CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 658

Così si racconta della masca Paroda

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino.
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Non è più tempo delle fiabe. La televisione, gli smartphone, la tecnologia tutta esige quotidianamente così tanta dedizione, che quando finalmente essa non ci serve più è già tempo di andare a riposarsi, per essere pronti ad affrontare un nuovo giorno isterico, fatto di corse, di clacson, di whatsapp e di e-mail. Le storie della buona notte, o quelle raccontate dai nonni mentre stavano seduti sulle poltrone infossate, o quelle attorno ai fuochi la sera, tra i boschi o in spiaggia, sono diventate leggende a loro volta. Tuttavia non tutto può essere conservato in un hard disk, ci sono vicende che si possono tramandare solo oralmente, passando di orecchio in orecchio, accresciute di fantasia in fantasia, di suspance in curiosità, avvolte nei giochi di immaginazione. La verità è che l’onniscienza di internet nulla può contro gli aneddoti narrati a voce, magari in dialetto, dalla nonna. E la nonna così inizierebbe un suo racconto… C’era una volta una donna, dall’aspetto comune, secondo alcuni molto bella, secondo altri brutta addirittura, che amava la natura e abitava in una piccola casa lontano dal paese. Si occupava del suo orto, in cui coltivava erbe, verdure e qualche frutto. Aveva caro il bosco, lo guardava cambiare colore a seconda delle stagioni, lo respirava in tutti i suoi profumi e si addormentava ascoltandone i magici suoni. La donna, di nome Paroda, passava molto tempo passeggiando tra gli alberi, osservando con attenzione il mondo che le stava attorno, e imparò così a conoscere le piante, per gioco le chiamava per nome e aspettava che esse le rispondessero. Ad ognuna di esse era affezionata come a delle persone vere, perché, come tra la gente, anche tra queste c’era quella che poteva aiutarla a star bene, quella che la pungeva per dispetto, quella incantevole ma priva di prerogative e quella che stava in sordina, nascosta nel sottobosco, gelosa delle proprie qualità curative infallibili. Paroda apprezzava il sole che la faceva sudare mentre zappava la terra, ma adorava anche la luna, che di notte era sua compagna di chiacchiere e pensieri; anche il vento le piaceva, così come la pioggia e come i fulmini e i tuoni. Non c’era nulla che la donna non ritenesse affascinante o quantomeno gradevole. Medesimo atteggiamento ella aveva per gli animali: non c’era creatura che lei reputasse non importante o non degna di rispetto, dal topo al cane, dal bruco al falco. Paroda era ben convinta che la Natura niente fa per caso o per distrazione, e tutto va compreso e capito e rispettato. Avvenne poi che una terribile epidemia si abbatté sul villaggio e su tutto il territorio circostante. La peste travolse gli abitanti come una tormenta inarrestabile, trascinando via le anime di moltissime persone, lasciando i pochi superstiti nel terrore e nella disgrazia. La malattia stagnò nella terra, faceva marcire le carni e il cibo, ma più di tutto attecchì sugli animi della gente, che, impazzita per il dolore, gridava al maleficio. Il castigo divino non poteva essere già arrivato, sicuramente tutto ciò era opera del Demonio e delle scellerate sue seguaci: le streghe! Ed ecco trovata la soluzione: per scacciare la terribile pestilenza era necessario liberarsi di chi la malattia l’aveva causata. Non ci volle molto tempo per individuare le colpevoli, tutte donne, tutte guardate con sospetto e ora con disprezzo, tutte che preferivano vivere lontano dal villaggio, vicino al bosco, dedite al loro piccolo, secco, orticello “malefico”.
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Vennero a prendere anche Paroda, in un giorno qualunque, con quella cattiveria che è tipica degli uomini, ed è estranea al mondo dei boschi e dei fiumi, quella stessa malvagità che Paroda non voleva conoscere e che aveva tentato fino a quel momento di fuggire. I soldati, si dice, sradicarono le piante, uccisero violentemente gli animali e misero a soqquadro la casa di Paroda. Del suo gatto dissero che era nero come il Demonio e per ciò gli tagliarono la testa, quando sgozzarono la capra si spiegarono a vicenda che anche quella era una bestia di Satana, e nel momento in cui scoprirono l’altare con una croce e un lumino si riconobbero tutti d’accordo nell’affermare che era ovvio che lì si svolgessero i Sabba più indecenti. Nell’orto trovarono lattuga malefica, patate del diavolo e cavoli demoniaci. Anche le margherite furono una prova schiacciante della colpevolezza di Paroda: essa le usava per staccare i petali, e ogni petalo caduto era un’anima che se ne andava; infine, non fossero bastati quei fiori bianchi e gialli, scorsero anche delle rose, le cui spine servivano di certo per puntellare i fantocci di coloro che la donna voleva far soffrire. Paroda venne portata in prigione e torturata per giorni, soffrì le pene più indicibili, nate dalle fantasie più torbide dei detentori. A volte la donna sveniva e quando rinveniva era il Diavolo ad averla fatta svegliare, e così le torture ricominciavano da capo, e quando invocava Dio per chiedere pietà era solo un altro trucco del Demonio, che ormai ghermiva la sua anima. Qualsiasi cosa farneticasse la sventurata era solo colpa di Belzebù, che proprio non voleva lasciarla andare. Il giorno del processo chi la stava giudicando le consigliò cosa dire, in modo che potesse essere finalmente salvata, e così alla donna esangue venne suggerito di confessare qualunque argomento le proponesse la giuria. Paroda fece in tal modo e finalmente si conquistò la tanto promessa salvezza, ma l’unica maniera con cui i torturatori potevano prometterle l’amore di Dio era attraverso il rogo, le fiamme avrebbero purificato l’anima dannata e finalmente le sue pene sarebbero terminate. La masca Paroda finì i suoi giorni in una gabbia, sporca e rasata, morì silenziosa e miseramente come tante altre sue pari, colpevoli di niente se non di non essersi volute conformare a come gli altri le volevano. La vicenda della masca Paroda si svolse intorno agli anni Trenta del 1600, a Sommariva Bosco. Poco più in là del demoniaco Roero, con le Rocche costruite dal diavolo e i precipizi che ancora rimbombano delle vicende della masca Micillina. Oggi, a Sommariva, si organizzano feste e cacce al tesoro, su internet si vendono i biglietti per parteciparvi. Andate e divertirvi, ma non dimenticate di chiedere a qualche anziana del paese della masca Paroda: essa vi racconterà una storia meno virtuale e più veritiera, magari in dialetto, usando i termini giusti, i soli che possono testimoniare per sempre le vicende che ormai non interessano a nessuno e che secondo alcuni possono anche essere dimenticate.
Alessia Cagnotto

