CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 63

Quando i “muri” tornano a rianimarsi

Sei artisti negli spazi dell’Officina ADhoc

Negli spazi dell’Officina ADhoc (via Cervino 24, sino al 14 ottobre), fondata in Barriera di Milano da Enrico Fabbri sette anni fa, luogo di lavoro e di comunicazione, studio fascinoso modernamente inteso (appunti, schizzi e fogli sparsi, tavoli che raccolgono progetti, manifesti e libri, una affettuosa e laboriosa quantità di libri sparsi, spazio per formativi scambi d’idee e riflessioni), sei artisti – sotto la guida, preziosa, di Elena Radovix – che tra fotografia, pittura, collage, incisione, installazione sovvertono e annullano la convinzione antica che i muri altro non siano che il foglio di carta bianco per perdigiorno e imbecilli. Riuniti in fantasioso quanto spericolato gruppo, sono Laura Berruto, Raffaella Brusaglino, Claudio Cravero, Bahar Heiderzade, Guido Pigni e Michele Rigoni. “Muri” è la mostra che essi compongono. Muri solidi e sostanziali, muri che sono pronti a imbrigliare ricordi, che lasciano nella memoria di ciascuno e nelle loro memorie personali una ragnatela di tracce, una ricostruzione d’identità, muri che fanno intravedere vite ed esistenze di un tempo, testimonianze di oggetti e di affetti abbandonati, oggi appannate o forse del tutto distrutte; muri che sono manifesto politico e memento bellico ma pure, con sguardo ben più ampio e quasi affannosamente legati alla parola speranza, angolo di poesia, spazi di rifugio per uomini di pace e di cultura, di nuovi amplificati ambienti, di reinvenzioni, di nuove appartenenze come di rapporti con epoche lasciate in bilico. “Ogni artista, seppur con linguaggi diversi, apre una prospettiva sul rapporto tra luoghi e persone, tra segni individuali, intimi e memorie collettive condivise”, sottolinea la curatrice. Ogni proposta, ogni intento all’insegna di quei “muri”, che umanamente, tra le grandi fragilità che tocchiamo giorno dopo giorno, tra simbologia e realismo, guardando alla realtà contemporanea, richiamano alla “chiusura e apertura, separazione e incontro, allontanamento e vicinanza”.

Tra questi “luoghi che parlano” spinge allo sguardo, in primo luogo, con prepotenza, il “Muro di Memoria” realizzato site specific per la mostra dall’artista iraniana Bahar Heidarzade, che già avevamo conosciuto e apprezzato lo scorso anno in una galleria del centro. Un’artista che ha abbandonato il proprio paese a ventisei anni, quell’Iran in cui non può esprimere la propria opinione, in cui vede cancellata ogni traccia di trucco o ogni desiderio di studiare musica, come di ballare o cantare, dove le è proibito togliere l’hijab, dove più volte è arrestata per il modo in cui lo indossa. Qui e oggi, un muro di mattoni, sul lato lungo di essi differenti scritte in lingua araba, un simbolo di collettività, tanti individui allineati, uno accanto all’altro, proprio come quei mattoni; ma pure un simbolo di separazione, il ricordo di confini invalicabili, di terre e di culture. Prevale il ricordo dell’abbandono, “questo muro è come uno scudo. Tutti i dittatori usano questo tipo di scudo per proteggersi”, ripete Bahar: e all’ombra di quel muro è ancora fisso il ricordo di quanti hanno tentato di attraversarlo.

Claudio Cravero, le radici nella grafica pubblicitaria e da sempre appassionato di fotografia, instancabile viaggiatore, presenta un gruppo di immagini che appartengono alla serie “Fantasmi”, nata nel 1996 e che ancora oggi viaggia in progress, la volontà affettuosa di “documentare i luoghi svuotati dalla presenza umana ma ancora intrisi di memoria.” L’autore va alla ricerca di tracce, del tempo perduto, forse anche lui del profumo delle mdeleines, attraverso la sospensione della luce naturale (e con quella rimanda chi guarda a certi nomi della pittura antica) grazie alla quale sembra voler esplorare, più da vicino, le crepe allineate sui muri, l’ombra di un quadro che lì è stato tante volte guardato, piccoli oggetti dimenticati e testimonianze suggerite, “archivi di vite”, muri che non sono barriere ma presenze che hanno raccolto e protetto innumerevoli vite umane. Guido Pigni “è da sempre attratto dai luoghi dismessi, di cui rimangono solo tracce.” Ancora spazi che avvolgono conflitti e memorie, simbologie, squarci urbani, giocati nelle incisioni e nelle acquetinte che diventano palcoscenici per una vita quotidiana. “È per me una metafora del deterioramento sociale di questi anni, della precarietà costante che ha sostituito le certezze e le sicurezze cui eravamo abituati, del senso di comunità che è venuto a mancare”, spiega l’artista. Un lavoro che vede inizialmente l’uso di lastre di ferro dismesse, scarti di lavorazione industriale che già abbiano in sé segni rugginosi: ma è la creazione di altre vite, ancora tracce di memoria e memorie urbane, con la nascita di esempi di devozione popolare, tra una Vergine accogliente e crocefissi e quadretti con il Cristo che stanno nella cucina di casa, oppure un solitario crocevia di un paese straniero: il diritto a preservare, “prima che il tempo o le trasformazioni della città li cancellino o li sovrascrivano.”

