“Venere incontra Venere”, ponendo l’una a fianco all’altra la Venere di Torino, uscita a metà dell’Ottocento dal fiorentino palazzo Ferroni, pervenuta a Londra e all’inizio degli anni Venti nella collezione di Riccardo Gualino, poi sino al 1940 presso l’ambasciata italiana della capitale inglese, e quella proveniente dalla Gamaldegalerie di Berlino
Quando si dice “Venere del Botticelli” s’intende quasi sempre quella che, sospinta dal soffio di Zefiro e Clori e affiancata dall’Ora colta nell’atto di porgere un rosso quanto floreale mantello, pronta ad approdare a Citera o a Cipro (o forse, in territorio italiano, nei pressi di Fezzano di Portovenere, dove il suo modello, la bellissima Simonetta Cattaneo, figlia di Gaspare Cattaneo della Volta e di Cattocchia Spinola, aveva casa, prima di andare sposa sedicenne in Firenze a Marco Vespucci, lontano cugino dell’esploratore del Nuovo Mondo, amata da Giuliano de’ Medici, cantata dai poeti e regina di tornei, ritratta anche da altri artisti, Piero di Cosimo la rappresenta come Cleopatra, fissata nel suo seno nudo contro un panorama di nubi e alberi ed un aspide avvolto attorno al collo, morta a soli ventitré anni probabilmente di tisi), si ammira dall’ormai lontano 1815 nella sala degli Uffizi, già appartenuta a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e collocata nella villa di Castello. “Veneri” altrettanto belle e intriganti sono quelle che si potranno ammirare sino al 18 settembre negli spazi della Galleria Sabauda, due esempi di dea “anadiomene” (ovvero “che sorge dall’acqua”) di quella Bellezza ispirata alle “Metamorfosi” di Ovidio e allineata a quell’Ideale Armonico che trovò posto nell’Umanesimo fiorentino, intriso di cultura classica, coltivato, come in una rinnovata epoca aurea, dalla famiglia che con Cosimo aveva preso il potere, dai pittori amici e protetti pronti a esaltarne la munifica grandezza, dai poeti di corte come Poliziano, dal neoplatonismo di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola.
“Venere incontra Venere”, ponendo l’una a fianco all’altra la Venere di Torino, uscita a metà dell’Ottocento dal fiorentino palazzo Ferroni, pervenuta a Londra e all’inizio degli anni Venti nella collezione di Riccardo Gualino, poi sino al 1940 presso l’ambasciata italiana della capitale inglese, e quella proveniente dalla Gamaldegalerie di Berlino. Ne esiste una terza, che sino a metà dell’Ottocento seguì la stessa strada delle consorelle, per prendere poi quella che la portò alla galleria Bohler di Monaco, da cui venne ceduta ad un collezionista di Lucerna: tutte ascritte alla maestria di Botticelli con apporti di quella bottega che, morto il suo maestro Filippo Lippi, era riuscito a creare attorno a sé. Non trascurando i ricordi tramandatici dal mercante fiorentino Antonio Billi secondo cui il pittore andava eseguendo bellissime donne nude e le parole con cui nelle “Vite” Giorgio Vasari confermava quella notizia: “Per la città, in diverse case fece tondi di sua mano, e femmine ignude assai”. Dice la direttrice Enrica Pagella, che ha fortemente voluto questi confronti e che promette altri appuntamenti per i mesi a venire: “La precisione e la grazia del disegno, la delicatezza dei colori e il soave pallore perlaceo del corpo nudo di Venere, posto al centro della composizione, alludono alla purezza dell’amore come forza motrice della natura”. Inutile negare che ad un occhio distratto le due tele possono apparire eguali. Ma all’occhio attento e mai frettoloso, studioso e appassionato, piacerà vedere le piccole o maggiori differenze delle due realizzazioni, di questa Bellezza (la Venere pudica) che nasconde con le mani il seno e il pube, dal leggerissimo, impalpabile velo che copre scendendo fino ai piedi la nudità o l’ombra più scura o i capelli ramati che segnano la Venere torinese, tratti impercettibilmente più adulti, lunghi capelli biondi che scendono lungo la spalla destra, le dita della mano sinistra più ravvicinate per quanto riguarda il quadro berlinese. E ancora il diverso volume del corpo, l’oscuro spazio di fondo di differente ampiezza sia alla base che in alto, la scentratura dell’ingombro del corpo verso destra che ancora differenziano la doppia Venere. Al loro fianco, a concludere la compattezza della piccola mostra, esempio marmoreo, ancora un’Afrodite anadiomene risalente al II secolo d.C., e sormontata da una testa di epoca rinascimentale. L’opera, oggi patrimonio della Soprintendenza Archeologica del Piemonte e conservata a Palazzo Chiablese, venne acquistata da Carlo Emanuele I, già nella collezione romana di Gerolamo Galimberti che a sua volta l’aveva acquistata nel 1565 da Francesco Lisca.
Elio Rabbione