CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 512

“Leonardo e il foglio perduto”, prima mondiale al Regio

Lunedì 4 novembre – ore 21.00

 

LEONARDO E IL FOGLIO PERDUTO

Unico Concerto/Evento

Teatro Regio Torino

Piazza Castello, 215 – Torino

Filarmonica Teatro Regio Torino

Musiche Composte, Orchestrate e Dirette da

Stefano Fonzi

 

Solisti:

 

Paolo Fresu (tromba)

Albert Hera (voce)

 

 

Torino Jazz Orchestra

Fulvio Albano – leader (sax tenore)

 

Valerio Signetto – Gianni Virone (sax contralto)

Nicola Tonso (sax tenore) – Helga Plankensteiner (sax baritono)

Martin Ohrwalder – Mirco Rubegni – Sergio Bongiovanni – Felice Reggio  (trombe)

Luca Begonia – Stefano Calcagno – (tromboni) Aldo Caramellino – (tromboni)

Gianfranco Marchesi – (trombone basso)

Gianluca Tagliazzucchi (pianoforte)

Aldo Zunino (contrabbasso)

Marco Tolotti (batteria)

 

con la partecipazione straordinaria dell’attore

Pino Insegno (voce narrante)

 

Testi e adattamenti di

Giommaria Monti

 

Conduce la serata:

Marco Basso – critico musicale de ”La Stampa”

In anteprima internazionale, per il Moncalieri Jazz Festival, un’opera musicale moderna composta e diretta da Stefano Fonzi con un cast di eccezione. Lunedì 4 novembre alle ore 21:00 al Teatro Regio di Torino andrà in scena “Leonardo e il foglio perduto”, una composizione che prende spunto da due grandi opere di Leonardo conservate nei Musei Reali di Torino, “Il Codice del Volo” e “L’Autoritratto”. L’opera interpreta il grande sogno di Leonardo, quello del Volo, che per tutta la vita ha caratterizzato i suoi studi. Il concerto proprio per rendere omaggio al genio sperimentale vinciano, si avvale anche di tecnologie all’avanguardia, che vedranno la proiezione di fotografie, concesse grazie alla collaborazione dei Musei Reali di Torino, rappresentanti l’Autoritratto e Il Codice del Volo, messe in relazione con altrettante foto e video del Pop.Up Next (Drone come mezzo di trasporto volante senza conducente) e la nuova auto gran turismo elettrica “Da Vinci”, disegnata e realizzata nel 2019 dalla Italdesign, il cui prototipo è stato ideato, disegnato, progettato e costruito negli stabilimenti di Moncalieri. Per l’ingegneristica del genio italiano, la “Da Vinci” è realizzata con una particolare apertura delle portiere ad “ali di gabbiano” collegandola ancora una volta al sogno del volo leonardesco. Gli interpreti d’eccezione a livello internazionale coinvolti in questo meraviglioso progetto sono la Filarmonica Teatro Regio Torino, la Torino Jazz Orchestra e due grandi solisti Jazz quali Paolo Fresu e il vocalist Albert Hera; i testi sono scritti da Giommaria Monti e saranno letti ed interpretati sul palco dall’attore e doppiatore Pino Insegno.

TRAMA:

L’autoritratto di Leonardo, conservato nel caveau della biblioteca Reale di Torino, ritrae un uomo solo e stanco, ormai anziano. Sembra essere disinteressato al mondo che lo circonda, consapevole che la vita volge al termine. In ogni linea del suo viso, negli occhi che non sembrano guardare più lontano come un tempo, Leonardo ha rappresentato se stesso nell’intimo: ogni ruga è un pensiero, un’idea, un progetto, un qualcosa che ha realizzato o che avrebbe voluto realizzare. È il sogno che lo ha accompagnato per tutta la sua vita di artista, scienziato, inventore: volare. Sin da quando era bambino, infatti, era il suo sogno e per tutta la vita studierà la meccanica del volo, progetterà macchine volanti, riempirà di calcoli e appunti i suoi quaderni e soprattutto il Codice del volo degli uccelli custodito a Torino: 18 fogli fronte-retro, un quaderno di appunti come ne aveva scritti a decine negli anni. Annotazioni, schizzi, disegni completi e altri solo abbozzati. Come molte delle opere che Leonardo non ha mai finito. E proprio lì, in quel codice, qualcosa sembra mancare: la macchina del Grande Nibbio, disseminata in quelle pagine, non ha una sua compiutezza. Il suo sogno Leonardo non riuscirà a realizzarlo, ci vorranno quattro secoli prima che una macchina volante più pesante dell’aria si sollevi da terra con un uomo a governarla. Proprio come aveva immaginato il genio da Vinci, proprio come quei disegni abbozzati e non realizzati. Proprio come Il Grande Nibbio che nel Codice manca completo. C’era? Leonardo lo ha mai ultimato? È andato forse perduto nei mille viaggi che il Codice farà da Parigi, dove Leonardo lo porta e lascerà morendo al suo assistente Francesco Melzi? Era magari tra i moltissimi fogli persi o nascosti oggi chissà dove? Qualcuno se lo chiede osservando il ritratto di Leonardo nella sala della biblioteca Reale di Torino e leggendo il codice conservato lì. Rivede la vita di Leonardo alla luce di quel sogno, della scoperta che cambierà la storia dell’umanità. Qualcuno che segue il cammino interiore, le opere e la vita di Leonardo tra eventi storici realmente accaduti, tra I Medici a Firenze e Ludovico il Moro a Milano, tra Cesare Borgia e Michelangelo. Qualcuno che è legato al genio di Vinci, figlio di un notaio e di una cameriera di un’osteria di Anchiano. Un figlio illegittimo, in un’epoca straordinaria e crudele. Una storia che comincia nel famoso autoritratto, dentro le pagine del Codice del volo e diventa immaginazione in quel foglio che forse manca, forse non è esistito mai.  È il grande sogno che Leonardo ha inseguito per tutta la vita: permettere all’uomo di volare.

Sito ufficiale: http://www.moncalierijazz.com/

 

Informazioni: 011/6813130 – info@moncalierijazz.com

Associazione C.D.M.I. Strada Privata Nasi, 47 – Moncalieri (TO) –

 

Responsabile della comunicazione: Giorgio Cremona

Tel/Fax + 39 011 6813130- Cell + 39 338 8903789

giorgio.cremona@moncalierijazz.com

Rock Jazz e dintorni. Il duo pianistico Bollani-Valdès e Roberto Vecchioni

GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA

 

Lunedì.  All’Arteficio si esibisce il duo voce e chitarra Cangini-Lodati. Al Teatro Regio per “Moncalieri Jazz” va in scena “Leonardo e il foglio perduto”, allestimento operistico con la Filarmonica  del teatro, con ospite Paolo Fresu.

Martedì. All’ auditorium del Lingotto suona il duo pianistico formato da Stefano Bollani e il cubano Chucho Valdès.

Mercoledì. Al Jazz Club è di scena l’Hammond Quartet del trombettista Manuel Concettini. Al Blah Blah si esibisce il quartetto californiano Dream Phases. All’Arteficio canta Estel Luz.

Giovedì. Al Jazz Club suona il quintetto del vocalist Ronald Baker. All’Off Topic si esibisce l’ex La Crus Cesare Malfatti mentre all’Hiroshima Mon Amour va in scena la prima serata di musica e arte varia “no phone”. Al Circolo della Musica di Rivoli suonano i Jennifer Gentle. Allo Ziggy si esibiscono i metallari Imperial Triumphant.