Uno sfondo e un primo piano sono il focus delle opere di Michele Rigoni. Dapprima, un ventaglio amplissimo di cartoline, bianconero o seppia, cartoline antiche “che hanno viaggiato”, ricevute o rintracciate qua e là, nei mercatini o in qualche cassetto, cartoline che hanno raccolto sentimenti e saluti e impressioni di viaggio; poi immagini di famiglia, chiuse negli album e riportate alla luce e indietro dal tempo. L’autore accomuna entrambe, le sovrappone, le intercala, le ricama con interventi tutti personali, stralci di memorie inserite elegantemente in strutture e in panorami dove la vita trascorsa mai aveva avuto accesso. Nuove composizioni, inserimenti che non ti aspetti: “Per me il muro è una soglia: un confine tra ciò che può svanire e ciò che potrebbe diventare.”

Da sempre chi scrive ama la pittura antica di Raffaella Brusaglino, quella di personaggi rinascimentali riportati davanti a noi, i visi e le posture di Piero che si fanno nuovi affreschi. Ama anche le opere della serie “Mappa Mundi”, ancora l’immissione delle rilucenti parti dorate e dei vari strati di pittura che nella mostra vedono gli inserimenti di memorie familiari. Gesso, sabbia, ossidazioni, pigmenti a costruire stratificazioni, la foglia oro e argento che ci ridona tutta l’antichità sino alla tradizione bizantina: stratificazione e luce che abbracciano nell’occasione frammenti dei progetti tecnici realizzati dal padre, ingegnere aeronautico. Piccoli precisi tratti, sezioni e raggiere che paiono quasi antichi fossili, macchie azzurroverdi, studi di un tempo e vitalismo di oggi, arte e tecnica preziosa in un dialogo che non è più soltanto il depositarsi sulla tela ma appropriarsi di un rapporto tra figlia e padre. Appropriata anche l’installazione “Pioniera”, scultura in alluminio con inserti di piccole piante, una figura femminile intenta a osservare, credo, quanto sia potuto nascere dopo la sparizione di un muro preesistente.

Per le fotografie di Laura Berruto, la curatrice parla di “un pellegrinaggio silenzioso tra le vie urbane” alla scoperta di immagini che vanno scomparendo, che hanno raccontato vite, hanno raccolto pensieri e impressioni, inviti all’acquisto, reclamizzazione di prodotti, i più svariati. Manifesti strappati, che secondo la lezione di Mimmo Rotella assumono un futuro e se lo rivestono, in piena autonomia: una fotografia potrà suggerire una fenditura del muro pronta a evocare la forma di un busto classico, un albero ben ramificato potrà mescolarsi alle maiuscole di una pubblicità o a quelle colorate che qualcuno ha disegnato; scritte con date e orari di qualche manifestazione ridaranno nuova vita al muso di una leonessa che ha probabilmente suggerito al pubblico una visita al vecchio circo che qualche mese fa metteva le tende nel quartiere. E il muro torna a rianimarsi.

Elio Rabbione

Nelle immagini, nell’ordine, un’opera di Claudio Cravero, la stratificazione “pubblicitaria” di Laura Berruto, “Mappa Mundi” e “Pioniera” di Raffaella Brusaglino.

“Sogno, realtà, stupore”: la stagione del teatro Corcordia di Venaria

Tra commedie , spettacoli impegnati, classici, concerti e balletti

Si intitola “Sogno, realtà, stupore” la nuova stagione 2025-2026 del teatro Concordia di Venaria, che offrirà agli spettatori, dal 21 settembre prossimo fino al 10 maggio 2026, oltre sessanta tra spettacoli e concerti. Reduce dal successo della scorsa stagione, in cui si è  parlato di ben 80 mila biglietti staccati, il teatro Concordia punta sulla muldisciplinarietà, dando vita ad un cartellone capace di emozionare, far riflettere, intrecciare  nomi di rilievo e linguaggi diversi, proponendo storie al femminile, storie letterarie, teatro civile.

Il 25 ottobre salirà sul palco Alessandro Bergonzoni con la pièce” Arrivano i Dunque” ( “Avannotti, sole blu, e la storia della giovane Saracinesca”), su testo dello stesso Bergonzoni , iĺ 21 novembre andrà in scena “Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III”, scritto e diretto da Gabriele Calderón con Francesco Montanari, il 28 novembre “ Una stanza tutta per noi” di e con Carlotta Vagnoli. Diverse saranno le protagoniste, infatti,  di storie al femminile, tra  cui Cristiana Capotondi, che affronterà il bombardamento di Firenze del ’43, Amanda Sandrelli nel ruolo di Caterina ne “La bisbetica domata” di William Shakespeare, Maria Grazia Cucinotta sarà  “ La moglie fantasma”, mentre Annagaia Marchiaro interpreterà il ruolo di ‘Fulminata’ nel monologo scritto con Teresa Mannino.

Dopo due classici della letteratura, Amleto di Filippo Timi, e lo spettacolo liberamente ispirato alla Storia di Elsa Morante, il registro diventa più  leggero con l’esecuzione della commedia “Rumori fuori scena” di Micheal Frayn  e “ Un ponte per due” di e con Antonello Costa.
La satira e la comicità saranno affidati a Enzo Iacchetti, Federico Bassi e Giueppe Giacobazzi. Il Gran Galà di Capodanno vedrà  la partecipazione dei Lucchettino.
Non mancheranno i classici appuntamenti con la danza,  “Lo Schiaccianoci “ della International Classical Ballet of Ukraine e “Il lago dei cigni” con i danzatori del Balletto dell’Opera Nazionale di Stato rumena. Il 18 gennaio l’atteso appuntamento con la pièce “Il mare nel cassetto – la via di Franco Battiato” raccontato dalla brava giornalista di RAI Radio 2 Silvia Boschero con l’accompagnamento sonoro di Giua e Anaïs Drago. Il 6 marzo 2026 reciterà Alessio Boni in ‘Uomini si diventa. Nella mente del femminicida’.
Il programma è realizzato in collaborazione con Piemonte dal Vivo.

