CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 723

Le contraddizioni cinesi, i fantasmi tedeschi e un ricordo – bellissimo – di Gipo

Il mondo dei poveri in contrapposizione al mondo dei ricchi. Nella Pechino di oggi, piena di contraddizioni, un timido e solitario meccanico si barcamena tirando avanti come può con moglie e figlio. Il lavoro è scarso e le spese battono ogni giorno alla porta. Quando arriva un ricco cugino per chiedere all’uomo l’offerta di un rene per la sorella da tempo in dialisi, il poveretto con un buon mucchio di soldi in pagamento accetta, all’insaputa della famiglia.

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Ma ci sono complicazioni, il trapianto non riesce. Per un secondo intervento, ed è una pretesa ora del ricco, compatibile sarebbe il figlio dell’uomo, diciottenne e libero di decidere, che con quell’offerta allettante è pronto a lasciare il paese e contro la volontà del padre accetta. Sarà questi tuttavia infine a decidere del destino di entrambi. The donor (ovvero “il donatore”) del regista Qiwu Zang, qui alla sua opera prima, è un film che, dimenticando con fatica da parte nostra i tempi delle scene e del racconto intero, ci spinge a immergerci in due opposte psicologie, nei comportamenti che arrivano da strade lontanissime. Ma è soprattutto, ampliando lo sguardo, il ritratto degli scompensi di una società che reclamerebbe eguaglianza a sconcertare, il toccare con mano i contrasti di una intera società; e il regista registra freddamente ma allo stesso tempo con grande umanità la faccia di una patria cui lui e gli attori appartengono. Di tutt’altro tono Wir sind die Flut (ovvero “Noi siamo la marea”) del tedesco Sebastian Hilger, alla sua opera seconda. Le coste di Windholm, tra la nebbia e il freddo della costa della Germania del nord, una marea che 15 anni prima si è ritirata portando con sé tutti i bambini del villaggio e non è più ritornata. Da quel giorno la vita non è più stata la stessa, il vecchio maestro intravede facce e ombre, le madri attendono con speranza un cambiamento che non verrà mai, gli uomini sono chiusi in un dolore che difendono contro ogni domanda, contro ogni intruso.

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Ma le domande ci sono e sono necessarie, due giovani dottorandi vengono inviati dall’università, Micha che già da qualche anno si occupa di quanto è accaduto, e Jana, reduce da una Lisbona dove s’è rifugiata nella speranza di dimenticare l’amore per il ragazzo. Calcoli, teorie, studi, oggetti che tornano alla luce, corpi e orme degli scomparsi che sembrano materializzarsi, come Matti, bimbo di nove anni, chiuso nella sua intelligenza e in una malattia che lo avrebbe condotto alla morte, che già aveva intravisto quella tesi che Micha avrebbe fatto sua. La ricerca di un altro mondo, nell’immobilità del tempo, un futuro pienamente compiuto, più reale del reale, che cancella l’instabilità dei rapporti, la tristezza degli adulti, la solitudine di quell’unica ragazzina sfuggita alla marea di un tempo. Non sempre i conti tornano nel film che s’avvolge dentro la realtà e il sogno, il passato e un possibile futuro: tuttavia proprio questa atmosfera imprecisa, impalpabile, azzardata a ogni immagine convincono e coinvolgono lo spettatore non troppo abituato ai toni neri del Nord.

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Invece, tornando pienamente a casa, applaudiamo senza riserve, nella sezione “Festa Mobile”, Gipo, lo zingaro di barriera scritto e diretto da Alessandro Castelletto, con la produzione di Valentina Farassino, omaggio ad un personaggio e a una voce non certamente dimenticati. Un ritratto costruito con rispetto da Luca Morino che, immaginando di ritrovare un giorno davanti al proprio negozio di strumenti musicali uno scatolone pieno di ricordi e oggetti dello chansonnier, articoli, foto, dischi, un tirapugni, inizia a battere la Barriera, a incrociare i vecchi amici di un tempo, quelli che hanno cantato e riso con lui, il cortile di via Cuneo, le sue canzoni, le sue emozioni, la sua umanità, le contraddizioni, la politica e l’impegno, gli ultimi spettacoli, Massimo Scaglione e Gian Mesturino che ce lo rendono nei suoi dolori, i racconti di Giovanni Tesio e Carlo Ellena, la tragedia paterna in una Torino che usciva dalla guerra e ancora con ferocia non sapeva ricucire le ferite. Non è soltanto un ritratto, è una gran fetta di Storia, accresciuta dal materiale anche in bianco e nero che le teche Rai hanno messo a disposizione, è il percorso di un uomo che ha incantato noi tutti, che ha creduto nelle tradizioni, negli affetti, nella cultura, quella autentica, del territorio.

Elio Rabbione

 

Sorrentino, 100 bottiglie di vino come premio

 Il Museo Nazionale del Cinema di Torino e il Torino Film Festival, in collaborazione con la Regione Piemonte, hanno istituito il PREMIO LANGHE-ROERO E MONFERRATO che verrà attribuito annualmente a un personaggio del mondo del cinema di rilevanza internazionale. Il premio nasce all’insegna del profondo legame tra valorizzazione del patrimonio artistico, vocazione culturale e cultura del vino che fortemente caratterizzano la nostra regione, una forte identità che ha portato al riconoscimento del territorio quale patrimonio UNESCO. Proprio per questa ragione, il premio consiste in 100 bottiglie di vino provenienti dai migliori produttori vitivinicoli della zona.

Paolo Sorrentino poses in the press room with the award for best foreign language film for "The Great Beauty" at the 71st annual Golden Globe Awards at the Beverly Hilton Hotel on Sunday, Jan. 12, 2014, in Beverly Hills, Calif. (Photo by Jordan Strauss/Invision/AP)
(Photo by Jordan Strauss/Invision/AP)

A riceverlo sarà PAOLO SORRENTINO, nel corso di un cena di beneficenza, firmata da Matteo Baronetto, chef del ristorante Del Cambio di Torino, a favore della Fondazione La Stampa – Specchio dei Tempi, che avrà luogo venerdì 25 novembre a partire dalle ore 20.00 al Palazzo della Luce a Torino. Nel corso della serata verrà battuta un’asta benefica del corpus Divi e Divine del Cinema Italiano, che conta 20 riproduzioni fotografiche del celebre fotografo delle dive Angelo Frontoni, il cui fondo appartiene al Museo Nazionale del Cinema di Torino e alla Cineteca Nazionale di Roma. L’intero ricavato sarà devoluto a Fondazione La Stampa – Specchio dei Tempi a favore delle popolazioni colpite dal terremoto in centro Italia. Per l’occasione, lo chef Matteo Baronetto proporrà nel menù la sua interpretazione della pasta all’Amatriciana. Questa la motivazione: Paolo Sorrentino ha scalato la vetta del cinema italiano in soli quindici anni, collocando se stesso e i propri film sui gradini più alti del cinema d’autore internazionale. L’Oscar alla Grande Bellezza nel 2013 e il successo di The Young Pope – prima serie italiana d’autore a conquistare uno straordinario risultato di pubblico e di gradimento da parte dei critici di tutto il mondo – sono la conferma che ci troviamo di fronte al regista più audace, innovativo e originale dei nostri giorni. I suoi personaggi hanno lo spessore di creazioni letterarie complesse e inconsuete, mentre l’invenzione formale che presiede alle sue messe in scena evoca gli esiti più sofisticati dei grandi stilisti che hanno contribuito all’evoluzione del linguaggio cinematografico. Tutti i suoi film, da L’uomo in più a Youth, passando per Le conseguenze dell’amore, Il Divo e This Must Be the Place, ci hanno sorpreso e conquistato per l’originalità delle storie raccontate, il rigore della forma e la visionarietà dello sguardo, nel quale si proietta uno dei talenti più autentici del cinema italiano di oggi.