Venerdì. Al Folk Club Fabrizio Bosso e Giovanni Guidi  presentano il progetto “Revolutionary Brotherhood”. All’Hiroshima si esibisce il cantautore Giorgio Poi. Al teatro Colosseo è di scena Red Canzian. Allo Spazio 211 è di scena Stuart Braithwaite. Allo Ziggy si esibisce Lili Refrain mentre al Blah Blah suona Conny Ochs.

Sabato. Per “Moncalieri Jazz” al Castello, suona il quartetto del sassofonista Emanuele Cisi. Per “Novara Jazz” all’auditorium Brera, si esibisce la pianista Kaja Draksler. Al teatro Colosseo  Roberto Vecchioni presenta “ l’infinito Tour”.Al Circolo della Musica di Rivoli si esibiscono Maria Antonietta e Cecilia. Al Blah Blah suonano i Fucktotum mentre al Magazzino sul Po si esibiscono i Dead Cat in a Bag.

Domenica. Ad Alessandria all’Ostello il Chiostro suona il trio Sugar Sugar.

 

Pier Luigi Fuggetta

La Resistenza tradita

Il 26 agosto del 1990, come ogni anno i dirigenti della Federazione Psi di Reggio Emilia si ritrovarono al camposanto di Casalgrande per commemorare il sindaco Umberto Farri, ucciso nello stesso giorno del 1946 ‘per mano ignota’.

Prese la parola Mauro Del Bue, allora deputato, oggi direttore del ‘L’Avanti’, che nell’orazione ufficiale disse “La vicenda dell’assassinio di Ferri si inquadra in un insieme di violenza di origine politica che insanguinarono la provincia di Reggio Emilia nell’immediato dopoguerra”. Dopo di che invitò esplicitamente “il Comitato per l’ordine democratico di Reggio Emilia ed il suo presidente in particolare (l’onorevole Otello Montanari) ad individuare strumenti per fornire un’aggiornata versione storica e politica sugli atti di sangue del dopoguerra e sul delitto Ferri tra questi”,  andando poi a toccare un nervo scoperto con l’approfondire le ragion per cui Reggio Emilia “è stata la capitale della violenza politica … negli anni immediatamente seguenti la Liberazione e duranate la fase del terrorismo rosso, originato da un gruppo politico che ebbe i natali nella nostra città”. A questo fece eco, diventando un caso nazionale, la dichiarazione rilasciata da Otello Montanari, ex partigiano ed ex deputato comunista, presidente all’epoca dell’Istituto intitolato ad Alcide Cervi ed animatore del Comitato per il Primo Tricolore, che rilasciò il 28 agosto al ‘Resto del Carlinoo’, nella quale – riferendosi all’omicidio dell’ingegner Arnaldo Vischi, direttore tecnico delle Officine Reggiane, ucciso a Correggio il 31 agosto 1945 – Montanari affermò che tale omicidio non fu opoera di fascisti, come all’epoca venne sostenuto, ma di persone iscritte al Pci, che il Pci stesso, per opera dei suoi massimi dirigenti coprì. Tali dichiarazioni, furono come un cerino gettato in una polveriera ed ebbero, effettivamente, dei notevoli echi sugli organi di stampa in una stagione in cui il web era ai primordi ed i social erano tutti da venire.

L’intera vicenda sulla violenza politica a Reggio Emilia e nella regione Emilia Romagna, che lo scambio a distanza Del Bue-Montanari, ebbe il merito di riportare alla luce dopo anni di ‘sonno’, fu al centro di un interessante convegno organizzato dal Psi della città emiliana con atti che sotto il titolo di ‘La Resistenza Tradita’ vennero pubblicati nel 1990 a cura della ‘Direzione Psi-Ufficio centrale Stampa e Propaganda’. Erano quelli gli anni della segreteria di Bettino Craxi che aveva ormai definitivamente gettato nel cestino i residui degli accordi con il Pci, un Pci che – sull’onda del Crollo del Muro di Berlino – stava in quel momento cambiando pelle e nome. Di particolare interesse è la lettura della relazione introduttiva di Mauro Del Bue ‘Perché la verità della storia diventi storia della verità’. I vari interventi del convegno non vanno a contestare quanto accadde nel periodo della guerra civile, ma la vera e propria mattanza che si verificò nel cosiddetto ‘Triangolo della morte’ in Emilia nel periodo successivo alla fine della guerra, che, a detta dei vari relatori “Nulla ebbero a che fare con la Resistenza”:

Massimo Iaretti

 

 

“Vitamine Jazz” prosegue a novembre

Due nuovi appuntamenti la prossima settimana al Sant’Anna per la rassegna “Vitamine Jazz” arrivata alla sua terza stagione, organizzata per la Fondazione Medicina a Misura diDonna e curata da Raimondo Cesa.
I concerti avranno inizio dalle ore 10.00 nella sala Terzo Paradiso in via Ventimiglia 3.

Martedì 5 novembre sarà la volta del “Flor de Maracuja Trio”.

Questo trio nasce spontaneamente a Torino nell’estate 2019 dall’unione artistica di tre musicisti: Elisa Molino (vocalist), Carla Azzaro (percussioni), Carlo Masuero (Chitarra classica).
L’impianto musicale di questa formazione ha le sue radici nelle melodie e nei ritmi del Sud America, subendo anche l’influenza latina dei paesi Sud Europei. Il repertorio abbraccia un arco temporale di circa un secolo, dall’inizio del 1900 ai giorni nostri, con brani della tradizione popolare di grandi autori quali: Pixinguinha, Azevedo, Cartola e brani più moderni influenzati dalla corrente jazzistica, composti da autori come: A. C. Jobim, J.Bosco, E. Gismonti, Guinga ed altri ancora.
Il nome del trio non poteva che essere “Flor de Maracuja”, il frutto della passione: evocazione e metafora di sonorità che nascono da un’ispirazione che emerge laddove il respiro si lascia andare… e comunica al cuore.


Giovedì 7 novembre

Amedeo – Arnoldi – Nicola Trio
Ivano Amedeo, pianoforte – Dante Arnoldi, sax tenore – Claudio Nicola, contrabbasso

Il gruppo nasce dal piacere di condividere tra musicisti e con gli ascoltatori le atmosfere dei grandi classici
del jazz, da Duke Ellington a Miles Davis passando per Sonny Rollins.
Gli Standards jazz costituiscono il cuore del genere e la lingua comune di tutti i jazzisti, di ogni provenienza e
di ogni epoca. Il materiale, profondamente assimilato, viene restituito, elaborato attraverso le emozioni personali di ogni interprete rinnovandosi e ad ogni esecuzione in un ciclo infinito di rinascita.
Ivano Amedeo, piano, ha ereditato la passione per il jazz dal padre contrabbassista. Dopo gli studi con Aldo Rindone ha preso parte a numerose iniziative in campo musicale e jazzistico in particolare Avigliana Jazz Festival. Il segno caratteristico è la predilezione per le armonizazioni ricche e comunicative.
Per l’ occasione è accompagnato da Dante Arnoldi al sax tenore, membro stabile del gruppo “I CETRI” e Claudio Nicola, presente in varie formazioni sulla scena del jazz torinese da molti anni, al contrabbasso.
L’idea è quella di “cullare” e “curare” con la musica le persone in ascolto.