Mara Martellotta

Sul palco dell’entroterra Concordia salirà anche il Sunshine Gospel Choir. Vi saranno anche spettacoli rivolti alle famiglie e esempi di teatro civile come la pièce intitolata “Viaggio adAuschwitz”.

Martedì 16 settembre MITO SettembreMusica raddoppia

La giornata di martedì 16 settembre sarà molto intensa per il programma di MITO SettembreMusica con due appuntamenti,  alle 17, al teatro Vittoria,  all’interno del percorso intitolato “Berio e le avanguardie”, e alle ore 20, alle Officine Caos, con un concerto che fa parte della sezione ” Rivoluzioni – Tempi di gierra- tempi di pace”.

Il primo dei due concerti vedrà protagonisti i vincitori del Premio Internazionale Antonio Mormone, al violino  Hawijch Elders, vincitore del Premio Mormone 2025 e al pianoforte Ying Li, vincitrice del Premio Antonio Mormone 2021.
Di Fritz Kreisler verrà eseguito il Recitativo e Scherzo Capriccio op 6, di Luciano Berio la Sequenza VIII per violino, di Fritz Kreisler Liebersfreud, trascrizione per pianoforte di Sergej Rachmaninov, di Luciano Berio la Sequenza IV per pianoforte e di Franz Schubert la Sonata in la maggiore op. 162 D 574 “ Gran Duo”.
Il secondo Concerto, serale, avrà inizio alle 20 alle Officine Caos e prevede l’esecuzione di “Without Blood There Is No Cause”, The Body of Julius Eastman.
Regia e spazio scenico sono di Fabio Cherstich, la drammaturgia musicale di Oscar Pizzo, il video di Vincenzo Sileo.
Al gruppo Vocale Sei Ottavi si aggiunge il Quincy Blue Choir di Ivrea, diretto da Lorenzo Vacca, con Afra Kane al pianoforte,  Caroline Parmantier, Moustapa  Dembélé e Noah Weber al pianoforte.

Musica, video e parole servono per presentare la figura poliedrica di Julius Eastman (1940-1990). La serata è strutturata come un Oratorio laico  e celebra la personalità del musicista, cantante e compositore afroamericano, il cui contributo alla musica d’avanguardia viene esplorato in un programma biografico. Partendo da Turtle Dream di Meredith Monk, prima opera in cui Eastman partecipò come vocalist, viene presentato un collage di composizioni e immagini  che esplorano i temi cari all’autore, la condizione delle minoranze nere e queer nell’America conservatrice, il canto popolare afroamericano come risposta alla musica colta bianca, l’improvvisazione come strumento di liberazione e catarsi.

Mara Martellotta

TST: premiati Leonardo Lidi e Giuliana De Sio

Una settimana ricca di soddisfazioni per il Teatro Stabile di Torino:  venerdì 12 settembre, al Teatro Argentina di Roma durante la cerimonia di consegna dei Premi “LE MASCHERE DEL TEATRO ITALIANO 2025”, Giuliana De Sio è stata premiata come Migliore attrice protagonista per Cose che so essere vere di Andrew Bovell, una produzione dello Stabile di Torino diretta da Valerio Binasco e coprodotta dai teatri stabili di Bolzano e del Veneto.

Durante la serata Filippo Fonsatti, vice Presidente Agis e Direttore del Teatro Stabile di Torino, ha consegnato a Mario Martone il Premio Speciale Italo Gemini per l’80° anniversario dell’Agis.

Leonardo Lidi, regista residente e Direttore della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino, in questi giorni impegnato nelle prove di Amleto per l’inaugurazione della prossima stagione teatrale torinese, ha vinto il Premio Hystrio alla Regia 2025. L’importante riconoscimento gli è stato assegnato dall’autorevole giuria composta dai collaboratori e dai redattori dello storico trimestrale di teatro e spettacolo “Hystrio”. La cerimonia di consegna dei Premi si terrà domenica 21 settembre al Teatro Elfo Puccini di Milano alle 21.00.

Questi due riconoscimenti si aggiungono al Premio Internazionale Flaiano consegnato a giugno a Sarà Bertelà come miglior interprete femminile per Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello diretto da Valerio Binasco e prodotto dal Teatro Stabile di Torino.

Rock Jazz e dintorni a Torino: Daniele Silvestri e Francesco Tristano

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. Al Le Roi Music Hall per il Festival MITO, concerto del pianista Francesco Tristano con sonorità che spaziano dalla classica alla techno. All’Hiroshima Mon Amour suona la CFM Big Band.

Mercoledì. Al Vinile è di scena l’electric duo SergioMoses & Tony DE Gruttola. All’Hiroshima si esibisce Motta. All’Osteria Rabezzana suonano i Korishanti.

Giovedì. Al Conservatorio G. Verdi concerto acustico di Daniele Silvestri.

Venerdì. Al Blah Blah si esibiscono i Vexovoid + Lilith Legacy. Al Circolino suona il Generation Quartet.

Sabato. Al Magazzino sul Po sono di scena gli Ozone Dehumanizer. Allo Spazio 211suonano Irossa +Stasi.

Domenica. Allo Ziggy si esibiscono Zolfo+The Apulian Blues Fondation.

