CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 503

“Botox” dell’iraniano Mazaheri taglia il traguardo del TFF

Terminato il 38mo Festival  per la prima volta on line

Il presidente del Museo Nazionale del Cinema, Enzo Ghigo, ha sottolineato la riuscita “nell’impresa per nulla scontata di dare una soluzione di continuità al festival” e ha perfettamente ragione.

I timori c’erano, i preparativi e i meccanismi potevano incepparsi ad ogni momento. Non era facile gestire una macchina che per anni ha operato su fronti ben diversi, subito tangibili, affidandosi tra l’altro alla presenza del pubblico e al grande contenitore che sono le sale cinematografiche. Che ci sono personalmente mancate, non ci stancheremo mai di dirlo, successo primo, nella loro visione di affluenza, delle tante edizioni del TFF. A quella appena terminata, la numero 38, è inevitabilmente venuta a mancare quella presenza, con le code e gli immediati scambi d’opinione, l’on line ha vinto, nel chiuso delle case, nella speranza che l’edizione prossima veda tutta la sua sconfitta.

C’è stato un apprezzabile lavoro nelle scelte del gruppo di selezionatori, anche se con il passare dei giorni del festival era facile scremare e cancellare alcuni titoli davvero deboli; c’è stato il verdetto finale della giuria formata da sole donne che ha scelto con grande intelligenza. L’intelligenza di saper cogliere ed elevare tante importanti realtà, i drammi personali e lo sguardo sulla quotidianità di molti paesi, le storie e la Storia, i mutamenti e le speranze, le solitudini e le angosce, la mancanza di futuro e il desiderio di salvifica evasione, la famiglia e i conflitti tra generazioni. Realtà che in alcuni esempi, nella loro descrizione, hanno mostrato ancora un passo incerto, altre che già hanno affermato le capacità e la forza dei propri autori, di cui s’attende ora un percorso ulteriore. Per ognuno degli autori presenti in concorso, potrebbero essere valide le parole, le più poetiche, dette durante la premiazione – una delle tante presenze in streaming – da Fernanda Valadez, Premio speciale della Giuria per il suo Sin sinas particulares: “Abbiamo affidato una piccola bottiglia al mare sperando che qualcuno la trovasse e voi l’avete trovate”, espressioni di fiducia in un momento difficile. Mercedes Hernandez, la madre condotta per mano dalla Valadez tra silenzi e sguardi attenti e attoniti alla ricerca del figlio scomparso al confine tra Messico e Stati Uniti, è stata scelta come migliore attrice, il migliore attore è risultato Conrad Mericoffer, poliziotto gay in Camp de Maci – Poppy field diretto dal rumeno Eugen Jebeleanu, una prova che primeggiava su quella dei tanti colleghi. Il titolo che a chi scrive era sembrato più degno di attenzione, per la perfetta crudeltà che serpeggia nel racconto, per quel filo di humour nero con cui l’autore cerca di alleggerire i contenuti, per quella descrizione sottile di rapporti familiari, è stato scelto dalla giuria come miglior film: Botox dell’iraniano Kaveh Mazaheri, che si porta via anche il premio per la migliore sceneggiatura. Una prova di maturità, incondizionata.

Che chiude con un bel risultato di condivisione questa edizione del Torino Film Festival, nuovo, inesplorato, difficile: ma riuscito. Festival che non si ferma qui, avverte un comunicato stampa. Ci si deve attendere una maratona di Capodanno, sempre su Mymovies, dalle 12 del 31 dicembre e per 24 ore. Per informazioni www.torinofilmfestival.org. Tutto in attesa di tempi migliori, senza transenne e affollati.

Elio Rabbione

Nelle immagini: “Botox” di Kaveh Mazahari, miglior film e miglior sceneggiatura; Conrad Mericoffer in “Camp de Maci” e Mercedes Hernandez interprete di “Sin sinas particulares” di Fernanda Valadez

Tra tutti l’iraniano “Botox” eccelle per il suo realismo intriso di humour nero e allucinato

Ancora le proiezioni dei film in concorso al 38mo Torino Film Festival

 

Prima o poi una domanda ce la dovremo fare. Al di là delle visioni e di ogni giudizio, bello o brutto che sia, confortante o negativo. Perché, pur nel rispetto della preziosa esistenza, e delle scelte effettuate, il clima d’angoscia dei dodici titoli in concorso, coniugato in differenti direzioni? Frutto inevitabile di un’attualità che sembra a tutti i costi soffocarci e non permetterci vie di fuga? Perché le nuove generazioni cinematografiche, quelle che intraprendono con positivi risultati o con immaturità, incertezze, pallide vanità un nuovo percorso, scelgono o trovano rifugio, ai loro occhi più sicuro (la descrizione della realtà), nel mondo di oggi, nella società con i suoi mali? Da quanto tempo qualcuno non gira completamente pagina e ci regala una commedia (non uno di quei troppi titoli che ci sforna, a tratti con grande povertà, il cinema di casa nostra – e non è che per i titoli che ci arrivano dal resto d’Europa e oltre l’erba del vicino sia sempre più verde -, ma una di quelle che potrebbero trovar posto in un luogo cinematografico per eccellenza, una rassegna, un festival, una mostra, definitelo voi, una di quelle che magari un tempo venivano definite “sofisticate”, fornendo eleganza e humour: a memoria frettolosa, da quelle parti, di divertimento e di bella scrittura, l’edizione 37 del TFF sfornò Il grande passo con Fresi e Battiston, nel 2017 Armando Iannucci presentò il suo Morto Stalin, se ne fa un altro), dalla sceneggiatura significativa soprattutto, tutta sorrisi o risate e dialoghi brillanti come non se ne sentono da tempo? Non significherebbe girare la testa dall’altra parte, per qualcuno potrebbe segnare l’occasione per affrontare molti degli stessi problemi con un filo di vivifica ironia. L’approccio di Pif al mondo della mafia dovrebbe aver insegnato qualcosa. Eravamo nel 2013. E’ un mondo difficile da affrontare, pieno di timori per le radici leggere, guardato con la convinzione dell’inattualità forse, di situazioni e svolgimenti che non farebbero più presa sul pubblico.

 

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Pertanto, per quanto riguardo l’edizione numero 38, noi ci siamo sciroppati sniffate che nemmeno il più provetto pusher ha mai distribuito in simile quantità, identità sessuali irrisolte, famiglie in lotta dove uno fisicamente e non solo è lontano dall’altro, assassini da compiersi come bere un bicchier d’acqua, animali martoriati e immediatamente sepolti, comunità e povertà difficilmente recuperabili, il cattolicesimo chiuso e gli insegnamenti dell’imam, mestieri con cui sbarcare il lunario che rendono poco o nulla, attentati e morti che richiamano il Bataclan, padri e madri assenti mentre i figli s’arrangiano come possono, inciampando magari ad ogni passo, i nonni di cui prendersi cura o ancora capaci di badare ai nipoti e regalare un sorriso, la fuga sognata da molti per la tanta voglia di scorgere un futuro, la ricchezza a lungo sospirata e che il più delle volte non ripaga, la Storia da riscoprire, quella di oggi dolorosissima e quella di ieri che ha visto inganni e guerre e vittime. Di questo panorama pressoché privo di luci, nulla di nuovo con il brasiliano Casa de Antiguidades di Joao Paulo Miranda Maria, fatto di magia e di realtà, la storia del vecchio Cristovam, un uomo di colore originario delle zone rurali del nord del Brasile trasferitosi al sud per lavorare in una fabbrica di latte. Una vita che deve fare i conti con le frange xenofobe, con la solitudine, con le privazioni di ogni giorno. Riscoprendo un’antica sala abbandonata e ritrovando all’interno vecchi oggetti che lo riportano indietro negli anni, l’uomo troverà la forza di sopravvivere. Un percorso che si riempie di momenti irrisolti, di figure tratteggiate in modo approssimativo, di sogni o vaneggiamenti, di maschere e di un pallido horror lungo cui con qualche difficoltà lo spettatore riesce ad avanzare. Mentre Regina diretto da Alessandro Grande, unico titolo italiano in concorso, ambientato tra angoli bellissimi della Calabria, farebbe ben sperare nella sua prima mezz’ora descrivendo il rapporto stretto, all’indomani della scomparsa della madre, che s’è venuto a stabilire tra un padre e una figlia quindicenne, motivo primo quel gran desiderio di lei di fare la cantante, per nulla ostacolata anzi spinta a provini e prime serate, magari addolciti con qualche presente verso chi organizza. Ma un giorno, mentre sono su una barca a motore sulla distesa d’acqua di in lago della Sila, un incidente, la morte di un sub, viene a capovolgere le loro esistenze e lo stesso rapporto. Per il padre è stato un incidente, Regina si lascia travolgere dai sensi di colpa. Di qui ha inizio una giravolta verso un debole thriller che abbandona la vecchia strada, non da corpo alla vicenda e soprattutto cancella in sé l’analisi genitore/figlia che aveva fatto ben sperare in una qualche riuscita.

 

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Sognano l’Italia Mofe e Rosa nel nigeriano This is my desire dei fratelli Arie e Chuko Esiri. Il desiderio di rappresentare attraverso quadretti quotidiani le aspirazioni dell’uomo e della donna, lui operaio in fabbrica, lei parrucchiera: dovranno entrambi abbandonarle, tentando di costruire in patria quel futuro che speravano altrove. Ben raccontato, curiosi personaggi tratteggiati con un certo gusto, fatti e chiacchiere che delineano una intera quotidianità. Toccando il tema della omosessualità, Poppy field del rumeno Eugen Jebeleanu vince su Why not you, produzione Austria/Belgio firmata da Evi Romen, di ambientazione altoatesina, ovvero la storia di Mario, ballerino e cuoco, tossicodipendente, per cui la danza non sarà mai una professione fissa. Quando perde in un attentato ad opera degli integralisti – restandone lui illeso – l’amico Lenz a Roma, dove è andato nella speranza di un provino, la sua vita rimane sconvolta, al paese tutti lo guardano con indifferenza, le condoglianze ai genitori del morto, produttori vinicoli, non sono affatto gradite: mentre si fa avanti Nadim che lo introduce nella esigua schiera dell’imam e degli altri affiliati. Un mondo nuovo in cui trovare i mezzi per abbandonare il prossimo? Senza spiegazioni o partorendo idee e ripensamenti, Mario cambia abiti e mente. Sfugge la strada che ha seguito, forse soltanto la danza gli indicherà una più sicura indicazione verso il futuro. Più duro, lineare, compatto, saggiamente esplicativo Poppy field. Dove Cristi (Conrad Mericoffer che è un macigno, possibile migliore attore?), poliziotto abituato a vivere quotidianamente con dei colleghi per cui l’unico credo è essere uomini e machi senza se e senza ma, tenta di tenere nascosta la sua esistenza di omosessuale. Un giorno è chiamato a intervenire con i compagni ad una manifestazione in cui un gruppo omofobo ha fatto interrompere in un cinema un film dai contenuti lgbtqi: i toni già aspri s’inaspriscono allorché uno dei manifestanti minaccia di smascherare Cristi. Per la durata di gran parte dei complessivi 81 minuti, si intrecciano rabbia, sguardi, parole urlate, colleghi che insinuano e momenti di dura difesa, violenza, decisi ricatti, verità che possono da un momento all’altro venire a galla. Jebeleanu racchiude il racconto con estrema tensione nel chiuso della sala cinematografica, dentro il rosso delle poltrone, chiedendosi altresì se quel machismo imperante non sia anche capace di fare sessualmente altre scelte.

 

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Su uno dei gradini più alti dei premi, vorremmo vedere quello che maggiormente ci sembra meritare attenzione, Botox dell’iraniano Kaveh Mazaheri, ovvero la parabola da giustiziere delle sorelle Akram (l’attrice la interprete possibile migliore attrice?), che alterna momenti più o meno lucidi ad altri decisamente di povertà mentale, e Azar, che serve in un istituto dove ricche signore, con il botox, vanno per ringiovanire. Con loro vive un fratello, allegro, uomo tuttofare, di quelli con la battuta pronta che a volte offende inconsapevolmente. Akram, un mattino, offesa per l’ultima volta, lo scaraventa giù dal tetto dove sta lavorando. Se ancora ci fosse qualche dubbio sullo stato comatoso dell’uomo, Azam accelera la fine con un sacchetto di plastica. Mentre le sorelle diffondono sempre più la voce che il congiunto se ne sia andato inaspettatamente in Germania (del resto lo sentivano tutti che stava studiando il tedesco): proprio mentre Azim ha bisogno di riposte definitive alla sua intenzione di coltivare e commerciare certi funghi magici. Audace, a tratti folle nelle visioni e nei monosillabi rotti di Akram, pronto ad affidarsi al sogno e alla speranza più sconquassata, costruito sugli sprazzi di humour nero e dentro una geometria sapientemente portata avanti, chiuso nelle strette mura di casa del trio per aprirsi su quel lago gelato entro cui – un pezzo bellissimo e maturo di cinema – scompare la vittima all’interno della sua auto, Botox riserba un finale a sorpresa, che nasce nella mente delle due donne, un piccolo inatteso capolavoro, scoppio ultimo di un film che si spera possa trovare posto sui nostri schermi abituali, in tempi decisamente normali, culturalmente più liberi e aperti.

 

Elio Rabbione

 

Nelle immagini: “Regina” diretto da Alessandro Grande; “This is my desire” dei nigeriani Arie e Chuco Esiri; un momento do “Poppy field” interpretato da Conrad Mericoffer; le sorelle assassine di “Botox” dell’iraniano Kaveh Mahazeri

Walter Morando. La Sacra di San Michele ancorata al mare

E’ pittore, grafico, scenografo, scultore e, come tale, non poteva non essere affascinato dalla straordinaria imponente struttura in pietra della Sacra

 

Walter Morando, artista di livello internazionale, considerato da importanti critici il maggior esponente italiano vivente che tratta la tematica del mare e dei porti, è attratto da tutto quanto è memoria storica, artistica, ambientale, antropologica che egli trasfigura in iconografie simboliche attraverso la scultura in ceramica e in gres.

Rinnovando il processo alchemico dell’unione di acqua, terra, fuoco egli si ispira ad ogni reperto portuale corroso dal tempo: ganci, catene, bitte, corde, che, grazie al talento, riscattano il semplice ruolo funzionale per assumere dignità estetica e rappresentare il racconto della storia dell’umanità non come pura mimesi della realtà ma in modo sottointeso e allusivo. Morando è pittore, grafico, scenografo, scultore e, come tale, non poteva non essere affascinato dalla straordinaria imponente struttura in pietra della Sacra di San Michele, in cima al monte Pirchiriano a vertiginoso strapiombo sulla valle di Susa, che pare naturale prolungamento della roccia ascendendo al cielo.

Sedotto dal capolavoro medievale, opera corale di artisti, di maestranze, di anonimi scalpellini e tagliapietre che, con spirito unitario della fede, hanno dato prova di ingegno miracoloso, Morando ha voluto darne una propria interpretazione. Il suo immaginario poetico ha sentito la malia del richiamo dei grandi personaggi che qui sono vissuti e vi hanno lavorato: Guglielmo da Volpiano, il grande Nicholaus formatosi nella bottega di Wiligelmo, di cui rimane la firma sul Portale dello Zodiaco, Rodolfo il glabro cronista e leggendario affabulatore. Ne è nata una bella opera figurativa in cui la Sacra viene ancorata al mare da una simbolica catena che rappresenta una costante dell’arte di Walter e che, in questo caso, allude, dopo millenni, agli antichissimi legami del Piemonte con la distesa delle acque marine.

Giuliana Romano Bussola

 

 

Intrecci barocchi (online)

RIPARTE IL 1° DICEMBRE

La stagione durerà fino al 27 dicembre

Dopo aver inaugurato la propria quarta edizione il 13 ottobre con il concerto Cantate, inserito nella programmazione della rassegna Back to Bach organizzata dall’Accademia Maghini, ed essere stata costretta a interrompersi bruscamente dalla recrudescenza della pandemia, Intrecci Barocchi riparte il 1° dicembre con una serie di undici concerti in streaming, che faranno compagnia ai numerosi appassionati del repertorio preromantico fino al 27 dicembre.

Le oggettive difficoltà derivanti dalla grave situazione sanitaria,hanno imposto una radicale revisione del cartellone e costretto le quattro associazioni organizzatrici, l’Academia Montis Regalis, l’Accademia Maghini, l’Accademia Corale Stefano Tempia e I Musici di Santa Pelagia, a lavorare freneticamente per produrre una serie di registrazioni di altissimo livello da diffondere sulle proprie pagine Facebook, prima tra tutte quella di Intrecci Barocchi, e sul canale YouTube di SoloClassica Channel. Come hanno sottolineato i responsabili di tutte e quattro le associazioni: «Si è trattato di una vera e propria corsa contro il tempo, che ci ha permesso di realizzare un programma estremamente variegato, che spazia dal repertorio sacro a quello profano, dal Seicento al Settecento, da opere vocali a lavori strumentali e da brani universalmente famosi ad altri virtualmente sconosciuti, nell’interpretazione non solo delle formazioni “di casa”, ma anche di alcuni dei migliori cantanti ed ensemble del panorama barocco italiano. In questo modo contiamo di raggiungere un pubblico molto più vasto, anche al di fuori del Piemonte. In effetti, questo potrebbe essere un passo avanti decisivo per far diventare Intrecci Barocchi una rassegna dal respiro realmente nazionale, in grado di portare – quando la pandemia sarà finalmente passata – i più acclamati interpreti del nostro paese».

Il programma comprende ben undici concerti della durata di circa 40 minuti, che verranno diffusi gratuitamente in streaming ogni martedì, giovedì e domenica alle 18.30 dal 1° al 27 dicembre e che, in seguito, potranno essere visti on demand in qualsiasi momento. «La registrazione di ogni concerto – afferma Piero Tirone, neopresidente della Stefano Tempia costituisce una valida testimonianza di un progetto molto ambizioso, che ha potuto contare sul concreto sostegno dell’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte, della Compagnia di San Paolo e della Fondazione CRT e che, negli anni passati, si è concretizzato in due spettacolari coproduzioni che hanno visto uniti i nostri quattro ensemble corali e strumentali nell’esecuzione di due dei massimi capolavori della letteratura barocca come l’Oratorio di Natale di Johann Sebastian Bach e il Messiah di Georg Friedrich Händel».

La “ripartenza” vedrà protagonista il 1° dicembre, alle ore 18.30,il trio di strumenti originali Ensemble À l’Antica, formato dal flautista Luigi Lupo, dalla violinista Rossella Croce e dalla cembalista Anna Fontana, che presenterà da “Da Bach ai Bach”, una godibilissima silloge di opere scritte da Johann Sebastian Bach (Sonata in sol maggiore BWV 1038) e da tre dei suoi figli più famosi, Carl Philipp Emanuel (il “Bach di Berlino”), Johann Christoph Friedrich (il “Bach di Bückeburg”) e Johann Christian (il “Bach di Milano e di Londra”). Questo concerto rientra nella stagione dell’Accademia Corale Stefano Tempia ed è realizzato in collaborazione con il festival Back TO Bach.

Giovedì 3 dicembre sarà la volta di Giulio Sanna, violoncellista giovane, ma già affermato a livello internazionale, che eseguirà sul suo Andrea Castagneri del 1739 le Suite n. 1 e 5 per violoncello solo BWV 1007 e 1011 di Johann Sebastian Bach, due dei più insigni monumenti della letteratura solistica di tutti i tempi. Organizzato dall’Accademia Maghini, questo concerto rappresenta il terzo e ultimo appuntamento dell’integrale delle suites per violoncello solo del sommo Cantor lipsiense, iniziata due anni fa.

Di seguito riportiamo i programmi dettagliati dei primi due concerti e i dati essenziali degli altri nove.

Martedì 1° dicembre 2020 – ore 18.30

DA BACH AI BACH

Johann Sebastian Bach (1685-1750)

Sonata in sol maggiore per flauto traversiere, violino e basso continuo BWV 1038

Largo – Vivace – Adagio – Presto

Carl Philipp Emanuel Bach (1714-1788)

Duetto per flauto traversiere e violino Wq. 140/H.598

Andante – Allegro – Allegretto

Johann Christoph Friedrich Bach (1732-1795)

Sonata in do maggiore per flauto traversiere, violino e clavicembalo concertante

AllegroAndanteRondò. Allegretto

Johann Christian Bach (1735-1782)

Trio in sol maggiore per flauto traversiere, violino e basso continuo W Blnc 2

Allegro assaiLarghettoPresto

Ensemble À L’Antica

Luigi Lupo, flauto traversiere

Rossella Croce, violino

Anna Fontana, clavicembalo

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Giovedì 3 dicembre 2020 – ore 18.30

SUITES, TERZA TAPPA

Johann Sebastian Bach (1685-1750)

Suite n. 1 in sol maggiore per violoncello solo BWV 1007

Preludio – AllemandaCourante – Sarabande – Menuet I – Menuet II – Gigue

Suite n. 5 in do minore per violoncello solo BWV 1011

Preludio – AllemandaCourante – Sarabande. Gavotte I – Gavotte II – Gigue

Giulio Sanna, violoncello

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Prossimi concerti:

Domenica 6 dicembre 2020 – ore 18.30

“COMBATTA UN GENTIL CORE” – ARIE DA OPERE VENEZIANE

Opere di Benedetto Marcello, Antonio Vivaldi, Georg Friedrich Händel e Giuseppe Tartini

Lucia Cortese, soprano

Diego Cal, tromba barocca

Nicolò Dotti, oboe barocco

Matteo Anderlini, violino solista

Camerata Accademica

Paolo Faldi, direttore

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Martedì 8 dicembre 2020 – ore 18.30

WANDELN IN DER LIEBE

CAMMINARE NELL’AMORE

Opere di Johann Sebastian Bach e Georg Philipp Telemann

Natalie Lithwick, mezzosoprano

Ensemble cameristico dell’Academia Montis Regalis

Maurizio Fornero, clavicembalo e direzione

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Giovedì 10 dicembre 2020 – ore 18.30

GEORG PHILIPP TELEMANN

SONATE A DUE FLAUTI

Luigi Lupo, flauto traversiere

Pietro Berlanda, flauto traversiere

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Domenica 13 dicembre 2020 – ore 18.30

TAFELMUSIK

Opere di Isaac Posch e Heinrich Ignaz Franz Biber

Harmonicus Concentus

Gabriele Raspanti, violino e direzione

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Martedì 15 dicembre 2020 – ore 18.30

SORGEA DAL SEN DI LETE

Cantate di Giovanni Legrenzi

Mauro Borgioni, baritono

Ensemble Mvsica Perdvta

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Giovedì 17 dicembre 2020 – ore 18.30

OTTONI BAROCCHI

Opere di Gabrieli, Bach

Ensemble Canaveisan Brass

Maurizio Fornero, organo

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Domenica 19 dicembre 2020 – ore 18.30

UNA VIRTUOSA DEL SEICENTO

Opere di Barbara Strozzi

Lucia Cortese, soprano

Harmonicus Concentus

Gabriele Raspanti, violino e direzione

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Martedì 22 dicembre 2020 – ore 18.30

CUM JUBILO

Opere di Johann Sebastian Bach, Arcangelo Corelli e Franz XaverBrixi

Valentina Chirico, soprano

Massimo Lombardi, tenore

Matteo Cotti, organo

Academia Montis Regalis

I Musici di Santa Pelagia

Consort Maghini

Claudio Chiavazza, direttore

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Domenica 27 dicembre 2020 – ore 18.30

SALMI DAVIDICI

Opere di Benedetto Marcello

Gli Armonici della Serenissima

Ars captiva sui muri della città

A cura dell’Accademia Albertina / Sette manifesti progettati dagli studenti delle scuole a indirizzo artistico e della comunicazione per stimolare nei cittadini riflessioni legate ai concetti di libertà espressiva e creatività

Torino, 3-17 dicembre 2020

Tra le iniziative di Ars Captiva per l’anno in corso era centrale un workshop grafico
dedicato agli studenti dei corsi di Grafica e Comunicazione. Avrebbe coinvolto i
giovanissimi creativi nella progettazione di manifesti pensati per riflettere, insieme ai
cittadini torinesi, sulla difficile riemersione dalla pandemia. Per ragioni ormai a tutti
note, il laboratorio di ottobre è stato rinviato a tempi più sereni.

Ars Captiva ha deciso di essere comunque presente sui muri della città, con frammenti
significativi della propria storia e della propria visione, affidati alle immagini-guida
delle sette edizioni biennali trascorse.

Sono esposte immagini progettate nel tempo dagli studenti, invitati a rielaborare
la rappresentazione del proprio volto. I risultati mostrano una chiara competenza
progettuale, al servizio della comunicazione degli eventi e delle mostre che
Ars Captiva periodicamente organizza in luoghi diversi della città.

Dalle ex Carceri Le Nuove alle sedi del Torino Jazz Festival, dalla ex Manifattura
Tabacchi all’Housing Giulia (residenza per persone in difficoltà abitative transitorie),
dal 2007 gli studenti dialogano con gli spazi trasformandoli con la loro creatività,
in sintonia con il tema loro assegnato.

Le citazioni, a corollario dei visual in ciascuno dei poster, rimandano ai contenuti
delle sette biennali e, al contempo, intendono conservare lo spirito del workshop non
realizzato. Associate alla forte presenza delle immagini, interpellano i passanti sui
concetti non scontati di libertà espressiva, duttilità di pensiero e creatività.

La serie di manifesti visibile dal 3 al 17 dicembre negli spazi di affissione cittadina, in una
vera e propria mostra a cielo aperto, testimonia una volta di più l’importante presenza
di Ars Captiva nella formazione artistica regionale. Intende attirare l‘attenzione sulla
capacità di innovazione e di fare sistema degli istituti artistici, che hanno saputo unirsi
in associazione con l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino per incentivare la
relazione col territorio attraverso un nuovo modo di intendere la didattica.

Quelle stesse istituzioni, per loro natura definite da attività e pratiche artistiche
di laboratorio che nessun insegnamento a distanza può sostituire, soffrono oggi
oltremisura le conseguenze dei provvedimenti sulla scuola. Ai docenti, agli studenti,
ai giovani artisti, costretti a esprimersi oggi in condizioni di assoluto disagio,
testimoniamo con questa mostra il nostro impegno.

Il “Pannunzio” in primavera alla Presidente Casellati

Oggi,  25 novembre,  il Centro “Pannunzio” avrebbe dovuto consegnare il Premio “Pannunzio” 2020 alla Senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati, Presidente del Senato della Repubblica.

Per le misure normative di contenimento del contagio COVID – 19, la cerimonia non potrà aver luogo.

E’ rimandata alla primavera 2021.

 

(Nella foto, con la sen. Casellati,  il prof. Quaglieni del Centro Pannunzio)

La storia del Caval ‘d brons

ALLA SCOPERTA DEI MONUMENTI DI TORINO

Il re, dopo aver scartato un primo progetto nel quale Emanuele Filiberto a cavallo scavalca una palizzata, approvò, invece, un bozzetto di un ritratto equestre del Duca poggiante su un basamento, arricchito da quattro figure allegoriche sotto le quali trovavano posto quattro grandi vasche per altrettante fontane

Situata al centro della piazza, la statua in bronzo (detta Caval ‘ d brons) raffigura il Duca Emanuele Filiberto a cavallo, nell’atto di rinfoderare la spada dopo la battaglia di San Quintino (1557). Il basamento in granito è ornato su ogni lato dallo stemma sabaudo con la corona ducale e da due bassorilievi in bronzo che rappresentano il Duca mentre fa prigioniero il Montmorency, Gran Connestabile di Francia, e mentre legge i preliminari di pace per il trattato di Cateau-Cambrésis. L’annuncio ufficiale della realizzazione del monumento dedicato a Emanuele Filiberto di Savoia fu dato il 17 dicembre 1831 dalla Gazzetta PiemonteseL’opera venne commissionata da Carlo Alberto all’artista Carlo Marocchetti (stesso autore del monumento dedicato a Carlo Alberto), torinese di nascita ma formatosi in Francia dove risiedeva abitualmente. Il re, dopo aver scartato un primo progetto nel quale Emanuele Filiberto a cavallo scavalca una palizzata, approvò, invece, un bozzetto di un ritratto equestre del Duca poggiante su un basamento, arricchito da quattro figure allegoriche sotto le quali trovavano posto quattro grandi vasche per altrettante fontane. Prima di dare esecuzione al progetto lo scultore Carlo Marocchetti decise di erigere “un non intiero simulacro del monumento al centro della magnifica piazza”; una curiosa prova generale a cui assistette con grande soddisfazione anche “Sua Maestà con un corteggio di autorità”. Ma, pochi mesi dopo la simulazione in piazza, cominciò a circolare a Torino un opuscolo con “Osservazioni relative al Gran monumento” che condannò quasi per intero l’opera. La critica sortì il suo effetto e così un decreto del 24 settembre 1833, stabilì i fondi di L. 210.000 per una “statua equestre in bronzo, collocata sopra un piedistallo circondato da quattro statue allegoriche, il tutto in marmo”; scomparirono definitivamente le fontane. Nonostante le modifiche all’impianto monumentale le polemiche non si placarono, in particolare il critico francese Jean-Paul Ducros rimproverava che le quattro statue agli angoli del basamento apparivano “troppo simmetriche per essere considerate ornamenti architettonici”. Dopo innumerevoli contrasti tra Ducros e Marocchetti, la questione si concluse con l’approvazione, da parte dell’Accademia delle Belle Arti, del disegno originariamente concepito dallo scultore. Finalmente, dopo essere stato esposto per due mesi e con grande successo nel cortile del Louvre, il 4 novembre 1838 il monumento venne solennemente inaugurato. Carlo Alberto fu pienamente soddisfatto del monumento ed il Marocchetti ebbe il titolo di barone con in dono un gioiello di gran valore mentre, il fonditore Soyer, ricevette una medaglia d’oro con l’effigie del re. Un’opera, questa, considerata oltre che il capolavoro del Marocchetti, anche uno dei più significativi esempi di politica culturale di Carlo Alberto che, per celebrare l’avvento del suo regno, decise di erigere il primo monumento pubblico all’aperto dedicandolo al Duca Emanuele Filiberto. Dopo due rimozioni, nel 1943 per proteggerlo dai bombardamenti e nel 1979 per restaurarlo, nel 2006 sono inziati i lavori per un accurato restauro e nell’ottobre 2007, tolto il drappo rosso che lo copriva, i cittadini, che attendevano numerosi in piazza San Carlo, hanno potuto finalmente rivederlo. Il monumento, identificato con l’affettuoso nomignolo di “Caval ‘ d brons”, è ormai riconosciuto come uno dei simboli della città di Torino. Ma per poter conoscere il monumento equestre nella sua totalità bisogna anche tenere conto e “spendere qualche parola” per la magnifica piazza che lo ospita. Come ricordato prima, l’opera di Marocchetti a Emanuele Filiberto di Savoia, sorge nel mezzo della centralissima piazza San Carlo, uno spazio progettato da Carlo Castellamonte nel 1637 su un sito occupato prima dall’anfiteatro romano, poi da un tratto delle mura e della spianata della città cinquecentesca. La realizzazione si concluse nel 1650 e divenne il punto nodale del primo ampliamento meridionale della città seicentesca; divenne anche sede di spettacoli grandiosi, manifestazioni ufficiali e parate e la sua prima denominazione fu Place Royale. La realizzazione della piazza, impostata sull’asse della Contrada Nuova (oggi via Roma), rese necessaria prima la demolizione delle vecchie strutture fortificate, ed in seguito la delimitazione del contorno da un sistema di palazzi barocchi porticati, caratterizzati da eleganti facciate unitarie e continue.Per chiudere il lato meridionale vennero progettati i due lotti gemelli, donati, poi in seguito, ad ordini religiosi di stretta protezione ducale: gli Agostiniani Scalzi che fondarono la chiesa e il convento di S. Carlo Borromeo e le Carmelitane Scalze che costruirono la chiesa e il convento di Santa Cristina. Nel corso del tempo, a causa dei progressivi frazionamenti delle proprietà e dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, gli edifici originari sono in gran parte andati distrutti e sono stati ricostruiti nel dopoguerra.Fino al 2004, la piazza è stata percorribile dal traffico veicolare e occupata in prevalenza dalle auto in sosta. Con gli interventi di riqualificazione dell’area centrale storica, è stato restituito a piazza San Carlo il suo ruolo da protagonista nello straordinario scenario della Torino Barocca. