Mel Gibson, lo si sa, non è uomo dalle mezze misure e usando la macchina da presa per la descrizione della violenza lo fa in maniera autentica, con il rischio per qualche animo reso più frastornato che il tutto sia visto eccessivo e pericoloso. Non sono espedienti da grand guignol, come non è compiacimento, è realismo che può aggredire la passione di Cristo o l’epopea di Apocalypto e che oggi ritroviamo a dieci anni di distanza da quest’ultimo titolo nella Battaglia di Hacksaw Ridge, presentato con successo a Venezia fuori concorso nel settembre scorso.
La storia narrata è quella umana e vera di Desmond Doss scomparso una decina di anni fa, un giovane timorato di Dio, appartenente alla Chiesa avventista del Settimo Giorno, che in casa deve reggere i traumi di un padre reduce della Grande Guerra e che in pubblico ama gareggiare con il fratello in mezzo ai boschi della Virginia o lasciarsi completamente innamorare dai begli occhi di una ragazza e amoreggiare portandosela al cinema e chiederla in sposa all’incontro successivo.V Allo scoppio della guerra, mentre i musi gialli visti come il diavolo distruggono Pearl Harbour, anche per Desmond arriva l’ora dell’arruolamento, con la piccola Bibbia nel taschino e con la promessa che non imbraccerà mai un fucile. Arrivano l’addestramento, dove il sergente Vince Vaughn sembra uscito dai fotogrammi di Full Metal Jackett, i commilitoni che lo etichettano come vigliacco, le percosse in camerata nel cuore della notte, un tribunale militare che lo dovrà giudicare e possibilmente condannare. Ma Desmond rimane inflessibile, chiudendo la prima parte del film che ne mette gloriosamente in risalto le doti morali e si dimostra come un onesto prodotto dell’Hollywood più ammirevole. Buttando anche un occhio il vecchio e osteggiato Gibson, che conosce il cinema e lo sa splendidamente fare, a certi vecchi titoli, per cui quella atmosfera di pacifismo, accettato o meno ma pur sempre combattuto dentro ogni animo difensore e onesto, ti fa ritornare alla mente Il soldato York di Hawks o La legge del fucile di Wyler o il vecchio e dimenticato Non uccidere (“Tu ne tuera point”) di Autant-Lara.
Si apre una seconda parte, con indimenticabili scene di battaglia che ti portano alla difesa delle sei nomination all’Oscar, dove Desmond a fianco dei compagni della 77ma Divisione di fanteria che scalano il roccione di Okinawa e avanzano, privo di armi, combatte e sfugge come chiunque altro, coprendosi di merito (primo obiettore della storia americana, riceverà a conflitto concluso da Truman la Medaglia d’onore) nell’assistere e nel portare in salvo più di settanta uomini, spaventati, feriti, con le carni ridotte a brandelli. In immagini che inseguono per “bellezza” i venti minuti iniziali di Salvate il soldato Ryan di Spielberg, alla scoperta dei giapponesi che spuntano da ogni parte e che sono votati al suicidio, Gibson non fa sconti circa la “crudeltà” del racconto, riempiendolo di particolari raccapriccianti, facendoci sentire tutto l’odore e il sangue di una battaglia, con i corpi sventrati, gli arti mutilati, gli esseri che esplodono nel fuoco degli attacchi. E non nascondendoci nulla vince, facendoci ancor più ammirare e amare il messaggio – francamente evangelico – del protagonista, il suo affanno e la sua disperazione, il suo darsi completamente agli altri (mentre fa calare dall’alto della muraglia, con provvidi mezzi di fortuna, un compagno, sussurra “ti prego, Signore, fammene trovare ancora un altro”), proprio in quella carneficina confermando il messaggio di non-violenza e di pace ricercata a ogni costo. Confermando la dualità che attraversa l’essere umano oggi, quotidianamente, la ricerca del non uccidere e l’estremo realismo di un nemico che sta alla porta. Circondato da un bel gruppo d’attori, Andrew Garfield, uscito di recente e con successo dalle nebbie del Seicento nipponico ricostruite per Silence da Scorsese, aspira giustamente all’Oscar e si conferma come uno degli attori trentenni più interessanti e drammaticamente concreti.