CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 656

Portici di carta: Lo Cascio, Stassi, Cibrario e Rastello

Luigi Lo Cascio si presenta nella veste inedita di romanziere, Fabio Stassi in quella del medico in grado di curare grazie ai libri i problemi della vita. Torna Benedetta Cibrario con un romanzo storico ambientato in una Torino che precede l’unità d’Italia. E poi il libro che raccoglie scritti inediti e sparsi di Luca Rastello, presentato per la prima volta in città. Le autrici del Concorso letterario Lingua Madre.

La ricchezza sinistra del Trovatore apre la stagione del Regio

Sarà   il Trovatore di Giuseppe Verdi, diretto da Pinchas Steinberg, sul podio dell’ Orchestra e Coro del Teatro Regio, ad inaugurare la stagione d’Opera 2018- 2019, mercoledì 10 ottobre prossimo alle20. La più romantica tra le partiture verdiane verrà affrontata in uno spettacolo firmato dal regista Paul Curran

 Interprete nel ruolo di Leonora sarà Rachel Willis-Sorensen, in quello di Manrico DiegoTorre, Anna Maria Chiuri vestirà i panni di Azucena e Massimo Cavalletti quelli del conte di Luna. Rappresentato al teatro Apollo di Roma nel 1853, il Trovatore, nonostante l’immensa popolarità conquistata, risulta un’opera stratificata e complessa, tratta dal dramma di ispirazione romantica El trovador di Antonio Garcia-Gutierrez, cui si deve peraltro anche il Simon Boccanegra. Nell’opera emerge la figura titanica di Azucena, schiacciata, secondo le stesse parole verdiane, da una contraddizione letale tra il sentimento materno ed il vincolo filiale, che diventa dissidio tra una visionarieta’ disperata ed un’altrettanto crudele lucidità. Manrico è il simbolo   di un’epoca, affine al cavaliere infelice “desdichado”, presente nel romanzo di Walter Scott, Ivanhoe, prototipo del personaggio bello e disperato, tradito dal Fato e destinato a diventare proverbiale. Non a caso il regista Luchino Visconti ha utilizzato la scena della pira in apertura del suo capolavoro filmico “Senso”. Quelle note sono un simbolo perfetto della sensibilità di un’epoca e le gesta del cantore romantico diventano aspirazione risorgimentale, in opposizione alla smania di ordine del “cattivo”, il conte di Luna. Il Trovatore è forse l’opera più cupa e pessimistica del repertorio verdiano. Si apre di notte nell’atmosfera minacciosa del palazzo d’Aliaferia, con Ferrando che racconta una storia di tenebre e di orrore, che non solo ci fornisce il retroscena per la vicenda che si sta per svolgere, ma funge anche da sorta di introduzione emotiva.

 

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L’opera, come la narrazione di Ferrando, sarà una tragedia di zingari, di vendetta e di morte. Quasi tutte le scene sono notturne o si svolgono all’interno ( o entrambe), e persino l’apertura della seconda parte, con la scena dell’accampamento affacendato di zingari con danze e canti, avviene all’alba, quando le prime timide luci del sole si fondono con quelle ancora più vivide dei bivacchi. Nell’oscurità del Trovatore sono molto importanti i fuochi; la pira viene preparata due volte per l’esecuzione di Azucena, e risulta cruciale ai fini della storia, ed ancor più è l’altro rogo dove morirono sua madre e suo figlio. L’iconografia del libretto di Cammarano è molto ricca di riferimenti a fuoco,  fiamme ed ardore, che hanno un valore sia metaforico sia reale. L’iconografia, insieme al vocabolario, donano all’opera un senso di urgenza. Manrico ordina, infatti, a Roux ” orri” e Manrico esso sembra sempre entrare ed uscire precipitosamente, continuamente proteso all’azione. Quest’opera, baricentro della cosiddetta Trilogia popolare verdiana, rappresenta sempre una sfida per i protagonisti per l’immensa difficoltà vocale delle loro parti. Nel Trovatore, nonostante le somiglianze con l’Ernani, è presente, tuttavia, una carica rivoluzionaria estranea all’opera precedente ed i personaggi risultano più ricchi di umanità e più approfonditi sotto il profilo psicologico rispetto a quelli delle altre opee della Trilogia. L a vicenda narrata risulta più vicina a quella dei casi dell’ambito della vita reale, tutto ciò anche grazie all’incisivita’ della musica, più che per merito del libretto, la cui suddivisione in atti e scene risponde ad un criterio di simmetria ( quattro atti, ciascuno dei quali suddiviso in due scene).

 