Al via la stagione dell’ Orchestra Sinfonica Giovanile del Piemonte

AL VIA LA XXVI STAGIONE DELL’ORCHESTRA 

 

Lunedì 4 novembre 2019 – ore 21

Ivrea, Auditorium Mozart

 

IVREA –  Prende avvio lunedì 4 novembre 2019, alle ore 21, presso l’Auditorium Mozart di Ivrea, la XXVI stagione musicale dell’Orchestra Sinfonica Giovanile del Piemonte con una prestigiosa formazione ospite che da tempo collabora con la compagine eporediese: l’Orchestra “Bartolomeo Bruni” della Città di Cuneo.

Un gradito ritorno, dopo i bei concerti delle passate stagioni. Sul podio il direttore d’orchestra Andrea Oddone, affiancato dal trombonista Diego Di Mario, primo trombone dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. La serata prevede l’esecuzione di musiche di Rota e Rossini.

 

Da alcuni anni è una consuetudine: ad aprire la stagione è l’Orchestra “Bruni” di Cuneo, prestigiosa istituzione musicale piemontese, con la quale la nostra associazione collabora con successo. Il programma è molto interessante e accosta al genio di Rossini – qui presente con alcune delle più belle e note Sinfonie d’opera – due brani di Nino Rota, compositore milanese conosciuto soprattutto per le sue colonne sonore cinematografiche. Una serata di sicuro interesse musicale, all’altezza dell’inaugurazione della XXVI stagione sinfonica.

 

Nino Rota (1911 – 1979)

Sonata per orchestra da camera (1937/38)

Allegro moderato – Andante sostenuto – Allegro festoso

 

Nino Rota

Concerto in do maggiore per trombone e orchestra (1966)

Allegro giusto – Lento, ben ritmato – Allegro moderato

 

Gioachino Rossini (1792 – 1868)

Il signor Bruschino, Sinfonia dall’opera (1813) – La cambiale di matrimonio, Sinfonia dall’opera (1810)

Tancredi, Sinfonia dall’opera (1813) – L’italiana in Algeri, Sinfonia dall’opera (1813)

Il barbiere di Siviglia, Sinfonia dall’opera (1816)

 

BIGLIETTI

Per informazioni e prenotazioni: tel. 0125.425123, dal lunedì al venerdì dalle ore 14,30 alle ore 19.

Biglietto, posto numerato: euro 20 (euro 10 per i giovani nati dal 2001). I biglietti singoli sono posti in vendita da cinque giorni lavorativi precedenti il concerto. Gli eventuali biglietti ancora disponibili saranno in vendita lo stesso giorno del concerto direttamente presso il botteghino dell’Auditorium Mozart, a partire dalle ore 20.

LA SEDE DEL CONCERTO: Auditorium Mozart: corso Massimo d’Azeglio, 69 – 10015 Ivrea (TO)

 

I libri più letti e commentati a Ottobre

Bentornati lettori! Ottobre è agli sgoccioli e come ogni mese torniamo ad aggiornarvi sulle attività del gruppo FB Un libro tira l’altro, ovvero il passaparola dei libri, il gruppo che sta dalla parte del lettore.

Tra i titoli più commentati del mese segnaliamo L’Uomo del Labirinto (Longanesi), amatissimo romanzo di Donato Carrisi, riportato in auge dall’uscita dell’imminente film; al secondo posto una delle uscite più recenti, Il Treno dei Bambini di Viola Ardone (Einaudi); terzo posto per il saggio, sotto forma di racconti, Il Sussurro del Mondo, di Richard Powers (La Nave di Teseo).

Rimane alto l’interesse per la saggistica, libri impegnati e non esattamente “da svago” e in questo mese tre sono i volumi presentati e discussi: Le Dieci Parole Latine Che Raccontano Il Nostro Mondo, di Nicola Gardini (Garzanti); Gli Spiriti non Dimenticano (Mondadori), amatissimo saggio di Vittorio Zucconi sulla vita di Cavallo Pazzo e Ajaja = Ayeeyo, Parole che uniscono il Mediterraneo, che affronta il tema molto sentito della convivenza tra popoli.

Per la serie: Time’s List of the 100 Best Novels, ovvero i cento romanzi più importanti del secolo XX, scritti in inglese e selezionati dai critici letterari per la rivista Times, questo mese noi abbiamo discusso di Una Morte in Famiglia, toccante romanzo di James Agee (Il Saggiatore), il classico della fantascienza Ubik di Philip K. Dick (Fanucci), e il capolavoro di Joan Didion, Prendila Così (Il Saggiatore) amaro e ironico racconto di vita ambientato a Hollywood.

Cosa fare quando capita “il blocco del del lettore”, ovvero quando non si riesce a terminare nessun libro perché niente sembra in grado di appassionarci? Il problema è molto sentito tra i nostri iscritti e ognuno prova a suggerire una soluzione, tra le quali iniziare a leggere un qualunque libro con il preciso intento di non abbandonarlo, oppure aspettare e rimandare le letture ad altri momenti. Noi ricordiamo che, per chi cercasse altri suggerimenti, può trovare i nostri consigli di lettura anche su Instagram e su Youtube, dove abbiamo da poco aperto un canale di video-recensioni, che troverete scrivendo “il passaparola dei libri“.

Per questo mese è tutto: vi ricordiamo che se volete partecipare ai nostri confronti, potete venire a trovarci su FB e se volete rimanere aggiornati sulle novità in libreria e gli eventi legati al mondo dei libri e della lettura, visitate il nostro sito ufficiale all’indirizzo www.unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

Buone letture!

 

Podio del mese –

L’Uomo del Labirinto – Carrisi

Il Treno dei Bambini  – Ardone

Il Sussurro del Mondo – Powers

 

Saggistica –

Le Dieci Parole Latine Che Raccontano Il Nostro Mondo – Gardini

Gli Spiriti non Dimenticano – Zucconi sulla vita di Cavallo Pazzo

Ajaja = Ayeeyo, Parole che uniscono il Mediterraneo 

 

 

Time’s List of the 100 Best Novels –

Una Morte in Famiglia – Agee

Ubik – Dick

Prendila Così – Joan Didion

 

Testi di Valentina Leoni, grafica e impaginazione di Claudio Cantini redazione@unlibrotiralaltroovveroilpassaparoladeilibri.it

 

“Transmissions people – to – people”

La trasmissione di millenari “saperi” cristallizzata nelle fotografie di Tiziana e Gianni Baldizzone, in mostra al Museo del Risorgimento di Torino
Fino al 30 agosto 2020


Il loro viaggio (vario armamentario fotografico a spalle) è durato oltre sette anni, dal 2010 al 2018. Instancabili, curiosi e appassionati globetrotters in Asia, in Africa e in Europa. Senza dimenticare l’Italia e lo stesso Piemonte. L’obiettivo, maturato dopo una lunga esperienza fra i popoli nomadi (“in deserti di sabbia, d’erba e di neve”) – per i quali fondamentale diventa la pratica trasmissione, dai vecchi ai giovani, degli strumenti, delle conoscenze e dei valori che permettono di vivere e sopravvivere in ambienti spesso estremi – quello di riflettere, oggi e a diverse latitudini, sul passaggio del testimone, del “sapere” e del “saper fare”, non come atto banale e ripetitivo o imposto dall’alto ma come prodigioso miracolo di avventure esistenziali che si incontrano, si annusano e si amano alla follia, per condividere esperienze che diventano concretezza di sogni e di gesti capaci di portare in volo l’umana quotidianità: di mestiere in mestiere di generazione in generazione di padre in figlio da maestro a discepolo da occhi a cuore. Da Oriente a Occidente. Storie universali. People – to – people.