Pier Luigi Fuggetta

A Candiolo la mostra di Daniele Ratti, dalle Gallerie d’Italia di Napoli

Dal 22 ottobre prossimo fino a Natale l’Istituto di Candiolo IRCCS ospiterà la mostra fotografica “Due cuori e una capanna” del fotografo Daniele Ratti, a cura di Benedetta Donato in un nuovo spazio espositivo creato all’interno dell’istituto. La mostra, oggi esposta alle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo di Napoli, fino al 5 ottobre, sarà protagonista a Candiolo grazie alla Fondazione per la Ricerca sul Cancro. “Due cuori e una capanna” sarà l’esposizione ufficiale di ‘Life is Pink’, la campagna di ottobre della Fondazione contro i tumori femminili, e di ‘Life is Blue’, la campagna di novembre contro i tumori maschili, accompagnata da un catalogo dedicato, realizzato dalla casa editrice Allemandi, i cui proventi sosterranno le attività di cura e ricerca sul cancro dell’Istituto di Candiolo. Il volume verrà presentato martedì 28 ottobre prossimo presso la libreria Luxemburg in Galleria Subalpina. Con la mostra, all’istituto di Candiolo verrà inaugurato uno spazio permanente dedicato all’arte; l’allestimento è a cura di EDERA Project di Edelfa Chiara Masciotta, e sarà supportato da Traiano Luce e Antiqua Restauri di Paschetto. Durante l’anno questo ambiente ospiterà mostre, eventi, iniziative culturali, offrendo a pazienti, famigliari e personale sanitario occasioni preziose di bellezza, riflessione e condivisione. Esporre una raccolta fotografica che racconta le dimore e le architetture custodi di grandi storie d’amore, in un luogo di cura e ricerca oncologica, rappresenta un invito a spostare lo sguardo oltre la malattia, a lasciarsi ispirare dalla forza dei legami e a trovare nel linguaggio delle immagini un momento di sollievo e di respiro. “Due cuori e una capanna” di Daniele Ratti raccoglie una selezione di 42 immagini realizzate ed esposte a Napoli, che intrecciano architetture di valore e storie d’amore celebri e quotidiane, dai rifugi iconici come Le Cabanon di Le Corbusier, dono alla moglie nel 1951, fino alla cupola in Sardegna realizzata da Antonioni per Monica Vitti.
La riflessione dell’autore muove dalla storia dell’architettura, sua disciplina di formazione, dove la capanna è simbolo di abitazione primitiva, rifugio primordiale per difendersi dalle avversità della natura e modello che gli architetti hanno tenuto a mente come archetipo della “prima casa”.  Le due matrici, costituite dall’intimità famigliare e dal disegno architettonico, rappresentano il punto di partenza per un viaggio iniziato nel 2020 e conclusosi nel 2024 tra abitazioni straordinarie e per le coppie che le hanno elette a loro dimora, costruendo una memoria che la fotografia di Daniele Ratti ha saputo suggellare e raccontare.

“Cultura e arte sono da sempre alleati con la ricerca sul cancro dell’Istituto di Candiolo – afferma Allegra Agnelli, presidente della Fondazione per la Ricerca sul Cancro – il benessere della persona è per noi centrale, bisogna andare oltre l’assistenza clinica, per questo insieme a Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo abbiamo voluto inaugurare con questa bellissima mostra un nuovo spazio espositivo per i pazienti e le persone a loro vicine”.

Mara Martellotta

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: I morti buoni e quelli cattivi – Il caos – L’ incomunicabilità – Lettere

I morti buoni e quelli cattivi
Il prof. Odifreddi è un personaggio molto considerato da certi ambienti per le sue battute fulminanti che rivelano una vis polemica davvero eccezionale in un matematico e uomo di scienza come egli si considera ed è considerato. Con lui ebbi un animato dibattito sulla laicità e il laicismo in relazione a Giordano Bruno. Le sue posizioni rozzamente anticlericali impedirono di proseguire nel confronto di idee che stava finendo  nel battutismo da osteria. In questi giorni è  tornato alla ribalta, parlando dell’uccisione di Charlie Kirk, attivista del partito di Trump.
Infatti ha di fatto giustificato l’uccisione in base alle idee politiche del morto, dicendo cinicamente che “chi semina vento raccoglie tempesta“. Per Odifreddi forse esistono i morti buoni e quelli cattivi e la violenza contro la destra è cosa diversa di quella contro la sinistra. Ecco un modo illiberale di concepire la lotta  politica, giustificando la morte di chi non la pensa come noi. Voltaire diceva che avrebbe lottato fino alla morte per garantire la libertà di esprimere idee contrastanti con le sue. Odifreddi sembrerebbe giustificare chi uccide in base alla diversità di concezione politica. E’ una versione della violenza propria dei  giacobini francesi  e dei rivoluzionari comunisti russi, riproposta nel 2025 . Meriterebbe un Nobel. Magari per la scienza come venne dato quello per la letteratura a Fo, repubblichino della X Mas  di Salò, diventato fiancheggiatore dei terroristi rossi.
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Il caos

Tutte le riflessioni che abbiamo letto o ascoltato nei mesi scorsi sulla situazione internazionale e sulle due guerre che dividono il mondo, si stanno rivelando miopi e parziali. Anche i politici di tutti i colori rivelano la loro inadeguatezza. Siamo tutti dipendenti dal presidente russo e dal premier israeliano che si rivelano del tutto insensibili ad ogni tentativo di mediazione e ad ogni richiamo al buon senso. Vogliono perseguire i loro fini anche a costo di distruggere in modo irreversibile ogni speranza di pace. Israele si sta rivelando responsabile involontario  di un antisemitismo che ha raggiunto livelli mai visti e che può riarmare la mano al terrorismo internazionale. La parola pace appare una parola sconosciuta al premier israeliano che sopravvive al carcere solo facendo sopravvivere la guerra ad oltranza . Putin minaccia quello che resta dell’Europa, consapevole di trovare una Eu ormai sfilacciata, guidata da gente impreparata e incapace. L’Europa vuole riconoscere uno Stato che non esiste, la Palestina, invece di  tentare di assumere decisioni volte a indurre a più miti consigli Putin

