Horace McCoy scrisse nel 1935 Non si uccidono così anche i cavalli?Dopo solo due anni presentò agli studios un personale trattamento del romanzo, che tuttavia gli non venne accettato
Nel 1969 il regista Sidney Pollack girò il film omonimo che avrebbe partecipato al Festival di Cannes fuori concorso e ottenuto l’anno successivo l’Oscar per Gig Young quale migliore attore non protagonista. Il testo è forse il precursore inconsapevole dei reality dei nostri giorni; tuttavia questo spettacolo mostra un’umanità variegata, disperata, grottesca. Uno spettacolo emozionante, con toni drammatici e ironici che sottolinea il sacrificio in cambio del successo. È la storia di una folle maratona di ballo, nella California dei primi anni Trenta, nell’America della Grande Depressione, dove i partecipanti, in cambio di vitto e alloggio, disperati e in cerca di una qualche sicurezza, ballano per giorni e notti senza interruzioni, diventando oggetto di scommesse da parte del pubblico. I concorrenti partecipano nella speranza di vincere un premio in denaro, ma soprattutto di farsi notare dai registi e produttori presenti in sala. Tante coppie, un centinaio all’inizio della vicenda, l’autore a seguire quella di Gloria e Robert innanzitutto, un vero gioco al massacro che porta i concorrenti ai propri limiti fisici e psicologici, con brevi intervalli di riposo, un gruppo di giovani, e non soltanto, che nella lotta portata avanti giorno dopo giorno nella pista denuncia le debolezze, le passioni, i ricatti, le truffe che lo spettacolo porta con sé. Il romanzo ha oggi una personalissima veste nello spettacolo che per solo due repliche (oggi e domani alle ore 21) occupa il palcoscenico del Gioiello per il cartellone della “Grande Prosa”. Adattato da Giancarlo Fares che ha curato anche la regia, Non si uccidono così anche i cavalli? vede ora protagonista della storia Joe, vero e proprio mattatore, organizzatore della maratona di ballo, che può contare sulla notorietà e sulla bravura di Giuseppe Zeno. Accanto a lui Sara Valerio e una dozzina di eccellenti attori/ballerini, personaggi ben delineati dall’autore, tutti fanno parte di quello spettacolo di cui sono vittime e alle volte carnefici, nella narrazione di una vicenda drammatica e umana e nella volontà di condurre il pubblico per mano, facendolo sorridere e divertire, innamorare e sognare. L’idea della messinscena è nata dopo il successo ottenuto con Le Bal – L’Italia balla dal 1940 al 2001 (proposto a ottobre nello stesso Gioiello), nel quale il ballo e la musica si fanno drammaturgia. La musica e le canzoni in stile swing, elettro-swing e jazz manouche, sono state composte appositamente per lo spettacolo da Piji, pluripremiato cantautore romano (con il suo gruppo Piji Electroswing Project), presente da tempo nella scena pop jazz italiana. I musicisti suonano dal vivo interagendo con le voci degli attori in scena. Le coreografie sono di Manuel Micheli, già maestro coreografo di charleston e boogie-woogie all’interno di “Ballando con le stelle”. Un cast numeroso capitanato da un grande attore, coreografie spettacolari, cambi di costume, parole ironiche e leggere contribuiscono a fare di Non si uccidono così anche i cavalli? uno spettacolo coinvolgente, allegro ed emozionante che vuole sensibilizzare il pubblico sull’attualità del sacrificio in cambio del successo e coinvolgere ed emozionare sempre con il sorriso.
Sabato 11 maggio alle ore 10,30, nella Sala Indaco del Salone del Libro (via Nizza 294), Elisabetta Cocito e Antonella Prisco, in dialogo con il curatore Pier Franco Quaglieni, presenteranno il libro Mario Soldati, la gioia di vivere, edizioni Golem.Il Salone con questo evento renderà omaggio al ventennale della scomparsa di Mario Soldati, scrittore, regista cinematografico e televisivo, giornalista, torinese appassionato con frequentazioni internazionali, che ha percorso tutto il Novecento culturale italiano (1906 – 1999), lasciandovi un’impronta indelebile fatta di intelligenza, genialità multiforme, humor e anticonformismo.
