. Sapere che la terza edizione del Torino Crime Festival si svolgerà dal 12-15 aprile, essenzialmente, al Circolo Lettori è uno stimolo particolarmente interessante e un invito a partecipare. Nella mattinata di giovedì 12,dalle 9.30 alle 12, con il profiler Fabrizio Russo è previsto il seminario “Psicologia investigativa e offender profiling” (iscrizioni torinocrimefest@gmail.com), mentre al pomeriggio, a partire dalle 15, ma al Tribunale di Torino “L’analisi del crimine” con lo psichiatra forense Alessandro Meluzzi e lo scrittore giallista Biagio Carillo, il comandante Fabio Federici e l’avvocato generale dello Stato Giorgio Vitari. A moderare Araceli Meluzzi dell’associazione Giovani Avvocati di Torino. Alla sera, alle 21, il film “Amore criminale”. (iscrizioni torinocrimefest@gmail.com), di nuovo al Circolo dei Lettori) Nella seconda giornata di venerdì 13 aprile, nel pomeriggio alle 15, è previsto “Storie di Galera” per passare a “Il seme della violenza” con la spiegazione del perché i reati sugli animali non sono di serie B e proseguire con Fabrizio Russo , lo psichiatra Pietro Petracco e il giallista Carlo De Filippis, occasione per presentare anche la nuova collana editoriale “Celid“. Concluderanno verso le 19 il professore Pier Luigi Baima Bollone (conosciuto pure come sindonologo) che assieme Mariangela De Cesare ci parleranno del perché Cesare Lombroso è considerato il padre del diritto penale moderno e di nuovo Fabrizio Russo e Anthony Pinizzotto che ci parleranno di Criminal Mind ovvero del lavoro nel campo della psicologia comportamentale. Nella terza giornata, al mattino, di nuovo il criminologo e giallista Biagio Fabrizo Carillo e l’avvocato Guglielmo Gulotta che ci illustreranno, durante il seminario, la moderna investigazione criminologica e argomentazioni e ragionamenti nelle indagini per passare nel pomeriggio, sempre con Carillo e l’abbinamento con Deborah Brizzi, autrice de “La stanza chiusa”, una sorta di apologia della vendetta,” prendendo spunto dai rispettivi romanzi degli autori passano a “Narrazioni poco conformi, quando la divisa e la scrittura si incontrano“. il Festival continua con altre interessanti “trattazioni” fino a sera e il giorno dopo su violenza domestica, stalking, mafia, immigrazioni e reati e una serie di interessanti film di successo. Non c’è che dire: il Po è il fiume su cui si ambientano gialli, noir e thriller, perché l’acqua è sempre fonte di ispirazione, di vita e di morte e il Giallo è di casa.
Info: torinocrimefest@gmail.com; www.crimefestival.it
Tommaso Lo Russo
1965, grazie ai concerti di quei “Fab Four” e “Stones”, la strada era già chiaramente tracciata; l’area del Midwest americano (tra Ohio, Michigan, Minnesota, Iowa, Illinois, Indiana, fin quasi al Colorado e all’Oklahoma) divenne terreno fertile per la nascita di una nuova forma di rock dai toni più crudi, grezzi e “home made”: il garage rock. Prendeva le mosse dalla scia del rock & roll e inglobava
l’apporto del British Invasion rock, ma trasformandolo in un prodotto realizzabile da un vasto bacino di musicisti e fruibile da un variegato pubblico; le chitarre diventavano aggressive e distorte, la voce ringhiante, i testi più graffianti, sfacciati e diretti. La fiammata fu veloce ed improvvisa, l’ascesa travolgente; ma altrettanto rapido fu il declino, tanto che molte bands ebbero carattere di meteore ed entrarono nell’oblio già al giro di boa degli anni Settanta. In parallelo, la metà degli anni Sessanta vide l’affermarsi del movimento psichedelico, che impregnava il rock di particolari caratteristiche: la forma musicale ed il rapporto testo-musica assumevano fattezze fluide, venivano assorbiti suoni dell’area indiana e orientale, si sperimentavano novità pionieristiche nelle sale di registrazione, si ricorreva anche all’uso di chitarre “fuzz-toned” e alla stratificazione sonora con effetti di eco e di riverberi multipli. L’area californiana irradiò il verbo dello psychedelic rock in tutti gli Stati Uniti, tramite Doors, Jefferson Airplane, Grateful Dead, Big Brother and The Holding Company, Quicksilver Messenger