 

Non saranno i soldati polacchi schierati al confine  che potranno intimorire lo Zar. In tutto questo quadro di sfacelo appare l’inettitudine di Trump che tace dopo aver detto idiozie  politiche velleitarie per mesi. Trump in poco tempo è riuscito a ridurre la potenza americana e ogni credibilità politica del presidente. Siamo davvero immersi in una condizione che può portare alla terza guerra mondiale e all’uso dell’atomica. Noi cittadini non possiamo far nulla, a parte i fantasiosi  che si sono imbarcati con Greta e potrebbero creare altre tensioni e altri disastri con la scusa di una finalità umanitaria che maschera il vero intento della propaganda politica . I nostri governi europei sono  al limite. Forse solo Italia e Germania hanno mantenuto un briciolo di coerenza . La Francia dopo il velleitarismo internazionale di Macron ha rivelato una situazione disastrosa in tutti i sensi , per non parlare della Spagna.

Esistono solo politicanti , gli statisti appartengono al passato. Questo è il nostro dramma che può diventare il dramma del mondo. Non illudiamoci: stiamo correndo verso il disastro della guerra. Chi conosce la storia sa cosa accadde nel ‘14 e nel ‘39. Allora la situazione era migliore di quella di oggi. Le diplomazie internazionali non esistono e l’unico linguaggio percepito è quello delle armi.

P.S.
Potrebbe sembrare una grave disattenzione non avere nominato l’Ucraina in questa  pur breve  riflessione. In effetti nel mio ragionamento l’Ucraina mi è apparsa irrilevante: un vaso  di coccio tra vasi di metallo , nessuno dei quali pregiato.

L’Ucraina è stata aggredita, su questo non ci può essere discussione, ma le responsabilità ricadono oltre che sull’aggressore Putin anche sulla NATO  e sull’Europa. E ci sono anche responsabilità evidenti  di Zelensky, rivelatosi del tutto inadeguato. Una parte nella vicenda ha avuto anche il presidente democratico  Biden, responsabile di una instabilità mondiale di cui noi vediamo oggi gli esiti estremi.

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L’ incomunicabilità

C’è sempre stata una certa difficoltà a mantenere un rapporto positivo tra vecchi e giovani, tra generazioni passate e presenti. Restano a testimoniare questa difficoltà gli antichi scrittori greci e latini e tanti altri tra cui Goldoni. Oggi questa difficoltà non è solo sostanziata di gusti diversi, modi di vita anche opposti, spiegabili con il mutare della società. Oggi l‘ incomunicabilità è dovuta anche ad ignoranza: i giovani non sanno la storia del passato, la scuola non li prepara e loro non hanno interesse a sapere. Lasciamo immaginare la confusione che regna nei cervelli di chi pensa di vivere in un eterno presente. Neppure la famiglia supplisce in molti casi ai vuoti. E’ naturale quindi che essi siano preda di chiunque sappia facilmente convincerli a passare dalla loro parte.
In questo caso il dogmatismo ne è la naturale conseguenza perché non c’è la possibilità di confrontare idee e tesi diverse. Benedetto Croce diceva che il problema dei giovani è quello di crescere, ma oggi non basta più. Dopo un po’ di anni nel corso dei quali non ho più avuto occasione di parlare con i giovani come facevo quando insegnavo ,ho provato ad avviare una conversazione e ho notato che la difficoltà a capirsi è aumentata. Chissà quanti sono i lettori giovani che mi leggono? E cosa pensano?
Cerco sempre di non dare per scontato nulla, ma temo che forse il dialogo risulterebbe difficile. Non basta a spiegare il fatto che io sia vecchio. Credo che il fatto di uscire da una certa scuola sia determinante. Mi è capitato tante volte di capire come molti argomenti fossero ignorati dai giovani. La preparazione di un liceo è poco più di quella di una scuola media del passato, mi dicono esperti a cui non è possibile non dar credito. Pensiamo cosa accade per un ex alunno di un istituto professionale… Senza un ponte tra generazioni un Paese non puo’ sopravvivere. Faccio un esempi: l’amor di Patria. Per molti giovani è una parolaccia nazionalista, per i loro nonni significa la guerra , per la mia generazione un qualcosa di vecchio e di impolverato. Eppure è un sentimento di cui parlavano già i Greci e i Romani. Se non riusciamo a colmare il fossato che ci divide, a venire meno è il concetto di popolo. Ma queste sono cose che annoiano i giovani che a volte non provano più neanche i legami del sangue. Un mio amico è stato per mesi ricoverato ed ha rischiato la vita: l’unico nipote non è passato neppure una volta in ospedale. Il giovane ha considerato l’episodio la cosa più normale.
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LETTERE scrivere a quaglieni@gmail.com
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La scuola ha riaperto

Ho letto le cronache dei giornali sull’apertura delle scuole che partono male senza avere gli organici a posto. Ho letto anche alcune dichiarazioni di dirigenti scolastici quanto meno discutibili. Anche sui telefonini vietati c’è stato chi come il d’Azeglio che ha voluto fare di testa sua, ovviamente una testa antifascista.
Cosa ne pensa? Giulia Finetti

 

