SOMMARIO: Elkann e la fine della Fiat – La Francia di Macron vicina al tracollo – Lettere







Quale potrebbe essere il trait d’union fra due tradizioni apparentemente così lontane come il Tango Argentino e la Via del Sale che unisce Torre Pellice a Sanremo?
Apparentemente poco o niente. Eppure, scavando fra le pieghe di alcuni fatti umani, si possono scorgere strette connessioni; il tango è una danza creata nei più poveri barrios di Buenos Aires tra immigrati europei arrivati nel Nuovo Mondo alla ricerca di riscatto e di un futuro unicamente da scavare con le proprie mani. Sono uniti da solitudine affettiva, una cultura diversa ed emarginante, il relativo prezzo di emarginazione sociale che ogni immigrato deve sempre pagare e da profonde nostalgie per una terra natìa che probabilmente non rivedranno mai più.
Nei barrios malfamati, evitati dalla borghesia ispanica, giovani uomini e donne del vecchio continente ‘malati di vita’ iniziano ad incontrarsi al suono di pochi strumenti, su palchetti improvvisati, unendo i loro corpi al suono di ritmi spontanei, desiderio di trasgressione, un erotismo non più da nascondere come nei Paesi d’origine (la leggenda del tango argentino nasce a fine XIX secolo), ma da valorizzare al ritmo di un’unione precisa nei movimenti, creata per atletiche fisicità. Come non poche volte nel cammino umano, l’esigenza, l’abitudine, la continua sperimentazione si solidificherà in Cultura, in un discorso complesso, un valore sempre più globale e simbolicamente più tardi riassunto dal famosissimo Tango de Gardel di Piazzolla.
Le vie del sale, rotte commerciali la cui origine si perde nella notte dei tempi, erano antichi percorsi e rotte di navigazione. Non esisteva un’unica via del sale: vari popoli utilizzavano diverse reti di collegamenti per portare varie merci, in cambio di un elemento indispensabile per la conservazione degli alimenti nel lungo periodo. Ogni produzione alimentare aveva estremo bisogno di elevate quantità di sale marino, ma anche attività artigianali come la concia delle pelli e la tintura ne richiedevano l’uso.
Per quanto riguarda la nostra piccola parte di mondo, incastonata fra il mediterraneo occidentale e le alpi, l’antica comunicazione fra la pianura padana, la Liguria, i territori francesi di Provenza, Savoia, Svizzera, permetteva il commercio di questo materiale prezioso, di difficile reperibilità per regioni lontane dal mare.
Fu il Sacro Romano Impero a costituire feudi con lo scopo di mantenere un passaggio sicuro verso il mare; assegnò questi territori a famiglie fedeli che per secoli controllarono le vallate, garantendone la sicurezza dei convogli. Il trasporto su terreni accidentati veniva effettuato a dorso di mulo. Le pianure, dove possibile, trasportavano invece il sale per via fluviale mediante grandi chiatte.
Da lontanissime origini e storie si arriva perciò all’oggi. L’umile saliera presente in ogni cucina, rappresenta l’ultimo anello di una catena lunghissima che ha permesso alle genti di vivere, viaggiare, far prosperare economie.
Quindi abbiamo forse trovato il l’emblematico trait d’union fra questi lontani argomenti. La carovana del Tango Argentino e la Via del Sale, che da Torre Pellice arriva a Sanremo racconta – su differenti scale – l’incessabile cammino dell’uomo, il suo nomadico spostarsi per placare bisogni e sete di conoscenza. Dietro ogni nuovo insediamento si creano codici che, inizialmente partiti da esigenze di sopravvivenza, si sedimentano in culture, mix di informazioni che si spostano, contaminandosi vicendevolmente in millenari rivoli che saranno a loro volta nuovamente rielaborati in un cammino polisemico senza fine.
A breve questo racconterà la bellissima Capitale dei Valdesi, con una serie di avvenimenti a partire da domenica 8 fino al 15 dicembre, grazie alle idee e la direzione artistica di una sempre effervescente e coltissima Monica Nucera Mantelli.