 

Nasce così la mostra “Transmittions” a firma di Tiziana e Gianni Baldizzone (compagni di vita e di mestiere, da oltre trent’anni impegnati in progetti fotografici pluriennali su temi specifici e al loro attivo 25 libri pubblicati in Italia e all’estero da importanti editori), ospitata – dopo un’anteprima a Milano nella Pinacoteca di Brera e due importanti esposizioni a Tokyo e a Parigi – nel corridoio monumentale della Camera italiana al Museo Nazionale del Risorgimento di Torino, fino al 30 agosto del 2020. Curata da Tiziana Bonomo, l’esposizione torinese mette insieme 60 fotografie (alcune inedite) in grande formato, a colori e in bianco e nero che raccontano per l’appunto la “trasmissione del sapere” in paesi e culture diverse, attraverso scatti di notevole levatura tecnica e poetica, protagonisti circa 200 fra maestri e allievi, maitres d’art francesi, “Tesori Umani Viventi” del Giappone, artisti, artigiani celebri o sconosciuti, depositari di più di 40 discipline. Dicono i Baldizzone: “Quello che ci interessa cogliere è il rapporto umano, il vivere insieme, il dialogo maestro-allievo per maturare la condivisione e i legami generati dall’atto di trasmissione: intergenerazionali, interculturali, interprofessionali”.

Ecco allora in parete, fra le tante (e molte potrebbero diventare incredibili soggetti cinematografici), la storia di Aboubakar Fofana, oggi giovane uomo del Mali che all’età di sette anni sente raccontare da una donna come con le foglie verdi dell’indaco si possa dipingere di blu una stoffa. Ne resta folgorato. Studia in Francia, ma l’ossessione di quel colore gli resta appiccicata al corpo e all’anima; fondamentale, anni dopo, l’incontro in Giappone con l’arte della calligrafia e con il maestro Akiyama che gli disvela tutti i segreti di quell’ideale connubio, vecchio di 5mila anni, fra blu e viola. “Salvaguardare l’indaco, conservare una memoria perduta dell’Africa occidentale – racconta Aboubakar – è diventata la mia ossessione e il mio progetto di vita”. Oggi Fofana è artista e textile designer di fama internazionale. Accanto alla sua, troviamo la bella favola dell’apprendista calderaio diventato maestro orafo per Hermés e quella di Eriko Horiki, ex-impiegata di banca giapponese e oggi artista, notissima a livello mondiale, di carta washi (translucida e fatta a mano) per l’architettura d’interni. Estelle Guénégo è invece la giovane francese con una passione indomabile per l’argilla che la porta a diventare la prima donna tornitrice di porcellana alla manifattura di Sèvres dal 1741. Allievi e bravi maestri. I maestri che sanno “spingere l’allievo a superarli”: parola di Serge Pascal, fabbro d’arte dei “Compagnons du devoir”, anche lui celebrato nel panorama fotografico dei Baldizzone in un corposo toccante “zibaldone” di immagini, pensieri e storie “che vanno in alto – scrive Tiziana Bonomo – come il ventaglio di sciarpe nei diversi colori dell’indaco a guardare il cielo…incantato dalla luce del tramonto. Artigianato? Mondo antico e perduto? No. Modernità che irrompe e crea e si moltiplica”.

Gianni Milani

“Transmissions people – to people”
Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo Alberto 8, Torino; tel. 011/5621147 o www.museorisorgimentotorino.it
Fino al 30 agosto 2020
Orari: dal mart. alla dom. 10/18; lunedì chiuso

Nelle foto

– “Scuola dell’Acqua SMAT”, 2019, Italia

– “Aboubakar Fofana, artista maestro dell’indaco”, 2011, Mali

– “Comunità di vasai”, 2011, Birmania

– “Eriko Horiki, artista della carta washi”, 2012, Giappone
– “Estelle Guénégo, responsabile atelier smaltatura Sèvres”, 2012, Francia

I tormenti di Joker

Una delle pellicole più note, di successo e discusse di questa prima parte di stagione cinematografica autunnale, è, sicuramente, Joker, diretto da Todd Philips, interpretato da Joaquin Phoenix e con attori del calibro di Robert De Niro nel cast.

Il film, vincitore del Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia, parte dal pretesto di raccontare le origini dell’avversario per eccellenza di Batman, impresa giàtentata in passato da altri lungometraggi, discostandosi da qualunque corrispondenza con ottant’anni di fumetti incentrati sul personaggio, per esplorare un ampio spettro di tematiche che conferiscono al film dignità di opera a se stante e sicuramente con finalità di lavoro d’autore e impegnato.

Certamente la prima qualifica che scaturisce alle labbra, dopo averne concluso la visione, due ore di tensione mai sciolta e sempre in crescendo, è di disturbante, una vicenda tormentata, violenta, disperata e disperante, senza alcuna luce che possa accendersi né nel corso della narrazione né al suo fondo dove, invece, l’oscurità sorge e lascia ad intendere tutto ciò che seguirà e che i fan di Batman – cui non mi ascrivo, anzi, sono totalmente ignorante nell’ambito dei supereroi –  conoscono.

Devo fare una premessa: non sono un grande cinefilo e, al termine della visione, mi sono apparsi chiari i due motivi per cui tendo a preferire la narrazione su carta rispetto a quella del grande schermo.

Il primo di essi è il più rilassante rapporto che si può avere con la parola scritta, capace di coinvolgere ma mantenere un sufficiente distacco che, al contrario, l’immagine supera, acquisendo un’intrinseca forza, ma anche invadenza e violenza, in quanto sempre gettata in faccia allo spettatore, colpendolo ad un livello emozionale che si rivela sicuramente più conturbante; il secondo è rappresentato dalla maggior libertà esplorativa e riflessiva che la scrittura possiede rispetto alla narrazione visuale, contingentata spazialmente e temporalmente, costretta a ricorrere molto di più al sottinteso o alla suggestione di una rapida inquadratura, in un certo senso più vicina alla poesia che alla prosa.

Se il primo termine di questo confronto è qualcosa di soggettivo che dipende dalla capacità “digestiva” di ciascuno, dunque insignificante per qualunque critica costruttiva, sul secondo punto si vogliono invece fondare le osservazioni e le riflessioni svolte nel presente articolo.

Partiamo dall’interpretazione “politica”: Joker  come film di “denuncia”, attributo che si potrebbe dare al film appena letta la trama o viste le prime scene, cosiccome a partire dall’intero ambiente relazionale e sociale che la Gotham City grigia, piovosa, degradata e spaventosamente diseguale descrive.

Questo primo aspetto, per quanto possa apparire controintuitivo, è quello che rimane meno articolato e meno chiarito nel film; forse ciò cui la sceneggiatura punta è proprio il caos, facendo chiari riferimenti alla contemporaneità, senza però necessariamente avere una tesi da dimostrare, bensì mostrare una condizione di tumulto crescente, di confusione sempre più imperante.