Innanzi tutto un titolo di un giornale appare davvero incredibile: “ A scuola non si formano soldati “. Rifarsi all’Ottocento appare assurdo ed esprimerlo in un discorso è una ovvietà talmente evidente che stupisce che l’autore di questa pensata stravagante  sia un dirigente ministeriale. A meno che pensi alla guerra futura. Ma c’è un’altra perla: “Fare errori è  necessario per apprendere“. Una vera sciocchezza. Per apprendere non è obbligatorio commettere errori. E’ un giustificazionismo insensato e demagogico perché è da escludere, penso, un riferimento troppo colto  a Popper che vedeva nell’errore un fatto positivo per l’acquisizione della verità. Poi c’è il “d’Azeglio“ che vuole distinguersi  ad ogni costo, non ritirando i cellulari agli studenti, ma facendo appello alla loro responsabilità. Ultimo aspetto  non da poco: aprire l’anno con atti formali di ossequio alla Palestina. Non escluderei che qualche bandiera sia stata issata in classe da qualche professore orfano dell’eterno ‘68 o da qualche allievo/a che ama sfilare ed occupare pro Palestina.

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Cefalonia e Corfù
Ho visto su Rai Storia la trasmissione su Cefalonia e Corfù e l’eccidio dei soldati italiani nel 1943. Curatore era il prof.  Alessandro Barbero che ha introdotto e concluso il documentario. Ho notato che lo storico, turbato in modo evidente anche nel volto e nel linguaggio, ha dato un esempio di come non debba essere lo storico il cui compito non è quello di piangere e indignarsi, ma quello di capire i fatti. Sarebbe comprensibile, ma comunque sbagliato, se Barbero avesse avuto il padre ucciso dai Tedeschi a Cefalonia. Mio nipote che ha assistito con me alla introduzione di Barbero non ha assolutamente capito il tono indignato adoperato. ( …)  A. G. Alberetti ved. Dondo
Ho un po’ tagliato di proposito la Sua lettera perché non voglio avere guai con Barbero. Certo lo storico di Vercelli non è Bloch e neppure Chabod.  E’ un divulgatore televisivo che partecipa emotivamente di quello che dice perché forse il copione lo impone. Lo storico deve invece essere “freddo“ e  distaccato.  Io ho sempre insistito con i miei studenti su questa scelta addirittura preliminare alla  stessa ricerca storica. Ho visto anch’io una parte del documentario che consciamente o inconsciamente smonta la retorica creatasi attorno alla Divisione Acqui e al generale Gandin trucidati dai tedeschi. In effetti Gandin si rivelò tentennante sul  l’arrendersi ai tedeschi o combatterli. Fu un comandante indeciso che addirittura indisse una specie di referendum tra i suoi soldati. Occorre una rilettura critica e non mitizzata di quella storia. E’ vero che furono trucidati o deportati in Germania, ma è difficile sostenere storicamente che a Cefalonia nacque la Resistenza. Chi lo afferma ha un’idea molto approssimativa  dell’idea stessa  di Resistenza.  Rendiamo onore ai soldati caduti, ma essi  caddero trucidati dai tedeschi dopo una battaglia in cui gli Italiani tentarono di tenere testa ai tedeschi. Gli Italiani erano circa 13mila e i tedeschi poco più di 3mila, anche se molto meglio armati . Questo elemento deve far riflettere.  La storia deve prevalere sulle letture partigiane e mitologiche anche a riguardo del dramma di Cefalonia e Corfù, isole cariche di storia italiana per molti secoli, una storia ovviamente  irrisa da Barbero. La Resistenza italiana nacque  già nel 1943 nel Nord Italia con la formazione delle prime bande partigiane comandate da tanti ufficiali dell’Esercito che nel Regno del Sud ebbe nuova vita combattendo nella Guerra di Liberazione. Quello che accadde nelle isole greche va valutato e compreso perché i comandanti rimasero senza ordini. Se Gandin non fu all’altezza, i veri responsabili dello sbandamento  italiano furono Badoglio e Roatta che tra il 25 luglio e l’8 settembre non furono in grado di traghettare l’Italia in modo adeguato. Come ho ricordato recentemente, solo il maresciallo Caviglia sarebbe forse stato in grado di affrontare una situazione gravemente compromessa. Fu già un miracolo mantenere la continuità dello Stato con il trasferimento al Sud che fu precipitoso come una fuga ,ma ebbe delle ragioni motivate che  non consentirono  altre scelte.
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I Comuni e le commemorazioni
Ho letto  che al consiglio comunale di Lodi è stato commemorato Charlie Kirk. Mi sembra incredibile che i consigli comunali perdano tempo per commemorare persone del tutto estranee alla vita e alla storia di Lodi e dei Lodigiani. Arturo Actis Grosso
Non deve stupirsi, stiamo tornando ai tempi in cui i consigli comunali votano mozioni e ordini del giorno pro Palestina e contro Israele, come sul Viet Nam e contro gli USA negli Anni 60. Tutti i consiglieri comunali si sentono deputati come tutti i naviganti di Flotilla si sentano personaggi storici. E‘ il segno dei tempi burrascosi che viviamo. E’ comunque  meglio che i consigli perdano tempo a ricordare e a commemorare piuttosto che ad applaudire  le decisioni del podestà. Poi ci saranno anche le cittadinanze onorarie e tante altre corbellerie. Anzi stanno già arrivando.

Ultimo giorno: CAMERA meets ICP. Un archivio vivente

Una selezione fra 10mila fotografie, realizzate in 10 anni di storie per immagini, raccolte nella “Project Room” di “CAMERA” a Torino

Dal 4 luglio al 14 settembre

Un Oceano di “scatti fotografici”. Impressionante per quantità e contenuti. Per gli organizzatori “un archivio vivente di immagini e storie su Torino e oltre”.