Oggi al Cinema

Le trame dei film nelle sale di Torino / A cura di Elio Rabbione

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Si ricorda che le sale cinematografiche Reposi, Classico, Lux sino a sabato 26, Massimo sino a domenica 27, saranno impegnate dalle proiezioni del Torino Film Festival.

 

agnus-filmAgnus Dei – Drammatico. Regia di Anne Fontaine, con Lou de Laage, Agata Kulesza e Agata Buzek. Nella Polonia del 1945, Mathilde, giovane medico in servizio presso un ospedale da campo francese, riceve la visita di una suora con la richiesta di recarsi immediatamente al convento vicino. Appena giunta, la ragazza scopre il dramma di alcune monache: stanno per partorire, sono state violentate da soldati russi. Il racconto di una storia vera sotto lo sguardo e il sentimento dell’autrice di “”Gemma Bovery”. Durata 115 minuti. (Nazionale sala 1)

 

American Pastoral – Drammatico. Regia di Ewan McGregor, con Ewan McGregor, Jennifer Connelly e Dakota Fenning. Tratto dal romanzo di Philip Roth, è la storia di Seymour Levov, detto “lo svedese”, un uomo cui la vita ha regalato tutto, il successo non soltanto sportivo, una fortunata carriera come imprenditore, una moglie ex reginetta di bellezza, una famiglia di cui andare fieri. Il classico americano self-made man. Fino al giorno in cui questo mondo perfetto – siamo nel 1968 – scoppia e va in frantumi, allorché la figlia sedicenne, che appartiene ad un gruppo terroristico, fa esplodere un ufficio governativo procurando la morte di un uomo. Durata 108 minuti. (Centrale, anche V.O.)

 

Animali fantastici e dove trovarli – Fantastico. Regia di David Yates, con Eddie Redmayne, Colin Farrell e Katherine Waterstone. Ovvero la scrittrice miliardaria J.K. Rowling prima della nascita di Harry Potter. E ancora, primo capitolo di una saga che ne prevede altri quattro. Il maghetto Newt Scamander sbarca a New York, siamo nel 1926, volendo contattare il Magico Congresso degli Stati Uniti, con una valigetta di piccoli proporzioni da cui fuoriescono creature inimmaginabili, capaci di dar vita ad una avventura decisamente straordinaria. Durata 133 minuti. (Massaua, F.lli Marx sala Groucho e Chico, Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci anche V.O.)

 

animali-film-2Animali notturni – drammatico. Regia di Tom Ford, con Amy Adams, Jake Gyllenhaal, Armie Hammer e Aaron Taylor-Johnson. Opera seconda dell’autore del perfetto “A single man”, Gran Premio della Giuria a Venezia. Susan, celebre gallerista di Los Angeles, riceve un giorno dall’ex consorte le bozze di un romanzo che lui, da sempre con ambizioni di scrittore, le ha dedicato. Nelle pagine è racchiusa la vicenda di un padre e marito che in vacanza in Texas con la famiglia si imbatte in un balordo e con un gruppo di amici suoi. Letteratura e vita si mescoleranno e l’esistenza di ognuno cambierà per sempre. Durata 117 minuti. (Ambrosio sala 1, Massaua, Eliseo blu, Greenwich sala 3, Ideal, The Space, Uci)

 

La cena di Natale – Commedia. Regia di Marco Ponti, con Riccardo Scamarcio, Laura Chiatti e Michele Placido. Capitolo secondo, dopo il successo di “Io che amo solo te”, con i personaggi cena-natale-filmcreati da Luca Bianchini, sempre nella cornice innevata di Polignano a Mare. Tra i tanti fatti che arricchiranno anche questa puntata, una nuova gravidanza di Chiara, che unirà e dividerà la coppia, tra amori e gelosie. Durata 104 minuti. (Massaua, F.lli Marx sala Chico, The Space, Uci)

 

gandi-genitori-filmCome diventare grandi nonostante i genitori – Commedia. Regia di Luca Lucini, con Margherita Buy, Giovanna Mezzogiorno e Matthew Modine. L’arrivo in Liceo di una nuova preside che contro il parere di allievi e genitori decide di non partecipare al concorso scolastico nazionale per gruppi musicali, rincarando anzi l’attività quotidiana dei ragazzi. Ma alla fine saranno questi ad avere l’ultima parola. Durata 90 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

Doctor Strange – Fantastico. Regia di Scott Derrickson, con Benedict Cumberbacht, Tilda Swinton e Mad Mikkelsen. Un medico newyorkese, all’apice del successo, vede compromessa la propria professione da un incidente d’auto, per cui la forza e l’abilità delle sue mani non sono più quelle di un tempo. In un antico monastero del Nepal, dove decide di recarsi, l’uomo di scienza convertito ad un ruolo del tutto mistico, fa il suo incontro con un Maestro, detto l’Antico, cui sta a cuore la protezione della Terra da forze negative. Alla nuova scuola prevarranno arti marziali e autocontrollo, per una lotta comune contro il Male. Un vecchio eroe dei fumetti Marvel rispolverato per l’occasione. Durata 115 minuti. (Ideal, The Space, Uci)

 

sogni-filmFai bei sogni – Drammatico. Regia di Marco Bellocchio, con Valerio Mastandrea, Roberto Herlitzka, Piera Degli Esposti e Berenice Bejo. Dal bestseller di Massimo Gramellini, giornalista tra i più apprezzati in Italia, celebre per il suo “Buongiorno” lanciato dalla prima pagina della “Stampa”, volto televisivo del Circo Barnum firmato Fazio e oggi pure in autonomia (riempitiva causa rimpicciolimento spazi). Un romanzo che è la perdita della madre da parte di un bambino di soli nove anni, una perdita che ha condizionato la vita di un uomo oltre i quarant’anni. Durata 134 minuti. (Due Giardini sala Nirvana e Ombrerosse, Reposi)

 