Ferruccio Capra Quarelli
Domenica 8 dicembre
Domenica 8 dicembre, alle ore 11.30 e 15, alla Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso sono in programma due visite narrate dal titolo “Natività” con intermezzi scenici sul tema del presepe, a cura dei servizi educativi della Precettoria di Ranverso in collaborazione con Il Filo della Memoria e l’associazione Il Colibri aps.
Nello stesso giorno, il Comune di Buttigliera Alta inaugura la pista ciclo-pedonale in strada Antica di Francia organizzando alle ore 10.30 la camminata/corsa dei Babbi Natale da piazza Tienanmen alla Precettoria di Ranverso dove sono allestiti i mercatini di Natale, a cura della Pro-Loco di Buttigliera Alta.
INFO
Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso
Località Sant’Antonio di Ranverso, Buttigliera Alta (TO)
Domenica 8 dicembre, ore 11.30 e 15
Natività!
Costo della visita narrata: 5 euro + biglietto di ingresso
Biglietti: intero 5 euro, ridotto 4 euro
Hanno diritto alla riduzione: minori di 18 anni, over 65, gruppi min. 15 persone
Fino a 6 anni e possessori di Abbonamento Musei: biglietto ingresso gratuito
È obbligatoria la prenotazione entro il giorno precedente.
Info e prenotazioni:
011 6200603 ranverso@biglietteria.ordinemauriziano.it
“La locandiera”, con Sonia Bergamasco, al Carignano sino al 15 dicembre
Un fondale di legno riempito di intarsi irregolari, di differente grandezza e interrotti. Sulla scena (firmata da Annelisa Zaccheria) un tavolo che diremmo vecchio da un lato con quattro sedie che andrebbero bene a un bar sulla spiaggia dei bagni, in riva al mare, di plastica verde, dall’altro una cucina moderna, un lavello, una gran pentola rossa, un angolo dove all’occorrenza mangiar mele e sbucciare patate. Al tavolo, siedono il marchese di Forlimpopoli (Giovanni Franzoni) e il conte d’Albafiorita (Francesco Manetti), modernamente vestiti (i costumi sono firmati da Graziella Pepe), quello con un maglione dopo una sciata sulle nevi del Sestriere, questo in pantaloni da tuta e cappellino con ampia visiera, entrambi a sbandierare la passione e l’innamoramento per la padroncina della locanda ma mai a chiederla in sposa. Arriverà pure poco dopo il cavaliere di Ripafratta, il cavaliere “selvatico”, refrattario a tutto quel genere delle donne che sono “una infermità insopportabile”, paletot marrone tipo il vecchio Brando nel “Tango” di Bertolucci e infradito ai piedi – volontaria controcorrente sbadataggine menefreghismo che si mescola alla comodità ad ogni ora? non lo sapremo (capiremo) mai, passerà così più di due ore per poi passare a un vestito più – diremmo? – consono -, a urlare tutta la sua misogenia e il proprio odio per quella Mirandolina che se lo gira tra le mani e circola in minuscole camiciole a mostrar le gambe e attimo dopo attimo lo fa innamorare, fuori da ogni ragionamento e idea da sempre coltivata. Questa – anche – “La locandiera goldoniana”, scritta più o meno 270 anni fa, giunta al Carignano per la stagione dello Stabile torinese al suo secondo anno di repliche (qui sino a domenica 15 dicembre), reinventata da Antonio Latella, studiata e analizzata ad ogni ansa, guardata in profondità, con gli interventi di Linda Dalisi in veste di dramaturg: diciamo immediatamente approcciata da chi scrive con un certo malgusto, guastato com’è da uno spericolato Cechov che ha davvero lasciato la rabbia e il segno. Qui non si fa l’occhiolino a idee vuote o a mode del momento, giochetti gratuiti che guardano poco lontano da sé, per cui c’è da ricredersi, subito subito, qui senti tutta la spinta degli stimoli offerti allo spettatore, il fermento delle suggestioni, anche le cose che non ti convincono appieno hanno un proprio intimissimo perché, ti convince quel testo non toccato nemmeno di una virgola e immesso senza forzature in quell’ambiente descritto, un testo cucinato su quella stufa senza gli stereotipi che tante volte abbiamo visto in questi decenni di vita teatrale, un testo che riempie i personaggi di umanità e di carnalità.