“Vengo a vivere con te…”

“Vengo a vivere con te, lo sai mi sono innamorato e la vita è troppo corta e non possiamo perdere tempo” Nel 1987 Luca Carboni faceva, su note semplici, ricche di minori, una tra le piu’ belle dichiarazioni d’amoreMi viene in mente perchè tempo fa mi fu dedicata e poi scoprii che era il brano che dedicava a tutte le donne con le quali era stato (n.d.r.) come è buffo, quando credi di esser innamorato viene fuori tutta la vena poetica come fosse la prima volta, ma evidentemente, la prima volta non è…MAI. In ogni caso una favola questo brano, per quanto io no ami particolarmente la musicalità vocale di Luca Carboni che sulla musica di Nicola Lenzi, naviga in territori amorevoli cosi profondi con parole chiare, nude e crude :”sai quante cose potremmo fare tu potresti suonare il piano mentre io spalmo la maionese potrei spalmartene un po’ sul collo e leccandoti far tremare Bach” ma incantevoli, meravigliose che farebbero innamorare chiunque. Nel 2013 decide di impreziosire il brano, a mio avviso, con la partecipazione di Elisa, grande personalità musicale, per festeggiare i suoi 30 anni di carriera. Si sa poco di questo brano ma mi fa venire in mente dichiarazioni tipo “Come nelle favole” di Vasco Rossi, un desiderio spassionato di convincere l’altro a stare insieme, condividere le cose semplici di tutti i giorni…nel bene e nel male, anche a sfregio dell’abitudine che poi, si sa, corrode ogni rapporto. Ma ci si crede, quando lo si scrive, quando lo si canta, quando lo si suona e persino quando lo si dedica…più vole, a donne diverse. Mi fa sorridere. Amo l’amore, quello cantato, quello detto e taciuto, ancora di più quello urlato e palpabile. Fatevelo un tutto negli anni ’80 ed ascoltatela questa canzone, che vi riempia il cuore, almeno per un po’ perchè poi…tutto, ma proprio tutto, finisce.

