CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 65

Una commedia modernamente ripensata, il risultato di un teatro autentico

La locandiera”, con Sonia Bergamasco, al Carignano sino al 15 dicembre

Un fondale di legno riempito di intarsi irregolari, di differente grandezza e interrotti. Sulla scena (firmata da Annelisa Zaccheria) un tavolo che diremmo vecchio da un lato con quattro sedie che andrebbero bene a un bar sulla spiaggia dei bagni, in riva al mare, di plastica verde, dall’altro una cucina moderna, un lavello, una gran pentola rossa, un angolo dove all’occorrenza mangiar mele e sbucciare patate. Al tavolo, siedono il marchese di Forlimpopoli (Giovanni Franzoni) e il conte d’Albafiorita (Francesco Manetti), modernamente vestiti (i costumi sono firmati da Graziella Pepe), quello con un maglione dopo una sciata sulle nevi del Sestriere, questo in pantaloni da tuta e cappellino con ampia visiera, entrambi a sbandierare la passione e l’innamoramento per la padroncina della locanda ma mai a chiederla in sposa. Arriverà pure poco dopo il cavaliere di Ripafratta, il cavaliere “selvatico”, refrattario a tutto quel genere delle donne che sono “una infermità insopportabile”, paletot marrone tipo il vecchio Brando nel “Tango” di Bertolucci e infradito ai piedi – volontaria controcorrente sbadataggine menefreghismo che si mescola alla comodità ad ogni ora? non lo sapremo (capiremo) mai, passerà così più di due ore per poi passare a un vestito più – diremmo? – consono -, a urlare tutta la sua misogenia e il proprio odio per quella Mirandolina che se lo gira tra le mani e circola in minuscole camiciole a mostrar le gambe e attimo dopo attimo lo fa innamorare, fuori da ogni ragionamento e idea da sempre coltivata. Questa – anche – “La locandiera goldoniana”, scritta più o meno 270 anni fa, giunta al Carignano per la stagione dello Stabile torinese al suo secondo anno di repliche (qui sino a domenica 15 dicembre), reinventata da Antonio Latella, studiata e analizzata ad ogni ansa, guardata in profondità, con gli interventi di Linda Dalisi in veste di dramaturg: diciamo immediatamente approcciata da chi scrive con un certo malgusto, guastato com’è da uno spericolato Cechov che ha davvero lasciato la rabbia e il segno. Qui non si fa l’occhiolino a idee vuote o a mode del momento, giochetti gratuiti che guardano poco lontano da sé, per cui c’è da ricredersi, subito subito, qui senti tutta la spinta degli stimoli offerti allo spettatore, il fermento delle suggestioni, anche le cose che non ti convincono appieno hanno un proprio intimissimo perché, ti convince quel testo non toccato nemmeno di una virgola e immesso senza forzature in quell’ambiente descritto, un testo cucinato su quella stufa senza gli stereotipi che tante volte abbiamo visto in questi decenni di vita teatrale, un testo che riempie i personaggi di umanità e di carnalità.

Una delle più belle commedie della drammaturgia italiana, non guastata, dove nulla è scontato. Che se abbandona in modo definitivo i tanti sguardi buttati prima – credo che non sia arrivata di brutto sulla scena italiana ma che alle sue spalle ci stiano a buon diritto Strehler e Missiroli e Castri e Cobelli -, dice ancora qualcosa di nuovo. Per esempio un Ripafratta che nella completezza e complessità del suo struggersi acquista quasi il ruolo di protagonista, figura “rustega” per eccellenza (un ottimo Ludovico Fededegni), la presenza incombente ed esatta del cameriere Fabrizio, punto finale di quella eredità che Mirandolina aveva ricevuto con la locanda dal padre in punto di morte, lui come gli altri personaggi condotto a seguire quei percorsi di precisa geometria che attraversa quel “luogo-mondo che accoglie infiniti mondi”, scrive Latella nelle note di regia. Anche con una ben scoperta proprietà di gesti delle sopraggiunte nobildonne o ancor meglio comiche, viste in contrapposizione alla padroncina, persino un orgasmo – che nemmeno Meg Ryan – aiuta a comporle con più spessore, Marta Cortellazzo Wiel e Marta Pizzigallo soprattutto.

Mette maggiormente a fuoco – o forse non lo avevamo mai pienamente fatto nostro prima – l’arco amoroso che Mirandolina guida, e dal quale è sul finale guidata, con una ricchezza di intenti e di risultati che Sonia Bergamasco porta avanti con padronanza: anche se alla fine ti rimane il dubbio che abbia recitato in una sottrazione non sempre necessaria (una richiesta del solo regista?), sia scivolata in lacrime di cui si potrebbe fare a meno, che si sia malamente afflosciata lungo quella parete, che nella sbandierata rivoluzione del personaggio finisca limitatamente libera, chiedendoci noi della sua vittoria di fronte a un Fabrizio che è pur sempre un obbligo e verso il quale l’innamoramento non esiste, con il quale chiedendoci noi quale sarà il domani?; e di fronte a un Ripafratta, dissoltosi tra i canali di Venezia, con cui esistono tutti i presupposti per costruire una lunga, amorosissima relazione? È vero, negli attimi finali, Mirandolina è lì, in proscenio, spalle al pubblico, su un piccolo sgabello, come se la regia della vita e dello spettacolo fossero passate a lei e a lei spettasse un finale convincente: teme “per la mia onestà”, e Fabrizio (Annibale Pavone) è lì, diremmo a portata di mano. Secondo le volontà del padre. Se tutto è stato un gioco, il gioco è finito male, non come era nei desideri, qualcuno in sostituzione ha disseminato sul tavolo i bastoncini dello shanghai. Anche il gioco, o la recita, dei nobilastri è finito, a chiusura si stampano un bacio sulla bocca. Quante domande o quante riletture ti nascono ancora quando il sipario si chiude. Anche questo è teatro, quello autentico.