Una delle più belle commedie della drammaturgia italiana, non guastata, dove nulla è scontato. Che se abbandona in modo definitivo i tanti sguardi buttati prima – credo che non sia arrivata di brutto sulla scena italiana ma che alle sue spalle ci stiano a buon diritto Strehler e Missiroli e Castri e Cobelli -, dice ancora qualcosa di nuovo. Per esempio un Ripafratta che nella completezza e complessità del suo struggersi acquista quasi il ruolo di protagonista, figura “rustega” per eccellenza (un ottimo Ludovico Fededegni), la presenza incombente ed esatta del cameriere Fabrizio, punto finale di quella eredità che Mirandolina aveva ricevuto con la locanda dal padre in punto di morte, lui come gli altri personaggi condotto a seguire quei percorsi di precisa geometria che attraversa quel “luogo-mondo che accoglie infiniti mondi”, scrive Latella nelle note di regia. Anche con una ben scoperta proprietà di gesti delle sopraggiunte nobildonne o ancor meglio comiche, viste in contrapposizione alla padroncina, persino un orgasmo – che nemmeno Meg Ryan – aiuta a comporle con più spessore, Marta Cortellazzo Wiel e Marta Pizzigallo soprattutto.
Mette maggiormente a fuoco – o forse non lo avevamo mai pienamente fatto nostro prima – l’arco amoroso che Mirandolina guida, e dal quale è sul finale guidata, con una ricchezza di intenti e di risultati che Sonia Bergamasco porta avanti con padronanza: anche se alla fine ti rimane il dubbio che abbia recitato in una sottrazione non sempre necessaria (una richiesta del solo regista?), sia scivolata in lacrime di cui si potrebbe fare a meno, che si sia malamente afflosciata lungo quella parete, che nella sbandierata rivoluzione del personaggio finisca limitatamente libera, chiedendoci noi della sua vittoria di fronte a un Fabrizio che è pur sempre un obbligo e verso il quale l’innamoramento non esiste, con il quale chiedendoci noi quale sarà il domani?; e di fronte a un Ripafratta, dissoltosi tra i canali di Venezia, con cui esistono tutti i presupposti per costruire una lunga, amorosissima relazione? È vero, negli attimi finali, Mirandolina è lì, in proscenio, spalle al pubblico, su un piccolo sgabello, come se la regia della vita e dello spettacolo fossero passate a lei e a lei spettasse un finale convincente: teme “per la mia onestà”, e Fabrizio (Annibale Pavone) è lì, diremmo a portata di mano. Secondo le volontà del padre. Se tutto è stato un gioco, il gioco è finito male, non come era nei desideri, qualcuno in sostituzione ha disseminato sul tavolo i bastoncini dello shanghai. Anche il gioco, o la recita, dei nobilastri è finito, a chiusura si stampano un bacio sulla bocca. Quante domande o quante riletture ti nascono ancora quando il sipario si chiude. Anche questo è teatro, quello autentico.
Elio Rabbione
UniVerso, il programma di eventi culturali dell’Università di Torino, presenta sino a mercoledì 18 dicembre, la mostra fotografica “Volti da scoprire, ritratti di cinema”. Un percorso curato dal critico cinematografico Paolo Mereghetti, assurto da anni a grande notorietà per l’omonimo dizionario dei film, il più venduto in Italia, che iniziato a scrivere a partire dal 1990, esce per la prima volta nel ’93, ha festeggiato lo scorso anno il suo trentennale.
La mostra propone una serie di ritratti realizzati negli anni Ottanta e Novanta da Pino Guidolotti esposti su scenografici ingrandimenti inseriti nella splendida cornice del Cortile del Palazzo del Rettorato dell’Università di Torino, in via Verdi, 8 ed in via Po,17. Scatti in bianco e nero che raccontano donne e uomini di cinema, attori, registi e sceneggiatori messi in scena dal fotografo, anche se ultimamente Guidolotti sembra preferire il disegno, grazie alla sua capacità di entrare con loro in una profonda relazione umana.