Quei racconti nella rete
Sabato 11 maggio alle 18 al Salone del Libro di Torino presso la sala conferenze Superfestival – padiglione 3 – sarà presentato al pubblico il premio letterario Racconti nella Rete e l’antologia edita da Castelvecchi
Il concorso di quest’anno raggiunge il traguardo della diciottesima edizione. Intervengono il presidente del Premio, Demetrio Brandi ed alcuni vincitori delle ultime edizioni. Tra questi Mariangela Casulli, Elisa De Leonardis, Ester Arena, Valeria Pisi, Marta Cerù, Claudia Mereu, Massimiliano Ferraris Di Celle, Ivana Librici, Laura Ferloni, Donatella Mascia, Andrea Mauri, Ugo Mauthe, Antonella Zanca, Michela Rossi. Sarà presente Dino Aloi, direttore responsabile del giornale umoristico Buduàr. Sarà l’occasione per incontrare vecchi e nuovi amici del premio letterario e per fare il punto sull’edizione in corso alla quale si potrà partecipare entro il prossimo 31 maggio nel sitowww.raccontinellarete.it . La prefazione della nuova antologia 2019 sarà realizzata dalla scrittrice Alice Cappagli, ex vincitrice del premio Racconti nella Rete. Sarà presentata in anteprima la nuova immagine del premio realizzata dal fumettista e illustratore Bruno Cannucciari. Per tutti i presenti ci saranno in omaggio i gadget del premio Racconti nella Rete. Demetrio Brandi darà anche alcune informazioni sulla venticinquesima edizione del festival LuccAutori, in programma a Lucca dal 20 settembre al 6 ottobre.
Le favole a colori di Massimiliano Frezzato in mostra a Palazzo Lascaris
La mostra vuol essere una sorta di felice epilogo, attraverso i colorati e suggestivi disegni di Massimiliano Frezzato, del lavoro svolto dall’assemblea regionale del Piemonte, nel corso di una legislatura ormai in dirittura d’arrivo, rispetto ai temi dell’infanzia, legati in particolare ai diritti dei bimbi, ai loro sogni, alle loro paure e alle loro speranze. Temi che non avrebbero potuto trovare voci e immagini più appropriate di quelle proposte da Frezzato attraverso una quarantina di opere che “rileggono”, in modo inusuale e con sensibile acume didattico, le “antiche” storie di Cappuccetto Rosso, di Pinocchio o di Peter Pan, ospitate da mercoledì 8 maggio (inaugurazione dalle 17,30 alle 20, presenti Rita Turino – Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza – i curatori Dino Aloi e Sergio Pignatone con lo scrittore Giovanni Del Ponte) fino a venerdì 31 maggio, nella “Galleria Spagnuolo” di Palazzo Lascaris, sede del Consiglio Regionale del Piemonte, in via Alfieri 15, a Torino. Imprevedibile e irrequieto illustratore, fumettista e pittore di fama internazionale (e di natali torinesi), Frezzato, che in mostra presenta anche alcune tavole tratte dalla sua fiaba “La città delle cose dimenticate”, intende soprattutto far riflettere sulla potenza pedagogica della favola. “Il racconto fiabesco – sottolineano i curatori – ci porta dentro tetre foreste popolate da creature feroci, ma al tempo stesso ci aiuta a sconfiggere le paure e, alla fine, anche la bimba ed il lupo tutt’altro che cattivo possono osservare insieme lo spuntare di un fiore e di una fragola”. Realizzata con il patrocinio del Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza e di quattro Ong impegnate nel settore (Casa Oz, Oaf-l, Ugi e Unicef), la mostra avrà anche un incontro Off rivolto alle famiglie, domenica 12 maggio (ore 17), al “Salone del Libro”, quando nell’”Arena Piemonte”, le favole verranno lette da Marco Berry e Nicoletta Molinero. In concomitanza con la mostra a Palazzo Lascaris, presso le sale della “Little Nemo Art Gallery” (via Ozanam, 7) a Torino, saranno inoltre esposte per la prima volta, dal 10 al 25 maggio, le tavole preparatorie per il secondo volume della saga fantascientifica “I custodi del Maser”, ideata e realizzata dallo stesso Massimiliano Frezzato, come seguito al primo pubblicato nel 1996 e tradotto in diversi Paesi, dalla Francia alla Spagna, al Portogallo, alla Germania, così come in Belgio in Danimarca e negli States.
g.m.
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“C’era una volta…giocando con le favole. Disegni, bambini, diritti”
Galleria Spagnuolo – Palazzo Lascaris, via Alfieri 15, Torino; tel. 011/5757111 o www.cr.piemonte.it
Dall’8 al 31 maggio
Orari: dal lun. al ven. 9/17. Ingresso gratuito
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“E’ la casa dei torinesi e di tutti gli amanti dei libri”
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Il Salone del Libro di Torino è un luogo di scambio, di confronto, di condivisione, di festa. Coinvolge centinaia di migliaia di persone. È un esempio virtuoso per tutto il paese. E Torino è una città profondamente antifascista. La sua comunità ha spalle larghe e saggezza. Non raccoglie le provocazioni di chi vorrebbe solo visibilità. Nel centenario di Primo Levi, la comunità del Salone del Libro si raccoglierà una volta ancora per discutere di democrazia, di Europa, di convivenza, di immigrazione, di letteratura, del restare umani in un mondo difficile. Il Salone è una grande manifestazione popolare dove gente di tutte le età, i ceti, le idee, le provenienze, le nazionalità si dà appuntamento in un luogo che è diventato uno dei simboli della democrazia e della civile convivenza.