Elio Rabbione

“Volti da scoprire, ritratti di cinema”. Un percorso curato dal critico cinematografico Paolo Mereghetti

UniVerso, il programma di eventi culturali dell’Università di Torino, presenta sino a mercoledì 18 dicembre, la mostra fotografica “Volti da scoprire, ritratti di cinema”. Un percorso curato dal critico cinematografico Paolo Mereghetti, assurto da anni a grande notorietà per l’omonimo dizionario dei film, il più venduto in Italia, che iniziato a scrivere a partire dal 1990, esce per la prima volta nel ’93, ha festeggiato lo scorso anno il suo trentennale.

La mostra propone una serie di ritratti realizzati negli anni Ottanta e Novanta da Pino Guidolotti esposti su scenografici ingrandimenti inseriti nella splendida cornice del Cortile del Palazzo del Rettorato dell’Università di Torino, in via Verdi, 8 ed in via Po,17. Scatti in bianco e nero che raccontano donne e uomini di cinema, attori, registi e sceneggiatori messi in scena dal fotografo, anche se ultimamente Guidolotti sembra preferire il disegno, grazie alla sua capacità di entrare con loro in una profonda relazione umana.

Spirito libero, curioso ed insofferente alle etichette, Pino Guidolotti ha sempre avuto la bellezza come sua personalissima bussola sia che dovesse documentare opere artistiche o architettoniche sia che dovesse ritrarre personaggi dello spettacolo o della cultura.

La sua attività di ritrattista ci ha lasciato una serie di straordinari ritratti, capaci di cogliere sempre il segreto che si nasconde dietro i volti e i corpi di Wim Wenders o di Jeanne Moreau, di Mario Soldati o di una giovanissima Juliette Binoche, che per la prima volta sono esposti, insieme a quelli di Michel Piccoli, di Marco Ferreri e tanti altri ancora, e tutti da scoprire, qui a Torino al Rettorato.

 

Igino Macagno

Il mare e il cielo come prospettive. Tra poesia e magia

L’ANGOLO DELLA POESIA
di Gian Giacomo Della Porta

 

Victor Hugo scrisse: “Il mare possiede la cosa più grande: il colore del cielo”.
Partendo da questa citazione, ho cominciato a riflettere sul tema dei viaggi e su quanto effettivamente questi ultimi coincidano nelle sensazioni e nelle volontà, se svolti per mare e nei cieli. Innanzitutto ci allontanano da qualsiasi sponda di salvezza per avvicinarci a quel senso del destino non più governato da mano umana, ma dal fato. Forse il volo e la navigazione, così lontani da terra, ci restituiscono la prospettiva originaria di ciò che siamo stati prima della vita, prima di trovarci realmente a subire il fascino della percezione poetica (che il filosofo Ortega y Gasset descriveva come una visione di preconoscenza). Le avventure di cielo e di mare ci portano alla grazia di un infinito ritorno, e ciò che di nuovo ci sembra di scoprire è in realtà qualcosa di già conosciuto e vissuto: trovo simbolico che il vascello di Capitano Uncino, nel Peter Pan di J.M.Barrie, possa rivelare la sua navigazione celeste soltanto agli adulti rimasti un po’ bambini (e vi è un grosso richiamo alla figura del poeta), e che seguendolo solo con gli occhi e con il cuore arrivi a svelare l’Isola che non c’è, la magia della giovinezza.
Ne “la Ballata del Vecchio Marinaio” tutta la vicenda ruota attorno all’uccisione, da parte del vecchio marinaio, di quell’albatro simbolo del patto d’amore tra l’uomo e la natura. La morte dell’uccello sacro pare essere avvolta dal mistero della violenza gratuita, dal dramma della noia e della frustrazione. Non posso fare a meno di pensare che la ragione profonda del senso di questa uccisione risieda nell’implacabile necessità di volo da parte del vecchio marinaio. Una sorta di identificazione estrema (e più violentemente rappresentata dall’albatro morto che gli altri marinai gli appenderanno al collo come simbolo di condanna per le sventure che colpiranno la nave), una volontà di introiettare il potere alato in un corpo colpito dalla maledizione del volo, poiché cessa di essere poesia dopo l’uccisione, e che la natura ha concepito privo di ali. Forse il vecchio marinaio era consapevole di tutto questo, e da quel giorno l’albatro ha cominciato a vivere nell’occhio scintillante (glittering eye, scrive Coleridge) che affascinava gli ascoltatori della storia e che tanto ricorda la stella di cui sentiamo la mancanza e che cerchiamo nelle notti limpide, alzando lo sguardo al cielo. Il viaggio in mare pare trasformarsi in una sorta di surrogato del volo nei cieli, quasi fosse un’illusione di libertà. Gli uomini si ingannano sovente a proposito della libertà. E come la libertà si annovera fra i sentimenti più sublimi, così anche l’illusione relativa è fra le più sublimi.
Pensando al viaggio di mare per eccellenza, l’Odissea: le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del loro canto, ed è il loro silenzio. Non è mai accaduto, ma forse non è del tutto inconcepibile, che qualcuno si salvi dal loro canto, ma dal loro silenzio certamente no. Alla sensazione di averle vinte con la propria forza, all’orgoglio che ne consegue e che travolge tutto, nessun mortale può resistere. E infatti, probabilmente, quando Ulisse giunse, le Sirene non cantarono, sia che credessero che a un tale avversario convenisse soltanto il silenzio, sia che il viso beato di Ulisse, che non pensava ad altro che a cera e catene, facesse loro dimenticare il canto. Ulisse però, se così posso esprimermi, non udiva il loro silenzio; egli credeva che esse cantassero e che egli solo fosse salvaguardato contro di esse. Le Sirene, più belle che mai, si torcevano e si distendevano, tendevano gli artigli sulle rocce. Sembrava non volessero più sedurre, ma cogliere al volo, il più a lungo possibile, la luce riflessa nei grandi occhi di Ulisse.
La morte, in cielo o per mare, viene elevata a strumento estremo per esaudire un desiderio alato, che non è necessariamente il sentimento di una vita oltre, ma il naturale ricongiungimento all’illusione stessa della vita: il sogno di volare.