Il film narra, di fatto, l’esplosione di una serie di bombe ad orologeria che emergono sia dal singolo, la frustrazione crescente di Arthur Fleck, il futuro Jocker, abbandonato a se stesso e alla malattia mentale, privato dall’amministrazione del supporto clinico e psicologico, del lavoro e del rispetto che merita come essere umano in lotta per un’esistenza difficile, gravata dalla madre da curare, sia dalla collettività, che interseca in più punti l’evoluzione, in realtà sempre in solitaria, del protagonista, lo erge a simbolo, senza che a lui questo possa minimamente interessare – al più, da criminale e malvagio come diverrà, potrà cinicamente approfittarne o sfruttarlo per solleticare il proprio ego – risolta nella rivolta finale, un sabba di fuoco, violenza, sangue, e nell’assassinio dei genitori di Bruce Wayne, un giorno, molti anni più avanti, Batman, paradossalmente unico gesto non compiuto da Jocker — che pure durante il film contro la famiglia Wayne catalizza e sviluppa motivi veri e presunti di rancore –  bensì da un personaggio anonimo, ladro e al più associabile alla categoria del mitomane, del solitario autore del gesto eclatante, colui che colpisce il simbolo in un modo più simile all’assassinio di John Lennon che al delitto politico contro il nemico di classe o di ideologia.

Non è chiaro se il film abbia una finalità di analisi socio-politica con una tesi precisa e, se questa voleva essere inserita, è trattata con una certa fretta, e in questo senso l’opera cinematografica perde rispetto agli spazi riflessivi che la narrazione scritta avrebbe potuto avere, ed è ulteriormente limitata anche nello svolgere ciò che pure potrebbe compiere con efficacia.

In particolare, Joker  non fornisce una risposta néche questa sia, detto molto grossolanamente, “a sinistra”, “marxisticamente” in quanto, pur ponendo alcuni problemi, manifestando la difficoltà e la disparità etica, morale, sociale, politica (la sospensione del supporto psicologico e farmacologico, l’abbandono dei derelitti, la violenza gratuita e la sopraffazione, il fatto che “sono io o gli altri sono tutti pazzi?” cioè la perdita da parte degli esseri umani di qualunque forma di empatia, disponibilità, quei valori qualificati spicciamente da certuni con lo sprezzante “buonismo”) non li sviluppa, li scioglie in una rivolta disorganizzata e violenta che diventa una regressione alla devastazione ed alla legge della giungla, una protesta che non ha argomento né richieste, ma soltanto l’attacco all’élite, vera o presunta; non è sicuramente una rivoluzione come quella francese o quella bolscevica, quella di cui siamo spettatori, ma neppure una sollevazione connotata come quella venezuelana, di Hong Kong, o quella cilena di questi giorni; ricorda, tutt’al più, la degenerazione che il movimento dei gilet gialli ha avuto, settimana dopo settimana, da protesta della Francia provinciale e rurale contro i rincari del carburante a vandalismo generalizzato e rivolta viscerale contro il governo Macron, o il movimento dei forconi che qualche anno fa aveva paralizzato per un paio di giorni l’Italia intera.

Ma, d’altra parte, è evidente che il film non è neppure reazionario, non sposa le tesi che potremmo considerare “conservatrici”, quelle racchiuse nell’argomento dell’invidia che le persone, incapaci di adattarsi al nostro modello di società, provano verso chi ce l’ha fatta ambendo piuttosto al parassitismo dello stato sociale; il film non propone una risposta “ a destra” alla condizione di Gotham City, perché gli uomini d’ordine sono chiaramente descritti come negativi e antipatici, a partire da Thomas Wayne, élite facile al giudizio, al paternalismo e del tutto priva di empatia, prepotente e spietata, come i tre ragazzotti uccisi dal protagonista in una circostanza che specialmente la mentalità americana potrebbe configurare come ai limiti della legittima difesa e che a noi ricordano le vicende del delitto del Circeo.

Le uniche forze dell’ordine neutre o, in questa situazione così esasperata, poco più che buonuomini impotenti, desiderosi di fare il proprio lavoro, ma di fatto privi di mezzi, sono i due poliziotti che indagano sui misfatti e arrivano ad Arthur Fleck, invano, finendo nel più classico degli equivoci del poliziotto che spara all’innocente, anch’esso però liquidato con una facilità che non rende giustizia alle note questioni poste dalla facilità della polizia americana al ricorso alle armi, e ancor più insoddisfacenti per il pubblico italiano che da quarant’anni almeno, senza mai venir meno all’attualità, è abituato a vicende di cronaca relative ad abusi accertati o sospettati delle forze dell’ordine.

Jocker, da questo punto di vista, è un progetto incompleto, forzato anche dalla necessità di costruire un supercattivo, ma non può ambire agli scopi del cinema neorealista italiano – si pensi a quale esito potrebbe avere lo sviluppo del tema del malato privato, diciamolo brevemente e seccamente, delle cure passate dalla mutua, una tragedia a suo modo vicinissima alla condizione del protagonista di “Ladri di biciclette”, film che tutt’oggi potrebbe essere riproposto a partire dalla vicenda, ad esempio di un rider privato di un mezzo che, assieme al cellulare, entrambi spesso di proprietà, è veramente la chiave del proprio sostentamento – , o agli sforzi letterari di autori come Hugo nei Miserabili, dove di nuovo tutto ruota attorno al criminale, o di tanti romanzi dostoevskiani.

Dostoevskij può consentirci, forse, di trovare una chiave di lettura per Joker, ma certamente non andandolo a confrontare con l’assassino per eccellenza della sua produzione, il Raskol’nikov di Delitto e Castigo: Joker, invece, rappresenta uno degli archetipi di quei personaggi dalle vocazioni superomistiche, amorali e, in definitiva, criminose, prive di qualunque valore, tantomeno quello della vita umana, che popolano i Demoni.

Questa interpretazione di Joker può essere avvicinata al glaciale, spaventoso ed affascinante Stavrogin, la condensazione di tutti i terrori dostoevskiani spogliata da qualunque vocazione politica o filosofica, i Demoni non sono certamente né i filosofi atei con una personale statura morale (Ivan Karamazov, Svidrigailov), né i giovani portati all’anarchia o al socialismo da ideali progressisti rigettati dall’ultimo Dostoevskij, imbevuto ormai del mito conservatore e assieme esistenzialistico della Santa Madre Russia. Joker potrebbe figurare in mezzo a quei “nichilisti”, termine cui sono adusi i lettori dei grandi romanzi russi dell’Ottocento; ha una dimensione superomistica e negatrice che, però, distorce, primo di una lunga serie di travisatori, l’ideale nietzschiano che, invece, pone sempre in grande valore l’uomo, ha un suo sentimento e umanità e, certamente, non può concepire il matricidio (e in questo non c’è nulla di freudiano, né nel rapporto con la madre né con il presunto padre Wayne) di cui Arthur Fleck si macchia.

Tutto ciò, però, vuol dire postulare, dal punto di vista dell’analisi politica e sociale, una totale assenza di risposte che non sia appunto il caos e un individualismo sfrenato in cui, però, uno non vale né uno né mille, ma poco più che nulla, l’esistenza umana si può spegnere a piacimento con le armi, i morti non si contano più.

 

È dunque un nichilismo che non ha nulla a che fare neppure con lo Zarathustra che, al contrario, crea dietro di sé un’accolita di reietti e di individui grotteschi e deformi, ma proprio per questo ancor più unici e connotati (non diversi dagli scherzi di natura che tirano a campare nell’azienda di intrattenimento dove Fleck lavora), così come di fatto Jocker non è neppure populista, nel senso che, pur eretto a simbolo, non cavalca di fatto la rivolta, si limita a goderne, ma non se ne fa capo, pur potendone in teoria trarre grande vantaggio.