Chiara De Carlo

https://www.youtube.com/watch?v=uFPTU2Hvpw8

Chiara vi segnala i prossimi eventi …mancare sarebbe un sacrilegio!Scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

 
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GV pane e Caffe di via tiepolo 8/d

Il silenzio sulla tela

FINO AL 30 SETTEMBRE

Un omaggio alla Spagna. E a un genere figurativo, quello del bodegòn” (come l’arte iberica è solita definire, fin dagli inizi, la “natura morta” per la sua specifica caratteristica dell’ essere opera quasi sempre ambientata – con la frutta i fiori gli ortaggi i pesci e la selvaggina – in taverne, osterie o cucine popolari) che in Spagna vede le sue prime produzioni intorno alla fine del XVI secolo, sulle orme di un’ormai consolidata tradizione fiamminga e italiana ma con caratteristiche assolutamente originali e di grande fascino narrativo. Questo vuole essere in primo luogo la mostra ospitata, fino al 30 settembre, nelle “Sale Palatine” della torinese Galleria Sabauda, realizzata in collaborazione con Bozar – Palais des Beaux Arts di Bruxelles e con la partnership di Intesa Sanpaolo.

Significativamente titolata “Il silenzio sulla tela” e curata da Angel Aterido, professore all’Università Complutense di Madrid, la rassegna traccia, attraverso gli esempi più significativi di “bodegones” realizzati da maestri che hanno profondamente segnato l’arte spagnola – dal primo Barocco all’età delle Accademie – il percorso di sviluppo di questo genere artistico su due secoli abbondanti di produzione. Da Sànchez Cotàn, prolifico pittore religioso (che nel 1603, a 43 anni, decise addirittura di intraprendere la vita monastica come monaco certosino) e pioniere in Spagna del nuovo filone pittorico fino al grande Francisco Goya, la mostra subalpina si articola in sette sezioni – dalle origini ai primi anni dell’ ‘800 – e fa seguito ad altre prestigiose e similari esposizioni tenutesi alla “National Gallery” di Londra nel 1995, al “Museum of Fine Arts” di Bilbao nel 1999 e successivamente al “Bozar” di Bruxelles. Al suo interno raccoglie una quarantina di opere provenienti da prestigiosi musei pubblici (dal “Prado” al “Louvre” alle “Gallerie degli Uffizi” e all’ “Art Museum” di San Diego), così come da importanti collezioni private: per il visitatore sarà come intraprendere un affascinante viaggio a tema attraverso straordinarie tavole pittoriche, come il “Bodegòn de frutas, verduras y hortalizas” realizzato da Juan Sànchez Cotàn e proveniente dalla Collezione Abellò di Madrid, le “Mele in cestino di vimini” di Juan de Zurbaràn, le scene allegoriche della “Vanitas” e de “Il Sogno del Cavaliere” di Antonio de Pereda (fra i protagonisti assoluti del Barocco spagnolo), fino alla preziosa per rigore tecnico “Natura morta con quaglie, cipolle, aglio e recipienti” di Luis Melèndez, napoletano di nascita e morto a Madrid nel 1780, o all’impressionante “Natura morta con tacchino” di Francisco Goya, che al genere “si avvicinò – precisa Aterido – con l’assoluta libertà tipica della maturità” realizzando opere decisamente innovative “la cui importanza è stata riconosciuta molto dopo la sua scomparsa”. Opere, tutte, di mirabile puntigliosa definizione stilistica, perfette nel gioco compositivo di segni e colori, così come in quei sagaci virtuosismi chiaroscurali capaci di imprimere quasi un “tocco scultoreo” all’intera rappresentazione: in esse leggiamo certamente affinità di fondo, stilistiche e concettuali (e non potrebbe essere che così), con i più consolidati modelli fiamminghi e italiani, ma anche tipiche peculiarità che contraddistinguono gli spagnoli “bodegones” dalle soluzioni compositive adottate negli altri paesi europei. Prime fra tutte, una maggiore sobrietà di fondo e il carattere austero, unito a personalissime interpretazioni tematiche che gratificano gli artisti spagnoli, cui si deve l’evoluzione del “genere”, di uno specifico riconoscimento e che li pone a titolo pieno fra i vertici dell’arte occidentale. Come dimostra anche il voluto accostamento in mostra fra le opere spagnole e nove dipinti italiani e fiamminghi appartenenti alle collezioni della Galleria Sabauda, fra le quali la “Natura morta con frutta, dolci, crostacei, un bicchiere e un topo” del tedesco (operante agli inizi del Seicento) Peter Binoit e “La vanità della vita umana” del fiammingo Jan Bruegel il Giovane, opera di grandissima ricchezza iconografica probabilmente acquistata da Vittorio Amedeo I e giunta a Torino entro il 1635. Da segnalare anche la superba “Natura morta con pesci e molluschi” (1675-80) del napoletano, eccelso pittore di fauna ittica, Giuseppe Recco, data in prestito dalle Gallerie d’Italia – Intesa Sanpaolo.