Frantz – Drammatico. Regia di François Ozon, con Pierre Niney e Paula Beer. All’origine un testo teatrale, cui seguì nel ’32 un film di Lubitsch; oggi l’autore di “8 donne e un mistero” e di “Potiche” riprende il tema sottolineando le pagine del pacifismo. In un piccolo villaggio della Germania appena uscita dalla Grande Guerra, il giovane Adrien si reca in visita alla famiglia del ragazzo del titolo per chiedere a tutti il perdono per la morte che lui stesso ha causato in guerra. Non ne ha il coraggio, ma la presenza della fidanzata del defunto (la Beer è stata premiata a Venezia con il “Mastroianni” per questa interpretazione) lo spingerà verso una confessione: spetterà ad Anna accettare o no un nuovo futuro. Anche un omaggio all’antico bianco e nero. Eccellente la prova degli attori, ma sono soprattutto la delicatezza e l’esattezza che Ozon mette in ogni momento della storia a incantare. Durata 113 minuti. (Eliseo rosso)

 

Genius – Drammatico. Regia di Michael Grandage, con Colin Firth, Jude Law, Laura Linney e Nicole Kidman. Nella New York della fine degli anni Venti, l’incontro e l’amicizia tra lo scrittore Thomas Wolfe e l’editor Maxwell Perkins, che già aveva fiutato giusto tra le pagine di Scott genius-filmFitzgerald e di Hemingway grazie ad un talento non comune. Tanto lo scrittore è stravolto di esuberanza nel carattere e in una scrittura che si porta appresso numeri impensabili di pagine, quanto Max è di poche parole, amante della vita familiare, di calmi sguardi paterni, di aggiustamenti, di desiderio di sfrondare quel troppo scrivere. Wolfe morì appena trentottenne, e i rapporti tra i due alla fine s’incrinarono parecchio, accusato l’editor di aver stravolto con tutte le rigacce lanciate sul foglio quel che più di impetuosamente genuino c’era nello scrittore. Bello il soggetto, interessante per quanto scarnifica di quel rapporto, ma la passione è altra cosa, sia quella delle immagini e dei dialoghi sia quanto quella che lo spettatore vede crescere in sé. Il tutto scardinato da una sempre più incartapecorita Kidman, che non riesce più a costruire uno straccio di personaggio, anche soltanto per brevi tocchi. Durata 104 minuti. (Romano sala 2)

 

In guerra per amore – Commedia. Diretto e interpretato da Pif, con Miriam Leone e Andrea Di Stefano. L’autore/interprete di “La mafia uccide solo d’estate” immagina questa volta che Arturo, un candido ragazzo newyorkese di origini siciliano, per chiedere la mano dell’innamorata Flora al padre debba catapultarsi nella terra d’origine: dove, siamo in pieno 1943, c’è la guerra e lo sbarco delle truppe a stelle e strisce ampiamente appoggiato dai boss mafiosi. Durata 99 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, Greenwich sala 2)

Io, Daniel Blake – Drammatico. Regia di Ken Loach, con Dave Johnson, Hayley Squires, Natalie Ann Jamieson. Un carpentiere di Newcastle, ormai sessantenne, è costretto un giorno a chiedere un sussidio statale per una grave crisi cardiaca. Il medico gli ha proibito di lavorare e Daniel si ritrova a rivolgersi all’assistenza pubblica, ormai privatizzata, per un riconoscimento di invalidità. La macchina burocratica inglese lo costringerà a cercare lavoro, per aprirgli una lunga strada di umiliazioni e di ricorsi. Ancora un esempio del cinema politico e della rabbia di Loach, un “teorema” svolto dal regista con l’abituale metodica professionalità, la dimostrazione che c’è sempre l’occasione per trovare qualcosa nel mondo britannico, e non solo, che ti manda il sangue alla testa: ma questa volta Loach, forse per una sceneggiatura troppo “lineare” e “inevitabile”, non soddisfa come in tante altre prove del passato. Premiato a Cannes con la Palma d’oro. Durata 100 minuti. (Romano sala 3)

 

kuboKubo e la spada magica – Animazione. Regia di Travis Knight. Kubo nasconde sotto la benda nera una cicatrice e un occhio che non ha più e accudisce la madre malata. Ogni giorno scene in città a raccontare storie fantastiche, come quella di suo padre, un eroico samurai di cui nessuno ha più avuto notizie, e a guadagnare qualche soldo. Il ritorno a casa, alle prime ombre della notte, nasconde le insidie che gli tendono il vecchio nonno che con le odiose zie vorrebbe cavargli l’altro occhio: Kubo dovrà difendersi, mentre andrà alla ricerca della spada magica di suo padre come del proprio passato. Durata 101 minuti. (Uci)

 

Masterminds – I geni della truffa – Commedia. Regia di Jared Hess, con Zach Galifianakis. Progetto inizialmente offerto a Jim Carrey, è il resoconto in chiave comica di una rapina, tra le strade degli States, che vede coinvolto David dalla vita monotona e desideroso di darle una spinta più che clamorosa, la sua collega Kelly per cui nutre una vera e propria cotta più un gruppo di (divertenti) balordi con cui dare l’assalto a 17 milioni di dollari. Durata 94 minuti. (The Space, Uci)

 

Mechanic: Resurrection – Azione. Regia di Dennis Gansel, con Jason Statham e Jessica Alba. Il regista tedesco dell “Onda” firma a Hollywood il sequel di “Professione assassino” e Statham riprende gli abiti di Arthur Bishop, infallibile nella propria missione di sicario, questa volta per eliminare gli uomini più pericolosi del mondo. Durata 98 minuti. (The Space, Uci)

 

Non si ruba a casa dei ladri – Commedia. Regia di Carlo Vanzina, con Massimo Ghini, Vincenzo casa-ladri-filmSalemme, Manuela Arcuri e Stefania Rocca. La guerra di un comune cittadino contro un politico disonesto, Antonio contro Simone. Una denuncia non servirebbe a nulla, si sa, la burocrazia, gli intrallazzi, gli appoggi: allora Antonio mette su una piccola banda di cittadini fregati come lui ed escogita, una volta scoperto il conto in Svizzera dell’avversario, una bella truffa ai suoi danni. Durata 93 minuti. (Uci)

Pets – Vita da animali – Animazione. Regia di Chris Renaud e Yarrow Cheney. Dai realizzatori di “Cattivissimo me”, per dare una risposta a quel dubbio più che possibile che può colpire i proprietari di animali: che cosa fanno gli animali domestici quando i padroni sono fuori casa? E inoltre. la tranquillità di un terrier sconvolta dall’arrivo di un enorme cagnone dal pelo arruffato, la vita e le insidie per le stravedi New York, un coniglio feroce che guida un drappello di animali in rivolta, un amore pronto a guidare tutti verso la salvezza. Durata 87 minuti. (Uci)

 

Quel bravo ragazzo – Commedia. Regia di Enrico Bando, con Herbert Ballerina, Enrico Lo Verso e Tony Sperandeo. Ingenuo e sognatore, un ragazzo è costretto a sostituirsi al padre deceduto, un padre di professione boss mafioso. Durata 90 minuti. (The Space, Uci)

 

ragazza-treno-filmLa ragazza del treno – Thriller. Regia di Tate Taylor, con Emily Blunt, Justin Theroux, Haley Bennett e Rebecca Ferguson. Ricavato dal bestseller di Paula Hawkins, mutato il panorama di periferia essendoci trasportati da Londra a New York, come chi ha letto l’avvincente romanzo ben sa (con la propria diversa triplice visuale femminile, con la sua bella dose di andirivieni temporali che ingarbugliano all’inizio ma che poi spianano una felice – per il lettore – strada alla conclusione) è la storia di Rachel, divorziata e alcolista, che ogni mattina, nella finzione di continuare ad avere un lavoro, passa con il treno dinanzi ad una casa in cui vive una coppia, da lei subito idealizzata. Poi c’è Anna, per cui Rachel è stata lasciata, che ora vive con Tom, l’ex di Rachel, non lontano da quella casa, e ancora Megan, la donna idealizzata   ma forse da riconsiderare, che un giorno scompare. Rachel è legata a quella vicenda di tradimenti, amnesie, sparizioni e crudeltà più di quanto non immagini. Durata 112 minuti. (Ambrosio sala 3, Massaua, The Space, Uci)

 

Sing Street – Commedia musicale. Regia di John Carney. Nella Dublino degli anni Ottanta, la vita, l’amore, la band, il successo del giovane Conor. Durata 104 minuti. (Ambrosio sala 2)

 

7 minuti – Drammatico. Regia di Michele Placido, con Ottavia Piccolo, Ambra Angiolini, Violante Placido e Fiorella Mannoia. Tratto dal testo teatrale di Stefano Massini, il film narra del passaggio di un’azienda tessile italiana nelle mani di una nuova proprietà estera, che esclude i licenziamenti ma pone un’unica richiesta: quanti lavorano all’interno della fabbrica dovranno rinunciare a sette minuti della pausa pranzo. Toccherà al consiglio di fabbrica avallare o no la richiesta. Durata 92 minuti. (Eliseo rosso)

 

snowden-filmSnowden – Biografico. Regia di Oliver Stone, con Joseph Gordon-Levitt, Melissa Leo, Zachary Quinto e Tom Wilkinson. In una stanza d’albergo di Hong Kong, Snowden sta con un paio di giornalisti e una documentarista in attesa di poter rendere pubbliche le rivelazioni riguardanti i dati trafugati alla Agenzia Nazionale per la Sicurezza al fine di smascherare il sistema di intercettazioni che coinvolge il mondo intero. Come sottoracconto, Stone torna agli anni giovanili del protagonista, in un ampio flashback, dalla richiesta di arruolamento nelle forze speciali al percorso che attraversa Cia e Nsa, alle missioni in Giappone e alle Hawaii, alla condanna come spia e traditore del proprio paese: ma anche con un suo largo seguito di simpatizzanti,   che vedono in lui un paladino delle libertà. Durata 134 minuti. (Eliseo Grande, F.lli Marx sala Harpo, The Space, Uci, anche V.O.)

 

Trolls – Animazione. Regia di Mike Mitchell e Walt Dorn. Poppy (qui con la voce di Elisa) a fianco di Branch partirà per un’avventura oltre il mondo a lei conosciuto, ovvero una missione alquanto rischiosa per salvare i suoi amici dal cattivissimo Bergen. Ancora un avventura dai creatori di Shrek per le creature animati dai coloratissimi capelli. Durata 96 minuti. (Massaua, The Space, Uci)

 

La verità negata – Drammatico. Regia di Mick Jackson, con Rachel Weisz, Tom Wilkinson e Thimothy Spall. Attraverso le pagine pubblicate da Deborah Lipstadt, scrittrice statunitense di origini ebree, sceneggiate dal drammaturgo David Hare, la storia del processo che la vide impegnata tra il 1993 e il 2000 ed in contrapposizione alla persona e alle idee negazioniste di David Irving, secondo il quale, in una personale revisione totale della Storia, Hitler non sarebbe mai stato al corrente della vicenda dei deportati ebrei e i campi di concentramento con le camere a gas non sarebbero mai esistiti. La conoscenza e l’esistenza fu condotta a dimostrare la Lipstadt, ben al di là di quelle che un giudice poteva ipotizzare quali espressioni della libertà d’espressione. Un film per la riconferma di un passato. Durata 110 minuti. (F.lli Marx sala Harpo, Romano sala 1)

 