Il riferimento al comico che fonda un movimento politico, a orecchie italiane, e non solo, particolarmente evidente, non è, comunque, così calzante nel nostro caso; Joker non ha nulla del leader carismatico di una rivolta, non è né un Hitler che magnetizza le folle nelle osterie bavaresi né un Danton, è più un capo ultrà, paradossalmente ha più del Renzo che diventa improvvisamente simbolo della rivolta del pane che del capopopolo: la sua danza sulla volante della polizia accartocciata rappresenta i suoi quindici minuti di celebrità del mito televisivo.

L’interpretazione potrebbe, allora, essere portata sull’aspetto prerazionale, persino premorale, della compassione, della comprensione verso questo personaggio, un uomo costretto ad essere un fallito pur avendo qualche possibilità, che si sforza di essere figlio affettuoso, che affronta a capo chino interminabili rampe di scale: sicuramente, ma ad un certo punto anche questo viene meno, perché la condotta del protagonista diventa sempre più abnorme ed ingiustificabile, sproporzionata ed incline al lato oscuro, e più cresce la sua crudeltà, più noi non possiamo che staccarcene, dichiararci incapaci di giustificare ciò che all’inizio potremmo aver anche tollerato, tutto si discioglie anche qui nel caos e nella semplice manifestazione di una malattia mentale che diventa pericolosa ed inarrestabile.

Quando Fleck non prende più i farmaci, non libera una persona che era tenuta sedata e repressa, e che pure finché era in cura lasciava intuire ciò che di positivo (non si può proprio, in questo film, parlare di buono) poteva nutrire dentro di sé, lascia scatenare semplicemente la follia, tutto si scioglie nell’assurdo, nel paradossale, anzi, per trarre un vocabolo dalla terminologia clinica, molto appropriato in questo contesto, paradosso.

Pertanto, se è vero che il film ambisce ad essere, ed effettivamente lo è, una grande parabola, se non addirittura un ammonimento, sul tema della compassione, della simpatia intesa etimologicamente come capacità di soffrire con l’altro, di comprendere le sue difficoltà e sofferenze, sostare per cercare di condividerne o alleviarne la strada, per quanto il mondo descritto sia un universo di persone e relazioni che domandano o che avrebbero bisogno di pietà ed invece ricevono solo insulti, percosse od insofferenze, il climax finale rende sempre più impossibile da giustificare, e soprattutto investe di un miscuglio fatto di male e follia, il moto di comprensione che pure, sin dall’inizio della narrazione, lo spettatore prova nei confronti del personaggio; ancora una volta, il richiamo è ai tanti fatti di cronaca, anche recenti, quelli che più dividono l’opinione pubblica solitamente tra chi condanna a testa bassa e chi invece, pur cercando di osservare prospetticamente la questione, si trova in tutta a coscienza a dover formulare un giudizio che tenga in giusto conto fattori come le colpe della società, del clima di sempre crescente intolleranza, di estremizzazione, di vicende umane dolorose che, accumulandosi, hanno però avuto come valvola di sfogo gesti in cui da vittima si passa a carnefici, dove è evidente la natura criminale e necessariamente sbagliata dell’azione compiuta.

 

Se però gli aspetti sociali, politici e morali risultano sviluppati o difficoltosamente o con una tesi che preclude qualunque forma di speranza, dove il film veramente la vince è sul tema del riso.

Il tema del pagliaccio triste, che diventa addirittura diabolico, ribaltando quindi quello che dovrebbe essere il suo ruolo, è un topos che va indietro almeno fino all’opera di Ruggero Leoncavallo, la lacerazione tra la parte che si deve recitare e il tormento che si vive conosce infinite declinazioni: l’interpretazione, estremamente contemporanea, che il film dà del tema risiede nel fatto che tutti ridono, ma nessuno sorride.

Meglio ancora, non c’è neppure riso nel film, c’è solo risata, c’è soltanto il vocalizzo, il verso, non dissimile dalla fonazione animale: non è un riso, ma una risata, lo spasmo di Arthur Fleck, inopportuno, patologico, sardonico e tormentato, causato dalla sua malattia, che passa pian piano da gesto incompreso, quint’essenza della sua solitudine, causa di stigma sociale non dissimile dalla pirandelliana esclamazione di condanna “Tu ridi!” alla base della celebre novella che molto ha in comune con i temi trattati dalla pellicola, a simbolo del riso malvagio e agghiacciante del nuovo criminale nemico pubblico numero uno.

Ma sono altrettanto poco più che vocalizzi, spesso guidati da una luce in studio espressione delle direttive di regia, le risate dei tanti spettatori dello show serale condotto da Murray Franklin, unica e totalizzante distrazione nella difficile vita degli abitanti di Gotham, che si riduce però a gesto vuoto, grossolano, insignificante; allo stesso modo è vuoto il divertimento dei maggiorenti di fronte alla maschera sempre triste, e solo superficialmente comica, di Charlie Chaplin in Tempi moderni.

Non c’è vera gioia, se è il conduttore a decidere che cosa faccia ridere e che cosa no, tutto si inquadra in determinazioni semplicistiche: niente humour nero, niente sesso (se non grossolanamente inteso), niente volgarità (a meno che non sia facile e già precotta) ma neanche niente approfondimento, riflessione, satira od umorismo.

E Arthur Fleck, nel suo desiderio di diventare un comico, cerca di conformarsi a tale società, bussa disperatamente perché gli si aprano le porte del mondo dei cabaret, dei piano bar, persino della televisione, ma in modo assolutamente conformista: oltre a non far ridere come comico, perché evidentemente non solo incapace e, comprensibilmente, privo della disposizione d’animo per essere gaio e spensierato, se anche riuscisse nel suo intento, giungerebbe semplicemente all’omologazione, perché la sua comicità è la stessa comicità greve ed approssimativa, conformistica, di tutti gli altri che nel mondo dello spettacolo vivono.

Il punto di rottura, preludio all’assassinio in diretta del conduttore, gesto eclatante e mediatico per eccellenza, si verifica quando Arthur comprende, in un rigurgito di malata dignità, e noi con lui, che tale comicità oltre ad essere vuota e superficiale, distrattrice, è anche spietata, perché è politicamente corretta soltanto verso la gran parte del pubblico, “i normali”, mentre non si fa scrupoli di mettere alla berlina chi a questa normalità non si adegua o non può appartenere: la televisione che si fa trash, un trash “per famiglie”, ancora diverso dalla spettacolarizzazione della rissa, dell’insulto o del dolore, più vicino alla “Corrida” che ai programmi della D’Urso.

Tale riso diventa la quintessenza dell’inautenticità, per parlare il linguaggio caro agli esistenzialisti, in cui l’individualità si discioglie nel “Si”, per posticipare ed ignorare i veri problemi, nel dimenticare la complessità per riposare in una distraente e confortante superficialità.