Gianni Milani

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“Il silenzio sulla tela. Natura morta spagnola da Sànchez Cotàn a Goya”

Galleria Sabauda – Sale Palatine, Piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5211106 – www.museireali.beniculturali.it Fino al 30 settembre

Orari: dal mart. alla dom. 8,30/19,30

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Nelle foto:

– Juan Sànchez Cotàn: “Bodegòn de frutas, verduras y hortalizas”, 1602
– Juan de Zurbaràn: “Mele in cestino di vimini”, 1643-49
– Peter Binoit: “Natura morta con frutta, dolci, crostacei, un bicchiere e un topo”, ca. 1620

 

 

100% Italia. Cent’anni di capolavori

FINO AL 10 FEBBRAIO 2019

E’ stato definito “un evento unico nel suo genere”. E mai definizione fu così veritiera, per l’imponenza quantitativa e la qualità del progetto. Che certamente avrà richiesto una montagna di coraggio oltreché impegno da vendere e una profonda competenza storico-scientifica da parte dell’intera organizzazione. Ideata e coordinata da Andrea Busto, direttore del MEF – Museo Ettore Fico di Torino e curata da un team di sette storici e critici dell’arte di comprovata levatura ( da Luca Beatrice a Lorenzo Canova a Claudio Cerritelli e a Marco Meneguzzo in buona compagnia con Elena Pontiggia, Luigi Sansone e Giorgio Verzotti), la rassegna “100% Italia. Cent’anni di capolavori” vuole raccontare – fino al 10 febbraio del prossimo anno – un secolo d’arte in Italia, il made in Italy assolutamente doc dell’arte novecentesca, dagli anni immediatamente precedenti al 1915, anno d’avvio per il nostro Paese della Grande Guerra fin quasi ai giorni nostri: in sostanza, da quando i Futuristi proclamavano a gran voce di voler “bruciare i musei e le biblioteche” per dare un calcio alla storia passata, fino a quel 25 febbraio 2015 quando i jiadisti tradussero tragicamente in fatti le altisonanti buriane di “Marinetti & co.”, bombardando Ninive e distruggendo i reperti archeologici del Museo di Mosul. Il viaggio, sia pur compiuto a volo d’arte, è imponente e quasi spaventa per la complessità e l’ampiezza del percorso. A voler “evidenziare il ruolo preminente dell’arte italiana, che ha saputo segnare profondamente – sottolineano gli organizzatori – la creatività europea e quella mondiale” lungo il corso del “secolo breve”, le opere esposte sono ben 630 (a firma di oltre 400 artisti, autentiche icone della storia dell’arte del secolo scorso), tre le città coinvolte – Torino, Vercelli e Biella – e sette le sedi espositive. In mostra, un patrimonio inestimabile, in molti casi inedito e che difficilmente potrà essere rivisto in un unico “blocco” dal momento che tutte le opere provengono da collezioni private, dagli archivi di musei e fondazioni, oltreché dall’Associazione Nazionale delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, dall’Associazione Fondazioni e Casse di Risparmio, nonché dalle Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo.

A TORINO

Sono quattro, nel capoluogo piemontese, i punti espostivi dedicati ad alcune fra le correnti artistiche più significati del nostro Novecento. Al MEF (via Cigna, 114 – tel. 011/853065) vanno di scena Novecento, Corrente, Astrazione e Informale, con un lungo elenco di artisti in parete che vanno, solo per citarne alcuni, da Felice Casorati ad Arturo Martini (con un bellissimo “Ritratto di ragazzo” in terracotta del ’21), passando per Sironi e Dudreville (suoi gli iperrealistici “Occhiali” datati ’25). E poi ancora i Sei di Torino, le “nature morte” di Carena e Guttuso, e i pittori dell’astrazione, da Spazzapan a Carol Rama a Giò Pomodoro, fino all’informale gestualità di Vedova o al “Sacco” di Burri e al “Concetto spaziale” di Fontana. A seguire (e consapevolmente tralasciandone altri), Pinot Gallizio, Fico, Cherchi con le sue sculture e Garelli e Cordero. Nelle sale del MEF Outside (via Juvarra, 13 – tel. 011/0343229) è invece la Pop Art a raccontarsi attraverso le opere dei nostri “grandi”, da Schifano ad Angeli a Gribaudo a Nespolo, mentre al Mastio della Cittadella (via Cernaia, 1- tel. 011/01134494) troviamo gli esponenti dell’Arte Povera (da Celant all’ “Illuminazione Zen” di Rotella) e alcuni fra i più emblematici rappresentanti dell’Optical, del Minimalismo e del Concettuale, fra i quali Pistoletto, Salvo, Paolini, Boetti, Mario e Marisa Merz con Gilardi, Penone e Anselmo. A chiudere a Torino, sono la Transavanguardia, Nuova Figurazione e International con opere esposte a Palazzo Barolo ( via Corte d’Appello 20/c – tel. 011/2636111) a firma di Nicola De Maria, Paladino, Chia, Mondino insieme a Cattelan, Mainolfi, Stoisa e altri.