Service, Byrds, Love, Moby Grape, Electric Prunes e molti altri. L’onda raggiunse anche il terreno del garage rock e si fuse con esso, dando vita ad una forma ibrida di “garage rock psichedelico”, sfaccettato e borderline che agli esordi degli anni Settanta si trasformò ancora e, come il garage, lasciò dietro di sé una vasta realtà di bands dalla vita breve o che non ebbero la fortuna di incrociare produttori musicali di primo piano e finirono per essere ingiustamente dimenticate. Dei “grandi” hanno discusso, discutono e discuteranno in molti (forse anche in troppi). Ma chi parlerà delle seconde e terze linee? Chi toccherà quest’area quasi ignota delle bands che vennero travolte dal rapido trasformarsi degli eventi, in quel lustro che dal 1965 al 1970 fu contraddistinto da un furore ed una frenesia musicali che, a dire il vero, probabilmente non avranno più eguali nella storia? Magari noi in questo spazio, perché no…
città di Torino, ma all’intero Piemonte di uno dei luoghi simbolo dell’archeologia industriale che ha acquisito una nuova dimensione e una nuova anima che sa di ricordi. Anzi agli stessi si lega e sposa e perpetua in un continuum che sa di passato e futuro nel quale si proietta alla grande. Ma le OGR non sono solo il luogo dell’arte e dei concerti, ma anche un Polo dell’eccellenza del “buon bere” e del “ben mangiare” e per stare in compagnia. Dopo una sorta di nuovo Big Bang, la città di Torino ha ripreso ufficialmente possesso delle nuove Officine Grandi Riparazioni: “dopo mille giornate lavorative e 100 milioni di euro di investimento da parte della Fondazione Crt”, come ricordava il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino (Crt) Giovanni Quaglia all’inaugurazione del 29 settembre scorso. Con l’apertura della Corte Est, antistante all’ingresso, scaturisce invece,
come ha spiegato Massimo Lapucci, segretario generale della Fondazione Crt e direttore generale delle Ogr (forse) il compito più arduo: “diventare un simbolo della nuova città, anche al di là del loro valore estetico”. A BINARIO 1 Susan Hiller Social Facts a cura di Barbara Casavecchia è in corso dal 30 marzo – 24 giugno 2018 “Social Facts, mostra personale di Susan Hiller.
Learn & Play! teamLab Future Park, progetto multimediale a cura del collettivo teamLab”. Lo spazio prende in questa occasione la forma di una mostra e di uno show digitale, di un’esperienza di giornalismo narrativo e interattivo basato sull’approfondimento. Invece a BINARIO 3 c’è “Learn & Play! teamLab Future Park” Dove i bambini giocano nel futuro . Primo progetto permanente in Europa di teamLab, collettivo di sviluppatori giapponesi il cui successo è stato consacrato dal pubblico di Expo2015. Il progetto accoglierà in un ambiente digitale interattivo i bambini dai 3 ai 10 anni, invitandoli a esplorare il confine tra arte e tecnologia attraverso un insieme di installazioni e postazioni immersive 
svegliarsi, le imposte al piano superiore aperte per metà rappresentano un metaforico sgranchirsi dopo il riposo della notte. Tutto intorno vi è un gran fracasso di persone, contadini già stanchi si mescolano a qualche figura ben vestita, mentre un distinto cane da caccia insegue un gruppo di galline, un giovinetto porge dei fiori alla sua bella. Si sta eseguendo un quadro manierista, ricolmo di infiniti dettagli, uno in particolare va messo in risalto: nell’angolo in basso a sinistra, vicino all’anziana contadina che spia i giovani innamorati, il prete del paese sta discutendo con un signore dall’aria raffinata e dai lineamenti leggermente rotondi come i piccoli occhiali che indossa. Quello che si è delineato è un esercizio di pura fantasia, se avesse un titolo potremmo proporre: “Visione idealizzata di una giornata di Camillo Benso, Conte di Cavour, durante l’estate a Leri”. Sappiamo infatti che il grande statista piemontese, amava trascorrere più tempo possibile presso questo borgo, una sua tenuta estiva a cui egli era molto affezionato. Si dice che qui abbia scritto ben ottantatre lettere documentate.