Spirito libero, curioso ed insofferente alle etichette, Pino Guidolotti ha sempre avuto la bellezza come sua personalissima bussola sia che dovesse documentare opere artistiche o architettoniche sia che dovesse ritrarre personaggi dello spettacolo o della cultura.
La sua attività di ritrattista ci ha lasciato una serie di straordinari ritratti, capaci di cogliere sempre il segreto che si nasconde dietro i volti e i corpi di Wim Wenders o di Jeanne Moreau, di Mario Soldati o di una giovanissima Juliette Binoche, che per la prima volta sono esposti, insieme a quelli di Michel Piccoli, di Marco Ferreri e tanti altri ancora, e tutti da scoprire, qui a Torino al Rettorato.
Igino Macagno
Victor Hugo scrisse: “Il mare possiede la cosa più grande: il colore del cielo”.
Partendo da questa citazione, ho cominciato a riflettere sul tema dei viaggi e su quanto effettivamente questi ultimi coincidano nelle sensazioni e nelle volontà, se svolti per mare e nei cieli. Innanzitutto ci allontanano da qualsiasi sponda di salvezza per avvicinarci a quel senso del destino non più governato da mano umana, ma dal fato. Forse il volo e la navigazione, così lontani da terra, ci restituiscono la prospettiva originaria di ciò che siamo stati prima della vita, prima di trovarci realmente a subire il fascino della percezione poetica (che il filosofo Ortega y Gasset descriveva come una visione di preconoscenza). Le avventure di cielo e di mare ci portano alla grazia di un infinito ritorno, e ciò che di nuovo ci sembra di scoprire è in realtà qualcosa di già conosciuto e vissuto: trovo simbolico che il vascello di Capitano Uncino, nel Peter Pan di J.M.Barrie, possa rivelare la sua navigazione celeste soltanto agli adulti rimasti un po’ bambini (e vi è un grosso richiamo alla figura del poeta), e che seguendolo solo con gli occhi e con il cuore arrivi a svelare l’Isola che non c’è, la magia della giovinezza.
Ne “la Ballata del Vecchio Marinaio” tutta la vicenda ruota attorno all’uccisione, da parte del vecchio marinaio, di quell’albatro simbolo del patto d’amore tra l’uomo e la natura. La morte dell’uccello sacro pare essere avvolta dal mistero della violenza gratuita, dal dramma della noia e della frustrazione. Non posso fare a meno di pensare che la ragione profonda del senso di questa uccisione risieda nell’implacabile necessità di volo da parte del vecchio marinaio. Una sorta di identificazione estrema (e più violentemente rappresentata dall’albatro morto che gli altri marinai gli appenderanno al collo come simbolo di condanna per le sventure che colpiranno la nave), una volontà di introiettare il potere alato in un corpo colpito dalla maledizione del volo, poiché cessa di essere poesia dopo l’uccisione, e che la natura ha concepito privo di ali. Forse il vecchio marinaio era consapevole di tutto questo, e da quel giorno l’albatro ha cominciato a vivere nell’occhio scintillante (glittering eye, scrive Coleridge) che affascinava gli ascoltatori della storia e che tanto ricorda la stella di cui sentiamo la mancanza e che cerchiamo nelle notti limpide, alzando lo sguardo al cielo. Il viaggio in mare pare trasformarsi in una sorta di surrogato del volo nei cieli, quasi fosse un’illusione di libertà. Gli uomini si ingannano sovente a proposito della libertà. E come la libertà si annovera fra i sentimenti più sublimi, così anche l’illusione relativa è fra le più sublimi.
