PREMIO INTERNAZIONALE
Il poeta augustano Salvatore Seguenzia, in occasione della XVII Edizione, è stato insignito del premio Internazionale «IL FEDERICIANO» per “chiara fama” che si è tenuto ad Augusta (SR) a fine agosto. La sua poesia “L’isula ‘nta l’Isula”, in lingua siciliana, è stata riprodotta sulla stele realizzata dal maestro ceramista Orazio Costanzo. Da anni il Poeta Salvo Seguenzia, accademico emerito, è noto per il suo contributo alla scrittura siciliana.

È inoltre destinatario del ruolo di Custode ufficiale del “Paese della Poesia”, progetto realizzato appunto nella splendida Augusta con la kermesse Federiciana sin dal 2023. A seguito del riconoscimento ricevuto, lo stesso poeta ha dichiarato: «Ieri sera (sabato 30 ndr) ho ricevuto il mio primo premio internazionale per ‘chiara fama’ durante il festival “Il Federiciano”, con tanto di stele dove è stato posto il mio sonetto endecasillabo in vernacolo “L’isula ‘nta l’Isula” dedicato alla mia Augusta. Mi corre il dovere di porgere un sentito e profondo ringraziamento al mio mentore poetico, il Maestro Giuseppe Aletti, che continua a credere nella mia parola. Sono veramente orgoglioso per quanto mi ha riconosciuto perché è un Premio dal valore inestimabile sia per la mia persona che per il poeta che c’è in me.

Questo elogio non è l’approdo ad un traguardo ma il proseguimento del mio viaggio per tenere sempre alto il valore storico, civico e culturale della lingua siciliana. Ora il mio sonetto sarà eternamente presente nell’agorà della mia città. Anche quest’anno si richiude la ‘Porta Spagnola’ sperando in una prossima avventura ma comunque vada sono orgoglioso di aver permesso a tanti poeti Federiciani e a tanti appassionati e curiosi di far conoscere la mia ‘isola nell’Isola’».
‘Il Federiciano’ non si spiega ma si vive.
Aletti Editore


“Quel giardino” dove si sentiva a casa erano i Giardini Botanici Hanbury che si distendono dal promontorio della Mortola verso il mare di Ventimiglia, a pochi chilometri dal confine francese. Diciotto ettari sull’estrema punta del Ponente ligure al quale dedicò la sua opera letteraria, ambientando racconti e poesie. Un gioiello naturalistico prezioso, uno dei giardini di acclimatazione più belli e preziosi d’Europa e dell’intero bacino mediterraneo. Orengo raccontava che sono blu le terre della Liguria quando fioriscono i carciofi, quando il mare “rimbalza il suo colore sotto i pini, quando si alza il fumo degli sterpi sulle fasce, quando la campanula buca i rovi e quando la bungavillea e il glicine sui muri incontrano il tramonto”. In questo modo il blu si imprime indelebilmente nella memoria, trasformandosi nel colore del ricordo e della terra. Quella terra “aspra e dolce della Liguria di Ponente che da Imperia a Ponte San Luigi corre anguillesca sul mare e su, verso l’interno di paesi d’incanto, umidi e solari”. Con Terre blu Nico Orengo raccontava una geografia sospesa tra la realtà e l’immaginazione come può essere solo quella di “un viaggiatore che ritorna sui suoi passi per constatare che c’è un albero in più e una pietra in meno, che il pollaio è una villetta, o che quel tal orto si è fatto casa”. Alla terra di confine dove ambientò quasi tutti i suoi romanzi Nico Orengo rimase sempre legatissimo. La sua Liguria non era solo uno spazio naturale pieno di odori e colori, suggestioni straordinarie sospese tra il blu del mare e i colori forti dell’entroterra ma anche un luogo della memoria, degli anni della giovinezza e dell’adolescenza. Un mondo intero dove si intrecciavano indimenticabili ricordi che rievocò nei suoi romanzi (Dogana d’amore, Il salto dell’acciuga, Le rose d’Evita, La guerra del basilico, Ribes, La curva del latte) con la sua scrittura lieve e ironica. Nel suo penultimo romanzo, Hotel Angleterre, accompagnò i lettori in un viaggio della memoria rimescolando ricordi, rievocando la figura della nonna paterna, la contessa Valentina Tallevitch, che, nelle fredde sere invernali, mentre gettava bucce di mandarino nel fuoco acceso nel camino, narrava ai nipoti vecchie storie della nobiltà russa in Costa Azzurra e nella Riviera di Ponente, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Nell’ultimo, Islabonita, ambientato a metà degli anni Venti, usa l’espediente narrativo del bestiario e di una figura antropomorfica di anguilla voyeur, per raccontare un epoca che stava per lasciare una traccia dolorosa e indelebile sulla pelle della nazione. Spesso nei suoi libri riecheggia l’amarezza per il tramonto della società contadina e il declino dei suoi umanissimi valori a scapito del rapido imporsi del modello industriale e urbano che il boom economico avrebbe poi codificato nell’avvento della società dei consumi. E la natura e l’ambiente, entrambi da difendere e tutelare, rappresentano desideri che emergono in molti racconti come Gli spiccioli di Montale dove, in un tratto di mare al confine con la Francia, un uliveto che rischia di scomparire, provocando uno strappo violento nella memoria, quasi come se un ricordo venisse rubato. Ci restano in eredità i suoi versi, le filastrocche ( A-ulì-ulè ) , i racconti, le battaglie contro la speculazione edilizia e per la salvaguardia dell’ambiente e delle tradizioni culturali, il bellissimo ritratto delle langhe fissato nelle pagine del romanzo Di viole e liquirizia. Nico Orengo morì a Torino, nella mattinata di sabato 30 maggio 2009, all’ospedale delle Molinette dove era stato ricoverato dopo una crisi cardiaca. Aveva 65 anni. Al capoluogo piemontese ( vi era nato il 24 febbraio del 1944) era legato per l’intensa collaborazione con Einaudi e la lunga direzione di Tuttolibri, il settimanale letterario de La Stampa, quotidiano per cui scriveva. Non casualmente scelse come ultima e definitiva dimora il piccolo cimitero dei Ciotti tra La Mortola e Grimaldi, aggrappato alla roccia e affacciato sul mare blu cobalto. Come scrisse lui stesso nell’agosto del 2000, lo scenario non poteva che essere quello di “ una Liguria favolosa di sapori, fico polveroso e gelsomino stordente, di buganvillea e cappero, di garofano, calendula e rose, mirto e rosmarino”. Un buon modo di ricordarlo è quello di leggere le sue opere magari accompagnandone il piacere con un buon bicchiere di vino, preferibilmente rossese o vermentino, secondo le antiche ricette della cucina ligure.