dell’800, il territorio venne acquistato da Napoleone Bonaparte, che però non lo visitò mai di persona. In seguito la zona venne concessa al Principe Camillo Borghese, che lo vendette a Michele Benso di Cavour, padre di Camillo. Grazie agli interventi della famiglia Cavour il borgo cambiò completamente aspetto, trasformandosi in una sorta di azienda agricola, Camillo stesso progettò dei macchinari per l’epoca avanzati e moderni, volti sia al lavoro nei campi, sia a migliorare il sistema di irrigazione. Oggi, chi si avventura a perlustrare il territorio di Leri non trova alcuna facilità nell’immaginare l’operosità ed il fermento che all’epoca caratterizzava questa zona. Quando mi metto in macchina, con due amici, per raggiungere la borgata i colori attorno a me sono intensi, in netto contrasto gli uni con gli altri. Non sono io questa volta a guidare e decido di distrarmi guardando il paesaggio in continua trasformazione al di là del finestrino: penso alle vecchie pellicole in cui le scene erano tutte accelerate e i protagonisti si muovevano a scatti. Usciamo dalla via principale ed imbocchiamo una stradina sterrata e non capiamo nemmeno di essere arrivati a destinazione. Siamo scivolati in una atmosfera di onirico silenzio, la moltitudine di cascine e strutture a due piani sembrano essersi addormentate in seguito a chissà quale incantesimo; tutto sta riposando e nel sonno invecchia senza accorgersene.
qualcuno iniziò ad andar via, fino a quando rimase solo ciò che non poteva spostarsi. Negli anni ’80 ci fu un piccolo ripopolamento, alcune famiglie degli operai dell’Enel si trasferirono nelle vecchie cascine, ma fu una breve resurrezione di appena dieci anni. Negli anni ’90 qualcuno propose di costruire lì un Museo Nazionale dell’Agricoltura, ma le parole si persero nel vento, come l’ipotesi, del 2011, di iniziare i lavori di restauro per recuperare la tenuta della Famiglia Cavour, in occasione dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia. È malinconicamente romantica la sensazione che provo, osservando oggetti dimenticati, traccia silenziosa del vissuto di qualcuno, mi colpiscono uno stendibiancheria e degli adesivi appiccicati al muro ad altezza di bambino. Tutte le strutture sono prive di mobilia, le finestre e le imposte e le porte sono state scardinate e appoggiate ai muri, l’unico edificio chiuso ermeticamente è la chiesa. Ci aggiriamo tra quei colossi assopiti, il loro respiro calmo passa attraverso i battenti scarni, levigando con delicatezza la loro pelle di cemento e pietra, fino al momento in cui ci ritroviamo in uno spiazzo quadrato, che circonda un edificio, abbastanza ben conservato, dalla pianta quadrata e che si alza su due piani.
affrescato, i decori sono sulle tinte del blu e dell’oro, sulla parete che sta di fronte a me e in quella alla mia sinistra sono stati dipinti dei finti caminetti, il muro che sta alla mia destra è squarciato da due grandi finestre rettangolari. I segni delle intemperie sono visibili, ma pare che il tempo abbia voluto essere meno intransigente con questo edificio. La villa è abbastanza grande, priva di arredamento interno, ogni sala è dominata da una tinta differente, penso che se si frantumasse potrebbe trasformarsi in un ipnotico enorme caleidoscopio. Giriamo con calma, venendo meno alla tabella di marcia; scatto molte fotografie tentando di catturare le sfumature di colore, ad ogni passo rifletto sul fatto che ogni cosa, lì, è pregna di Storia. Abbiamo appena finito di visitare tutte le stanze, quando il cambiamento di luce mi avvisa che è ora di andare. Anche qui ci sono stati avvistamenti di spiriti e fantasmi, ed è il momento di lasciare spazio a loro, i degni abitanti di quei sogni lontani che i giganti di pietra ancora stanno vagheggiando.