Parliamo della mostra “CAMERA meets (incontra) ICP. Un archivio vivente”, ospitata da venerdì 4 luglio a domenica 14 settembre, all’alba della decima edizione dell’“Intensive Program in Visual Storytelling”, nella “Project Room” di “CAMERA – Centro Italiana per la Fotografia” di via delle Rosine, a Torino. In rassegna, una ricca selezione del materiale fotografico realizzato nelle scorse edizioni del programma di “alta formazione professionale” nato nel 2016 dalla collaborazione di “CAMERA” con l’“International Center of Photography (ICP)” – scuola fondata da Cornell Capa (fratello del leggendario Robert) nel 1974 e sede degli “Infinity Awards” dal 1985 – che ad oggi conta oltre 10mila fotografie realizzate da 221 studenti arrivati a Torino, ogni anno a luglio, da 34 Paesi del mondo.

Curata da Cristina Araimo (responsabile delle attività educative), Barbara Bergaglio (responsabile archivi) e Giangavino Pazzola (curatore e responsabile dei progetti di ricerca), la mostra, che per tutta l’estate farà da forte richiamo a un pubblico sempre più curioso e attento, presenterà un’accurata selezione tra le migliaia di fotografie prodotte fino ad ora, un vero e proprio archivio visivo della città di Torino, protagonista dei progetti fotografici degli studenti e delle studentesse provenienti, oltre che da diverse zone d’Italia, da Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Canada, Ucraina, Filippine e Argentina.

“I partecipanti al programma intensivo – spiegano gli organizzatori – hanno lavorato sulla città osservandola da diverse angolature e attraverso la lente di numerose tematiche, alcune delle quali ricorrenti, come la crisi abitativa connessa alla fragilità sociale, affrontata in diversi progetti tra cui quello dedicato ai servizi di ‘social housing’ e ai ‘bagni pubblici’ di via Agliè; le comunità straniere, come quella somala e cinese, la vita dei giovani di seconda generazione e le esperienze di integrazione nei quartieri di Barriera di Milano, Borgo Dora e Aurora; il tema dell’identità di genere e dei diritti, esplorato in progetti che hanno messo in luce la vita di persone ‘queer’ nell’ambito dell’associazionismo e dello spettacolo dal vivo per arrivare infine al tema centrale delle donne e del lavoro”.

Immagini che raccontano i sostanziali, spesso infelici cambiamenti, realizzati e subiti nell’ultimo decennio dal tessuto urbano e umano cittadino e che, in esposizione vengono presentate, in vario modo: attraverso la “visualizzazione grafica” delle dieci edizioni del programma di formazione rappresentata da “dieci cassetti” di un “archivio ideale”, dove i visitatori, attraverso il materiale informativo, possono approfondire i dati relativi alle provenienze degli studenti, ai temi trattati nei loro progetti, ai risultati e alle forme del processo creativo o (è il caso di una selezione di 300 immagini) “come proiezione” o “formato cartolina” a disposizione del pubblico all’interno di un “archivio reale”.

Infine sono esposti 42 scatti firmati da sette giovani fotografi internazionali – Lucia Buricelli (Italia), Nastassia Kantorowicz Torres (Colombia), Gianluca Lanciai (Italia), Ashima Yadava (USA), Deka Mohamed (Italia), Andrés Altamirano (Ecuador), Iva Sidash (Ucraina) – che hanno frequentato sia il programma intensivo di “CAMERA” a Torino sia il “One Year Certificate Program” a New York. Particolarmente toccante lo scatto (2024) di Iva Sidash che ritrae “Stepan”, soldato ucraino di 28 anni seduto nella sua camera da letto in un centro di riabilitazione a Staten Island (New York), mentre ripensa con occhi stanchi al caro prezzo pagato a una guerra scellerata e disumana di cui porterà a vita le gravi, criminali ingiurie. Suggestiva anche la foto scattata nel 2019 dall’americana Ashima Yadava e inserita nel progetto “Bright Star” realizzata a Torino e che narra la bellezza e l’intensità delle relazioni sentimentali tra persone di diverse età, genere e provenienza; così come la fresca briosa immagine realizzata a Torino, al mercato di Porta Palazzo, nel 2016 da Nastassia Kantorowicz Torres, durante la prima edizione del “CAMERA/ICP Intensive Program in Visual Storytelling”.

In rassegna, anche video e contenuti multimediali dedicati alle proposte educative delle due istituzioni.

Gianni Milani

“CAMERA meets ICP”; “CAMERA”, via delle Rosine 18, Torino; tel. 011/0881150 o www.camera.to

Dal 4 luglio al 14 settembre

Orari: lun. mart. merc. ven. sab. dom. 11/19; giov. 11/21

Nelle foto: Allestimento, part. (Ph. Enrico Turinetto); Iva Sidash “Stepan”; Ashima Yadawa “Bright Star”; Nastassia Katorowicz Torres: “Porta Palazzo”

Elisabetta Osimani e i Pittori di Via Platis: l’arte che unisce generazioni a Chivasso

L’associazione artistica e culturale Pittori di Via Platis, nata nel 1978 grazie a Luigi Rigoletti e Salvatore Pronestì, porta avanti da oltre quarant’anni la passione per la pittura e il disegno, promuovendo ogni forma di espressione artistica.
Tra i membri attivi spicca Elisabetta Osimani, pittrice sensibile e apprezzata, che contribuisce alla vita dell’associazione sia con le sue opere che nella formazione dei nuovi talenti.
L’associazione organizza incontri settimanali presso la sede di Chivasso, aperti a bambini, ragazzi e adulti, offrendo uno spazio creativo dove tutti possono imparare, sperimentare e crescere, seguiti da artisti esperti come Rigoletti e Osimani.
Un luogo dove l’arte diventa condivisione, dialogo e continua scoperta.