“A Christmas recipe” allo “Spazio Kairos”

La compagnia “Onda Larsen” riflette e fa riflettere bimbi e famiglie sul “vero”, un po’ dimenticato, significato del Natale

Domenica 8 dicembre, ore 16

“Ah, il Natale! I festoni, i fiocchi, i nastri e poi ancora le letterine, i regali, le luci e ancora il cenone, i brindisi, il vischio, la neve, l’albero, le palline, i balletti, le canzoni… insomma non sembra manchi nulla, no?”. Embé!! No, no, per carità, non manca proprio nulla! Che volere di più?! Eppure … eppure. Forse qualcosa, sotto sotto (ma neanche troppo sotto) manca. O non c’è più. Almeno se per “Natale” vogliamo intendere non solo la terrena magia della “Festa più Festa dell’anno” (che, pure, attenzione, ci sta bene e ci vuole), ma anche, e soprattutto, uno spazio temporale di riflessione spirituale sull’evento (per chi è credente) o, più laicamente, su quel particolare momento dell’anno che apre le porte a nuovi 365 giorni, a nuovi sogni e speranze per ognuno di noi. L’Abbraccio, la Pace, la Fratellanza, il Perdono, il Riconoscerci tutti uguali, il Camminare per mano, Mani bianche e Mani nere, il Brindisi – calici in alto – gesto che dev’essere un evviva e un segno di nuove attese con validità continua nel tempo e non concepita ad annuale, periodica, scadenza. Come dire Passata la Festa, gabbato lo Santo. Certo il tutto è forse pretendere troppo. Ma un piccolo sforzo di riflessione potremmo e dovremmo farlo! Senza per carità spegnere le luci, negare i regali, affossare pranzi e cenoni. Giusti i regali. Soprattutto ai bimbi. Attenti all’“arma-cellulari!” Ma, quando glieli porgiamo, guardiamoli dentro e in fondo agli occhi. Forse lì, potremo trovare la carica per intraprendere nuove e coraggiose strade.  Che ne pensate e a chi potremmo chiedere aiuto rispetto a queste riflessioni? Ci sono! Forse agli “elfi”, quegli strani simpatici “umanoidi” che, nelle culture di lingua inglese, vivono con Babbo Natale al Polo Nord e gli fanno da aiutanti, prendendosi cura soprattutto delle renne.

Parte proprio di qui l’appuntamento teatrale, in programma domenica 8 dicembre (ore 16), dal titolo “A Christmas recipe”, portato in scena dalla cagliaritana Compagnia “Effimero Meraviglioso” e proposto dai nostri di “Onda Larsen” al teatro “Spazio Kairos” di via Mottalciata, a Torino. Lo spettacolo di Francesco Cappai, per la regia dello stesso Cappai e di Leonardo Tomasi, vedrà salire sul palco Michela CiduElisa GiglioFederico Giaime Nonnis ed Alessandro Redegoso.