condizioni dei lavoratori impegnati nei lavori manuali che la meccanizzazione tecnologica sta sostituendo. In cammino (2000) illustra la tragedia dei lavoratori delle miniere d’oro in Serra Pelada nel Nord del Brasile i quali, espulsi dal processo di industrializzazione, finiscono per ingrossare la massa dei poveri nelle città. Documentando i grandi processi di trasformazione economica, sociale e ambientale in corso nel mondo, senza l’affanno di inseguire la stretta attualità, Salgado ha trovato una propria dimensione, unica nel panorama internazionale. Genesi costituisce un progetto di lungo respiro che Salgado inizia nel 2003 per concluderlo dieci anni dopo. Il lavoro è frutto di un lungo viaggio per il pianeta alla ricerca di luoghi non ancora offesi dall’uomo, dove è possibile catturare immagini che rivelino la magnificenza ancestrale e la potenza incontaminata della natura. L’opera finale si compone di duecento eccezionali fotografie che ritraggono regioni dove flora e fauna proliferano tuttora intatte ed in cui l’uomo vive in condizioni pressoché primitive. Lo sguardo consapevole ed amorevole di Salgado si posa sulle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea. Si leva in volo sui ghiacciai dell’Antartide e sulla taiga dell’Alaska. Ridiscende nuovamente verso i deserti dell’America e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne del Cile, del Canada e della Siberia. Le sue fotografie, rese in un lucido bianco e nero, vanno a comporre un commovente itinerario fotografico, capace di catturare l’osservatore passo dopo passo, restituendo immutato l’incanto dei paesaggi come dei ritratti individuali o di gruppo.
confine. Un itinerario alla scoperta di specie animali e popolazioni finora scampate all’abbraccio letale della vita moderna. La sua opera ci fornisce la prova che il nostro pianeta accoglie regioni immense e remote in cui la natura regna indiscussa, possente e silenziosa. La teoria di fotografie esposte ci suggerisce che i ghiacci dei poli, le foreste pluviali, le savane inospitali e le sabbie roventi costituiscono la superficie non solo più estesa ma soprattutto più ragguardevole della Terra. Sono queste regioni a proteggere con la loro vastità quasi inesplorata forme di vita la cui sopravvivenza si fonda proprio sull’isolamento. In queste lande il tempo scorre in modo circolare, le stagioni si succedono e ritornano seguendo un ritmo primigenio, lento, costante, che l’essere umano civilizzato ha finito per dimenticare.
ha provveduto a piantare in quindici anni circa due milioni di alberi di oltre trecento specie diverse. Pianure e colline un tempo aride sono ora occupate dalla Mata Atlântica, la foresta pluviale subtropicale presente sulla costa intorno al Rio Grande. La ricostituzione di questo microclima ha richiamato uccelli e altri animali che erano scomparsi da decenni, permettendo il recupero della naturale biodiversità. Gli alberi sono inoltre in grado di assorbire il diossido di carbonio e, utilizzandolo per la fotosintesi, di liberare ossigeno. La riforestazione contribuisce quindi a limitare i danni prodotti dalle emissioni nell’atmosfera di questo gas serra responsabile del riscaldamento globale nonché dei cambiamenti climatici ad esso conseguenti Questo immenso e paziente lavoro di ripristino dell’ecosistema è stato descritto nell’ottimo documentario Il sale della terra, girato da Wim Wenders nel 2014. “Con gli alberi piantati”, hanno detto Sebastião e Lélia Salgado, “possiamo respirare meglio e nutrire speranze per il futuro del nostro pianeta”. Salgado non è mosso dall’idea di scattare fotografie belle o di inseguire la celebrità, ma da un senso di responsabilità che rappresenta anche la sua missione dichiarata: rendere visibile la rotta che l’umanità deve ripercorrere per salvaguardare il pianeta che abbiamo ereditato.