A VERCELLI

Nella Città del Riso, la mostra trova ospitalità con tutte le suggestioni della Metafisica, del Realismo Magico e della Neometafisica, negli spazi del Polo Espositivo “L’Arca” (piazza San Marco, 1 – tel. 0161/596363). Siamo ovviamente nel regno incontrastato di Giorgio De Chirico (fra le opere esposte l’epica “Battaglia sul ponte”, realizzata dal “Pictor Optimus” nel ’69), ma anche di Morandi e di Savinio e dei “Fiori” di De Pisis, così come dell’incanto sospeso de “La famiglia. Dopo il temporale” firmata nel ’34 da Antonio Calderara.

A BIELLA

In Palazzo Gromo Losa (corso del Piazzo, 22-24 tel. 015/2520432 ), il Novecento dell’arte italiana ha le forme, i colori forti e l’irrequieto dinamismo del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti e di Umberto Boccioni ma anche di Soffici e Sant’Elia e Carrà su tutti; mentre al Museo del Territorio ( via Quintino Sella, 54/b – tel. 015/2529345) spiccano in parete i dipinti di Diulgheroff, Depero, Farfa e Mino Rosso. Sono le avanguardie del Secondo Futurismo: quello seguito alla morte di Boccioni nel 1916 e al contemporaneo avvicinamento di Severini e Carrà alla sintassi cubista.

Gianni Milani

 

Foto

– Giorgio De Chirico: “La battaglia sul ponte”, 1969
– Leonardo Dudreville: “Occhiali”, 1925
– Antonio Calderara: “La famiglia. Dopo il temporale”, 1934
– Michelangelo Pistoletto: “Suonatrice di liuto”, 1970, ph. beppe giardino
– Mimmo Rotella: “Qui etes vous Polly”, 1975 ph. beppe giardino
– Athos Casarini: “Dinamismo di metropoli”, 1912

Le luci di Iren per la Cappella della Sindone

Iren Energia, società del Gruppo Iren, in collaborazione con Performance In Lighting e con la consulenza di GMS Studio Associato di Milano, ha studiato e realizzato il progetto di illuminazione interna ed esterna della Cappella della Sindone del Guarini

Il progetto prevede che le fonti di luce artificiale rimangano completamente nascoste alla vista del visitatore, rendendo la luce e l’architettura le uniche protagoniste, dando vita ad un effetto luminoso che ricerca quella elevazione verso l’Altissimo, a cui tendeva lo stesso Guarini, quale principio fondativo e connotativo dell’intervento. L’illuminazione artificiale, come quella naturale, assume una funzione caratterizzante lo spazio e soprattutto contribuisce all’esaltazione dell’architettura guariniana. Per quanto riguarda gli spazi interni, si è provveduto all’installazione degli apparecchi in quattro distinte fasce e postazioni:

  • esterno degli “occhi”, a quota +20m;
  • piano di calpestio del loggiato, a quota +28m;
  • cornici di imposta delle arcate del loggiato, a quota +35m;
  • estradosso della “stella”, a quota +45m.

Per quanto riguarda gli esterni, sono state individuate le seguenti postazioni:

  • manto di copertura alla base della cupola, a quota +40m circa;
  • base della punta della lanterna, a quota +50m circa.

 