Le polemiche che si sono accese per la presenza di una casa editrice i cui animatori, in nome del fascismo, hanno rilasciato dichiarazioni che si commentano da sole, pongono un tema. Lo abbiamo già detto, lo ripetiamo. Pongono questo tema al mondo dell’editoria, della cultura, della politica. È un tema che al Salone verrà affrontato in tanti incontri programmati da tempo. Il problema ovviamente non è la libertà d’espressione, ma cosa si può muovere intorno a certe idee che non sono solo agli antipodi dell’impostazione culturale del Salone di quest’anno (non è mai stato un problema: il Salone accoglie tutte le opinioni) ma la cui messa in pratica turberebbe l’ordine democratico offendendo la Costituzione. Se il Salone è diventato l’occasione per affrontare questo tema, rilanciandolo oltre che al mondo della cultura a quello della politica, allora la cultura sarà davvero servita a qualcosa.
Il Salone è la casa dei torinesi e di tutti gli amanti dei libri, è il punto di ritrovo per appassionati che arrivano qui da ogni angolo d’Italia. È il frutto del lavoro di tante professionalità, vi collaborano per tutto l’anno numerosissime realtà: dalle scuole, alle librerie, alle biblioteche, ai gruppi di lettura, ai comitati di quartiere, oltre che naturalmente il mondo editoriale. Così, come ogni anno, a partire dal 9 maggio i torinesi abiteranno questo bene comune in nome dei valori che fanno della città e del suo Salone un esempio di sana convivenza e accoglieranno i loro tanti amici che vengono da fuori per celebrare insieme, uniti, la festa del libro e il desiderio di un futuro migliore. E il futuro si costruisce in ogni momento.
Questa esperienza deve unirci, non dividerci. Deve farlo in nome di un bene superiore, e deve invitarci a tirare fuori – nei toni, nelle prese di posizione – la nostra parte migliore. Rispettiamo chi per evidenziare i problemi di cui sopra si è allontanato temporaneamente da quella che com’è ovvio è casa sua, e abbracciamo chi ha deciso, com’è più che mai ora necessario, di abitare con convinzione adesso quella stessa casa per farla durare, e darle spazio e vita.
Adesso facciamo parlare il Salone.
Buon Salone del Libro.
Il Salone Internazionale del Libro di Torino
(foto: il Torinese)
La Madonna in nero dello Schiavone è di una bellezza immediata e di una unicità del tutto particolare perché fonde irripetibilmente insieme caratteristiche basso medievali a caratteristiche di altri periodi, vediamo come è possibile e quali sono le caratteristiche nel seguito dell’articolo. In breve, rispondere al come è piuttosto semplice seppur difficile: è possibile grazie alle influenze a cui l’autore si avvicina considerando l’ambiente artistico a cui afferisce; su quali siano i tratti dell’uno o dell’altro periodo invece bisognerà fare attenzione ai dettagli. Conservata ai Musei Reali di Torino la Madonna con Bambino dello Schiavone di cui trattiamo in questa uscita, l’ultima della serie “donne (in nero)” è datata nel periodo 1456-1459. Quella del 1456 è una data significativa per diversi motivi, è nel 1456 infatti che il pittore Giorgio Culinovic detto Schiavone diventa discepolo dello Squarcione ed è allo stesso anno, il 1456 che si fa risalire la data della scomparsa di uno dei grandissimi della Storia dell’Arte, Donatello, artista quest’ultimo del periodo di Leon Battista Alberti, appartenente alla splendida Firenze del XV secolo e di cui si rilevano tratti caratteristici proprio nella Culinovic. Come anticipato nell’edizione precedente di donne (in nero), l’autore Giorgio Culinovic è originario di Zara. Giorgio lo Schiavone è il nome d’arte il nome con cui è conosciuto nell’ambiente e che naturalmente è arrivato fino a noi. A dispetto di come si potrebbe intuitivamente pensare, il soprannome Schiavone non deriva da un accrescitivo della parola “schiavo”, Schiavone piuttosto è in riferimento alla città natale e significa “dalmata”, ossia originario della Dalmazia regione dove il pittore rientrò a partire dal 1463. Sullo Schiavone influì lo stile del maestro padovano, Francesco Squarcione da Padova, che fu maestro anche di Andrea Mantegna. Lo Schiavone è considerato interprete fondamentale della lezione squarcionesca, la sua pittura è inoltre ritenuta mitigata dagli influssi di Piero della Francesca e per altro verso dai ferraresi tra cui Cosmè Tura, insomma lo Schiavone sebbene non sia tra i nomi del grande pubblico è per così dire, un polo magnetico della storia dell’arte. Nel dettaglio la Madonna con Bambino è inserita in un’edicola marmorea e ha una prospettiva appena aggettata come potrebbe suggerire uno stile innovatore eppure ancora in qualche modo legato al Medioevo, non lontano dalle fatiche del Donatello; gli amorini e le ghirlande con cui lo Schiavone decora la tempera sono tipici dello stile antico, cosa che ilCulinovic assorbe dagli incroci nella bottega del padovano. Del tutto originale per il periodo, il piatto di frutta in primissimo piano che costituisce un accenno di natura morta, un’intuizione sul genere con almeno un secolo di anticipo. La Madonna con bambino conservata presso la Galleria Sabauda dei Musei Reali di Torino è vestita di nero e ha una stola aranciata, la veste nera la abbiamo vista in precedenza in queste uscite con la Madonna con Bambino di Ambrosius Benson conservata a Palazzo Madama. Il bambin Gesù tiene tra le mani un uccellino simbolo di purezza, sta seduto sulla tavola ed è cinto con la mano sinistra dalla madre che nel contempo appoggia il dorso dell’altra mano su di un volume. Donne (in nero) a Torino in uscita il martedì sul quotidiano web iltorinese.it arriva oggi alla sua decima e ultima edizione, mentre il presidio di Donne in Nero all’incrocio tra via Garibaldi e via XX Settembre con ogni probabilità continua a essere presente ogni ultimo venerdì di ogni mese dalle ore 18 alle 19 per manifestare contro la guerra e chiedere che la pace non sia dimenticata.