I quattro, nel loro racconto scenico, s’affideranno proprio alla “saggezza” di quei buffi, divertenti “elfi”, cui s’era arrivati noi. “Gli ‘elfi’ – ricordano – conoscono a menadito il procedimento per ‘fare’ il Natale. Lo conoscono talmente bene da far perdere il senso a quei gesti che, di anno in anno, diventano sempre più vuoti, mentre la scena si riempie sempre di più”. E’ per questo che “qualcosa comincia ad andare storto per gli ‘elfi’: e se il Natale fosse qualcosa di più delle lucine, delle ceneluculliane e del vischio sulla porta? Una lunghissima attesa godotiana, non ce ne voglia Samuel Beckett, nei confronti di qualcosa che doni – che stranezza il donare qualcosa al Natale – il senso al Natale, e un tacchino da cucinare che non arriva. Saranno collegate le due cose?. Chissà. Penso proprio di sì. Almeno per i quattro di “Effimero Meraviglioso”. Che, per carità, non penso che – invitandoci allo spettacolo – siano così sadici, e anche un tantino masochisti, dal voler rovinare la Festa ai poveri spettatori. Però, però … un pensierino a ciò ch’é oggi diventato (di esagerato) il Natale, credo proprio sia nelle loro corde. Dicono infatti: “ ‘A Christmas Recipe’ è uno spettacolo che parla dell’ ‘essenza delle tradizioni’ oltre ‘la loro fastosità’, alla ricerca di ciò che si nasconde sotto la routine della festa. In un gioco colorato e musicale di ‘ripetizioni’ e ‘scatole cinesi’, i bambini andranno alla scoperta dei valori straordinari che si nascondono dietro l’‘ordinarietà dei gesti’ che talvolta, privati del loro contenuto, rimangono pura forma”.

Il pomeriggio s’inizia alle 16prevede merendaalle 16,30 lo spettacolo e poi l’incontro con gli attori sul palco.

Acquisto biglietto: www.ticket.it

Per info: “Spazio Kairos”, via Mottalciata 7, Torino; tel. 351/4607575 o www.ondalarsen.org

g.m.

Nelle foto: “Effimero Meraviglioso” immagini di scena

Ugo Nespolo presenta il vinile “Il Gran Ballo della Croce Rossa Italiana” 

 

 

Il 10 dicembre prossimo, alle ore 21, Ugo Nespolo presenterà al Circolo dei Lettori il vinile dal titolo “Il gran ballo della Croce Rossa Italiana”.

Il 22 giugno scorso usciva in tutti i negozi di musica e sul CRI shop il vinile “Il gran ballo della Croce Rossa Italiana”. Realizzando questo progetto nell’ambito del 160esimo anniversario della nascita dell’associazione, la Croce Rossa Italiana ha deciso di ridare vita a uno storico vinile del 1961, custodito al Museo Internazionale della Croce Rossa a Castiglione delle Stiviere. Il disco conteneva quattro brani interpretati dagli allora esordienti Gino Paoli ( Un uomo vivo), Giorgio Gaber ( Benzina e Cerini), Umberto Bindi (Non mi dire chi sei) e uno interpretato da Joe Sentieri dal titolo “Lei”. Oggi viene rilanciato con i brani originali rimasterizzati e le versioni di Beppe Servillo, Eugenio Finardi, Giuseppe con Gnu Quartet e Armanso Corsi e The Sweet Life Society.

Le copie del vinile sono state numerate per un totale di 1864, numero pari all’anno di nascita della Croce Rossa Italiana, e la copertina è stata realizzata dal grande Ugo Nespolo. Il prezzo di vendita è di 30 euro e i proventi verranno devoluti alla Croce Rossa Italiana.

“E’ il 1961- si legge sulla copertina del vinile- undicesima edizione del festival di Sanremo, per la prima volta condotta da due donne, Lilli Lembo e Giuliana Calandra, ed è proprio durante quei giorni sanremesi che a Milano il primo febbraio va in scena il Gran Galà della Croce Rossa, un evento solidale che richiama l’alta società meneghina a un momento di partecipazione e benevolenza verso la più importante e grande associazione di volontariato in Italia. All’occasione viene dedicato un disco, con una tiratura limitata di 300 copie, di RCA, che contiene quattro dei brani presentati quell’anno al Festival della Canzone Italiana. Del disco non si ha traccia per anni fino al 2000 quando, durante un sopralluogo al Museo Internazionale della Croce Rossa di Castiglione dello Stiviere, viene rinvenuto, magicamente, in uno scatolone, un vinile master originale Ricordi.

Circolo dei Lettori via Bogino 9 martedì 10 dicembre ore 21

MARA MARTELLOTTA

Roberto Demarchi: “Hamas e Netanyahu sono i nuovi Erode”

La mostra del maestro Roberto Demarchi, inaugurata giovedì 5 dicembre 2024 alle ore 18, nella sede dell’atelier del pittore in corso Rosselli 11, reca il titolo “Montagna e avvento”.

Roberto Demarchi, pittore astratto , dichiara, a poche ore dell’inaugurazione di questa sua nuova mostra : “ I Vangeli ci narrano che, poco più di Duemila anni or sono, una piccola famiglia di ebrei, per sfuggire alla ferocia che il Potere scatena quando ha paura, lasciò nottetempo Betlemme per trovare rifugio in Egitto. Percorsero quella che allora si chiamava la via Maris ( che tra l’altro passava per Gaza). Subito dopo ci fu la strage degli Innocenti, innumerevoli bambini al di sotto dei due anni furono trucidati perché Erode temeva che tra di loro si celasse colui che, male interpretando le Sacre Scritture, avrebbe potuto prendere il suo posto. I Vangeli, se letti lontano da una esasperazione fideistica, parlano di verità che sopravvivono al Kronos, al microtempo. Ci dicono che l’uomo, con tutta la sua paura e con tutto il suo coraggio di vivere, è sempre lo stesso. I luoghi sono sempre gli stessi, Gaza ieri, Gaza oggi. I trucidatori sono sempre gli stessi, Erode ieri, Hamas e Netanyahu oggi”.