Il compleanno del “papà” di Pinocchio

pinochCarlo Collodi, all’anagrafe Carlo Lorenzini, nacque a Firenze il 24 novembre del 1826, esattamente centonovant’anni fa, e divenne celebre come autore del romanzo “Le avventure di Pinocchio.Storia di un burattino”. Il padre Domenico era cuoco e la madre, Angiolina Orzali, domestica, entrambi a servizio dei marchesi Ginori. Quest’ultima era originaria di Collodi , una frazione di Pescia, in provincia di Pistoia. E proprio il nome del paese della madre ispirò lo pseudonimo che rese famoso in tutto il mondo l’autore di Pinocchio. A diciotto anni entrò nel mondo dei libri, prima come commesso nella libreria Piatti a Firenze e poi come redattore. Nel 1845 ottenne una dispensa ecclesiastica che gli permise di leggere l’Indice dei libri proibiti e due ani più tardi, iniziò a scrivere recensioni ed articoli per La Rivista di Firenze. Allo scoppio della Prima guerra d’indipendenza, nel 1848, Collodi si arruolò volontario combattendo con altri studenti toscani a Curtatone e Montanara contro gli austriaci. Tornato a Firenze fondò una rivista satirica, Il Lampione (censurata da lì a breve).  Per anni svolse un’intensa attività culturale nel campo dell’editoria e del giornalismo, occupandosi di letteratura, musica, arte. Nel 1856, durante la sua collaborazione con la rivista umoristica La Lente, per la prima volta si firma con lo  pseudonimo di Collodi. E inizia a pubblicare i primi libri. Nella Seconda guerra d’indipendenza non si tira indietro e vi partecipa come soldato regolare piemontese nel Reggimento Cavalleggeri di Novara. Finita la campagna militare, ritornato a Firenze, si occupa di critica teatrale e su invito del Ministero della Pubblica Istruzione, entrò a far parte della redazione di un dizionario di lingua parlata, il “Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”. Il suo approccio al mondo delle favole inizia all’aba dei cinquant’anni quando ricevette dall’editore Paggi il compito di tradurre le fiabe francesi più famose. Ma nons i limitò a questo: effettuò anche l’adattamento dei testi integrandovi una morale; e questo lavoro venne poi pubblicato sotto il titolo de “I racconti delle fate”. Nel 1877 apparve “Giannettino”, il primo di una lunga serie di testi per l’educazione che spaziavano dalla geografia alla grammatica e all’aritmetica .  Questa serie faceva parte della Biblioteca Scolastica dell’editore Felice Paggi: un libro era venduto a due lire e, se era Legato in tela con placca a oro, a tre lire. Sia questa serie che il successivo “Minuzzolo”, anticipano di fatto la nascita di Pinocchio. Ed ecco che, il 7 luglio 1881, sul primo numero del periodico per l’infanzia “Giornale per i bambini “( praticamente il pioniere dei periodici italiani per ragazzi)  uscì la prima puntata de Le avventure di Pinocchio, con il titolo Storia di un burattino. Due anni dopo, raccolte in volume ed arricchite dalle illustrazioni di Enrico Mozzanti, le avventure del burattino che voleva diventare un bambino in carne e ossa, venneropinoc pubblicate e, nel medesimo anno, Collodi diventò direttore del “Giornale per i bambini”.  Carlo Lorenzini, detto Collodi, morì a Firenze nel 1890; dove  è sepolto nel cimitero delle Porte Sante. Pinocchio, invece, in barba ai suoi 133 ( che non dimostra) è stato pubblicato in 187 edizioni e tradotto in 260 lingue o dialetti, è diventato protagonista di film, cartoni animati e sceneggiati, è stato riprodotto in una infinità di situazioni ed occasioni. In molti hanno provato a catalogarne significati e “morali”. Una di queste è particolarmente originale. Secondo Italo Calvino, Pinocchio è l’unico vero picaro della letteratura italiana, seppure in forma fantastica: le sue avventure rocambolesche, a volte scanzonate a volte drammatiche, sono tipiche di questa figura letteraria trova origine in Spagna, dal “Lazarillo de Tormes” fino a quella grande opera che segna la nascita del romanzo moderno europeo: il Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes (1605). A noi, che lo incontrammo da piccoli e che imparammo ad amarlo, piace pensarlo all’Osteria del Gambero Rosso , in compagnia del Gatto e della Volpe) , mentre fugge con Lucignolo nel «Paese dei Balocchi» e finisce per trasformarsi, dopo cinque mesi di cuccagna, in un asino, finendo in una compagnia di pagliacci. Mastro Ciliegia, Geppetto, Mangiafuoco e la Fata Turchina lo accompagnano fin quando smette di essere un burattino e diventa un ragazzo in carne ed ossa. Pinocchio è un libro per bambini, edificante, educativo, letto anche dagli adulti perché ci aiuta a non perdere il contatto con la fantasia. Personalmente l’avevo perso di vista ma ho avuto la fortuna d’avere accanto chi mi ha aiutato a ritrovarlo.

 Marco Travaglini

La morte davanti alle telecamere e la insulsa ribellione di una sedicenne

Dal fatto di cronaca, ma con piena libertà, prese le mosse Sidney Lumet per costruire sulla sceneggiatura di Paddy Chayefsky Quinto potere con al centro il grandioso Howard Beale vittima di un pericoloso calo d’ascolti televisivi. Il film vinse nel ’77 quattro Oscar tra cui quello a Peter Finch alla memoria. Il fatto trasportato dalla realtà era successo nel luglio di tre anni prima, quando Christine Chubbuck, giornalista di una televisione di Sarasota in Florida si era uccisa con un colpo alla testa davanti alle telecamere, dando piena soddisfazione all’economia della rete e alla volontà del suo capo di avere in ogni momento attraverso tinte forti i resoconti dei fatti di sangue che più rendevano incuriosito e soddisfatto lo spettatore.

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Ancora nel nuovo millennio il personaggio e l’occasione continuano a interessare il cinema: se n’è accorto il TFF che bene ha fatto a presentare Kate plays Christine sotto la sezione “Festa Mobile”, dove il regista Robert Greene mescola finzione e documento, e soprattutto Christine dove Antonio Campos, con un occhio rivolto alla cinematografia degli anni Settanta, insomma siamo dalle parti di “alla maniera di”, ricostruisce il personaggio tra la vita lavorativa e il privato e ha in Rebecca Hall (Vicky per Woody Allen in Vicky Cristina Barcelona) un’interprete che in un incredibile ventaglio di emozioni e sfumature – a nessuno verrà in mente di proporla per la cinquina dei prossimi Oscar? – dà vita ad un personaggio femminile che definiremmo perfetto. Bel personaggio, quello di Cristina. Interessante, chiuso e rigido nel suo desiderio di una brillante carriera, sempre in cerca del pezzo importante e desiderosa di togliersi dalle sciocchezze che reclamizzano la produzione delle fragole o delle uova di questa o quella gallina, in lotta continua con chi dirige la baracca; d’altra parte una donna fragile, vicina ai trent’anni ma ancora nella stessa casa di una madre che sente ancora forte l’amicizia maschile, lontana lei dall’amore e dal sesso, turbata da una ciste ovarica che le avrebbe per sempre cancellato il desiderio di avere figli.

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Campos con attenzione e grande partecipazione guarda i turbamenti nell’una e nell’altra parte, rendendoci un film maturo, concreto, appassionato che alza di parecchio il concorso festivaliero. Il quale tuttavia ha modo di cadere rovinosamente con due pellicole viste nelle ultime ore. Il premio alla vuotaggine andrebbe dato alla signorina Tamara Drakulic, di eventuale professione regista, battente bandiera della Serbia, che spende 70’ di belle immagini, pretendendo che lo spettatore creda alla piccola quanto insulsa ribellione di una sedicenne in vacanza al mare con papà. 70’ che grondano brandelli di dialoghi al limite del ridicolo, lune arrossate, stormi d’uccelli in volo, foglie fruscianti, onde e ondine quante più se ne può, spiaggia calpestata con passaggi improvvisi e mai legittimati davanti alla macchina da presa, gite in vespa seguite per ogni metro di strada compiuto: quando si è terminato il panorama, si torna alle immagini già prima abusate. Insomma questo Vetar (che suonerebbe in italiano come “vento”) è irritante, stupidamente inquadernato, nemmeno degno di essere ricercato per quel che è il disegno e la costruzione dei personaggi. Forse al pari gli sta Los decentes (strano miscuglio di coproduzione Austria/Corea del Sud/Argentina), storia di una cameriera che spolverando nella casa bene, in un quartiere residenziale alle porte di Buenos Aires che è la roccaforte del perbenismo e del marciume sbattuto sotto il tappeto, scorge oltre il muro di cinta una comunità che in vesti adamitiche pratica pseudo filosofie e amore libero. La povera Belén sciupa pantofole e scarpe tra casa e paradiso ritrovato, abbraccia di botto il nuovo continente e fa fuori la padrona per amore di libertà: il conflitto finale tra ignudi e vestiti forse rimetterà le cose al loro stato primitivo, mentre noi ci chiediamo quali intenzioni avesse il regista Lukas Valenta Rinner, se di estrema serietà o di grandissima ironia.