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Ogni postazione è connotata dalla presenza di apparecchi con caratteristiche fotometriche peculiari alla specifica funzione. In generale, salendo dal basso verso l’alto, i valori di illuminamento sulle superfici aumentano, evidenziando la percezione del percorso ascensionale dalle tenebre alla luce. L’illuminazione dagli “occhi” è funzionale per mettere in evidenza l’intradosso degli occhi e il bacino tronco. L’illuminazione artificiale “diffusa” proveniente dall’esterno vuole porsi in continuità con il linguaggio architettonico della cappella del Guarini. Sul piano di calpestio del loggiato, in corrispondenza dei finestroni del tamburo, sono installate due tipologie differenti di apparecchi di illuminazione, in base alle specifiche funzioni a cui sono destinati. La luce che proviene da questi apparecchi (completamente nascosti alla vista) si irradia sull’imbotte degli archi del loggiato e sulle superfici del tamburo cercando di proporre una continuità di linguaggio rispetto ai concetti espressi dai volumi architettonici Al di sopra delle cornici alla base delle arcate del loggiato sono stati installati gli apparecchi lineari che hanno la specifica funzione di illuminare a proiezione l’interno della cupola con l’intento di proporre la lettura dei giochi di volumi pensati dal Guarini. Sull’estradosso della “stella” sono installati gli apparecchi destinati a illuminare la parte sommitale interna della lanterna. In quest’area si hanno i valori di illuminamento più elevati, rendendola, di fatto, l’area più illuminata della cupola. Parallelamente, si è previsto l’uso di sorgenti luminose a LED con temperature di colore calde, pari a 3.000 K che differisce volutamente dalle sorgenti LED a 4.000 K utilizzate per tutti gli altri apparecchi. Anche questa differenza di temperatura di colore contribuisce alla percezione della parte sommitale interna della lanterna quale elemento generatore dell’illuminazione “divina”. Alla base della cupola, sopra il manto di copertura, sono stati installati gli apparecchi dedicati all’illuminazione della cupola stessa. Si prevedono due proiettori per ogni “spicchio” della cupola, di cui uno caratterizzato da fascio luminoso bianco caldo a 3.000 K mentre l’altro è dotato di tecnologia LED RGBW (Red Green Blue White) in grado di riprodurre una vastissima gamma di colori. La miscellanea degli apparecchi di illuminazione garantisce un sapiente gioco di luci e ombre in grado di rendere evidente la struttura ad archi che compone la cupola. L’illuminazione scenografica colorata potrà inoltre essere utilizzata per sottolineare eventi e/o ricorrenze particolari. Completano la proposta gli apparecchi posti a quota +50m circa. Tali apparecchi sono funzionali all’illuminazione della lanterna di cui ne evidenziano la struttura e gli elementi decorativi. Tutti gli apparecchi di illuminazione sono equipaggiati con alimentatori comandati da protocolli digitali specifici. Grazie all’uso di questi sistemi di controllo digitali, si determina l’estrema flessibilità dell’impianto di illuminazione nel ricreare diversificati aspetti luminosi scenografici e suggestivi. Tale soluzione diventa indispensabile per l’illuminazione della cappella, che di volta in volta potrà valorizzare i caratteri connotativi della propria immagine in relazione agli eventi che in essa si svolgeranno. In totale è prevista l’installazione di 66 corpi illuminanti, per un totale di 2,89 KW di potenza a pieno regime.

 

Jacques Brel, il talento “di invecchiare senza diventare adulti”

Il 9 ottobre di quarant’anni ci lasciava Jacques Brel, uno dei più grandi chansonnier del ‘900, autore di indimenticabili brani come Ne me quitte pas e La chanson des vieux amants. Un cancro se lo portò via a soli  49 anni. Belga di nascita ma francese d’adozione, iniziò a suonare senza grande successo nei cabaret  e nei bistrot di Parigi ma tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ‘60 il pubblico riconobbe il suo talento. Brel pubblicò 13 album, l’ultimo nel 1977 ( Les Marquises, noto anche come Breldieci anni dopo la scelta di non cantare più un pubblico. I più grandi cantanti, come Juliette Gréco, hanno interpretato le sue canzoni e da grande artista qual’era venne apprezzato anche come attore e regista teatrale. I sentimenti, l’amore, un certo esistenzialismo umanistico, le idee libertarie, l’antimilitarismo non di maniera, gli sberleffi alla società dei benpensanti, il senso dell’amicizia: i testi di Jaques Brel hanno riassunto la vita sotto ogni punto di vista. Jacques Brel è sepolto nel cimitero del Calvario ad Atuona, la località principale dell’isola di Hiva Oa nella Polinesia francese dove si era trasferito negli ultimi anni della sua vita. Nello stesso luogo, posto su un’alta collina dalla quale si vede l’oceano, riposa il pittore Paul Gauguin. Come scrisse in uno dei suoi testi più belli e importanti “c’è voluto del talento per riuscire a invecchiare senza diventare adulti“. In anche in questi altri versi, da poeta inquieto e ribelle, vi si può leggere il suo messaggio rivolto ad ognuno di noi: “Vi auguro sogni a non finire,la voglia furiosa di realizzarne qualcuno;vi auguro di amare ciò che si deve amare e di dimenticare ciò che si deve dimenticare;vi auguro passioni,vi auguro silenzi;vi auguro il canto degli uccelli al risveglio e risate di bambini;vi auguro di resistere all’affondamento, all’indifferenza,alle virtù negative della nostra epoca.Vi auguro soprattutto di essere voi stessi”.