La mostra del Maestro Roberto Demarchi, intitolata “Montagna e Avvento” vuole essere un percorso ispirato all’Avvento e alla montagna ritratta da Cézanne, il tutto reinterpretato con il linguaggio astratto e suggestivo del maestro.

Mara Martellotta

“Questa è pittura”… perdersi nella totale libertà del colore

Il “Forte di Bard” presenta una grande retrospettiva dedicata ad Emilio Vedova fra i nomi più prestigiosi dell’ Arte Informale

Fino al 2 giugno 2025

Bard (Aosta)

Il colore, soprattutto. Il colore su tutto. A imprigionare forme, a dettare le regole irregolari di una dialettica fra gesto, segno e materia che coinvolge lo stesso pittore, diventando prova di forza, corsa a tutto campo, senza limiti né confini fra l’artista stesso e l’opera, concepita come bersaglio (pur sempre calibrato nella sapienza del complessivo rapporto compositivo) di violente emozioni e di impreviste improbabili fantasie. Il colore. La materia. Magma incandescente che avvolge lo stesso pittore. Che si fa colore. Si fa materia. Nel corpo e nell’anima. C’è tutto questo, la potenza del gesto e del segno della pittura di Emilio Vedova (Venezia, 1919 – 2006), al centro della retrospettiva “Questa è pittura” allestita nelle “Sale delle Cannoniere” al valdostano “Forte di Bard”fino a lunedì 2 giugno del prossimo anno.

Promossa dall’“Associazione Forte di Bard”, in collaborazione con “24 Ore Cultura” e “Fondazione Emilio e Annabianca Vedova” (istituita dall’artista con la moglie nel 1998 e attiva dal 2006), la mostra è curata da Gabriella Belli e  “vuole presentare – precisa la stessa Belli – l’opera di Vedova nella sua valenza pittorica, sfuggendo da ogni tentazione di lettura dettagliatamente storica o socio-politica, per indirizzare lo sguardo verso l’eccellenza della sua pittura, che sempre stupisce per la folgorazione del colore e la vitalità della sua materia, espressione tra le più alte dell’Informale europeo”.

Emilio Vedova, per molti “il fratello italiano di Jackson Pollock”, è stato uno degli artisti d’avanguardia più influenti del ‘900. Libero, dissidente, curioso e ribelle (fervente antifascista, partigiano a Roma e sulle colline piemontesi, nonché fra i firmatari nel ‘46 del manifesto “Oltre Guernica” e fra i fondatori del “Fronte Nuovo delle Arti”) ha tradotto nelle sue opere il suo impegno civile. Un intreccio per certi aspetti indissolubile che restituisce il profilo di un artista di altissimo talento e nello stesso tempo dotato di una rara capacità d’essere dentro il “farsi della storia”.

In mostra (che approda in Vallée a quasi cinquant’anni dall’esposizione “Emilio Vedova. Grafica e Didattica” presentata nel ’75 alla “Tour Fromage”, sotto la curatela di Zeno Birolli e dello stesso Vedova) troviamo esposti, 31 grandi dipinti e 22 opere su carta dell’artista veneziano, in maggioranza provenienti dalla “Fondazione Emilio e Annabianca Vedova”. L’odierna retrospettiva “vuole aggiungere – replica Gabriella Belli – un tassello alla conoscenza dell’artista, attraverso un itinerario di approfondimento del suo lavoro diviso in otto tappe, che corrispondono a momenti in cui lo sforzo creativo si dibatte attorno a questioni esistenziali”. La sequenza non è strettamente cronologica, ma va invece a rimarcare, attraverso le sue opere, quei “periodi/episodi” della vita artistica di Vedova strettamente dedicata al mestiere e alla ricerca pittorica, lasciando in ombra il suo pur sempre forte impegno civile e “la sua ben nota, carismatica voce di protesta davanti alle tragedie della storia e agli eventi di cronaca quotidiana”“Questa è pittura”, solo e intimamente pittura, recita bene, dunque, il titolo della rassegna, partendo dagli esordi dell’avventura artistica del pittore : “La nascita di un pittore. I Maestri”, la lezione trasmessa a Vedova dai grandi pittori di quel passato veneziano, alla sua quotidiana portata di mano e di vista, scritto dai vari TintorettoVeronese e Tiepolo, ammirati per poi sfuggirli (ma mai dimenticarli) abbracciando (“Cercare una via”) l’emergente “geometria astratta” di cui troviamo significativi esempi in mostra. Nella terza tappa “Astrazione per sempre”, già si fa luce il passaggio dalle strette “velleità geometriche” al desiderio di una pittura per vocazione “gravida di gesto e materia”, che s’alimenta nell’invenzione dei suoi “Plurimi” (quarta tappa), nuove forme dipinte, legni carichi di materia pittorica e assemblate con cerniere, “inquietanti costruzioni tridimensionali” che “deflagrando dalla parete, invadono lo spazio”. E l’iter prosegue nel continuo “lasciar libero il  segno” fino alle opere più strettamente connesse al suo personale “tragico esistenziale” sublimato in quella esemplare “Vertigine Piranesi” (settima tappa) che pare rievocare le “Carceri” (invenzione di luoghi “insieme inferi e architettonici”) del suo conterraneo, fra gli iniziatori dell’immaginario gotico, Giambattista Piranesi“Circolare infinito” è il titolo dato, infine, all’ottava tappa, con i tre grandi “Tondi”, disallineati al centro della Sala, che gridano tutta “l’irriverenza inquieta e geniale di un artista che ha sempre sfidato sé stesso”. E il mondo intero.