Pensando al viaggio di mare per eccellenza, l’Odissea: le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del loro canto, ed è il loro silenzio. Non è mai accaduto, ma forse non è del tutto inconcepibile, che qualcuno si salvi dal loro canto, ma dal loro silenzio certamente no. Alla sensazione di averle vinte con la propria forza, all’orgoglio che ne consegue e che travolge tutto, nessun mortale può resistere. E infatti, probabilmente, quando Ulisse giunse, le Sirene non cantarono, sia che credessero che a un tale avversario convenisse soltanto il silenzio, sia che il viso beato di Ulisse, che non pensava ad altro che a cera e catene, facesse loro dimenticare il canto. Ulisse però, se così posso esprimermi, non udiva il loro silenzio; egli credeva che esse cantassero e che egli solo fosse salvaguardato contro di esse. Le Sirene, più belle che mai, si torcevano e si distendevano, tendevano gli artigli sulle rocce. Sembrava non volessero più sedurre, ma cogliere al volo, il più a lungo possibile, la luce riflessa nei grandi occhi di Ulisse.
La morte, in cielo o per mare, viene elevata a strumento estremo per esaudire un desiderio alato, che non è necessariamente il sentimento di una vita oltre, ma il naturale ricongiungimento all’illusione stessa della vita: il sogno di volare.
La compagnia “Onda Larsen” riflette e fa riflettere bimbi e famiglie sul “vero”, un po’ dimenticato, significato del Natale
Domenica 8 dicembre, ore 16
“Ah, il Natale! I festoni, i fiocchi, i nastri e poi ancora le letterine, i regali, le luci e ancora il cenone, i brindisi, il vischio, la neve, l’albero, le palline, i balletti, le canzoni… insomma non sembra manchi nulla, no?”. Embé!! No, no, per carità, non manca proprio nulla! Che volere di più?! Eppure … eppure. Forse qualcosa, sotto sotto (ma neanche troppo sotto) manca. O non c’è più. Almeno se per “Natale” vogliamo intendere non solo la terrena magia della “Festa più Festa dell’anno” (che, pure, attenzione, ci sta bene e ci vuole), ma anche, e soprattutto, uno spazio temporale di riflessione spirituale sull’evento (per chi è credente) o, più laicamente, su quel particolare momento dell’anno che apre le porte a nuovi 365 giorni, a nuovi sogni e speranze per ognuno di noi. L’Abbraccio, la Pace, la Fratellanza, il Perdono, il Riconoscerci tutti uguali, il Camminare per mano, Mani bianche e Mani nere, il Brindisi – calici in alto – gesto che dev’essere un evviva e un segno di nuove attese con validità continua nel tempo e non concepita ad annuale, periodica, scadenza. Come dire Passata la Festa, gabbato lo Santo. Certo il tutto è forse pretendere troppo. Ma un piccolo sforzo di riflessione potremmo e dovremmo farlo! Senza per carità spegnere le luci, negare i regali, affossare pranzi e cenoni. Giusti i regali. Soprattutto ai bimbi. Attenti all’“arma-cellulari!” Ma, quando glieli porgiamo, guardiamoli dentro e in fondo agli occhi. Forse lì, potremo trovare la carica per intraprendere nuove e coraggiose strade. Che ne pensate e a chi potremmo chiedere aiuto rispetto a queste riflessioni? Ci sono! Forse agli “elfi”, quegli strani simpatici “umanoidi” che, nelle culture di lingua inglese, vivono con Babbo Natale al Polo Nord e gli fanno da aiutanti, prendendosi cura soprattutto delle renne.
Parte proprio di qui l’appuntamento teatrale, in programma domenica 8 dicembre (ore 16), dal titolo “A Christmas recipe”, portato in scena dalla cagliaritana Compagnia “Effimero Meraviglioso” e proposto dai nostri di “Onda Larsen” al teatro “Spazio Kairos” di via Mottalciata, a Torino. Lo spettacolo di Francesco Cappai, per la regia dello stesso Cappai e di Leonardo Tomasi, vedrà salire sul palco Michela Cidu, Elisa Giglio, Federico Giaime Nonnis ed Alessandro Redegoso.