Marco Travaglini

Le nuove frontiere della fotografia nell’era digitale

Il Rotary Rivoli promuove lunedì 1 ottobre prossimo una serata conviviale dedicata alla fotografia con un ospite di eccezione, il fotografo torinese Paolo Ranzani, classe 1966, che parlerà sul tema della “Mutazione del linguaggio fotografico nell’era digitale”.Ranzani, che ha frequentato il Dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design a Torino, specializzandosi nel genere people, è un fotografo a 360 gradi, sia attivo nel campo della moda, sia nei reportage sociali e nel glamour. La sua opera spazia dai ritratti agli scatti alle celebreties, al settore del beauty, advertising e fashion. Ha realizzato molti lavori per Fiat, Iveco, Lavazza, Oreal, oltre a curare l’immagine di vari personaggi noti del mondo dello spettacolo, fra cui Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, i Subsonica, Antonella Elia. Negli ultimi anni ha poi ampliato la sua indagine di ricerca al linguaggio del video ed ha pubblicato libri come “Ecce femina” nel 2000, “La soglia. Vita carcere e teatro” e Go 4 it/ Universiadi 2007. È referente artistico per il progetto Torino Mosaico e del collettivo artistico Dead Photo Working per il progetto di apertura di Luci di Artista.

Mara Martellotta

Vittone il torinese “monferrino”

Bernardo Antonio Vittone, torinese, architetto alla corte dei Savoia progettò numerosi luoghi di culto ed edifici civili nel Settecento sabaudo.

Anche il Monferrato è stato interessato alla sua opera, dal Seminario di Acqui Terme, dedicata a San Luigi Gonzaga a Corteranzo, oggi frazione di Murisengo, dopo essere stata comune sino al 1928, per arrivare all’Ospizio di Carità di Casale Monferrato (l’attuale casa di riposo di piazza Cesare Battisti Murisengo, E proprio a Casale, a partire da sabato 29 setttembre si può ripercorrere tutta la sua vita artistica in un viaggio attraverso quarantotto panelli grafici che rappresentano tutte le opere di Bernardo Antonio Vittone che sono presenti sul territorio regionale piemontese. L’esposizione rimarrà aperta fino al 7 ottobre, dalle 10 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 19, con catalogo disponibile presso il bookshop.

Sempre sabato, dalle 10, la sala Giumelli della Casa di riposo di piazza Cesare Battisti ospiterà un convegno che avrà come relatori Antonio Mignozzetti, storico e curatore con Cesare Matta (che ha seguit in particolare la parte fotografica), della mostra, lo storico Dionigi Roggero, l’archivista Manuela Meni ed Edoardo Piccoli docente associato di storia dell’architettura al Politecnico di Torino. Al convegno seguirà una visita guidata alla mostra ed alla struttura vittoniana.

 

Massimo Iaretti

Ecco il distributore automatico di poesie

Il Distributore Automatico di Poesia, ideato nel 1994 da Daniela Calisi, sarà a Torino Spiritualità, dal 26 al 30 settembre

 

Il DAP, che troverete nella sua prima versione è un distributore automatico di palline trasparenti, normalmente contenenti piccoli gadget viene utilizzato per proporre invece testi poetici inediti. Il distributore nasce dall’esigenza di proporre la poesia come bene di consumo di massa e sperimentare forme innovative di distribuzione e promozione della lettura. 

 

Esposto per la prima volta nel 1994  all’Università di Torino, da allora ha sempre suscitato l’interesse di diversi soggetti, coinvolti a diverso titolo nella promozione della lettura, sia nel pubblico sia nel privato.

 

Negli anni l’idea del distributore non ha perso la sua forza, che unisce semplicità e originalità:  uno strumento efficace di promozione della poesia di facile utilizzo, accessibile a tutti ed è stata utilizzato in diversi a Festival e manifestazioni poetiche e letterarie.

 

Il DAP 1 è il primo di una serie di sperimentazione e progettualità letterarie innovative: per approfondire il progetto, la sua storia e per saperne di più dei diversi Distributori potete visitare il sitowww.contentodesign.org 

 

Per Torino Spiritualità è stato realizzata un’edizione speciale con poesie sul tema dell’edizione 2018 PREFERISCO DI NO scritte ad hoc dai poeti aderenti alla Lega Italiana Poetry Slam http://www.lipslam.it

 

I poeti che hanno partecipato con almeno cinque testi indediti ciascuno, pensati sul tema della manifestazione sono: Serena Artom, Francesco Bastianon, Luca Bernardini, Arsenio Bravuomo, Francesco Deiana, Sergio Garau, Stella Iasiello, Rolando Piacentini, Mauro Piredda, Francesca Saladino. Potrete trovare il distributore e le poesie, al costo di un euro l’una, al Circolo dei Lettori, Via Bogino 9, Torino, vicino alla biglietteria di Torino Spiritualità.