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Ci risolleviamo il morale con Avant les rues della canadese Chloé Leriche, girato in lingua atikamekw tra la comunità di Manawan, in un paese poverissimo e senza prospettiva, dove al mattino ci si mette in coda pur di recuperare un lavoro per la giornata. Ci vive Shawnouk, ragazzo senza nessuna certezza, scontroso, con affetti familiari incompleti, alla ricerca di sé e di altro, avvicinato un giorno da un piccolo delinquente per un furto in una delle case estive lasciate vuote. Non va tutto senza inciampi come dovrebbe, qualcuno ci rimette la pelle e in Shawnouk cresce il senso di colpa per quanto è successo: solo riscoprendo i riti antichi del proprio popolo riuscirà a ritrovare la serenità. Leriche, nella descrizione delle giornate del ragazzo, nella sua solitudine, in quell’essere appartato nel mondo magico della natura, nel dispiegamento religioso della propria voce ci fa poco a poco entrare nella magia delle tradizioni, rendendola per un attimo vicino a noi, portatori di una cultura del tutto lontana.

 

Elio Rabbione

Lavia, “L’uomo dal fiore in bocca e…non solo”

Dopo “Sei Personaggi in cerca d’autore”, passando per “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, Gabriele Lavia torna a Pirandello, un drammaturgo che, più di ogni altro, ha segnato il teatro del nostro tempo, profetizzando la crisi d’identità dell’uomo contemporaneo. Lo fa portando in scena al teatro Carignano di Torino fino a domenica 4 dicembre, nell’ambito di una produzione del Teatro della Toscana e dello Stabile di Genova, la celebre piece intitolata “L’uomo dal fiore in bocca”, arricchendo, tuttavia, il monologo originale con altre novelle che affrontano il tema della morte e della donna.

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In questo si spiega il sottotitolo “e non solo” di questa sua nuova proposta teatrale. “L’uomo dal fiore in bocca” del drammaturgo agrigentino rappresenta il culmine pirandelliano dell’incomunicabilità, di quella solitudine che si aggrappa alla banalità dei più piccoli e insignificanti particolari del quotidiano, per tentare di rintracciare una qualche superiorità della vita sulla morte. Gabriele Lavia, con Michele Demaria e Barbara Alesse, prova a trattenere quella vita un poco prima della fine. Questo atto unico fu rappresentato la prima volta a Milano al teatro Manzoni il 21 febbraio 1923, mettendo in scena il colloquio tra un uomo che sa di essere condannato tra breve a morte, e per questa ragione medita sulla vita (l’uomo dal fiore in bocca impersonato da Lavia), e un uomo come tanti, convenzionale, che non si pone il problema della morte ( il Pacifico Avventore, interpretato da Michele Demaria). Il testo è stato tratto da Pirandello da un altro suo lavoro teatrale precedente, intitolato “La morte addosso”. “La morte addosso spiega Gabriele Lavia può essere considerato il sottotitolo di tutta l’opera letteraria di Pirandello, che fu sin da piccolo risucchiato dall’orrore e dal mistero della morte. Il celebre episodio del cadavere e dei due amanti che caratterizzò la sua fanciullezza, avvenuto in quello strano “fondaco buio” segnò per sempre la sua vita e la sua opera”. La scena si apre in una simbolica sala d’attesa di una qualche stazione ferroviaria del Sud Italia, contraddistinta dalla scenografia imponente di Alessandro Camera, costruita nei magazzini del Teatro La Pergola di Firenze. La struttura portante, alta almeno 9 metri, tutta in legno di pioppo, regge le vetrate annerite della vecchia stazione. L’uomo dal fiore in bocca, che comincia a parlare con ritmo insistente, in modo ironico e disperato, dimostrando una straordinaria capacità di cogliere gli aspetti più minuti e apparentemente insignificanti della vita, vede dietro la grande vetrata l’ombra della moglie, interpretata da Barbara Alesse. La donna non gli è di consolazione, ma di ostacolo, alla sua stringente necessità di vivere che lo porta a trascorrere ore in stazione e a osservare i commessi impacchettare la merce venduta. Alla donna si affiancano “tante donne… donne …donne, che non si vedono, ma che sono l’assillo e l’incubo del nostro piccolo uomo pacifico”. Rimane sospeso l’interrogativo pirandelliano se la donna della stazione impersoni anche la morte.

Mara Martellotta

 

I Musicarelli di Della Casa al Tff

E’ stato presentato al Reposi “ Nessuno CI può giudicare”, di Stefano Della Casa e Chiara Ronchini, “un film a 45 giri” con la partecipazione di Don Backy, Caterina Caselli, Tony Dallara, Ricky Gianco, Mal, Rita Pavone, Gianni Pettenati, Shel Shapiro, Piero Vivarelli.

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“I film musicali italiani – spiega Stefano della Casa – hanno ripercorso un periodo fondamentale in cui l’Italia è cambiata in modo radicale e in tempi velocissimi. Quando Celentano e Mina iniziano a fare con Lucio Fulci e Piero Vivarelli i film rock, l’Italia si sta avviando rapidamente a divenire, da paese agricolo e tradizionale, un paese moderno e industriale. Siamo a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta. […]La musica degli urlatori è per la prima volta un qualcosa che è dedicato esclusivamente ai giovani “. E i giovani per la prima volta nella storia nazionale, complice musicarelliil boom economico, possono essere indipendenti economicamente dalla famiglia e possono coltivare i loro gusti musicali, il proprio modo di vestire. Il cinema racconta puntualmente questo cambiamento, e l’Archivio dell’ Istituto Luce lo segue passo passo. Attraverso una serie di interviste inedite ( Rita Pavone,stasera presente al Reposi, Caterina Caselli,Shel Shapiro, Mal, Ricky Gianco, Gianni Pettenati, Piero Vivarelli…) e un’approfondita ricerca sul materiale d’archivio e sui film musicali, rappresenta una carrellata su un’Italia che presenta le contraddizioni e le complessità dei cambiamenti di quel decennio che reca insieme i segni del consumismo e dell’omologazione ma anche i germi del dissenso e della rivolta. Una rivolta che, con il passare del tempo, diventerà anche politica e sociale. “ Non deve stupire infatti se se i ragazzi e gli adolescenti impazzivano per il rock di Celentano e poi per il beat di Caterina Caselli, di Rita pavone e dei Rokes diventeranno poi i protagonisti del ’68 e della rivolta giovanile.” “ Con ‘ Nessuno CI può giudicare’ – continua Steve – volevamo raccontare proprio quello. E ciò grazie all’ Istituto Luce, il più grande archivio di immagini del xx secolo,alla disponibilità della Titanus e a un archivio privato, i Superottimisti, che ci hanno fornito le immagini a colori di quel periodo.