Mara Martellotta

Elliott Erwitt. Personae

FINO AL 24 FEBBRAIO 2019

Pochi elementi colti in men che non si dica, per fissare un amabile flash della Provenza d’antan. In un click che dura una frazione di secondo. Fra l’inaspettata visione del soggetto “irripetibile” nello spazio e nel tempo e il pigiare dell’indice sul pulsante di scatto della macchina fotografica. Siamo nel 1955: una vecchia bicicletta che sembra andar da sola sul rettilineo di una strada alberata disegnata nel silenzio della campagna provenzale, porta a spasso senza fretta un uomo (mani al manubrio) e un bambino che, aggrappato all’uomo e sistemato sul seggiolino posteriore, si volta a guardare incuriosito il signor fotografo. Entrambi hanno ben calato in testa il basco nero francese, il béret basque tanto caro ad artisti e rivoluzionari d’ogni epoca; dietro al bimbo, ben fissata allo schienale del seggiolino, una tipica baguette dalla forma allungata e dalla crosta tanto ruvida da sembrare un nodoso minaccioso bastone. Immagine catturata al volo, di calda e briosa poesia. Di quelle che non puoi stare un attimo a pensarci su, ché basta ancor meno di un attimo a fartela sgusciar di mano. E di vista. Fortuna. Piatto caldo servito al momento giusto e nel posto giusto. Ma anche bravura, tanta ma proprio tanta bravura, del grande fotografo. “France, Provence” (così bella da essere usata anche nel manifesto pubblicitario della mostra) è una delle oltre 170 immagini che compongono la retrospettiva di Elliott Erwitt, fra i fotografi più celebrati e irriverenti e indisciplinati del Novecento, ospitata nelle Sale dei Paggi della Reggia di Venaria. Retrospettiva amplissima e assolutamente “peculiare” – come sottolinea la curatrice Biba Giacchetti – poiché unisce per la prima volta un grande corpus di immagini a colori (molte inedite) alle sue icone, più volte esposte a livello internazionale, in bianco e nero. Organizzata da Civita Mostre con il Consorzio delle Residenze Reali Sabaude, su progetto grafico di Fabrizio Confalonieri e in collaborazione con Sudest57, la mostra mette in piena evidenza (al di là del dato tecnico di assoluta levatura) la profonda umanità di Erwitt, considerato il “fotografo della commedia umana”, ma soprattutto quella sua voglia di ironia e perfino di barzellettiera comicità che troviamo ad esempio in “Prado Museum” del ’95 – con il fitto gruppo di maschietti che osserva rapito la Maya Desnuda accanto all’unica femminuccia che guarda invece la Maya Vestida– o in alcuni divertenti ritratti dei suoi amatissimi cani, che sono poi “come gli uomini– afferma lo stesso artista – solo con più capelli”. C’è un innato piacevolissimo senso di adesione alla vita quotidiana degli individui nelle foto dell’artista americano (di qui il titolo “Personae” dato alla mostra), ma anche la bizzarria della “maschera” e del “teatro”, che si manifesta soprattutto in alcune foto realizzate con lo pseudonimo di André S. Solidor, il bisbetico alter ego che predilige tutto ciò che Elliott detesta: il digitale e il photoshop, la gratuita nudità e l’eccentricità fine a sé stessa. Una maschera dissacrante attraverso cui irridere certi artisti e certa arte. Non mancano in mostra le foto (numerosissime quelle scattate in più di settant’anni di attività) dedicate alle celebrities: da Marilyn Monroe, bellissima e sensuale in The Misfits, a Che Guevara, Sophia Loren, fino ad Arnold Schwarzenegger e a John Kennedy. Passata alla storia quella del ’59 in cui Richard Nixon punta il dito contro Nikita Khrushchev: fra i due nessuna importante baruffa, ma il gesto del primo fu cristallizzato in un’ icona di così forte aggressività da essere in seguito usata dallo staff di Nixon nella campagna presidenziale. Erwitt si infuriò non poco per l’incauto scippo e portò avanti una fiera battaglia sul diritto d’autore che certamente contribuì a produrre importanti effetti sul piano giuridico-legale, fino ad arrivare alle sacrosanti leggi del copyright oggi in vigore. Nato a Parigi nel 1928, da genitori russi emigrati, Elliott Herwitt (nato Elio Romano Erwitz) ha da poco compiuto 90 anni. Fino a 10 anni   ha vissuto a Milano e, a seguito delle leggi razziali, si è trasferito prima a Parigi e successivamente a New York e, nel ’41, a Los Angeles. Negli States inizia la sua avventura e la lunga love story con l’arte della fotografia. Studia e lavora. Nel ’53 l’incontro fondamentale della vita con il grande Robert Capa, che lo porta in Magnum Photos, di cui diventa presidente nel ’68, ricoprendo la carica per tre nomine. Sicuramente – non fosse per quelle novanta primavere così pesanti anche per un gigante come lui – gli sarebbe piaciuto eccome presenziare all’inaugurazione della sua mostra alla Venaria. E a noi sarebbe di certo piaciuto non meno vederlo aggirarsi (e raccontare!) fra le sue immagini senza tempo, storie autentiche di uomini e donne – ma non solo – più o meno celebri, più o meno di ispirata ed ispirante empatia. E allora lo immaginiamo, appoggiato al suo bastone famoso quanto lui, con quella simpatica trombetta – si racconta – applicata sopra e che Elliott suona per far scansare la gente. Geniale. Ironico. Istrionesco mattatore. Inimitabile e irraggiungibile anche sulla scena della vita.

Gianni Milani

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“Elliot Erwitt. Personae”

Reggia di Venaria – Sale dei Paggi, piazza della Repubblica 4, Venaria Reale (To), tel.011/4992333- www.lavenaria.it – Fino al 24 febbraio 2019

Orari: mart. – ven. 10/18; sab. – dom. e festivi 10/19,30

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Foto

– “France. Provence”, 1955, Elliott Erwitt/MAGNUM PHOTOS
– “Spain. Madrid. Prado Museum”, 1995, Elliott Erwitt/MAGNUM PHOTOS
– “USA. New York”, 1999, Elliott Erwitt/MAGNUM PHOTOS
– “USA. Reno, Nevada. Marilyn Monroe during The Misfits”, 1960, Elliott Erwitt/MAGNUM PHOTOS
– “USSR. Moscow. Nikita Khrushchev and Richard Nixon”, 1959, Elliott Erwitt/MAGNUM PHOTOS