Si tratta, in sostanza, dello stesso riso sul quale si fonda la gran parte della comunicazione e della produzione che circola in rete: tutto deve essere divertente, tutto deve essere facile, tutto deve essere gioco; è il caso dei tanti video, divertenti o presunti tali, che infestano i nostri social media, quelli con cui, si vede sovente sui mezzi pubblici, per strada, sulle panchine, i genitori inondano i bambini proprio con lo scopo di distrarli, ai quali tanti adulti anche ritornano, di fatto con una regressione infantile, senza comprendere le potenzialità che la rete ci mette a disposizione, ignorando lo sforzo dei tanti produttori di contenuti ricchi di qualità e sfaccettature che fanno leva sulla facilità di accesso dei nuovi mezzi di comunicazione.

È il riso del fenomeno da baraccone, da scemo del villaggio, ma è anche il riso di tanti meme, le immagini umoristiche il cui nome riprende un concetto elaborato negli anni ‘80 dal biologo Richard Dawkins per indicare un elemento culturale e sociale che si riproduce oltre ogni aspettativa e comincia a vivere di vita propria, come se fosse un gene mutante e talvolta impazzito.

Se si parla di riso, inevitabilmente, non possiamo che tornare ad Umberto Eco, agli strali che Jorge da Burgos getta sul gesto che storce il volto dell’uomo e lo rende simile alla scimmia, alla sua lotta disperata e censoria per nascondere e infine distruggere le parti della Poetica di Aristotele dedicate alla comicità – e, sia detto per inciso, la commedia greca, pur permettendo allo Stagirita la riflessione teorica nel suo dualismo con la tragedia, non è certo un punto particolarmente elevato di humour e acutezza, al contrario condivide molto della volgarità e del conformismo, in fondo conservatore, dell’avanspettacolo –, alimentando l’atmosfera di repressione sociale, intellettuale, sessuale, che campeggia sull’abbazia scardinata dall’intelligenza, dallo spirito critico ed illuminato, e da una buona dose di humour squisitamente inglese, rappresentati da Guglielmo da Baskerville.

Il riso che Jorge vuole reprimere e che, invece, Umberto Eco difende è il riso ironico, distruttore di qualunque verità precostituita, l’ironia maieutica di Socrate (e dello stesso Eco, il cui humour è forse il più gradevole aspetto della sua scrittura) o la risata destinata a seppellire, motto dell’anarchia sin dalla fine dell’Ottocento, la distruzione dei parafernali inutili, che sovraccaricano di forma l’assenza di contenuto o la sua natura retriva.

Se Il nome della rosa difende il riso, Joker  lo distrugge: da che parte si può stare allora?

Dalla parte che comprende che gli argomenti svolti dalle due opere non sono antitetici, ma complementari: Eco tanto difende la forza del ridere e la sua valenza positiva nel suo primo romanzo quanto si spende a lungo ad analizzare e criticare i meccanismi del trash e della comicità facilona televisiva, le gaffe di Mike Bongiorno, le produzioni televisive dai paradigmi conformisti e democristiani della Rai anni ‘60 fino a quelli volgari, ma dirompenti, della Mediaset anni ‘80.

Per mostrare quanto bene questi argomenti si concilino, basta considerare che il tempo in cui vive Joker sono proprio i primi anni ‘80, i mezzi di comunicazione a disposizione sono soltanto i giornali e la televisione onnipresente e imperante, che occupa tutti gli spazi ora erosi e contesi dagli altri social media, con linguaggi diversi – limitazione cronologica che in un certo senso è un’altra debolezza del film, che perde in parte di vista le dinamiche più contemporanee di aggregazione delle persone e diffusione del malcontento, necessariamente mediate dai social network – ; non c’è contrasto, c’è sfaccettatura, una sfaccettatura che, riproiettata sulla nostra contemporaneità, si traduce nella viralità dei video di scherno, sopraffazione, umiliazione o inconsapevole autoumiliazione.

Tuttavia, se la presa in giro, lo scemo del villaggio e la berlina sono dinamiche purtroppo sempre esistite, spesso tanto più forti quanto più la comunità è provinciale e chiusa – e certamente la provincializzazione del villaggio globale, dunque dell’intero mondo, è un rischio concreto –, più squisitamente tipico della nostra epoca è proprio la riduzione di ogni cosa al riso e alla dimensione ludica, per cui tutto è facile, tutto è assimilabile al divertissement pascaliano, ai giochi da cellulare con i quali riempire i tempi morti senza un vero coinvolgimento spirituale o intellettuale, alla produzione invasiva e priva di originalità del meme che schiaccia in una non-prospettiva primitiva e semplifica ogni cosa, non soltanto dissacrante, ma di fatto privo della comprensione e della forza interpretativa che ogni prodotto con un significato dovrebbe possedere, al politico che imita l’imitatore, che svuota di contenuti la sua attività comprendendo che, per rendersi riconoscibile, deve passare dalla semplificazione del linguaggio e, possibilmente, dal gesto che lo renda immediatamente individuabile, e che cosa c’è di più facile che accentuare i propri tic, i propri comportamenti paradossali, le proprie incoerenze, sbeffeggiate dall’imitatore, che fa satira, e indossate dal personaggio reale come una parte da recitare continuamente, alla quale si finisce forse per credere, sapendo che ricade a proprio vantaggio.

Joker avvolge, ammorba, strazia nel cinismo, è cinica persino la colonna sonora, la voce di Frank Sinatra che canta il sogno americano e conclude con un That’s life crudelissimo ma perfettamente adattato al genere di follia incarnato dal protagonista, persino la grafica utilizzata, più simile ad una commedia musicale che ad un film di supereroi e tantomeno ad un thriller psicologico, segna il contrasto: il mondo di Joker è pieno di rumore, di grida e di risa, spari e degrado, sferraglio di vagoni e vociare di folle, ma manca di sorriso, questo sì gesto empatico e cordiale, tranne forse il mezzo sorriso stiracchiato alla base dell’infatuazione del protagonista per la vicina, che non è né una semplice fantasia sessuale né un’opportunità di redenzione, ma un miscuglio, anch’esso, di volontà di potenza e bisogno, presto anch’esso dissolto in pulsioni di morte, di umanità.

Non è certo il caso di stabilire se il film sia destinato ad entrare nell’olimpo dei grandi film, ha le sue forze e le sue debolezze, ma certamente è contemporaneo, è adatto al momento in cui viviamo e come tale, inevitabilmente, fa parlare di sé, suscita discussioni ed interroga; persino, in conclusione, interroga sul motivo per il quale siamo andati a vederlo: passione per il personaggio fumettistico, interesse per la vicenda narrata, semplice desiderio di spettacolo, andiamo a vederlo e poi ci riflettiamo su o è solo un altro film con celebri attori e soprattutto il nuovo inizio di una saga supereroistica?

La risposta che ognuno dà è a sua volta parte dell’interpretazione di questo film, in quanto ci schiera nel mosaico di atteggiamenti che ciascuno ha nei confronti del confine tra realtà, spettacolo e finzione, serietà e intrattenimento, che caratterizza il nostro mondo.

 

Andrea Rubiola

Carlo Gloria ritorna a Palazzo Bricherasio

Il prossimo 30 ottobre 

 

Si inaugura mercoledì 30 ottobre alle 17,30 nell’androne di Palazzo Bricherasio in Via Lagrange 20, una installazione di Carlo Gloria, Vado e Vengo, che crea un nuovo collegamento tra il passato e il presente dell’edificio.

Carlo Gloria inaugurò, infatti, nel 2002 – nell’allora sede della Fondazione Palazzo Bricherasio -, la rassegna “Outside: interventi site specific di arte contemporanea”, curata da Guido Curto. Oggi l’artista ritorna con una installazione che richiama la precedente e riapre di fatto il dialogo tra l’arte contemporanea e lo stesso Palazzo, sede istituzionale di Banca Patrimoni Sella & C.