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E’ stato fondamentale l’incontro con una giovane montatrice, Chiara Ronchini e con Massimo Scarafoni. La struttura del Luce, innanzi tutto Maura Cosenza, ha mostrato disponibilità e professionalità. Non era facile raccontare una generazione che vive in bianco e nero ( come dice Shel Shapiro) ma che sogna a colori: i colori delle copertine dei 45 giri e delle locandine dei musicarelli, ma anche quelli pop della Swinging London. E’ stata un’esperienza totale fare questo film : un’esperienza segnata dal divertimento ma anche dalla riflessione.”

Helen Alterio

Il “Premio Cabiria” ad Alba Rohrwacher

Il Museo Nazionale del Cinema di Torino ha istituito nel 2015 il PREMIO CABIRIA, un importante riconoscimento assegnato annualmente a un regista, un attore o un’attrice che si siano particolarmente distinti per la loro attività nel corso dell’anno con il loro contributo per l’arte cinematografica. Il Premio prende il nome dal capolavoro del cinema muto italiano realizzato a Torino da Giovanni Pastrone nel 1914, divenuto fonte di ispirazione per innumerevoli artisti di tutto il mondo, che hanno contribuito con la loro creatività allo sviluppo del linguaggio e dell’estetica del cinema.

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Anche questa seconda edizione del Premio ha luogo in concomitanza con il 34° Torino Film Festival, per evidenziarne il legame con il più importante evento cinematografico cittadino dell’anno. A riceverlo sarà ALBA ROHRWACHER, nel corso di una cena di beneficenza a favore della Fondazione Crescere Insieme al Sant’Anna Onlus, che si terrà martedì 22 novembre all’Hotel Principi di Piemonte a partire dalle ore 20.30. “L’irruzione di Alba Rohrwacher sulla scena cinematografica è avvenuto in punta di piedi e con la consueta delicatezza che contraddistingue l’aspetto dell’attrice solo apparentemente più fragile del cinema italiano. Le sue fattezze minute e garbate celano una tempra solida, un coraggio inconsueto e un talento immenso. In capo a soli dodici anni, Alba si è affermata come la giovane attrice più sensibile, dotata e versatile, amata con la stessa intensità da autori affermati, registi esordienti e il grande pubblico, che riscopre in lei la passione e il talento delle grandi attrici che hanno fatto la storia del nostro cinema. Ad ogni film e ad ogni nuovo personaggio cui da vita, Alba si dedica con l’identica generosità che la contraddistingue: che si tratti di imparare in pochi mesi l’albanese (come in Vergine giurata di Laura Bispuri) o di calarsi nei panni di una madre ossessionata dalla salute del proprio figlio (in Hungry Hearts di Saverio Costanzo, che le ha fruttato la Coppa Volpi alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2014). L’umiltà con la quale si presenta convive con il suo spirito ribelle, ed è la misura della sua non comune sensibilità e naturalezza.”

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La cena, che si preannuncia di altissimo livello, è affidata alla creatività di quattro chef stellati: Gian Piero Vivalda del ristorante Antica Corona Reale di Cervere, Maurilio Garola del ristorante La Ciau del Tornavento di Treiso, Davide Palluda di All’Enoteca di Canale e Giuseppe Ricchebuono de Il Vescovado di Noli. La cena sarà accompagnata da canzoni tratte da film famosi e interpretate dai cantanti Martina Tosatto e Davide Motta Fré.

19^ edizione di ISTANTANEO

Il Festival internazionale di improvvisazione teatrale 8 spettacoli, 4 nazioni, 2 città per un’esplosiva kermesse 

Torna anche quest’anno ISTANTANEO, il Festival internazionale di improvvisazione teatrale giunto alla sua 19° edizione, considerato il più importante evento di improvvisazione teatrale a livello nazionale, ​insignito nel 2015 del EFFE Label, riconoscimento di qualità a livello europeo.

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È organizzato e promosso dall’Associazione culturale Quinta Tinta,​da sempre attenta a creare collaborazioni con altre realtà teatrali e ad aprire i suoi confini geografici e artistici. Lo spirito che anima ISTANTANEO è infatti quello di invitare sul palco artisti stranieri e italiani stimolando lo scambio, la ricerca e la contaminazione di stili e linguaggi e fornendo l’occasione di presentare al pubblico spettacoli inediti. Il Festival prosegue, inoltre, il percorso di apertura nei confronti delle altre arti e forme creative: l’improvvisazione, infatti, non è fenomeno legato solo al teatro, ma pratica e strumento utilizzato da molteplici espressioni artistiche. La 19° edizione del Festival si sviluppa su due settimane: sabato 19/11 e dal 24 al 28/11, a Torino e ad Alba, con spettacoli serali aperti a tutto il pubblico e matinée riservate alle scuole in lingua tedesca (Improlanguage) e italiana (Imprinting). Il programma di quest’anno è immerso nella cultura tedesca e francese. Sono state invitate la compagnia tedesca Die Gorillas di Berlino con Luise Schnittert,​la compagnia austriaca Theater­im­Bahnhoff ​di Graz c​on Lorenz Kabas,​la compagnia francese Théâtre de l’Oignon ​di Strasburgo con Flavien Reppert,​la compagnia di danza torinese Mcf Belfioredanza e la compagnia torinese B­Teatro.​Il Festival si apre con una anteprima: lo spettacolo Impro Lightbox ​realizzato dagli attori di Quinta Tinta con la regia e la partecipazione in scena di Franck Buzz della compagnia francese Impro Infini di Brest.​Come da tradizione, sono anche invitati giovani improvvisatori professionisti italiani che si sono particolarmente distinti nelle loro compagnie teatrali locali. Durante il Festival sono inoltre attivati diversi workshop in cui gli artisti, italiani e stranieri, hanno l’opportunità di lavorare insieme alla creazione di spettacoli inediti, produzioni del Festival. Alcuni workshop sono dedicati alla formazione specialistica degli allievi delle scuole di improvvisazione, altri sono aperti ai neofiti.

I LUOGHI DEL FESTIVAL Il Festival si svolge principalmente presso l’Hub Cecchi Point a Torino,​dove ha sede dal 2011. Per il secondo anno consecutivo è proposto un appuntamento anche ad Alba,​al Centro Giovani H Zone.​

BIGLIETTI I biglietti possono essere acquistati presso la sala teatrale prima dell’inizio dello spettacolo. Prenotazioni via email (teatro@quintatinta.it) entro le ore 18 del giorno dello spettacolo; ritiro dei biglietti all’apertura della cassa. *Ingresso agli spettacoli serali al Cecchi Point: intero 10€; ridotto 7€ r(under 18, over 65, studenti); ridotto 5€ ridotto (residenti quartiere Aurora e scuole di improvvisazione) *Ingresso agli spettacoli pomeridiani al Cecchi Point: libero *Ingresso allo spettacolo allo spazio HZone di Alba: offerta libera

Lady Macbeth efficace opera prima, qualche debolezza e la limpidezza di stile di Clint Eastwood

Le prime opere in concorso

Per chi scrive il Torino Film Festival numero 34 inizia con le immaginiassolutamente da rivedere: non soltanto per Salvatores che le ha inserite tra quelle dei film che gli hanno cambiato la vita, che gli hanno fatto virare il timone dalla professione d’avvocato a quella di regista – di Blow up, con le certezze inconfutabili e tangibili del fotografo David Hammings che se le ritroverà pirandellianamente distrutte tra le mani, ad inseguire in una surreale partita a tennis una inesistente pallina che scivola tra il verde di un parco della Swinging London della metà degli anni Sessanta.