Gianni Milani

“Questa è pittura”

Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II, Bard (Aosta); tel. 0125/833811 o www.fortedibard.it

Fino al 2 giugno

Orari: mart. e ven. 10/18; sab. dom. e festivi 10/19; lunedì chiuso

 

Nelle foto: Emilio Vedova “Al lavoro su ‘Non Dove’”, 1988 (Ph. Aurelio Amendola): “Poemetto della sera”, olio su tela, 1946; “Plurimo – A”, acrilici, pastello su elementi di legno, 1962; “Ciclo”, tecnica mista su tela, 1962

“Arte e Carità”: oltre 120 opere in mostra a “Casa Francotto” di Busca

Dal patrimonio artistico delle “Confraternite” ai capolavori moderni e contemporanei

Dal 16 novembre al 9 febbraio 2025

Busca (Cuneo)

Sono oltre 120 le opere esposte, a firma di circa sessanta artisti operanti in un arco temporale che abbraccia più di sei secoli di storia dell’arte. Eccellente il luogo espositivo, gli eclettici spazi di “Casa Francotto”, nel centro storico di Busca (Cuneo), che da sabato 16 novembre a domenica 9 febbraio 2025, ospiteranno la mostra “Arte e Carità. Dal patrimonio delle Confraternite ai capolavori moderni e contemporanei”. Particolarmente ricco e suggestivo, il percorso espositivo appare suddiviso in due parti, dal “globale” al “locale”.

Una sezione è infatti dedicata a grandi artisti del passato, della modernità e della contemporaneità, con una settantina di opere che vanno (si citano solo alcuni nomi) dal Bellini al Correggio su su fino a Picasso, Fontana, Martini, Manzù, Cassinari e Mastroianni, accompagnate, nella seconda sezione, ai capolavori – depositari di settecento anni di storia con inediti di straordinaria bellezza – custoditi dalla due “Confraternite” cittadine, la “Bianca” (dal colore degli abiti degli iscritti) e la “Rossa” (dei “Battuti Rossi”), la “SS. Annunziata” e la “SS. Trinità”. Ad unire idealmente e operativamente tutte le opere in esposizione il loro attenersi scrupolosamente al binomio “Arte e Carità”. Curata da Cinzia Tesio, Rino Tacchella, Bruno Raspini e Dario Lorenzati, la rassegna è organizzata dal “Comune” e dall’“Ospedale Civico” (1698) di Busca. A completarne l’allestimento, curato da Maurizio Colombo, pannelli, documenti storici, codici “QR CODE” e tre “video”, uno dei quali dedicato al dottor Ernesto Francotto (1883 – 1968) che, alla sua morte, lasciò tutti i suoi beni, tra cui la casa natale, alla Città di Busca che ne fece un prezioso spazio espositivo nel rispetto della memoria del benefattore, il quale coltivò, accanto alla sua professione di medico condotto, l’arte della pittura, della poesia e della musica.

 

“La rassegna – spiegano i curatori – vuole approfondire il tema della carità, grazie al linguaggio universale dell’arte, stimolando una riattivazione della circolarità che la storia ci ha insegnato, senza tendere ad un ritorno al passato ma sfidando il futuro”. E, su questa linea, prosegue Luca Gosso, ex sindaco di Busca, già presidente per i “Serivizi Socio-Assistenziali” delle Valli Grana e Maira, oggi giornalista e attento divulgatore degli eventi di “Casa Francotto”: “Ritrovarsi di fronte a un crocifisso di Lucio Fontana o alle sculture di Giacomo Manzù, così come al presepe di Emanuele Luzzati e alla straordinaria ‘Via Crucis’ di Mario Tallone o all’ ‘Albero della carità’ di Mario Gosso, ci fa vivere emozioni forti facendoci pensare al desiderio di farsi prossimo, come diceva il Cardinale Carlo Maria Martini, alla ricerca di una speranza, di un nuovo umanesimo e di una sostenibilità che vuole rimettere al centro l’uomo e coniugare l’arte, la cultura e la carità”. Grandi nomi. Per una mostra che pienamente riesce a coniugare nel gesto estetico, il “fare arte” e la spirituale ricchezza del professare “Carità”. Ha ragione Gosso, “straordinaria” la “Via Crucis”del semplice grande scultore del ferro di Paesana, scomparso tre anni fa, Mario Tallone.