I quattro, nel loro racconto scenico, s’affideranno proprio alla “saggezza” di quei buffi, divertenti “elfi”, cui s’era arrivati noi. “Gli ‘elfi’ – ricordano – conoscono a menadito il procedimento per ‘fare’ il Natale. Lo conoscono talmente bene da far perdere il senso a quei gesti che, di anno in anno, diventano sempre più vuoti, mentre la scena si riempie sempre di più”. E’ per questo che “qualcosa comincia ad andare storto per gli ‘elfi’: e se il Natale fosse qualcosa di più delle lucine, delle ceneluculliane e del vischio sulla porta? Una lunghissima attesa godotiana, non ce ne voglia Samuel Beckett, nei confronti di qualcosa che doni – che stranezza il donare qualcosa al Natale – il senso al Natale, e un tacchino da cucinare che non arriva. Saranno collegate le due cose?”. Chissà. Penso proprio di sì. Almeno per i quattro di “Effimero Meraviglioso”. Che, per carità, non penso che – invitandoci allo spettacolo – siano così sadici, e anche un tantino masochisti, dal voler rovinare la Festa ai poveri spettatori. Però, però … un pensierino a ciò ch’é oggi diventato (di esagerato) il Natale, credo proprio sia nelle loro corde. Dicono infatti: “ ‘A Christmas Recipe’ è uno spettacolo che parla dell’ ‘essenza delle tradizioni’ oltre ‘la loro fastosità’, alla ricerca di ciò che si nasconde sotto la routine della festa. In un gioco colorato e musicale di ‘ripetizioni’ e ‘scatole cinesi’, i bambini andranno alla scoperta dei valori straordinari che si nascondono dietro l’‘ordinarietà dei gesti’ che talvolta, privati del loro contenuto, rimangono pura forma”.
Il pomeriggio s’inizia alle 16: prevede merenda, alle 16,30 lo spettacolo e poi l’incontro con gli attori sul palco.
Acquisto biglietto: www.ticket.it
Per info: “Spazio Kairos”, via Mottalciata 7, Torino; tel. 351/4607575 o www.ondalarsen.org
g.m.
Nelle foto: “Effimero Meraviglioso” immagini di scena
Il 10 dicembre prossimo, alle ore 21, Ugo Nespolo presenterà al Circolo dei Lettori il vinile dal titolo “Il gran ballo della Croce Rossa Italiana”.
Il 22 giugno scorso usciva in tutti i negozi di musica e sul CRI shop il vinile “Il gran ballo della Croce Rossa Italiana”. Realizzando questo progetto nell’ambito del 160esimo anniversario della nascita dell’associazione, la Croce Rossa Italiana ha deciso di ridare vita a uno storico vinile del 1961, custodito al Museo Internazionale della Croce Rossa a Castiglione delle Stiviere. Il disco conteneva quattro brani interpretati dagli allora esordienti Gino Paoli ( Un uomo vivo), Giorgio Gaber ( Benzina e Cerini), Umberto Bindi (Non mi dire chi sei) e uno interpretato da Joe Sentieri dal titolo “Lei”. Oggi viene rilanciato con i brani originali rimasterizzati e le versioni di Beppe Servillo, Eugenio Finardi, Giuseppe con Gnu Quartet e Armanso Corsi e The Sweet Life Society.
Le copie del vinile sono state numerate per un totale di 1864, numero pari all’anno di nascita della Croce Rossa Italiana, e la copertina è stata realizzata dal grande Ugo Nespolo. Il prezzo di vendita è di 30 euro e i proventi verranno devoluti alla Croce Rossa Italiana.
“E’ il 1961- si legge sulla copertina del vinile- undicesima edizione del festival di Sanremo, per la prima volta condotta da due donne, Lilli Lembo e Giuliana Calandra, ed è proprio durante quei giorni sanremesi che a Milano il primo febbraio va in scena il Gran Galà della Croce Rossa, un evento solidale che richiama l’alta società meneghina a un momento di partecipazione e benevolenza verso la più importante e grande associazione di volontariato in Italia. All’occasione viene dedicato un disco, con una tiratura limitata di 300 copie, di RCA, che contiene quattro dei brani presentati quell’anno al Festival della Canzone Italiana. Del disco non si ha traccia per anni fino al 2000 quando, durante un sopralluogo al Museo Internazionale della Croce Rossa di Castiglione dello Stiviere, viene rinvenuto, magicamente, in uno scatolone, un vinile master originale Ricordi.