progetti:
Fino al 27 maggio il Binario 2 è invece dedicato a “The NewsRoom. Un’immersione sensoriale nelle notizie”, progetto realizzato da “La Stampa” creato per esplorare nuove forme di giornalismo, in collaborazione con il collettivo “Studio Azzurro” vincitore di numerosi riconoscimenti internazionali. Lo spazio prende in questa occasione la forma di una mostra e di uno show digitale, di un’esperienza di giornalismo narrativo e interattivo basato sull’approfondimento.
conferenze, dibattiti e appuntamenti legati al Public Program.

Bob & Marys – Criminali a domicilio – Commedia. Regia di Francesco Prisco, con Laura Morante e Rocco Papaleo. Lui lavora in un’autoscuola, lei è casalinga, una coppia senza problemi se non fosse che la loro casa, ai limiti di un quartiere di degrado, non fosse presa di mira da una banda di delinquenti che la eleggono a magazzino per nascondere certa merce che scotta. La realtà è quella di Napoli, la storia ha autentiche radici nel passato ma il regista sceglie di inquadrarla con il cuore più che leggero. Durata 110 minuti. (Ambrosio sala 2, Massaua, The Space, Uci)
tormentata, non potendo neppure contare sulla figura del padre, un uomo che ama mettersi nei guai e perciò costretto a rapide fughe dalle cittadine del nord in cui ha appena trovato un lavoro. In un momento di sosta e di pace prolungate, Charley trova una sua piccola occupazione presso l’alcolizzato Del, si occuperà di un cavallo piuttosto male in arnese, quasi non più adatto alle corse di un tempo. Un giorno il ragazzo scopre che che l’animale sta per essere mandato al macello. Dal regista di “45 anni” con una premiatissima Charlotte Rampling, il giovane protagonista, bravissimo e premiato a Venezia con il premio Mastroianni, lo abbiamo visto come Paul Getty jr nel recente film di Ridley Scott. Durata 122 minuti. (Nazionale sala 1)
Chiamami col tuo nome – Drammatico. Regia di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet, Armie Hammer e Amira Casar. Nei dintorni di Crema, il 1983: come ogni anno il padre del diciassettenne Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi eccessivo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero. La sceneggiatura firmata da James Ivory e tratta dal romanzo di André Aciman ha conquistato meritatamente l’Oscar. Durata130 minuti. (Eliseo rosso)
Il filo nascosto – Drammatico. Regia di Paul Thomas Anderson, con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps e Lesley Manville. Nella Londra degli anni Cinquanta, il famoso sarto Reynolds Woodcock è la figura centrale dell’alta moda britannica, eccellentemente coadiuvato dalla sorella Cyril: realizzano gli abiti per la famiglia reale (qualcuno ha visto il ritratto del celebre Norman Hartnell), per le stelle del cinema, per ereditiere, debuttanti e dame sempre con lo stile distinto della casa di Woodcock. Il grande sarto è anche un incallito e incredibile dongiovanni, nella cui vita le donne, fonte d’ispirazione e occasione di compagnia, entrano ed escono: fino a che non sopraggiunge la presenza della semplice quanto volitiva, a modo suo spregiudicata, Alma, una giovane cameriera di origini tedesche, pronta a diventare parte troppo importante della vita dell’uomo, musa e amante. L’ordine e la meticolosità, doti che si rispecchiano meravigliosamente nella fattura degli abiti e nella condotta di vita, un tempo così ben controllata e pianificata, vengono sovvertiti, in una lotta quotidiana tra uomo e donna. Film geometrico e algido quanto perfetto, forse scontroso, eccezionale prova interpretativa per la Manville e per Day-Lewis, forse il canto del cigno per l’interprete del “Mio piede sinistro” e di “Lincoln”, convinto da oggi in poi ad abbandonare lo schermo. Oscar per i migliori costumi. Durata 130 minuti.