 

In essa la forza della materia si piega al sussulto di emozioni che si fanno “carnale spiritualità”. Come le non poche “Madonne con Bambino”, dalla terrena “Maternità” di Pablo Picasso(“Mother and Child”) olio su cartoncino del ’21 a quella in bronzo del ’20 di Leonardo Bistolfi  fino alla “Ceramica incisa e smaltata” di Ugo Nespolo e alla “Madonna di Loreto” di Umberto Mastroianni, eredi delle più antiche “Maternità” di Antonio Allegri il “Correggio” (“il portatore più moderno e ardito degli ideali del Rinascimento” ) e del veneziano Giovanni Bellini, dove si ritrova quella particolare capacità del Maestro (e dell’allora pittura veneta) di stabilire una particolare, simbolica relazione tra i protagonisti e lo sfondo paesistico.

E accanto alle “Maternità”, ecco l’inconfondibile iconografico “Cardinale seduto” in bronzo (1990) di Giacomo Manzù, l’informale “Cristo” in terracotta di Lucio Fontana, la fiabesca “Natività” di Emanuele Luzzati, la “Deposizione” in terracotta (1926) di Arturo Martini via via per arrivare (e il percorso continua ancora a lungo) al delicato, luminoso “Piccolo altare barocco”, in pastelli a cera su carta di Enrico Paulucci e al nervoso “Studio per Crocifissione” del ’93 di Giorgio Ramella. Una grande mostra, per ricordare l’infinita grandezza e bellezza della “Carità”.

Gianni Milani

“Arte e Carità”

Casa Francotto, piazza Regina Margherita, Busca (Cuneo); tel.371/5420603 o www.casafrancotto.it

Fino al 9 febbraio 2025

Orari: ven. 15,30/1830, sab. 10/12 e 15,30/18,30, dom. 10/12 e 14,30/18,30

Nelle foto: Pablo Picasso “Mother and Child”, olio su cartoncino, 1921; Mario Tallone “Via Crucis – Stazione 4”; Giovanni Bellini “Madonna con Bambino”, ca. 1510; Giorgio Ramella “Studio per Crocifissione”, 1993

Il mistero del Triangolo delle Bermuda, 5 dicembre 1945

ACCADDE OGGI

Forti tempeste, errori nella navigazione, problemi tecnici, addirittura forze paranormali o extraterrestri presenti in quella zona colpita da violenti e improvvisi uragani che sconvolgono mare e cielo e poi si disperdono rapidamente. Si è detto di tutto, lasciando spazio, anche troppo, all’immaginazione e fantasticando sulle possibili cause di quella tragedia. E se ne parla ancora, ogni anno, il giorno dell’anniversario. Sta di fatto che cinque aerei con 14 aviatori della Marina degli Stati Uniti scompaiono nel famoso Triangolo delle Bermuda, nell’Oceano Atlantico, durante un’esercitazione e non vengono mai più ritrovati. È passato quasi un secolo, era il 5 dicembre 1945. Come è potuto accadere? I racconti emersi in questi decenni sono tra i più svariati e alcuni anche molto strampalati. Si parla di onde gigantesche che emergono all’improvviso dagli abissi proiettando in aria le barche con una forza impressionante ma si narra anche di eruzioni di metano dalle profondità in grado di alterare la densità dell’acqua rendendo impossibile la navigazione. O perfino di attacchi di mostri marini e di calamari giganti che inghiottono i velivoli. Più realisticamente potrebbe invece trattarsi di un errore umano o di un difetto nella progettazione. È vero inoltre che nell’area specifica si trovano alcune delle fosse sottomarine più profonde al mondo e i relitti potrebbero trovarsi a molti chilometri dalla superficie dell’oceano. Il fondale marino si trova infatti a 6000-8000 metri sotto il livello del mare. Per le imbarcazioni il rischio di naufragio c’è sempre stato ma come è possibile far sparire anche gli aerei?
Le ipotesi sulle cause della scomparsa di aeroplani e navi nel Triangolo delle Bermuda sono molte ma cosa abbia causato queste sparizioni resta un mistero. Quasi 80 anni fa cinque aerei americani, conosciuti come Volo 19, decollarono dalla loro base in Florida per un normale addestramento e scomparvero inspiegabilmente nel Triangolo delle Bermuda. Né i velivoli né l’equipaggio furono mai più ritrovati. Quel giorno nacque la leggenda su cui si discute ancora oggi. Il Triangolo delle Bermuda è un’area oceanica di un milione di chilometri quadrati compresa tra Miami, l’arcipelago delle Bermuda e l’isola di Porto Rico. C’è da dire che si tratta di una zona dove spesso il meteo desta allarme e le condizioni del tempo sono pessime perché la corrente del Golfo crea vaste masse d’aria calda che generano onde alte parecchi metri e vere e proprie tempeste e bisogna aggiungere che molte di queste sparizioni misteriose sono avvenute in un periodo in cui le operazioni di salvataggio erano antiquate e poco efficaci. Sulla carta geografica quel triangolo è diventato il “triangolo maledetto”, un mistero che continua tra leggenda e realtà e che ha ispirato film, romanzi e serie televisive a non finire. All’interno di questo braccio di mare nel Novecento numerosi aerei e navi sono scomparsi senza lasciare traccia. Non è però un fenomeno solo novecentesco: gli storici ricordano che proprio in quest’area già Cristoforo Colombo annotò sul suo diario di bordo “strani e insoliti fenomeni” durante la navigazione.
I piloti degli aerei in volo sull’oceano potevano affidarsi esclusivamente alla bussola ma pare che quel giorno le bussole non funzionassero bene e le condizioni del tempo stavano peggiorando. Tanto è vero che il tenente istruttore Charles Taylor, a capo della missione, si perse un’ora dopo il decollo. Tragedia nella tragedia, anche uno degli idrovolanti di soccorso scomparve insieme ai 13 membri dell’equipaggio. Fu un disastro, relitti e corpi non furono mai trovati. Si trattò di un errore di valutazione del pilota secondo la Marina americana ma in seguito il verdetto fu cambiato in “cause sconosciute”. La Guardia Costiera ha comunque sempre fatto presente che il problema più grande in quell’area sono gli uragani con onde alte diversi metri. Le tempeste tra i Caraibi e l’Atlantico sono improvvise e possono dar vita a trombe d’acqua con effetti tragici per piloti e marinai. La sorte della Squadriglia 19 resta uno dei più grandi enigmi nella storia dell’aviazione.     Filippo Re