Ellie
https://www.museireali.beniculturali.it/opere/madonna-con-il-bambino-5/
Successo oltre le aspettative per il TJF. Nove giorni di concerti con oltre 25 mila presenze. Il 12 per cento in più rispetto lo scorso anno. Tanti i concerti sold out. Entusiasti i due direttori artistici del festival Giorgio Li Calzi e Diego Borotti. La data della prossima edizione è già stata comunicata. Si svolgerà dal 26 aprile al 3 maggio 2020. Li Calzi ha commentato: “il TJF ha visto una straordinaria partecipazione di pubblico, per ascoltare concerti assolutamente inediti, spesso di confine tra i vari generi musicali. Il commento di Borotti: ”quando musicisti, pubblico, produttori , giornalisti, si uniscono intorno ad un evento, il successo è assicurato.” Tutto è andato per il verso giusto dicono gli organizzatori. Grandi star nazionali e internazionali (Joshua Redman, Enrico Rava, Kyle Eastwood, Randy Brecker e tanti altri. Grande il coinvolgimento dei Jazz Club e la sezione “open air”, con il ritorno del jazz nelle strade, nelle piazze e nei mercati.
Pier Luigi Fuggetta
Una evidente contraddizione interna al Salone, se pensiamo che la Casa editrice del libro inquisito ha ottenuto, pagando, uno stand. Mi sorgono spontanei due quesiti che non ritengo secondari :
1) a che titolo il professore liceale ed assessore alla cultura del III municipio della Capitale Raimo è stato reclutato come consulente e quanti sono i consulenti del direttore Lagioia? Sarebbe interessante saperlo anche perché i consulenti, sicuramente ,non lavorano gratis. Per una piccola consulenza il portaborse di Appendino, ad esempio, ottenne 5000 euro, poi restituiti.
2) perché Raimo è ricorso ad un post pubblico senza neppure considerare il suo ruolo nel Salone che non gli avrebbe consentito opinioni personali così nette ed assolute espresse via social proprio in merito al Salone di cui è consulente ?Se si guardano i giornali su cui ha scritto e scrive, la risposta è facile.
Il Salone deve essere un grande contenitore di idee e l’unico arbitro per esprimere giudizi sono i visitatori e più in generale i lettori. Quelli che si fermano o non si fermano davanti ad uno stand, ascoltano o non ascoltano la presentazione di un libro, dopo aver pagato un biglietto di ingresso che dà loro il diritto di scegliere. Ha ragione il presidente del Circolo dei lettori, il notaio Giulio Biino, quando dice che gli spazi debbono essere aperti e non chiusi in modo aprioristico e che il reato di apologia del fascismo è cosa che va accertata solo dalla Magistratura e non da altri. Certo, molte prese di posizione di Salvini sono irritanti, provocatorie e presuntuose. In una parola infastidiscono. Casa Pound, da sempre, appare come un drappello di scalmanati che urlano, salutano romanamente ed a volte ricorrono alla violenza che va sempre condannata con assoluta fermezza. Mentre Salvini prende voti, Casa Pound alle elezioni si ferma al livello dei prefissi telefonici. E’ un dato su cui riflettere.
Negli Anni Settanta sciolsero “Ordine nuovo” in base alla legge Scelba, che vieta la ricostituzione del partito fascista. Un gruppo di antifascisti come Raimo oggi non solo vuole togliere visibilità all’estremismo di destra, ma vorrebbe anche mettere al bando Casa Pound, chiudendone le sedi, considerate dei veri e propri “covi”.
