La mostra sino al 9 ottobre nella Galleria Biasutti & Biasutti
“Il Pop non è mai morto. È ancora vivissimo nel mondo che ci circonda. Come un vino corposo, decantato in una botte di rovere, acquista nuovi sapori e sparge nuove fragranze”. Magari un Pop rivisitato, che con benefici scossoni ha attraversato le stagioni e le generazioni, che quasi obbligatoriamente porta con sé delle “variazioni”, un guardare indietro alle radici e ai primi sconvolgimenti, “il ritorno al figurativo che si porta addosso le scorie del concettuale”. E allora vai con il Pop nelle trentadue stampe, tutte rigorosamente in bianco e nero (la presentazione in catalogo la si deve a Francesco Poli), “con particolari valenze sperimentali e metalinguistiche”, ospitate da sabato 11 – inaugurazione alle ore 18 – nelle sale della Galleria Biasutti & Biasutti di via Bonafous 7/L sino al 9 ottobre.
L’autore è Enrico Vanzina, pupillo d’oro del cinema italiano, classe 1949, primogenito del regista Steno, cresciuto tra quei profumi di pellicola e di immagini che gli invadevano casa, un baccalauréat al romano liceo Chateaubriand e una laurea nel ’70 in Scienze politiche alla Sapienza, un apprendistato all’ombra del padre, poi la sensazione sempre più concreta che la regia non fa per lui e che il mestiere di sceneggiatore è quello che gli occuperà la vita. A partire dal 1976 nascono progetti e soggetti che prendono forma nella pagina scritta, un lavoro continuo che arriva a superare il centinaio di titoli, affidati ancora al padre e al fratello Carlo – scomparso tre anni fa, al quale Enrico ha dedicato un affettuoso romanzo di ricordi, “Mio fratello Carlo” – come a tanti altri volti del nostro cinema da Lattuada a Flavio Mogherini, da Dino e Marco Risi a Cesare Ferrario, da Neri Parenti a Christian De Sica. Sarebbero sufficienti pochi titoli, a cominciare da “Febbre da cavallo” (1976), a “La patata bollente”, da “Sapore di mare” alle varie “Vacanze di Natale”, dal “Commissario Lo Gatto” a “Tre colonne in cronaca” a “Mai Stati Uniti”. Ha descritto i tanti decenni di vivere italiano, ha analizzato storia dopo storia il cambiamento di una società, le sue risate e i suoi turbamenti, le meschinità e le piccole grandezze, ha inventato facce e storie, ha dato corpo a filoni e a personaggi, magari all’epoca guardati con sufficienza dalla critica ma applauditi dal pubblico e oggi anche rivalutati, ha divertito e nel divertimento ha rimescolato la nota profonda, il cenno di costume mai banale. L’anno scorso, sembra aver buttato all’aria la convinzione di una vita e s’è fatto regista, con
“Lockdown all’italiana” è andato a mettere le mani – con qualche critica – nel periodo buio della pandemia e della necessità di forzate unione all’interno delle case con le tante “debolezze e miserie”.
All’attività di sceneggiatore, ha unito quella di scrittore con una dozzina di titoli, dalla metà degli anni Ottanta, e oggi lo scopriamo fotografo innamorato immancabilmente del pop e della cultura americani degli anni Sessanta e Settanta, che con l’occhio preciso del cineasta continua ad indagare sull’area di quel mondo artistico, sul cinema e sulla musica, sulla letteratura dei grandi nomi. Incastona nelle immagini i rimandi a Hopper e a Warhol, il sorriso di Marilyn e i Blues Brothers, i “Quarantanove racconti” di Hemingway e le pagine di Nabokov, gli eterni graffi di Truman Capote e i ricordi autobiografici di Woody Allen, senza dimenticare i tratti sulfurei del nostro Flaiano. Uomo abituato da sempre a catturare immagini, collega in un gioco raffinato differenti materiali iconici, in qualche modo legati “alla tradizione dei foto-collage d’avanguardia (dadaisti e pop) ma sostituendo la forbice e la colla con interventi digitali”.
Elio Rabbione
Nelle immagini:
Enrico Vanzina, “Variazione America”, 2020, foto in bianco e nero, cm. 60 x 85
Enrico Vanzina, “Variazione Letteratura”, 2020, foto in bianco e nero, cm. 55 x 75
Enrico Vanzina, “Variazione Phone”, 2020, foto in bianco e nero, cm. 40 x 60
Galleria Biasutti & Biasutti, via Bonafous 7/L – Torino
Enrico Vanzina – Variazioni Pop
dall’11 settembre al 9 ottobre 2021
orario: 10 – 12,30 / 15,30 – 19,30. Chiuso domenica e lunedì


“L’emergenza che abbiamo vissuto e che stiamo in parte ancora vivendo ha rimarcato la necessità di offrire al pubblico proposte inedite, misurate sulle attuali esigenze di fruizione e di sostenibilità, e capaci anche di sviluppare e di rafforzare il sistema di scambi e di relazioni nell’ambito della cultura. Una condizione essenziale per offrire al pubblico nuovi contenuti capaci di moltiplicare le opportunità di conoscenza e di esperienza”, afferma Enrica Pagella, direttrice dei Musei Reali di Torino. A tirare le fila, sono quelle che in un periodo gramo che ci ha insegnato a non guardare sempre e soltanto al proprio orto, vengono definite le “nuove narrazioni delle collezioni”. Ovvero avvicinare un museo ad un proprio confratello, mettere a confronto un’opera ad un’altra, di un eguale autore o di uno stesso tema, un sentimento che gioca con la solidarietà e che ha già allineato in trascorse occasioni Botticelli o la pittura caravaggesca. Sono definite, queste eccellenti e benemerite occasioni, percorso obbligato di “approfondimento e conoscenza”, “Confronti”, e ci insegnano a mettere di fronte opere per cento motivi mai o non più visitate, o a scoprire squarci di vita di un autore che a quelle opere è legato.
due opere è un buon esempio di collaborazione con la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia (tuttora in completo riordinamento delle opere in esposizione), dopo la presenza del “San Giovanni Battista” del Merisi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma, un segno del potenziamento delle relazioni con altri musei e istituzioni nazionali, nell’intento di costruire una rete quantomai fruttuosa che valorizzi i percorsi artistici di ogni realtà.
Decisamente l’aspetto scenografico si rende assai più potente nella tela torinese (per inciso, da buon cortigiano, aveva centrato bene il soggetto, il Gentileschi, indirizzandolo ai Savoia, che si erano fregiati dell’ordine cavalleresco dell’Annunziata), a cominciare dall’ampia tenda rossa che s’impone sullo sfondo – Roberto Longhi vedeva in quest’opera il trait d’union tra Caravaggio e Vermeer, come è vero che durante il soggiorno genovese Gentileschi incontrò la lezione di van Dyck, divenendo meno caravaggesco e più legato al panorama della pittura del nord -, dal respiro che giunge dalla finestra di destra, dalla vitalità di quel letto sfatto, dagli amplificati alternarsi, ancora una volta, dei giochi di luci e di ombre, nell’esaltazione del blu, del rosso, del bianco, del violaceo, del grigio, dei bruni e dell’ocra, nella loro squillante ricchezza: su ogni particolare la grandezza del gesto di sottomissione della Vergine. Del quadro esiste una versione ridotta nella chiesa genovese di san Siro: noi alla Sabauda possiamo spingerci, chi lo vorrà, nei confronti con la vicina sala, con il ritratto equestre di “Tommaso Francesco di Savoia Carignano” del maestro olandese.