Circolo dei Lettori via Bogino 9 martedì 10 dicembre ore 21
MARA MARTELLOTTA
Dopo un lungo periodo di chiusura, e’ di nuovo possibile visitare la chiesa di San Dalmazzo, situata tra via Garibaldi, una volta via Dora Grossa, e via delle Orfane.
Costruita nel lontano 1271 e destinata all’assistenza dei pellegrini e alla cura degli infermi, nel tempo la sua struttura subi’ un consistente deterioramento e fu cosi’ che nel 1573, periodo in cui fu affidata ai frati Barnabiti, si decise per una riedificazione. Qualche anno dopo per volere del cardinale Gerolamo della Rovere fu nuovamente restaurata e decorata, anche grazie alle numerose donazioni dei Savoia mentre alla fine dell’800 furono ripresi ulteriormente i lavori che la riportarono al suo stile originario. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu bombardata riportando seri danni al tetto e agli infissi, il suo ultimo restauro risale al 1959.
L’esterno e’ l’unica parte rimasta in stile Barocco con i suoi pilastri di ordine corinzio, i finestroni da cui entra la luce e un timpano semicircolare che avvolge un prezioso affresco. La chiesa, di medie dimensioni, trova la sua bellezza, oltre che nei suoi sorprendenti interni in stile neogotico che catturano subito l’occhio del visitatore, ma anche nella superficie proporzionata che la rende accogliente e affascinante.
Al suo interno lo sfondo e’ quello tipico dello stile gotico caratterizzato dallo slancio verticale, da vetrate colorate, da stucchi, dipinti neo-bizantini di Enrico Reffo e dorature. L’elemento che attira legittimamente l’attenzione e’ la fonte battesimale originale ereditata dalla vecchia chiesa di San Dalmazzo Martire. La struttura e’ a tre navate decorate da edicole, il bellissimo pulpito incorniciato da mosaici e il ciborio a baldacchino.
Spesso la chiesa di San Dalmazzo si fa scenario di concerti di musica, dal gospel alla musica da camera, il prossimo appuntamento? Domenica 15 Dicembre 2024 ore 17:00 TORINO CHAMBER MUSIC FESTIVAL, vibrazioni all’interno di un contesto suggestivo e incantevole.
Per informazioni sugli eventi
www.diocesi.torino.it
La mostra del maestro Roberto Demarchi, inaugurata giovedì 5 dicembre 2024 alle ore 18, nella sede dell’atelier del pittore in corso Rosselli 11, reca il titolo “Montagna e avvento”.
Roberto Demarchi, pittore astratto , dichiara, a poche ore dell’inaugurazione di questa sua nuova mostra : “ I Vangeli ci narrano che, poco più di Duemila anni or sono, una piccola famiglia di ebrei, per sfuggire alla ferocia che il Potere scatena quando ha paura, lasciò nottetempo Betlemme per trovare rifugio in Egitto. Percorsero quella che allora si chiamava la via Maris ( che tra l’altro passava per Gaza). Subito dopo ci fu la strage degli Innocenti, innumerevoli bambini al di sotto dei due anni furono trucidati perché Erode temeva che tra di loro si celasse colui che, male interpretando le Sacre Scritture, avrebbe potuto prendere il suo posto. I Vangeli, se letti lontano da una esasperazione fideistica, parlano di verità che sopravvivono al Kronos, al microtempo. Ci dicono che l’uomo, con tutta la sua paura e con tutto il suo coraggio di vivere, è sempre lo stesso. I luoghi sono sempre gli stessi, Gaza ieri, Gaza oggi. I trucidatori sono sempre gli stessi, Erode ieri, Hamas e Netanyahu oggi”.
La mostra del Maestro Roberto Demarchi, intitolata “Montagna e Avvento” vuole essere un percorso ispirato all’Avvento e alla montagna ritratta da Cézanne, il tutto reinterpretato con il linguaggio astratto e suggestivo del maestro.
Mara Martellotta