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Proprio su questo tema io ho rotto un anno fa l’amicizia con un noto giornalista che stimavo molto ed a cui non perdono il manicheismo semplicistico e intollerante dimostrato in televisione. Dire che non si vuole parlare con la Mussolini perché nipote del duce è una sciocchezza e una manifestazione di faziosità difficilmente giustificabile. In democrazia solo i magistrati possono accertare i reati e i “ reati “ politici, in un regime liberale ,non debbono esistere: è lo stesso articolo 21 della Costituzione a dirlo ,quella Costituzione nata proprio dall’antifascismo e dalla Resistenza che rifiuta i regimi autoritari e totalitari, senza far mai far cenno all’antifascismo. Sciogliendo “ Ordine nuovo” ,forse, si diede un contributo involontario al rafforzamento dell’ estremismo di destra che poi degenerò drammaticamente nel terrorismo nero dal quale-va detto- Almirante seppe prendere tempestivamente le distanze. Anche questa è una riflessione che deriva dalla storia passata da cui trarre un insegnamento valido anche oggi. Bisogna soprattutto rendersi conto, una volta per tutte che la democrazia liberale garantisce a tutti la possibilità di .esprimere le proprie opinioni . La tolleranza volterriana va esercitata anche verso le idee intollerabili perché diversamente non è vera tolleranza. E’ proprio dalla intollerabilità delle idee che si misura il grado della propria tolleranza. Tollerare idee diverse dalle proprie, ma in linea di massima di per sé condivisibili, è troppo facile. A giudicare tra idee e azioni conseguenti generate dalle idee deve essere la Magistratura e nessun dirigente del Salone del Libro può sostituirsi ad essa. Altrimenti c’è puzza di regime.
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Come diceva Ennio Flaiano ,i fascisti si dividono in due categorie : i fascisti e gli antifascisti . Può sembrare un’affermazione azzardata ,quasi una boutade,ma quando si leggono i post del dimissionario Raimo ci si deve convincere che non si tratta di un paradosso. Certe intransigenze ideologiche sono necessariamente intolleranti. La polemica che si è creata attorno al libro di Salvini e alla sua casa editrice ha, in ogni caso, fatto conoscere l’esistenza del libro e del suo editore sconosciuto ai più. Un ottimo risultato pubblicitario realizzato su misura da Raimo e dallo stesso Lagioia che tira in causa anche Primo Levi nell’anno del centenario della nascita. Levi, per come l’ho conosciuto io,era un uomo nettamente di sinistra ed aveva un carattere difficilissimo,direi irascibile ,ma non era settario. Non lo vedrei in veste di “guardiano del faro” se non attraverso i suoi libri che sono ben altra cosa rispetto ai post di Facebook. I libri di Levi sono un vero antidoto rispetto ai fascismi, le scomuniche di Raimo e Lagioia sono ben poca ed effimera cosa. Levi raggiunse l’arte attraverso la testimonianza straziante dello sterminio, questi signori recitano le solite giaculatorie secondo manuale. Nel 1972 Levi giunse a non partecipare ad un dibattito del Centro” Pannunzio” perché <<non era abbastanza di sinistra>>, sollevando la critica sarcastica di uno dei relatori ,l’antifascista a 24 carati Valdo Fusi che arrivò a dire che sperava in futuro di non doversi trovare a fare ginnastica in un nuovo ventennio di segno opposto o in un campo di rieducazione. Levi si limitò a telefonarmi privatamente, dicendomi che non si sentiva di partecipare ad un incontro in cui c’era il socialista Bruno Segre e il cattolico Valdo Fusi. Forse non gli piacque la presenza di Terenzio Magliano che, peraltro ,era stato rinchiuso nel campo di Mauthausen. I socialdemocratici non gli piacevano e declinò molto civilmente l’invito, senza clamori e senza scomuniche. Se Torino è città medaglia d’oro della Resistenza ,ciò deve significare una cosa soltanto : che la libertà è il valore supremo e che i neo o i vetero fascisti vanno combattuti “a viso aperto” con l’arma delle idee e della cultura, non con quella dei divieti. Vietare, negare visibilità come vorrebbe il prof. Rimo è un atto di intolleranza. E quando si inizia con l’intolleranza non si sa dove si finisce.
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C’è un legittimo rifiuto del fascismo di natura etica e di natura estetica, prima ancora che di natura culturale e politica, in cui personalmente mi identifico, ma questa repulsione non deve indurre, almeno in chi ama la libertà, all’errore di bastonare l’avversario. Bastonare e dare l’olio di ricino era una prassi squisitamente fascista. Gli antifascisti non possono usare il bastone neppure metaforicamente. La democrazia liberale è incompatibile con gli intolleranti di qualsiasi colore politico o religioso. E’ un po’ come chi vuole combattere l’intolleranza del fanatismo islamico, ricorrendo all’odio religioso e non alla cultura laica del dialogo che deriva dalla migliore storia europea, quella che scrisse con il sangue delle guerre di religione la parola tolleranza. Neppure più a Cuneo ,dopo decine di anni, si usa più la frase drammatica << Cuneo brucia ancora>>. Nessuno oggi impedirebbe comizi, come accadde per tanti anni al MSI che presentava liste, raccoglieva voti, ma non poteva organizzare un comizio. L’antifascismo liberale, che non è assolutamente meno antifascista, consente a tutti di parlare, riservandosi la replica argomentata e, se necessario, severa, anche alle idee più sconce. Sulla base dei ragionamenti pacati, non urlati, ben ponderati, che colpiscono più di una pietra le tesi che si vogliono confutare. E’ l’antifascismo che in Piemonte si richiama ad Einaudi, Soleri, Burzio, Brosio, Martini Mauri, Villabruna e Frassati. Un’eredità di idee e di comportamenti che oggi appare totalmente scomparsa.