Venezia, tredici candidature agli Oscar, arriva l’attesissima storia del mostro richiuso in una gabbia di vetro all’interno di un laboratorio governativo ad alta sicurezza (siamo negli States, in piena guerra fredda, il 1962) e del suo incontro con una giovane donna delle pulizie, Elisa, orfana e muta, dei tentativi di questa di salvarlo dalla cupidigia dei cattivi. Avrà l’aiuto degli amici (il disegnatore gay, lo scienziato russo pieno di ideali, la collega di colore), cancellando la solitudine e alimentando i sogni, in un’atmosfera che si culla sulle musiche di Alexandre Desplat, contaminate da quelle dei grandi del jazz degli anni Sessanta. Durata 123 minuti. (Ambrosio sala 3, Massaua, Eliseo Rosso, Reposi, Uci)
Hostiles – Ostili – Western. Regia di Scott Cooper, con Christian Bale, Rosamund Pike e Wes Studi. Nel 1892, due anni dopo il massacro di Wounded Knee, non ancora consolidata la pace tra indiani e visi pallidi, al capitano Joseph Blocker viene affidato l’incarico non facile di riportare nelle terre del Montana il vecchio capo Cheyenne Yellow Hawk, proprio il responsabile delle morti di molti soldati del capitano. Durante il lungo percorso molti fatti verranno a mutare i rapporti tra i due uomini, non ultimo la presenza di una donna cui gli indiani hanno distrutto l’intera famiglia. Paesaggi, personaggi che sanno d’antico, un genere che ha avuto vita gloriosa e che oggi, più che raramente, vede qualche debole accenno. Bale è un macigno, un trionfo di espressioni indurite, capace di conservare un’unica speranza nella scena finale, pieno di crudeltà e di piccoli affetti; il film è un vero capolavoro, nello spessore del racconto, nella cadenza che il regista sa imprimergli, nel vecchio quanto superbo impianto, nella rivisitazione di una intera Storia. Gli appassionati non se lo lascino sfuggire. Durata 127 minuti. (Greenwich sala 3)
Lady Bird – Drammatico. Regia di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Lucas Hedges, Timothée Chalamet e Laurie Metcalf. Una storia che pesca nell’autobiografia, l’autrice, come il personaggio femminile del film, è nata a Sacramento, in California, e sin da giovane smaniosa di raggiungere la costa orientale per studiare e dedicarsi al cinema. Anche Christine sogna di iscriversi ad una università nella parte opposta degli States, sottrarsi alla madre autoritaria, alla figura del padre senza lavoro, a quel piccolo mondo che la circonda. S’inventa storie, fa fronte alle prime prove d’amore, dal risultato negativo, fa di tutto per mettersi in buona luce agli occhi dei compagni di scuola che sembrano valere più di lei, ricavandone delusioni, s’appiccica quel nome del titolo: quale sarà il suo futuro? Un ritratto femminile già visto altre volte, che cerca continuamente sfide interpretative e di regia: ma un film che non lascerà un grande ricordo di sé, a bocca asciutta nella notte degli Oscar. Durata 94 minuti. (Nazionale sala 2)
bella restauratrice, con un paio di aiutanti al seguito, che vive grazie alla pensione della nonna visto che lo Stato tarda a riconoscerle i quattrini che le deve per tutto il lavoro che ha svolto. E se la vegliarda passa a miglior vita? Spetterà alla ragazza ingegnarsi per la sopravvivenza, l’elettrodomestico del titolo fa al caso suo, le amiche un piccolo aiuto non lo negano e la pensione della nonna si potrà continuare a percepire. Durata 100 minuti. (The Space, Uci)
una moglie che ha deciso di lasciarlo, una rapina finita male che è costata la vita di parecchi suoi uomini. Dall’altra parte una banda di delinquenti, un curriculum di tutto rispetto, dall’addestramento paramilitare alla permanenza nelle patrie galere, il progetto studiato in ogni più piccolo particolare a svuotare la Federal Reserve Bank di Los Angeles ritenuta inespugnabile. Durata 140 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci)