“To be a person”. Tutti i colori della vita

FINO AL 15 NOVEMBRE

Carta. Colori. E tela. Fogli di carta colorati, ritagliati, ripuliti dagli inutili eccessi, composti scomposti e ricomposti e infine applicati sulla tela con combinazioni di universi pittorici e spirituali forse improbabili, forse casuali forse accettati o forse no; ma espressione sempre di un’intima complessità narrata attraverso segni e segnali istintivi, in cui la materia porta dentro le impronte di un’esaltante lievità, insieme (mai in dissonanza) con una vitalità e un’energia del gesto pittorico, calato con irruenza come se ogni pennellata fosse per l’artista un ultimo miracolante atto liberatorio. Capace di staccarti da terra per portarti nell’azzurro di cieli che più azzurri non si può. “Collage totale” o “collage inscindibile dalla pittura” o meglio “pittura in forma di collage”: così leggiamo nel testo-catalogo a presentazione dello opere (15 in totale) portate a Torino da Monique Rollins, in una suggestiva personale curata da Olga Gambari e allestita alla Galleria “metroquadro” fino al prossimo 15 novembre. Per Monique, americana del Delaware ma da tempo attiva fra New York e Firenze, è questo, negli spazi espositivi del gallerista Marco Sassone, un piacevole ritorno, attraverso il quale – sotto il titolo ben esplicito di “To be a person” – la pittrice presenta i lavori della recentissima serie “Spirit”, realizzati in seguito alla sua ultima residenza d’artista svolta a Pechino. Collages su tela. Carta e colore in acrilico, gli elementi essenziale del suo lavoro. Carta e carte, innanzitutto. Per lei materia prima, indispensabile a raccontare e a raccontarsi agli altri. E ciò da sempre. Di lei ricorda infatti la Gambari: “Quando faceva le sue prime lezioni d’arte da bambina, nello studio di una pittrice, invece che dipingere a olio su tela, colorava interi fogli di carta. Esercizi di colore puro”. Sul colore infatti, personalizzato, vibrante, delicato e graffiante ad un tempo, si gioca tutta la potenzialità narrativa delle sue opere; pagine in cui la Rollins trasforma (e l’azione non è per niente semplice, ma anzi complessa e ansiogena, pur se concepita in una sorta di magico divertissement) la realtà esteriore in paesaggi dell’anima, fissati con impetuosi tratti materici sulla linea di quell’espressionismo astratto americano da cui parte, mantenendo nel tempo significative cifre stilistiche, la sua formazione artistica a New York. Oggi sviata, rielaborata e diventata “altro”, attraverso parametri stilistici che si sono evoluti e personalizzati nel tempo e su cui hanno indubbiamente inciso – e non poco – anche gli studi di specializzazione compiuti da Monique sull’arte rinascimentale veneziana. Ecco allora quel nuovo tonalismo acceso, il colore asservito in toto alla luce e soprattutto quel riconoscere nel “bello” la molla d’accensione di un “piacere fisico e sensoriale” più che “intellettuale”, come voleva certo Rinascimento fiorentino, ad esempio. La bellezza legata più ai sensi che alla ragione e all’intelletto. Esaltata dall’accensione di quegli azzurri, di quei bruni smorzati e dei bianchi intensi e raffinati, in cui s’intrecciano libere storie condotte sul tema narrativo e sull’urgenza personale dell’“essere persona”. In un crogiolo variegato “di voci, di segni, forme e colori – ancora la Gambari – che hanno urgenza di essere ed esprimersi, che formano un coro, così incontenibili da uscire dal formato stesso della tela come un fiore che si schiuda. Ma non c’è caos, solo un’eufonia precisa e perfetta”.

Gianni Milani

“To be a person”

Galleria “metroquadro”, corso San Maurizio 73/F, Torino; www.metroquadroarte.com

Fino al 15 novembre

Orari: mart. – sab. 16/19

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Nelle foto

– Monique Rollins
– “Levels”, 2018
– “Inner Landscape”, 2018
– “Spirit Painting Blue”, 2018
– “Third Level Spirit”, 2018