Lo Stradivari di Ferràndez sul podio dell’OSN Rai insieme al direttore Andrés Orozco – Estrada

Giovedì 5 dicembre, alle 20.30, all’Auditorium RAI Arturo Toscanini, si terrà il concerto che vedrà protagonista Pablo Ferràndez, uni dei violoncellisti definito da Le Figaro “il nuovo genio del violoncello”. Suona il preziosissimo Stradivari “Archinto” del 1689, prestato da un Maestro della Stretton Society. Pablo Ferràndez torna a suonare con l’OSN Rai, giovedì 5 dicembre, in un concerto che sarà trasmesso in diretta su Radio 3 e in live streaming sul portale di Rai Cultura. In replica venerdì 6 dicembre alle ore 20. Per il suo ritorno con l’OSN Rai, con la quale aveva debuttato giovanissimo nel 2017, propone il Concerto per violoncello n.2 in si minore op.104 di Antonin Dvořák, pagina fra le più note del compositore boemo, scritta intorno al 1895, verso la fine del suo soggiorno americano. Capolavoro della letteratura violoncellistica, è amato dai grandi solisti per l’esuberante virtuosismo e l’immediata presa emotiva dei temi di ascendenza folklorica tra Vecchio e Nuovo mondo. La sua prima esecuzione fu a Londra nel 1896, con lo stesso Dvořák sul podio e Leo Stern come solista.

Sul podio dell’Orchestra Rai è chiamato il direttore principale Andrès Orozco-Estrada. Nato a Medellin, in Colombia, nel 1977, ha debuttato con l’OSN nel maggio 2022, e nell’ottobre 2023 ha iniziato la sua collaborazione come direttore principale. Nella seconda parte della serata Orozco-Estrada propone il poema sinfonico di Richard Strauss “Tod und verklärung” (morte e trasfigurazione), che illustra i temi dell’agonia umana e della salvezza ultraterrena, muovendosi tra l’esasperazione materialistica di stampo decadente e l’eterna aspirazione romantica.

La scena finale dell’opera, il canto di Isolde sul corpo di Tristano, cerca la soluzione al conflitto tra amore e morte nella trascendenza, nel passaggio a una forma altra, diversa da quella umana, di concepire quel desiderio di vita che costituisce la fonte inesauribile dell’eros. Mahler e Strauss concepiscono il proprio mondo in sintonia con la cultura del loro tempo, in cui le voci moderne sono Shopenhauer, Wagner e Nietzsche. “Morte e trasfigurazione” op.24 è un breve poema per grande orchestra di Richard Strauss, che iniziò a comporre nella tarda estate del 1888, e completò il 18 novembre 1889, dedicandola all’amico Friedrich Rosch.

In chiusura un’altra pagina di Strauss, ma all’insegna del divertimento, il poema sinfonico “Till Eulenspiegels lustige Streiche” ( I tiri burloni di Till Eulenspiegel), definito dallo stesso autore molto allegro e spavaldo. Fu composto tra il 1894 e il 1895, ha avuto la prima assoluta a Colonia il 5 novembre 1895 sotto la direzione di Franz Wüllner. Racconta gli scherzi e le avventure di un personaggio di fantasia molto popolare in Germania, Till Eulenspiegel. I due temi che rappresentano Till sono interpretati dal corno e dal clarinetto; il tema del primo è una melodia che procede cadenzata fino al suo culmine, per poi ricadere e terminare in tre note lunghe e forti, decrescenti in scala. Il tema del clarinetto è più complesso, come a suggerire un burlone intento a preparare i suoi scherzi.

Biglietteria: biglietteria.osn@rai.it e online sul sito dell’OSN Rai

 

Mara Martellotta