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Poi si entra nel vivo. Con un’opera seconda del regista Rafael Palacio Illingworth, Beetwen us, targato Usa, realizzato a basso costo, rientrante a pieno diritto nelle scelte festivaliere che amano andare alla scoperta di cinematografie appartate, timide, colte nella scommessa dell’esperimento. E’ la storia di due trentenni, fotografati nella crisi inattesa che li coglie all’indomani di una promessa di matrimonio che dovrebbe durare tutta la vita: al contrario scivolano nella vita di ogni giorno i dubbi, soprattutto da parte di lui artista eccentrico, e lo sfaldamento di quelle certezze che in un passato recente si sono coccolate e che si vorrebbero veder crescere. Un tema attuale, tremendamente di oggi, che però il regista non riesce a trattare con mano ferma, scavando con più grinta nei suoi personaggi, non approfondisce, non irrobustisce slegandolo dall’esempio unico per renderlo davvero più coinvolgente. Ai romanticismi improvvisi, alla passione di una notte, alla diversa scelta di lei e all’annientamento di lui – siamo ancora alle prese con una coppia del nostro tempo -, punto centrale di Porto (produzione Usa/Francia/Portogallo/Polonia) del documentarista Gabe Klinger, qui alla sua portoprima prova narrativa, tra spostamenti temporali che cancellano non poco la chiarezza della vicenda, delle sensazioni, degli stati d’animo, con la fragilità di un’azione che alla fine si rivela decisamente inconcludente, si contrappone la durezza del cileno Jesus di Fernando Guzzoni. La storia di un ragazzo, della sua passione per la street dance, dei rapporti tempestosi con il padre, con cui trattare soltanto del maggior ordine nella casa o di una scuola a cui iscriversi, del suo perdersi nell’alcol e nella droga, un ritratto che non risparmia nulla, in cui i rapporti familiari sono pressoché zero con la conseguenza dell’idea che il branco sia l’unica soluzione, che la ragazzina di turno sia prontamente disponibile per un imperativo sessuale, che la stessa cosa possa succedere con l’amico cui si è più legati, in un rapporto omo di irruente immediatezza, senza ripensamenti. In quel perdersi capita che, nel panorama notturno di un parco abbandonato, Jesus e i suoi amici, ubriachi, irresponsabili, pestino a morte un altro ragazzo. La paura che sempre più s’impadronisce del ragazzo, mentre dal branco arrivano avvertimenti e minacce, fa sì che padre e figlio si sentano più vicini, che la richiesta d’aiuto venga ascoltata. Ma sino a quando? Preferirà forse il padre, vittima della propria durezza e disillusione, trovare una soluzione “migliore” per la rieducazione del figlio? A tratti davvero inconcepibile la forza con cui Guzzoni tratteggia e segue i suoi protagonisti, giovani e no, la rabbia e il vuoto che esiste in tutti, li fotografa sino all’annientamento di ogni regola, di ogni prospettiva per il futuro.sully-2

Sino a qui coinvolgimento a tratti, come piena responsabilità, come capacità di narrazione, come tecnica a tratti sbiadita. Invece quando ti trovi davanti alle immagini di Sully di Clint Eastwood ti pare di entrare in un altro mondo. Il salvataggio, la tragedia non consumata, di 155 passeggeri imbarcati sul volo 1549, partito dall’aeroporto La Guardia di New York e diretto a Charlotte in Carolina del Nord il 15 gennaio 2009, costretto a causa di uno stormo d’uccelli che colpirono entrambi i motori mettendoli fuori uso ad ammarare nel bel bel mezzo dell’Hudson, è narrato nella bellezza di ogni inquadratura con spirito forte, con sentimenti autentici, con padronanza e limpidezza di stile, con fedeltà della cronaca, facendo primeggiare quell’eroismo e quella solidarietà in cui Clint crede, senza dimenticare che nell’incubo americano la tragedia delle Torri Gemelle è ancora ben presente. E, nella tensione che non abbandona mai un istante lo schermo anche se sappiamo tutti che ci sarà un auspicato happy end, dando un risalto veritiero, umano, coraggioso al comandante Chesley Sullenberger, che ha i tratti di un Tom Hanks incanutito (come poche altre volte così semplicemente grandioso), artefice primo della riuscita dell’impresa a fianco del copilota Jeff Skiles.

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Ancora da ricordare, in concorso, Lady Macbeth dell’esordiente inglese William Oldroyd, non tanto shakespeariana, quanto di radici russe, trasportato tra il vento e la brughiera del nord della Gran Bretagna dalle pagine di Lady Macbeth del distretto di Mcensk dello scrittore russo Nikolai Leskov (1865) anche care a Shostakovich. Una ragazza ingabbiata in un matrimonio d’interesse, un marito che non la desidera, un suocero che le ricorda i suoi doveri coniugali e la ricerca di un erede. La partenza dei due uomini per affari urgenti fuori città, l’arrivo di un giovane stalliere e il divampare di una nuova passione, un’esistenza senza più freni, condurranno Katherine ad un calcolo, ad un arrivismo, alla consapevolezza di una “libertà” errata, ad una menzogna che la faranno scivolare in una solitudine ai limiti della pazzia. Con al centro un’eroina del tutto negativa, che guarda a Bovary o a Chatterly, interpretata dalla diciannovenne Florence Plugh che negli anni prossimi dovremo tenere ben d’occhio, tesa, calcolatrice, ma altrettanto sincera, innamorata e dolce nel suo rifiuto a ogni legge prestabilita, questa Lady Macbeth è un’opera decisamente matura, nell’essenzialità della struttura narrativa, nella rappresentazione dei personaggi minori (la domestica Anna, uno per tutti), nell’uso dei costumi e degli ambienti, in quello sapiente delle luci come si stesse di volta in volta fissando l’immagine su una tela. Arriverà sui nostri schermi la primavera prossima e avremo occasione di riparlarne, da non perdere.

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Invece da dimenticare tutto e subito Sadie di Craig Goodwill, inutile, arrogante, vuoto, sfrenatezza torinese di una scrittrice divisa tra vecchie e nuove passioni. L’unico merito è inanellare in mezzo alla noia vedute cittadine e no (il foyer del Regio e il Circolo dei Lettori, il Castello di Masino e la Sagra di San Michele, la villa della Regina e la Reggia di Venaria), legate tra loro in modo arruffato, ben maggiore quello di aver riversato un milione di euro di ricaduta economica sul territorio. Con buona pace della qualità.

Elio Rabbione