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Ps. La rinuncia pretestuosa a partecipare al Salone di Carlo Ginzburg perché è stato dato uno spazio alla casa editrice di Salvini e le posizioni faziose di Michela Murgia in merito al Salone non fanno che confermare il mio discorso sull’intolleranza. Per altro, mi sento in buona compagnia perché l’amico Pier Luigi Battista oggi sul “Corriere della Sera” esprime gli stessi concetti che ho manifestato io. Ancora una volta, senza sentirci ,abbiamo reagito allo stesso modo: il metodo della scomunica e della censura e’ sempre inaccettabile e mettere all’indice libri ed editori e’ una forma di barbarie .Bisogna dominare l’intollerante che è in noi ,scrive Pierluigi Battista. Se il Salone revocasse lo spazio alla casa editrice di Salvini vicina a Casa Pound sarebbe un fatto molto grave che offuscherebbe l’immagine stessa del Salone come luogo non privilegiato e libero che in oltre trent’anni il Salone si è meritato .Sarebbe interessante conoscere l’opinione del suo fondatore Angelo Pezzana che ,amico di Marco Pannella, difficilmente può condividere un’impostazione illiberale che cozza con i principi basilari di una libera cultura.
scrivere a quaglieni@gmail.com
L'isola del libro
Rubrica settimanale sulle novità in libreria
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Claudia Durastanti “La straniera” -La nave di Teseo- euro 18,00
E’ una sorta di romanzo-memoir l’ultimo libro della giovane scrittrice Claudia Durastanti, nata a Brooklyn nel 1984, scrittrice e traduttrice, che ha esordito nel 2010 con il romanzo “Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra”. Da allora la sua carriera nella patrie lettere è stata in continua ascesa. “La straniera” è la sua 4° opera, in gran parte autobiografica, perché anche lei come la protagonista è figlia di genitori non udenti, emigrata da Brooklyn in un paesino lucano. Figlia, nipote e pronipote di migranti, la Durastanti, narra un po’ la storia del suo albero genealogico in cui soprattutto le antenate italo-americane confluiscono nella figura della straniera. Una famiglia sui generis con forti dosi di fascino perché ingloba concetti come espatrio, viaggio, migrazione, ma anche vita ai margini, stranezze e comportamenti borderline. Diversità fisica e senso di estraneità attraversano le vite dei suoi genitori, entrambi sordi, che hanno imbastito un matrimonio tra il passionale e il rancoroso, finito con il divorzio nel 1990. Da allora non si parlano quasi più, ma entrambi raccontano il loro primo incontro sostenendo di aver salvato la vita all’altro. Chi dei due la racconti giusta è un rebus. Però parte proprio di lì l’indagine della scrittrice, che rimanda spesso al film di Jane Campion “Lezioni di piano”, pellicola che l’aveva particolarmente affascinata. Anche lei e la madre si erano trasferite in una nuova comunità, non proprio le spettacolari spiagge della Nuova Zelanda, ma un paesino sperduto della Basilicata. La protagonista del film era un’enigmatica e affascinante pianista muta, mentre la madre della Durastanti parlava fin troppo, non amava usare la lingua dei segni ed esprimeva il suo talento nella pittura. Una donna coraggiosa che a 34 anni, dopo la separazione, decide di lasciare l’America e Brooklyn, e con i due figli ancora piccoli percorre una rotta emigratoria al contrario. Figura complessa e irrequieta che difficilmente si integra nell’ideale femminile imperante nel meridione. Personaggio da scoprire a poco a poco attraverso la narrazione della figlia che ripercorre così anche la sua atipica educazione sentimentale poliglotta; tra ostacoli e perenne ruolo di straniera che però l’hanno resa più forte e addestrata a saper mettere radici ovunque nel mondo.