La masca di Serra Capelli e altre storie

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)
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4 / La masca di Serra Capelli e altre storie
A Serra Capelli (nei pressi di Alba), c’erano le masche. Rumori improvvisi e inspiegabili echeggiavano nella notte, strani uccelli stridenti scuotevano i rami degli alberi e alcune case che dovevano essere disabitate sembravano animate da bizzarre presenze. C’era una casa in particolare di cui in paese si parlava tanto, e si diceva che sicuramente lì ci viveva una masca; la casa suscitava una tale apprensione che il signorotto di Alba che l’aveva acquistata ci andava solo nei fine settimana e persino un po’ controvoglia. Dopo di lui la villa tornò ad essere messa in vendita, ma nessuno la volle per sé, e la motivazione era sempre la stessa, senza scusanti o metafore: “Io non la compro perché pare sia abitata dalle masche”. La paura vinse la passione degli affari. Forse ce n’erano anche di più di masche, a Serra Capelli, e forse non vivevano tutte nella casa abbandonata, e forse non erano nemmeno tutte malvagie. Si dice che in quella contrada vivessero due sposi. La moglie, incinta, adorava passeggiare con il pancione ingombrante per i campi, e una sera essa incontrò una masca, che le sfiorò lievemente la pancia e le offrì una mela da mangiare. La donna non si ritrasse, accettò la carezza e la mela e ringraziò con un sorriso, infine entrambe proseguirono ciascuna per la propria strada. Arrivò il giorno della nascita e il bimbo venne al mondo forte e piagnucoloso, come la maggior parte dei neonati. Nulla di strano, ma subito i genitori si resero conto che il piccolo non voleva prendere il latte e non c’era proprio verso di convincerlo: il bimbo piangeva, gridava e non mangiava. Mamma e papà si spaventarono di quell’atteggiamento così scontroso, che non riuscivano a spiegarsi, e si corrucciarono a tal punto da passare intere notti insonni, fino a quando la giovane moglie non si ricordò dell’incontro con la masca. L’indomani i due giovani decisero di andare dal prete, il quale consigliò loro di chiedere cortesemente aiuto proprio alla masca: gli sposi sarebbero dovuti andare presso la casa della strega e con gentilezza avrebbero dovuto pregarla di uscire dall’abitazione e dare loro un saggio consiglio. La notte i due genitori presero con sé il pargoletto piangente e si avviarono verso la casa abbandonata, si appostarono vicino all’ingresso e fecero come aveva consigliato il prete. La masca uscì di casa senza adombrarsi, anzi, con cura prese il bambino e lo girò dall’altra parte, nella stessa posizione lo ridiede con cautela alla madre. “Non è mica niente” disse la masca, “invece di prenderlo in braccio in questo modo, giratelo con le gambe all’incontrario”. E tutto terminò così, il bambino smise di piangere e iniziò a gustare il latte e i genitori, pur sbigottiti, tornarono a casa sollevati e felici. E la masca rientrò all’interno della casa che doveva essere disabitata.
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C’era una volta la masca Laidin, in verità Adelaide, la masca che, se ti toccava, ti veniva la gobba. Era una di quelle a cui piaceva procurare fastidio e provocare scherzi e un giorno attirò il postino in un incantesimo. Si sapeva che quest’ultimo percorreva sempre i medesimi itinerari, passava a piedi per le stesse strade e ogni tanto capitava nei pressi del bosco chiamato “bosco delle pecore”. Una sera, proprio mentre era vicino alle altissime e fitte piante, si ritrovò immerso in una lussuosa e splendente sala da ballo: personaggi luminescenti danzavano in abiti eleganti, sorridevano gli uni agli altri e gentilmente questi lo invitarono ad unirsi a loro. Il postino, lusingato, non declinò il richiamo e danzò fino al sorgere del giorno. Quando poi venne intonata l’Ave Maria del mattino, a quel punto tutto scomparve, e il giovane, dimentico dell’incantesimo, incredulo si sentì esausto ancor prima di iniziare una nuova giornata, senza potersi spiegare il perché di tanta stanchezza. Un’altra volta, invece, la masca si era tramutata in albero di more e tutte le volte che il postino passava di lì, gli rubava il cappello con i rami, ma una volta il poveretto tentò di ribellarsi tenendosi stretto il cappello e strattonando con forza il ramo su cui questo si era impigliato; il giorno successivo l’albero non c’era più, come se non fosse mai esistito, invece la masca Laidin la videro con un braccio ingessato. Ogni tanto la donna amava trasformarsi in agnello, si metteva a belare in mezzo alla strada, attendendo che qualcuno la trasportasse in spalle, a quel punto iniziava a parlare. Certo, Laidin non era malvagia, era piuttosto scherzosa, ma la gente del villaggio la temeva perché portava maleficio. Si racconta che un giorno essa sfiorò il viso di una bimba paffutella e immediatamente la piccola si ricoprì di formiche. Quando poi Laidin decise che era il momento di morire, in attesa di qualcuno a cui concedere i propri poteri, iniziò a gridare in giro: “Lascio! Lascio!”, ma nessuno si fece avanti e lei si rintanò nella sua abitazione. Per tanto tempo non arrivò nessun pretendente, poi un giorno passò lì vicino una famiglia con un neonato. I tre si trovarono proprio vicino alla finestra della decrepita Laidin, che riuscì ad allungare un braccio e a toccare il bimbetto, al quale immediatamente comparve una gobba sulla schiena.
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C’era una pecora con le corna che si aggirava nel bosco, spuntava all’improvviso dai cespugli e aggrediva le persone che erano in cerca di tartufi. Una mattina prestissimo essa assalì il nonno, che però riuscì a difendersi e a colpire l’animale sulle zampe, e lo fece scappare via. Quando rientrò in casa, ricordo che ci disse di aver incontrato una masca tramutata in pecora con le corna; lo raccontò anche ai suoi amici più stretti e proprio mentre narrava l’accaduto passò di lì, zoppicante, la signora Madlinin, la moglie acida e perfida di un vicino di borgata. Il nonno la osservò e pensò tra sé che quella poteva essere proprio la masca-pecora che lo aveva attaccato in precedenza. Si confidò con gli amici, i quali ci pensarono su e si resero conto che in effetti quella donna aveva degli atteggiamenti strani, osservava la gente come se volesse lanciar loro delle maledizioni e si comportava in modo azzardato quando doveva spuntare la luna piena. Anni dopo Madlinin si ritrovò in fin di vita, ancora più inacidita dagli anni e senza figli, e, si sa, una masca non può morire se non passa i poteri a qualcuno, ma proprio non si trovava nessun erede, e la masca non sapeva più come fare per lasciare questa terra. Si dice che una notte una donna ebbe pietà di lei, le portò un manico di scopa e glielo mise tra le mani, in modo che potesse scaricare sul pezzo di legno i poteri magici. Madlinin spirò e subito il manico di scopa venne bruciato nel focolare, tutto fu purificato e i misteriosi poteri demoniaci si allontanarono dalla casa.
Alessia Cagnotto

Gli anni della ricostruzione visti da Cazzullo

Il Circolo dei lettori, via Bogino 9, Torino

 

Aldo Cazzullo

Giuro che non avrò più fame (Mondadori)

 

Letture di Gianni Bissaca nell’ambito di Portici di carta

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Il nuovo libro dell’inviato ed editorialista del Corriere della Sera, è l’ultimo capitolo della saga dedicata al Novecento italiano. In Giuro che non avrò più fame (Mondadori) lo storico si appoggia al giornalista per cercare tra le pieghe e le piaghe del passato un filo di attualità, affrontando un periodo poco esplorato, ovvero gli anni della Ricostruzione, che prepararono quelli del Boom. La presentazione è con l’autore sabato 6 ottobre, ore 21 al Circolo dei lettori, con le letture di Gianni Bissaca, nell’ambito di Portici di Carta. Il primo film che le nostre nonne e le nostre madri andarono a vedere dopo la guerra fu Via col vento. Molte si identificarono in una scena: Rossella torna nella sua fattoria, la trova distrutta, e siccome non mangia da giorni strappa una piantina, ne rosicchia le radici, la leva al cielo e grida: «Giuro che non soffrirò mai più la fame!». Quel giuramento collettivo fu ripetuto da milioni di italiane e di italiani. Fu così che settant’anni fa venne ricostruito un Paese distrutto. Come scrive Aldo Cazzullo, «avevamo 16 milioni di mine inesplose nei campi. Oggi abbiamo in tasca 65 milioni di telefonini, più di uno a testa, record mondiale. Solo un italiano su 50 possedeva un’automobile. Oggi sono 37 milioni, oltre uno su due. Eppure eravamo più felici di adesso». Ora l’Italia è di nuovo un Paese da ricostruire. La lunga crisi ha fatto i danni di una guerra. Per questo dovremmo ritrovare l’energia e la fiducia in noi stessi di cui siamo stati capaci allora. Cazzullo racconta l’anno-chiave della Ricostruzione, il 1948. Lo scontro del 18 aprile tra democristiani e comunisti. L’attentato a Togliatti e l’insurrezione che seguì. La vittoria al Tour di Bartali e l’era dei campioni poveri: Coppi e il Grande Torino, cui restava un anno di vita. Le figure dei Ricostruttori, da Valletta a Mattei, da Olivetti a Einaudi. Il ruolo fondamentale delle donne, da Lina Merlin, che si batte contro le case chiuse, ad Anna Magnani, che porta al cinema la vita vera. L’epoca della rivista: Wanda Osiris e Totò, Macario e Govi, il giovane Sordi e Nilla Pizzi. Ma i veri protagonisti del libro sono le nostre madri e i nostri padri. La loro straordinaria capacità di lavorare e anche di tornare a ridere. Il racconto di un tempo in cui a Natale si regalavano i mandarini, ci si spostava in bicicletta, la sera si ascoltava tutti insieme la radio; e intanto si faceva dell’Italia un Paese moderno.

 

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

 

A cura di Elio Rabbione

 

L’albero dei frutti selvatici – Drammatico. Regia di Nuri Bilge Ceylan, con Dogu Demirkol e Murat Cemcir. Presentato in concorso a Cannes lo scorso maggio, è la storia di Sinan, giovane appena laureato con velleità di scrittore, di ritorno nel suo villaggio natale in Anatolia, ad un passo dalle rovine di Troia. Il ritorno significa rincontrare una ragazza che ha amato un tempo e che sta per sposarsi, e soprattutto riavvicinarsi ad un padre, un passato di insegnante e una grande passione verso la letteratura ed un presente vittima del gioco e delle scommesse, carico di debiti. Attorno a queste principali presenze, la descrizione dei tormenti della Turchia di oggi, attraverso le sue donne, gli uomini di potere, gli intellettuali, i poliziotti che caricano gli studenti, gli imam dinanzi a una realtà che non riescono a controllare, i giovani che non hanno speranze, i vecchi che coltivano forse qualche sogno. Durata 188 minuti. (Romano sala 1)

 

Il bene mio – Drammatico. Regia di Pippo Mezzapesa, con Sergio Rubini. La storia di Elia, unico abitante rimasto a Provvidenza all’indomani di un terremoto, soltanto lui non accetta di abbandonare il paese e di abitare le case della nuova città. Ci riuscirà il sindaco, suo cognato, a convincerlo? Durata 95 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse)

 

Blakkklansman – Azione. Regia di Spike Lee, con John David Washington e Adam Driver. Gran Premio della Giuria a Cannes lo scorso maggio, una storia vera dal protagonista Ron Stallworth nel libro “Black Klansman”. Come costui, poliziotto afroamericano, all’inizio degli anni Settanta riuscì a stabilire un contatto con il Ku Klux Klan, mantenne i contatti con il gruppo telefonicamente e inviò un agente della narcotici, ebreo, a infiltrarsi tra le file degli incappucciati. Lee compone il film non rifacendosi soltanto alla realtà ma integra con filmati d’epoca veri o ricostruiti, chiama il vecchio Harry Belafonte a raccontare di violenze del passato, traccia parellelismi con il presente terminando con i fatti di Charlottesville dello scorso anno, ad un raduno di suprematisti bianchi, alle parole di Trump. Durata 128 minuti. (Ambrosio sala 3, Eliseo Blu, Massimo sala 2 V.O., The Space, Uci)

 

La casa dei libri – Drammatico. Regia di Isabelle Coixet, con Emily Mortimer e Bill Nighy. Nella provincia inglese degli anni Cinquanta, una giovane vedova di guerra, Florence, decide di aprire una libreria (come la Binoche apriva la sua profumatissima pasticceria in “Chocolat”) ma qualcuno è contrario, per nulla desideroso di avere sotto casa chi voglia spingere alla lettura. Dovrà usare ogni mezzo per dare vita alla sua iniziativa. Durata 103 minuti. (Classico, Due Giardini sala Nirvana)

 

Girl – Drammatico. Regia di Lukas Dhont, con Victor Polster. Opera prima premiata a Cannes, ispirato a una storia vera. Il quindicenne Victor sogna di entrare a far parte dell’accademia di danza di Anversa ma il suo desiderio più grande è quello di affermare fisicamente e non soltanto quella ragazza – Lara – che egli sente in se stesso. L’appoggio completo del padre, le cure ormonali, le prove alla sbarra, in sala, davanti allo specchio, che portano ad avanzare sulle altre, le sofferenze e la crescita del corpo che non ama, le ossessioni. Durata 105 minuti. (Nazionale 2)

 

Hotel Transilvania 3 – Animazione. Regia di Genndy Tartakovski. Terzo capitolo, doveroso considerando il successo dei due che lo hanno preceduto, per l’occasione il conte Dracula si regala un periodo di vacanza con i suoi fedelissimi. Durata 97 minuti. (Massaua, Uci)

 

Gli incredibili 2 – Animazione. Regia di Brad Bird. La famiglia di supereroi, accresciuta del piccolo Jack Jack, ha aspettato 14 anni per riapparire sugli schermi ma ha fatto letteralmente il botto se soltanto si pensa agli incassi da capogiro raccolti nei soli States. Sarà il disegno o la storia pronta a dare una bella spolverata agli ideali americani, sarà il mestiere collaudato del medesimo sceneggiatore/regista, la puntata numero 2 ha incrociato un largo pubblico e gli effetti benefici si dovrebbero risentire anche qui da noi. Questa volta è mamma Helen a salire in solitaria agli onori della cronaca, chiamata a imprese piuttosto ardue che dovrebbero rivalutare i veri valori dei supereroi caduti per qualche guaio commesso in disgrazia. Per cui papà Bob è obbligato a restarsene in casa, a badare ai primi batticuori dell’adolescente Violet, ai primi exploit di Jack Jack che subito rivela poteri inaspettati: ma il cattivo di turno ricomporrà la famiglia nuovamente pronta a nuove avventure. Durata 118 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)

 

Mamma mia! Ci risiamo – Commedia musicale. Regia di Ol Parker, con Amanda Seyfried, Meryl Streep, Colin Firth, Andy Garcia e Cher. La stessa isola greca, per fortuna ancora le musiche e le canzoni degli Abba, passato e presente si rincorrono intorno alla vita di Donna, Cher chiamata a travestirsi da nonna, qualche vistosa forzatura per ripetere il successo del precedente appuntamento. Durata 114 minuti. (Uci)

 

Michelangelo – Infinito – Documentario. Regia di Emanuele Imbucci, Con Enrico Lo Verso e Ivano Marescotti. Un ritratto avvincente e di forte impatto emotivo e visivo dell’uomo e dell’artista, da un lato schivo e inquieto, capace di forti contrasti e passioni, ma anche di grande coraggio nel sostenere le proprie convinzioni e ideologie, di pari passo con il racconto cinematografico della sua vasta produzione artistica, tra scultura, pittura e disegni, con spettacolari riprese in ultra definizione e da punti vista indediti ed esclusivi, cui si aggiungono ricostruzioni sorprendenti attraverso evoluti e sofisticati effetti digitali. Durata 144 minuti. (GreenwichVillage sala 3, Uci)

 

Opera senza autore – Drammatico. Regia di Florian Henckel von Donnersmarck, con Tom Schilling, Paula Beer e Sebastian Kock. L’autore del mai troppo lodato La vita degli altri, premio Oscar, come del capitomboloso The tourist girato in Italia, tra i canali di Venezia, complici dell’insuccesso Depp e Jolie, guarda oggi al Novecento tedesco, a tre diverse epoche della storia della Germania, raccontate attraverso gli occhi e la vita di un artista (l’ispirazione è la biografia di Gerhard Richter), della sua crescita prima sotto il nazismo e sotto il comunismo poi, della scoperta delle avanguardie, del suo amore appassionato per Elisabeth, del suo rapporto con il suocero, l’ambiguo professor Seeband che, disapprovando la scelta della figlia, cerca di porre fine alla relazione tra Kurt e la ragazza. Quello che nessuno sa è che le loro vite sono già legate da un terribile crimine commesso da Seeband decenni prima. Durata 188 minuti. (Eliseo Rosso,Massimo sala 1, The Space, Uci)

 

Papa Francesco – Un uomo di parola – Biografico. Regia di Wim Wenders. Un percorso personale con il pontefice, le sue idee e il suo messaggio sono centrali grazie al materiale d’archivio ma soprattutto a quattro lunghe interviste condotte nell’arco di due anni dall’autore del Cielo sopra Berlino e Paris, Texas. Avvicinato dal Vaticano già nel 2013, Wenders dichiara di aver avuto una completa libertà nell’elaborazione del progetto, ivi compresa quella del montaggio finale e dell’accesso all’archivio foto e video del Vaticano. Durata 96 minuti. (Ambrosio sala 2, GreenwichVillage sala 2, Ideal, Uci)    

                                                                                                                                                                                                                                                                                                       

La profezia dell’armadillo – Drammatico. Regia di Emanuele Scaringi, con Simone Liberati, Valerio Aprea, Pietro Castellitto e Laura Morante. Zero è un disegnatore ma non avendo un lavoro fisso si arrabatta con ripetizioni di francese, cronometrando le file dei check-in all’aeroporto e creando illustrazioni per gruppi musicali punk indipendenti. La sua vita scorre sempre eguale, tra giornate spese a bordo dei mezzi pubblici attraversando mezza Roma per raggiungere i vari posti di lavoro: quando torna a casa, lo aspetta la sua coscienza critica, un Armadillo in carne e ossa, o meglio in placche tessuti molli, che con conversazioni al limite del paradossale lo aggiorna su cosa succede nel mondo. Alla notizia della morte di Camille, una compagnadi scuola e suo amore di adolescente mai dichiarato, lo costringe a fare i conti con la vita e ad affrontare, con il suo spirito dissacrante, l’incomunicabilità, i dubbi e la mancanza di certezze della sua generazione di “tagliati fuori”. Durata 99 minuti. (Massimo sala 2)

 

Ricchi di fantasia – Commedia. Regia di Francesco Miccichè, con Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli. Sergio è un carpentiere romano, Sabrina una cantante dal passato glorioso, una coppia di amanti che non ce la fa a lasciare i rispettivi compagni. Lui è sempre stato prodigo di scherzi ai compagni di lavoro e quelli decidono un giorno di rendergli il favore: facendogli credere con l’inganno di aver vinto con un biglietto della lotteria un premio da 3 milioni di euro. Convinto della vincita, l’uomo decide di cambiare vita, portandosi pure dietro mamma, figli e parentela varia: fino a che non scopre dello scherzo. Si dirigeranno tutti verso i trulli della Puglia. Durata 102 minuti. (Massaua, Due Giardini sala Ombrerosse, Reposi, The Space, Uci)

 

Sulla mia pelle – Drammatico. Regia di Alessio Cremonini, con Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Max Tortora e Milvia Marigliano. Una tragedia dell’Italia recente, la tragedia della morte di Stefano Cucchi a soli 31 anni in un carcere italiano. L’arresto, il susseguirsi dei giorni di prigionia, il passato e il presente, il grande coinvolgimento della famiglia, soprattutto della sorella Ilaria. La prova di Borghi che si è ricreato appieno nel fisico (perdendo 18 chili) e nel calvario del ragazzo, come nella sua psicologia, la stagione dei premi cinematografici dovrà guardarlo con un occhio di riguardo. Da vedere per discutere. Durata 100 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

The Nun – Horror. Regia di Corin Hardy, con Demian Bichir e Taissa Farmiga. Altro successo inaspettato negli Stati Uniti questo film girato completamente in Romania, dove è ambientata la vicenda di un gruppo di suore, alla ricerca all’interno di un convento di una reliquia che dovrebbe portare serenità in un luogo dove sembrano al contrario governare forze malefiche. Dopo il suicidio di una monaca, il Vaticano invia là padre Burke e la novizia Irene. Dovranno combattere il Male con ogni loro forza. Durata 93 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Tutti in piedi – Commedia. Regia di Franck Dubosc, con Alexandra Lamy e Franck Dubosc. Jocelyn, uomo d’affari successo ma bugiardo e seduttore che vive sulle bugie, per un equivoco è creduto disabile dalla bionda Julie. Perché, per una immediata conquista, non procedere proprio in quell’equivoco? Le cose peggiorano quando Julie presenta a Jocelyn la sorella, costretta su di una sedia a rotelle in seguito a un incidente stradale. Durata 107 minuti. (F.lli Marx sala Harpo, GreenwichVillage sala 3, Reposi, Uci)

 

The wife – Vivere nell’ombra – Regia di Björn Runge, con Glenn Close e Jonathan Price. La storia di una donna e di una moglie, quarant’anni trascorsi a sacrificare il proprio talento e i propri sogni, lasciando che suo marito, l’affascinante e carismatico Joe, si impadronisca della paternità delle sue opere. Joan assiste, per amore alla sfavillante e glOriosa carriera dell’uomo, sopportando menzogne e tradimenti. Ma alla notizia dell’assegnazione del più grande riconoscimento per uno scrittore – il premio Nobel per la letteratura – la donna decide finalmente di dire basta e di riprendersi tutto quello che le spetta. Durata 100 minuti. (Eliseo Grande, Romano sala 2, The Space, Uci)

 

Un affare di famiglia – Drammatico. Regia di Kore’eda Hirokazu. Palma d’oro a Cannes lo scorso maggio. Nella Tokio di oggi, una famiglia (ma la considereremo così fino alla fine?) sbarca il lunario facendo quotidiane visite ai supermercati: per rubare. Ruba il padre che si porta appresso il figlio (?), torna a casa da una moglie che ha accanto una ragazza che potrebbe essere la sorella minore e una vecchia dolcissima che tutti chiamano nonna. Sentimenti, aiuti reciproci, l’arte di arrangiarsi, il coraggio di tentare a vivere insieme. Finché un giorno il capofamiglia porta a casa togliendola al freddo e alla solitudine una ragazzina, abbandonata da una madre forse violenta che non si cura di lei. Il mattino si dovrebbe riconsegnarla, ma nessuno è d’accordo: la nuova presenza farà scattare nuovi meccanismi mentre un incidente imprevisto porta definitivamente alla luce segreti nascosti che mettono alla prova i legami che uniscono i vari componenti. Durata 121 minuti. (F.lli Marx sala Chico, Nazionale sala 1)

 

Un nemico che ti vuole bene – Drammatico. Regia di Denis Rabaglia, con Diego Abatantuono e Antonio Folletto. In una notte di pioggia, il professor Enzo Stefanelli salva la vita a un giovane ferito da un’arma da fuoco. In cambio questi, un killer di professione, gli promette di trovare e uccidere un suo nemico, chiunque egli sia. Anche se il professore insiste nell’affermare di non avere un nemico, il giovane si mette a cercarne uno, creando il caos nella vita di Stefanelli. Dapprima scettico, è l’occasione per l’uomo di aprire gli occhi sulla sua vita e sulle persone che lo circondano. Durata 97 minuti. (GreenwichVillage sala 1, The Space, Uci)

 

L’uomo che uccise Don Chisciotte – Commedia. Regia di Terry Gilliam, con Jonathan Price e Adam Driver. C’era una volta un film… Gilliam ha lavorato per più di trent’anni sul progetto, Jean Rochefort e Johnny Depp come protagonisti, più scritture, intoppi, enormi guai con la produzione. Poi più nulla, mentre sempre qualcosa bolliva in pentola. Dalla lunga storia, è uscito fuori “questo” Don Chisciotte, dove Driver è un regista che ha strada nella pubblicità e si ritrova nei luoghi dove ha girato un vecchio film sul personaggio di Cervantes: scoprendo che chi un tempo ha ricoperto quel ruolo oggi si identifica con il personaggio. Durata 137 minuti. (F.lli Marx sala Groucho anche V.O., Romano sala 3, Uci)

 

Una storia senza nome – Drammatico. Regia di Roberto Andò, con Micaela Ramazzotti, Alessandro Gassmann, Renato Carpentieri e Laura Morante. Valeria, giovane segretaria di un produttore cinematografico, scrive in incognito per uno sceneggiatore di successo. Un giorno la ragazza riceve da uno sconosciuto, un poliziotto in pensione, la storia di un probabile film. Ma quel plot è pericoloso, la “storia senza nome” racconta infatti il misterioso furto, avvenuto a Palermo nell’ottobre del 1969, di un celebre quadro di Caravaggio, “La natività”. Da quel momento, la sceneggiatrice si ritroverà immersa in un meccanismo implacabile e rocambolesco. Una storia che avesse al centro quel furto avrebbe dovuto avere un’impalcatura più legata all’inchiesta: al contrario ne è stata ricostruita una sceneggiatura che sa troppo “di cinema”, di volutamente aggrovigliata, di un inverosimile che a tratti, tanto per alleggerire, scivola tranquilla sul lato della commedia se non del ridicolo (certi momenti dovuti a Gassmann, certi dialoghi tra Morante e Ramazzotti), sino ai momenti finali che addirittura coinvolgono il film nel film. La macchia maggiore dell’impianto è la prova opaca della protagonista femminile, altre volte lodatissima, la non credibilità del viso e del corpo, la sua unica espressione con o senza rossetto, la sua paura che risulta fredda e non sinceramente dovuta alla spirale di inganni e di violenza che si chiude intorno a lei. Durata 110 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

Venom – Fantasy. Regia di Ruben Fleischer, con Tom Hardy, Riz Ahmed e Michelle Williams. Ancora un prodotto ricavato dai fumetti targati Marvel. Un fior di giornalista, dedito a investigazioni e articoli, mentre indaga sulle malefatte di uno scienziato pazzo, tutto sprazzi e illegalità, viene contaminato da un alieno che si introduce nel suo corpo e ne diventa il doppio. Se ne ricava simpaticamente un misto di bene e di male, di dottor Jeckill e Mr Hyde, con due personaggi che intimamente chiacchierano e discutono tra loro, con l’unica e insomma definitiva aspirazione verso quella giustizia che protegga tutti. Tenersi già pronti per un sequel. Durata 103 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci anche V.O.)

Nuova stagione all’Anatra zoppa

 

Sabato 6 ottobre, dalle ore 21:30 Via Courmayeur 5, Torino

La nuova stagione del circolo arci Anatra Zoppa, da oltre 30 anni attivo sul territorio di Barriera di Milano, si apre all’insegna della rinascita. Sempre fedele alla sua missione di condivisione della cultura, l’Anatra Zoppa 2.0 è caratterizzata da un restyling dei locali, dalla forza motrice di un nuovo direttivo e dalla rinnovata formula delle cene di tesseramento.  Sabato 6 ottobre, dalle ore 21:30, in occasione della serata di apertura della stagione artistica 2018/2019, il palco del circolo torinese sarà calcato dai ragazzi di Torino Blues Society, in una ricerca delle atmosfere dell’America operaia, lavoratrice e della sua anima più umile; un viaggio “on the road” nell’America delle mille canzoni, delle sale da ballo, delle strade di New Orleans, e delle infinite sfumature. L’ingresso come sempre è libero con tessera Arci. È possibile rinnovare la propria tessera in loco, al costo di 10 euro, o con la rinnovata formula delle nostre cene di tesseramento a 20€ (antipasti + primo + dolce + Tessera ARCI 2018/19)
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Per ulteriori informazioni:

tel: +39 346 678 9706 (Liviu Patrunjel)

e-mail: info@anatrazoppa.it

facebook: fb.com/anatrazoppa

La sindone e la sua immagine. Storia, arte e devozione

FINO AL 21 GENNAIO 2019

Una piazza Castello affollata all’inverosimile. Membri del clero, militari, borghesi, nobiluomini e nobildonne con abiti ampi e lussuosi, cappelli e cappellini, popolani e popolane, gente d’ogni età ed estrazione sociale

Tutta la città sembra esser lì. In tanti sono ammassati ai balconi e sui tetti delle case. In piazza, in primo piano, ci sono perfino cagnolini che s’aggirano spaesati o s’accucciano inquieti in attesa che cessi il gran clamore. Sullo sfondo il Palazzo Reale, allora Palazzo Ducale. L’occasione è di festa e di solenne richiamo. 1684: siamo a Torino, nel cuore (già allora) della città e l’occasione è l’Ostensione della Sindone per il matrimonio di Vittorio Amedeo II con Anna d’Orléans. Si apre con questo grandioso dipinto di Pieter Bolckmann (pittore di origini olandesi, operante a Torino dal 1679) la mostra “La Sindone e la sua immagine. Storia, arte e devozione”, inaugurata il 28 settembre scorso nel Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Madama a Torino, per celebrare la riapertura (dopo quasi trent’anni di lavori seguiti al devastante incendio dell’11 aprile 1997) della restaurata Cappella della Sindone, opera di Guarino Guarini. Curata da Clelia Arnaldi di Balme, conservatore del Museo, con la consulenza scientifica di Gian Maria Zaccone, direttore del Centro Internazionale di Sindonologia, e allestita sotto la saggia regia di Loredana Iacopino nella Corte Medievale del Palazzo, dove sulla parete di fondo era già ben visibile un affresco raffigurante l’Ostensione del 1642 (che doveva celebrare la fine delle ostilità fra Cristina di Francia, la Madama Reale, e i cognati Principe Tommaso e Cardinale Maurizio), la rassegna mette insieme un’ottantina di pezzi, in cui si riflette la storia della Sindone e le diverse funzioni delle immagini che l’hanno riprodotta, nel corso di cinque secoli, dal 1578, quando il Sacro Lino per volere di Emanuele Filiberto di Savoia fu trasferito da Chambéry a Torino (nella chiesa di Santa Maria del Presepe, dove oggi sorge la chiesa di San Lorenzo), fino ad oggi. Un suggestivo “racconto storico attraverso le arti decorative”: questo vuole essere, per i curatori, la mostra organizzata in collaborazione con il Polo Museale del Piemonte e che s’avvale di opere provenienti dal Castello di Racconigi, dalla Fondazione Umberto II e Maria José di Savoia che ha sede a Ginevra, oltreché dal Museo della Sindone di Torino e dalle stesse collezioni di Palazzo Madama. Fra i quadri esposti, molti erano già presenti nel 1931 a Palazzo Madama, in occasione del matrimonio di Umberto di Savoia con la principessa Maria del Belgio. Incisioni, disegni e dipinti su carta, su seta o pergamena, ricami, ghirlande fiorite e insegne processionali: davvero varie le tecniche asservite, nel corso dei secoli, a raffigurazioni realizzate con altrettanto varie finalità. Si va infatti da immagini celebrative dinastiche (che legano a stretto filo la Sindone e i Savoia per i quali il Sacro Lino diventa e si mantiene nel tempo strumento di legittimazione del potere) a lavori – alcuni di alto livello esecutivo, altri più modesti e improvvisati – dagli evidenti scopi devozionali. Dalle opere di pregevole manifattura (vedasi:“La Vergine, il beato Amedeo di Savoia e San Giovanni Battista sorreggono la Sindone” affresco del 1650 attribuito all’astigiano, pittore di corte, Giovanni Grattapaglia o la tempera su pergamena “Sindone presentata da angeli, la Veronica e i simboli della Passione” del bresciano Antonio Parentani, attivo in Piemonte dal 1599 al 1622) ai toccanti e popolari ex-voto. Come la placca d’argento, messa a disposizione dai Musei Reali, rappresentante la Città e realizzata in ringraziamento alla Sindone per aver limitato i danni della peste del 1632, quella di manzoniana memoria, e per un caso salvatasi dall’incendio della cappella del Guarini, dov’era stata “incassata” fino alla metà degli anni Novanta nell’altare del Bertola. Autentico capolavoro, il “Crocifisso” in legno e avorio di Pietro Piffetti, accanto alle raffigurazioni della “Veronica”, personaggio femminile ricordato nei Vangeli Apocrifi (prima guarita da Gesù e poi identificata con la donna che durante l’ascesa al Calvario asciugò il sudore dal volto del Cristo, la cui immagine rimase impressa sul velo così impiegato) e l’incisione di Giovanni Francesco Testa, per la “Prima ostensione della Sindone a Torino alla presenza di Carlo Borromeo” (1578). E poi ancora chicche e documenti storici di notevole rilievo. Fra tutti, provenienti entrambi dal Museo della Sindone: il Cofanetto in legno del XV secolo con decoro in madreperla (che servì a trasportare la reliquia a Torino il 5 settembre del 1578 e in cui il Sacro Lino restò racchiuso fino al 1606) e la macchina fotografica da campo utilizzata dall’avvocato-fotografo astigiano Secondo Pia, il primo a documentare fotograficamente la Sindone nel 1898, con immagini straordinarie che rivelarono per la prima volta la natura di negativo fotografico del Sacro Lino, aprendo di fatto la strada – lunga e ancora oggi incompiuta – alla “storia scientifica” del Sudario.

Gianni Milani

“La Sindone e la sua immagine. Storia, arte e devozione”

Palazzo Madama – Corte Medievale, piazza Castello, Torino; tel. 011/4433501 – www.palazzomadamatorino.it

Fino al 21 gennaio 2019 – Orari: lun. – dom. 10/18, chiuso il martedì.

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Foto:

– Pieter Bolckmann: “Veduta di Piazza Castello in occasione dell’ostensione della SS. Sindone”, olio su tela, 1684
– Giovanni Grattapaglia (?): “La Vergine, il beato Amedeo di Savoia e San Giovanni Battista sorreggono la Sindone”, affresco, 1650 – ph. Paolo Robino
– Antonio Parentani: “Sindone presentata da angeli”, tempera su pergamena, ph. Giorgio Olivero
– Cofanetto XV sec. usato per trasportare la Sindone a Torino, ph.Paolo Robino
– Macchina fotografica portatile appartenente a Secondo Pia, ph. Giorgio Perottino

 

Portici di carta a Palazzo Lascaris

In occasione di Portici di carta, Palazzo Lascaris, a Torino in via Alfieri 15, apre al pubblico sabato 6 ottobre dalle 15 alle 20 con ingresso gratuito (ultimo ingresso alle 19.30) e con possibilità di visite guidate alla scoperta delle testimonianze d’arte custodite nell’importante edificio barocco

Per le visite prenotazione obbligatoria via mail all’indirizzo partecipa.eventi@cr.piemonte.it entro il 4 ottobre. Ad arricchire l’offerta culturale in programma saranno alcuni momenti incentrati su storia e tradizione dell’Afghanistan, protagonista della mostra allestita al piano terra, in galleria Carla Spagnuolo, “Dall’Afghanistan all’Italia. I tappeti della guerra russo-afghana 1979-1988”. Si tratta di rari e straordinari documenti dal forte impatto visivo realizzati da manifatture nomadi e di villaggio dopo l’invasione sovietica del Paese, caratterizzati da un unicum decorativo che affianca motivi tradizionali a stilizzazioni di aerei, carri armati, fucili ed elicotteri dalle brillanti cromie.  I tappeti provengono dalla collezione torinese di Luca Brancati, che accompagnerà i visitatori lungo il percorso espositivo avvalendosi anche delle testimonianza di Farhad Bitani, divulgatore e socio fondatore del Global Afghan Forum. Nel cortile d’onore del palazzo si svolgerà una dimostrazione di tessitura con un telaio tradizionale, a cura di Marcela Bergnesi, e tutt’intorno risuoneranno le note di motivi mediorientali. In Sala dei Presidenti si assisterà poi a Fotografie dall’Afghanistan, una testimonianza di Silvestro Pascarella, giornalista de La prealpina. Durante tutta la manifestazione sia a Palazzo Lascaris sia all’Ufficio relazioni con il pubblico di via Arsenale 14/g si terrà il Book afternoon, con libri dedicati al Piemonte in distribuzione gratuita. “Le istituzioni sono la casa dei cittadini, per questo Palazzo Lascaris apre le sue porte in alcune significative occasioni, affinché i piemontesi possano visitare l’edificio in cui ha sede il Consiglio regionale ed apprezzarne il valore storico e artistico. Siamo felici di proporre un’apertura straordinaria durante Portici di Carta, una manifestazione molto amata e partecipata – ha affermato Nino Boeti, presidente del Consiglio regionale – Nel pomeriggio del 6 ottobre sarà possibile visitare gratuitamente le sale auliche e la mostra sui tappeti di guerra, che fa parte di un trittico di mostre ospitate a Palazzo in questi mesi contraddistinte, come denominatore comune, dal rapporto tra l’Arte e la Pace”.

 

(cs) www.cr.piemonte.it – foto: il Torinese

La passione del fare

Presentazione del libro edito da Daniela Piazza

Venerdì 12 ottobre al Teatro Gobetti alle 20,30, sarà presentato il libro su Massimo Scaglione, uscito recentemente per Daniela Piazza Editore.

Dal Cinema passione giovanile, alla Prosa (prima alla Radio e poi alla TV), dall’Opera all’Operetta, dal Teatro d’Avanguardia con il Teatro delle 10 a quello piemontese con Gipo, dall’Avanspettacolo ai molti libri pubblicati, infiniti sono gli aspetti che la pubblicazione riassume nel titolo “Massimo Scaglione, la Passione del Fare”. Insieme agli autori Franco Prono e Maurizio Ternavasio, saranno presenti i molti amici che lo hanno incontrato durante il suo lungo e sfaccettato percorso lavorativo e non. Tra le testimonianze quelle di Diego Novelli, Milena Vukotic, Tullio Solenghi, Carla Fracci, Beppe Menegatti, Enrico Beruschi, Bruno Gambarotta, Albina Malerba, Luciana Littizzetto, Ugo Nespolo, Lorenzo Ventavoli e moltissimi altri che interverranno durante la serata. Mario Brusa leggerà uno stralcio dell’ultimo libro scritto dal regista, “LA BIRRERIA MAZZINI, politica e pasta e fagioli” inedito che conclude e arricchisce il libro.