Per ritrovare il giusto fil rouge tra ciò che è stato e ciò che è attualmente, Daniela Magnetti, già direttrice della Fondazione Palazzo Bricherasio e ora direttrice artistica di Banca Patrimoni Sella & C., riscopre quel che è rimasto dell’opera di Carlo Gloria Dodici milionesimi e chiede all’artista di rivederla in chiave attuale. Infatti, dei 12 affreschi digitali realizzati nel 2002 nelle esedre e lungo le pareti dell’ingresso, solo 3 sono ancora esistenti, parti integranti dell’edificio: le due grandi figure nelle nicchie e l’opera nella piccola cupola sopra lo scalone d’onore.

Da qui riparte il lavoro di Carlo Gloria con Vado e Vengo, una riflessione spazio-temporale che coinvolge sia il luogo sia coloro che lo frequentano e l’hanno frequentato. Le figure che animano gli spazi affrescati 15 anni fa, sono visibilmente “diverse” da quelle riprodotte allora: cambiano gli abiti e gli atteggiamenti, così come è cambiata la destinazione d’uso del Palazzo. Differente è anche lo sguardo dell’artista, che rende più “fluidi” i soggetti, trasformandoli in immagini che, seppure anonime, comunicano ancora familiarità. Realizzate partendo da fotografie scattate nei pressi del palazzo, rielaborate al computer con una post produzione che sfuoca le figure rendendole “forme cromatiche”, le immagini vengono poi stampate con il plotter a getto d’inchiostro e applicate al muro.

Dal 2017 Banca Patrimoni Sella & C. ha iniziato a partecipare attivamente ad alcune iniziative culturali sia sul territorio torinese che nazionale, per restare fedele all’identità storica e artistica che sin dalla sua istituzione – con il cenacolo della contessa Sofia di Bricherasio – si respira nelle sale del Palazzo.  “Una sorta di DNA innato – dice Federico Sella, Amministratore Delegato e Direttore generale di Banca Patrimoni Sella & C. – proteso all’arte e al mecenatismo che il nostro Istituto condivide profondamente e intende fare suo”. Sostiene ancora Daniela Magnetti: “Non esistendo più la possibilità di dedicare esclusivamente all’arte le sale interne dell’edificio, Banca Patrimoni Sella & C. esce dagli spazi canonici, allestendo la mostra di Carlo Gloria nel lungo corridoio di accesso del Palazzo, trasformandolo in un luogo espositivo fruibile da tutta la cittadinanza”. Sabato 2 novembre, in occasione della notte bianca dell’arte contemporanea, l’accesso alla mostra rimarrà eccezionalmente aperto dalle 15 alle 23. Per informazioni 347 7365180.

Nell’immagine, Carlo Gloria, bozzetto per l’installazione “Vado e vengo”, 2019.

“Primo Levi. Figure” Le fantasiose, bizzarre “creazioni metalliche” dello scrittore torinese

In mostra alla GAM di Torino
Fino al 26 gennaio 2020
In mostra troviamo il volto, o meglio uno dei volti meno noti al grande pubblico, di Primo Levi. Non solo accorato testimone con la parola scritta (fra le più alte e toccanti nel panorama letterario internazionale) degli orrori di Auschwitz e della Shoah, ma anche personaggio complesso, ricco di molteplici interessi e infinite bizzarre fanciullesche curiosità che si traducevano in svariate elaborazioni della mano e della mente, accompagnandosi ai quotidiani impegni professionali di chimico delle vernici, nonché direttore della “Siva” di Settimo Torinese.

Fra queste, l’originale creazione di lavori tridimensionali in filo di rame smaltato (metallo“sangue del mio sangue”, poiché già nell’infanzia suo compagno di giochi nel laboratorio del padre Cesare, ingegnere dirigente dell’ungherese Ganz, e anni dopo suo primo materiale di lavoro alla “Siva”) attraverso cui si divertiva a creare figure stupefacenti per la certosina pazienza della composizione e per l’esaltante carica di fantasia che a ruota libera Levi lasciava correre nella definizione di sagome di animali – dai più comuni agli improbabili vilmy o agli atoula con le loro femmine nacunu – ma anche di creature fantastiche e di soggetti umani. O umanoidi. Si tratta di lavori risalenti probabilmente al periodo 1955/’75, con un forte carattere intimo e domestico, destinati agli scaffali dello studio nell’alloggio dello scrittore in corso Re Umberto a Torino, oppure ad essere regalati agli amici più cari: mai considerati (ci mancherebbe! E men che meno dallo stesso Levi) come opere d’arte, ma come “gioco” esaltante, allegro, ironico, istrionico e visionario, senza nulla togliere alla grazia e alla squisita armonia di manufatti che rivelano la grande abilità manuale dello scrittore (“imparare a fare una cosa – diceva – è ben diverso dall’imparare una cosa”) tradotta nella precisione scientifica di particolari in cui mai è negato l’estro “impressionista”, a volte casuale, dell’esecuzione.

 

Orbene, un piccolo suggestivo nucleo di queste “figure metalliche” le troviamo esposte, per la prima volta in Italia, fino al 26 gennaio del 2020, negli spazi della Wunderkammer della GAM di Torino, in collaborazione con il Centro Internazionale di Studi Primo Levi e in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita dello scrittore, nato a Torino il 31 luglio del 1919 e a Torino tragicamente scomparso l’11 aprile dell’ ‘87. Curata da Fabio Levi e Guido Vaglio, con il progetto di allestimento di Gianfranco Cavaglià in collaborazione con Anna Rita Bertorello, la rassegna accosta 17 opere, che sono esaltazione del lavoro libero e del confronto ludico “alla Bruno Munari” (autore, fra l’altro, nel ’58 della sovracoperta di “Se questo è un uomo”, in edizione Einaudi) con la materia, che, se compresa, rivela per davvero i segreti più profondi atti a interpretare il mondo. A commento delle “figure”, sono state scelte dai curatori citazioni letterarie – tratte per lo più dall’opera di Levi e, in alcuni casi, da alcuni dei suoi autori prediletti – anziché puntuali didascalie. Scelta che lo stesso scrittore avrebbe condiviso.

 

Lui che affermava: “Non conosco noia maggiore di un curriculum di letture ordinato e credo invece negli accostamenti impossibili”. Così accanto alla figura del “ragno”, leggiamo “meraviglia, meditazioni, stimoli e brividi”; a quella del “gufo”, “ho sentito il gufo ripetere la sua concava nota presaga” e a quella del “guerriero”, “Noi propaggine ribelle Di molto ingegno e poco senno”. Citazioni che pure aiutano a scoprire tratti inediti di una personalità così sfaccettata e complessa come quella di Levi, aprendoci un piccolo varco in quell’“ecosistema – asseriva arguto lo stesso scrittore – che alberga insospettato nelle mie viscere, saprofiti, uccelli diurni e notturni, rampicanti, farfalle, grilli e muffe”.

Gianni Milani

“Primo Levi. Figure”
GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31, Torino; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it
Fino al 26 gennaio 2020
Orari: dal mart. alla dom. 10/18; lunedì chiuso

– Foto: Pino Dell’Aquila

– La foto di Primo Levi con la scultura del gufo é di Mario Monge