L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è visto per il ruolo assegnare un Globe, ha meritatamente conquistato poche sere fa l’Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: un secondo Oscar al film, premio agli artefici e alle tante ore di perfezione ogni giorno di lavorazione cui l’attore s’è sottoposto. Durata 125 minuti. (Greenwich sala 3)
Ricomincio da noi – Commedia. Regia di Richard Loncraine, con Imelda Stauton, Celia Imrie e Timothy Spall. Il film che con risate, un po’ di autentica commozione e grande successo aveva aperto l’ultimo TFF. Scoperto che il marito la tradisce da anni con la sua migliore amica (mai fidarsi!), la protagonista scopre, attraverso l’eccentricità della sorella, quei tanti amici che la circondano, il suo modo spensierato di affrontare e condurre la vita, di avere voglia di buttarsi alle spalle tutto quanto, magari iniziando con il frequentare una sala da ballo. La attendono ancora altre prove ma un non più giovane innamorato la farà decidere la nuova strada da intraprendere. Nessuno scossone ma una bella botta di vita comunque, per lo spettatore e per la terna d’attori che sono tra il meglio del cinema e del teatro inglesi, da ammirare. Durata 110 minuti. (Romano sala 3)
luoghi, per investigare sul ritrovamento del corpo martoriato di una ragazza scomparsa. Le dà sostegno e aiuto Cory, un navigato cacciatore impiegato a difendere il bestiame dagli attacchi dei predatori sempre in agguato, un animo tormentato, abbandonato dalla moglie dopo la scomparsa della figlia maggiore. Entrambi alla ricerca del colpevole, in un territorio dove ogni cosa sembra essere abbandonato alla violenza, in cui forse è necessario agire e rispondere esclusivamente con le sue stesse leggi. Dallo sceneggiatore di “Sicario” e “Hell or High Water”, terzo capitolo di una trilogia che ha affrontato il tema della frontiera americana oggi. Miglior regia a Un certain regard a Cannes lo scorso anno, grande successo al TFF. Durata 107 minuti. (Eliseo Grande, Ideal, Massimo sala 1 anche in V.O., Uci)
Brogi, Lorenzo Pedrotti e Viola Sartoretto. Tre storie che s’intrecciano per confluire insieme in un angolo di serenità. La giovane Gea, malata terminale, all’insaputa della famiglia si rifugia con un amico, forse innamorato di lei, in una valle piemontese al confine con il territorio svizzero. Là, in una borgata antica, fatta di case di pietra, dimenticata, vivono un vecchio frate eremita che ha raccolto negli anni una ricchissima biblioteca e un medico, in cerca di medicamenti alternativi, senza risposte certe, e per questo cacciato dalla civiltà che lo ha giudicato e condannato. Un’altra scommessa vincente per l’autore che tre anni fa con “E fu sera e fu mattina” divenne un caso cinematografico, ovvero budget ridotto all’osso e grande successo per i cinefili doc: anche adesso, con un amichevole passaparola, il film, accompagnato con amore dal suo autore, si sta dimostrando, anche se imperfetto, un invidiabile successo. Durata 110 minuti. (Reposi)
Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Oscar strameritati per la protagonista e per il poliziotto mammone e fuori di testa di Rockwell. Durata 132 minuti. (Greenwich sala 2)
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presente anche la data di morte, il 1950, e quindi nel 2020 sarebbero settant’anni tondi… Ma la situazione d’oggi, politica e culturale, rappresenta un contesto particolarmente interessante per un confronto storico-critico spregiudicato sul corpus pavesiano.
Jesi (Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito, in “Sigma”, n. 3-4, 1964) e di Lorenzo Mondo, che su “La Stampa” dell’8 agosto 1990 rivelò parti censurate del Taccuino segreto di Pavese. Ma anche recentemente un altro piemontese illustre, Franco Ferrarotti, amico personale di Pavese, ha dichiarato l’impossibilità di considerarlo storicista, crociano o marxista (