Enzo Grassano

La redenzione del colpevole: ma c’è uno spazio per la vittima?

Sugli schermi “Elisa”, un film che fa discutere

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Anche il suo precedente (2021) “Ariaferma” parlava di carceri, un chiuso carcere in via di dismissione dove si intrecciavano rapporti tra carcerati e carcerieri. Leonardo Di Costanzo (collaboratori alla sceneggiatura Bruno Oliviero e Valia Santella) con “Elisa”, presentato a Venezia in concorso, s’immerge in un’aria all’apparenza più salutare e fresca, laddove in nuove architetture, quasi grandi alberghi di montagna, trova l’ambientazione per un istituto sperimentale carcerario, in quel di Moncaldo in Svizzera, con ampi spazi per le detenute, lunghi corridoi invasi dal sole, tra fiabesche casette disseminate sulla montagna, solitari e tranquilli tragitti tra l’attività quotidiana e il riposo notturno, meditativi silenzi e piccoli dialoghi con la compagna di stanza, un’eccellenza universitaria in cui il criminologo Alaoui svolge quasi un corso per addentrarsi nella mente e nel passato delle detenute. Concentrandosi su quelli di Elisa – le basi del racconto stanno nel saggio di Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali “Io volevo ucciderla”: vicenda trasposta sullo schermo ma realissima, il nome dell’omicida essendo Stefania e il luogo dei fatti la Brianza -, appunto, amara, stracolma di inquietudini che inquietano, al decimo anno della sua detenzione, gliene rimangono secondo la sentenza altrettanti, rea di quello che lungo le sedute non si dovrà più definire “il fatto”, ma chiamarlo per quello che realmente è, “un omicidio”. Una condanna per l’uccisione e per aver dato alle fiamme il corpo della sorella maggiore, tra sequestri, sotterfugi, inganni, falsi messaggi. Forse senza un un motivo, forse perché sempre e da sempre sottovalutata, rifiutata, messa all’angolo da una famiglia che anche l’ha caricata di troppe responsabilità.

Un percorso, tra criminologo e colpevole, che parte dalla denuncia da parte di lei di non ricordare nulla di quanto commesso: ma un percorso che procede altresì lentamente tra le ammissioni e i ricordi che affiorano in una serie di flashback, disseminati da Di Costanzo qua e là, con intelligente tessitura, in un continuo prendere coscienza, confrontarsi con il passato, guardare al proprio interno, inventarsi un futuro, aprire il proprio squarcio ancora oscuro. Frasi, sguardi, parole che aprono scenari, mentre la macchina da presa di Luca Bigazzi si chiude in primissimi piani che sono allo stesso tempo un rapporto e una lotta, pronti in contrappasso a spalancarsi nell’ampiezza degli ambienti interni, ed esterni in quelle riprese dall’alto a inquadrare le giravolte della strada che dovrebbe condurre alla struttura di ricovero. Il percorso di Elisa è fatto di apprensioni e di dolore, di alti e bassi, di ricadute e di momenti di nuova speranza – ed è una nuova, eccezionale prova di Barbara Ronchi, che si carica sulle spalle gran parte della storia e del film, in un ritratto che non si potrà dimenticare nei Nastri o nei David di fine stagione, un ritratto fatto di gesti e parole sospesi, di attimi che riempiono lo schermo, di occhi che ri-costruiscono una ferocia e un misfatto, che cercano aiuto, che esprimono appieno sentimenti e cacciano via una cecità per lasciare posto a una tentennante consapevolezza.

Panorami, luoghi di sole e luce, un lavoro in prospettiva, un percorso sempre più angusto di rieducazione: per una affermazione di “umanità”, ricordava Ronchi presentando il film al pubblico torinese nella sala del Nazionale, perché “non si ritorni al medioevo, ad un’idea esclusiva di vendetta”, auspicava il regista davanti allo stesso pubblico. D’accordo. Nel convincimento tuttavia che la giustizia debba chiamarsi giustizia. Ma in una sceneggiatura che alimenta a tratti il sospetto del farraginoso e della poca chiarezza, che soprattutto non le concede più spazio per l’affermazione di un’idea che a chi scrive pare sacrosanta, c’è un cameo di Valeria Golino, madre compostamente dolorosa, che non accusa (più) perché “lasciamo stare qui, non ci sono più parole” ma che racconta al criminologo di quel branco feroce di ragazzini che le ha rubato, con una serie di coltellate, un figlio e che adesso forse sono già liberi – una manciata di minuti, esile esile, che pare dire “è vero, ci siete anche voi vittime”, un guardare dalla parte opposta, dalla parte di chi ha perso e continua a perdere giorno dopo giorno, “perché volevo rappresentare il punto di vista delle vittime, proprio perché lo spettatore non lo trascuri.” Una goccia di nessun conto nel mare magnum (necessario) della redenzione. Nel cinema come nella quotidianità. Fatto non comune, di questi ultimi giorni anche, affidato a un giudice che oggi “assolve” dalla accusa di maltrattamenti un uomo che ha sfigurato la mente e lo spirito e il viso di una donna come le immagini dimostrano ad ognuno, all’uomo della strada come all’uomo di legge: e poco deve importare che un procuratore abbia presentato ricorso in Corto d’Appello. Si continua a rimanere sospesi, all’obbligo del perdono, a non guardare a fondo a un dolore che resta il primo e il più angosciante.

Elio Rabbione