Gioconda Belli “Le febbri della memoria” -Feltrinelli- euro 18,00
Poetessa, scrittrice e giornalista, nata a Managua nel 1948, Gioconda Belli ha esordito nel 1988 con il best seller “La donna abitata” e da allora ha raccontato storie di stampo femminista. Ora per la prima volta si mette nei panni di un uomo, di più…in quelli di un suo misterioso antenato di cui ricostruisce l’avventurosa vita nell’800. Tutto ha inizio con la scoperta fortuita di un corposo manoscritto di 480 fogli di carta da pacchi, nascosto in un’antica scatola di latta, rinvenuta durante i lavori di demolizione della casa di sua nonna Graciela a Matagalpa. In quelle pagine c’è la storia del suo avo: il Duca francese Charles Choiseul de Praslin, Pari di Francia, accusato di aver ucciso la moglie e rocambolescamente scappato dalla Parigi post rivoluzionaria del 1847. Ha fatto credere a tutti di essersi ucciso ed ha lasciato per sempre dietro di sé 9 figli e un’ingente patrimonio. Nella sua precipitosa fuga sull’isola di Wight, accompagnato da un fedele servitore, trova rifugio per un po’, sotto mentite spoglie. Riparte da zero, cambia nome, diventa Georges Desmoulins e si reinventa un passato, apprende i rudimenti della medicina e stringe amicizia con il poeta Alfred Tennyson. Questo però è solo il suo primo temporaneo scalo. Lidi ben più lontani lo attendono e forse è questa la parte più affascinante della storia. Si imbarcherà per New York dove va alla ricerca di Henriette, l’istitutrice dei suoi figli con cui aveva imbastito una storia di adulterio che l’aveva danneggiato non poco. La scova, l’affronta e chiarisce una volta per tutte la dinamica dell’omicidio della moglie. Chiude un capitolo doloroso della sua vita e poi guarda altrove. Fra gli incontri che farà il più interessante e strategico è quello con un personaggio del calibro del Commodoro Cornelius Vanderbilt, magnate energico e geniale che trasformava in oro tutto ciò che sfiorava. (Curiosità. A Newport in America si può visitare “The Breakers”, l’imponente dimora estiva costruita dai Vanderbilt, in stile rinascimentale italiano. Sfarzo e ricchezza dell’età d’oro di fine 800 che lascia senza fiato). Ed ecco che Charles afferra al volo una seconda chance nel selvaggio Nicaragua, dove il governo dava concessioni sulle terre ai nuovi arrivati europei che guardavano al Nuovo Mondo come speranza di futuro. Nella zona di Matagalpa nascono così le nuove colonie e il protagonista trova finalmente il suo definitivo approdo, iniziando una nuova vita che vi appassionerete a scoprire. E’ da lì che arriva una delle nonne della scrittrice che ci ha regalato 300 pagine indimenticabili, tra rocambolesca saga familiare e romanzo storico.
Rachel Cusk “Transiti” -Einaudi- euro 17,00
Questo è il secondo libro (dopo “Resoconto”) della trilogia della scrittrice Rachel Cusk , nata in Canada nel 1967, ma inglese di adozione, che vive tra Londra e la contea di Norfolk. Dopo gli studi a Oxford ha esordito a soli 26 anni con “Saving Agnes” con cui ha vinto il Whitbread Awards, poi tra i suoi romanzi tradotti in italiano “Arlington Park” e “Le variazioni Bradshaw”. In “Transiti”, secondo tassello della sua trilogia, mette a punto la narrazione “aperta” in cui più personaggi che “transitano” nella vita della protagonista si raccontano mettendo a nudo le loro vite. Il filo che lega il tutto è la voce narrante di una scrittrice separata da poco, che compra una disastrata casa londinese e la ristruttura. L’appartamento è la porzione di un’antica dimora vittoriana divisa in due, e lei si trova a dover fare i conti con gli altri inquilini. Una coppia di anziani coniugi incattiviti nei confronti del mondo, che la odiano, la insultano, lasciano cadere a pezzi la casa e il giardino ..e soprattutto non sopportano il minimo rumore. Il racconto inizia con i lavori di insonorizzazione dei pavimenti…ed è l’inizio di un collage di personaggi vari e diversissimi tra loro che magari compaiono una volta sola. Ecco allora un mosaico fatto di tanti frammenti, una sequenza di dialoghi tendenti al monologo in cui le persone incontrate dalla protagonista raccontano le loro vite e stigmate. Dalla storia del muratore polacco avvolto dalla nostalgia per il suo paese a quella del cugino Lawrence che ha lasciato la moglie per un’altra. Spesso dietro alle traiettorie di vita si annidano traumi infantili, rotture in famiglia e tanti altri spaccati di vita che la Cusk racconta in modo magnifico.
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Valerio Binasco continua a incrociare sulla sua strada di uomo di teatro Amleto, poco più di vent’anni fa ne fu l’interprete – e si guadagnò un premio Ubu – con la regia di Carlo Cecchi, oggi ne agguanta le redini in veste di regista per riempire dei tormenti e dei sussulti e delle ansie del “dolce principe” l’ampio palcoscenico (troppo ampio?) delle Fonderie Limone. Ma in lui – nelle tre ore di spettacolo più intervallo, e allora ti accorgi che il lavoro di riduzione affidato alla consulenza drammaturgica di Fausto Paravidino avrebbe dovuto possibilmente utilizzare ben altre forbici – pare esserci un tanto di ritrosia, di tentennamenti (immedesimazione teatrale?), di insicurezze, già lasciano perplessi quelle note di regia riportate nel programma di sala, buttate giù sulla carta nell’estate di un anno fa (“scritte imprudentemente”, è l’esplicita confessione), che ancora non potevano lasciar spazio allo “spettacolo” ma che spingono soltanto il (futuro) regista a parlare “di me”, a gridare allo spettatore “una straordinaria paura di mezza età”.
Perché confrontarsi con Amleto pare non sia per nulla facile, districare tutti i rivoli in cui si dipana la trama di un’opera “diseguale”, zoppa nell’essere un capolavoro nei suoi primi tre atti e “alcune buffe rozzezze quando la trama deve dispiegarsi”, fare di quella figura di giovinezza e di regalità il perno efficace attorno al quale stringere i sentimenti e gli sguardi e le azioni di amici e nemici, svelarne appieno i paradossi e soprattutto quello che Binasco definisce “il disprezzo per la propria inconsistenza”. Tutt’al più allargare i confini fisici e considerare con più comodità questa tragedia come “un dramma familiare”, ma di quelli facili facili, con tanto di morto ammazzato, di corna, di vedovella che se la gode e di amante che s’è sistemato a vita, di rampollo che vuole rimettere un po’ di ordine nel trantran di famiglia. Parrebbe troppo facile. E poi Amleto si muove e riempie il palcoscenico, medita e sbraita contro questo o quello, odia la madre e lo zio usurpatore, getta accuse e blandisce, si rintana nella ricerca continua di una sua propria quanto precisa identità, tira di spada e duella, manda in convento la ragazzina e non sai bene se e quanto ne fosse davvero innamorato: ma poi tutto quanto sarà “silenzio”. Ecco, quel silenzio è lì come il vero pericolo della serata, al di là e oltre gli applausi destinati alla compagnia e al lavoro di tutti, tecnici compresi, ben allineati in proscenio (con il sospetto di applausi di cortesia o di amicizia alla prima), un silenzio che vada a coprire il lavoro di mesi e gli sforzi e i risultati che qua e là si vedono ma che non riescono a convincermi appieno. In altre parole, in quei 180’ Binasco riesce ben raramente, in una eccessiva parsimonia scenografica che finisce con l’essere vicinissima al vuoto più disturbante, con quelle alte pareti grigie del teatro a sostituirsi ad una reinvenzione accettabile di Elsinore, a dare forma ad un guizzo, una trovata, un eccesso teatrale che ti sottragga ad un percorso troppo lineare. Ed alla fine sempre troppo eguale a se stesso. Certo la frammentazione della seconda parte non aiuta, anche Shakespeare come Omero di tanto in tanto s’è addormentato. Quando, come nella scena dei becchini, ti dà la staffilata inondando dall’alto di terriccio le tombe, è questione di un attimo, anche quell’atto s’interrompe e si chiude immediatamente su un chiacchiericcio senza convinzione che spegne l’idea. Molto allora si risolve nell’ascolto della traduzione di Cesare Garboli, molto traspare dai giochi di luce dovuti a Nicolas Bovey che attraversano gli spazi bui, di già visto spesso e altrove sanno al contrario i costumi di Michela Pagano, divise, pastrani tipo reduci dalle fredde distese russe, giacche e pantaloni di sapore impiegatizio.
A chi assistesse oggi per la prima volta all’Amleto, risulterebbe assai strana e difficile da decifrare quell’aria di leggenda che sta attorno al testo e a certe passate edizioni, rifiuterebbe anche la performance di Laurence Olivier come già faceva il giovane Holden di Salinger. Cinematograficamente, si direbbe che (anche) molti degli attori non bucano lo schermo, fanno il loro dovere, qualcuno con accanimento, ma senza arrivare giù in platea. Gabriele Portoghese che ha il ruolo del titolo, grande responsabilità, ha attorno a sé troppo “disordine” per poter dire una parola nuova sul personaggio, il Claudio di Michele Di Mauro gioca sull’ambiguità e sul tronfio guadagnandosi attenzione, il Rosencrantz e il Guildenstern di Michele Schiano di Cola e Vittorio Camarota sono arrivati chissà perché da Napoli, la regina di Mariangela Granelli butta fuori rabbia e fantasmi perdendosi in rabbiose volute di fumo, la Ofelia di Giulia Mazzarino trova qualche sincerità d’accenti soltanto nel finale con la follia di suicida. Chi si ritaglia appieno uno spazio davvero convincente è il Polonio di Nicola Pannelli, untuoso quanto basta, perfetto impiegato di corte, pieno di timori ma gran simpaticone: guardiamo lui mentre dovremmo per tutta la serata cercare di affezionarci a quel “triste individuo svitato”. Ma non ci riusciamo.
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Laila Pozzo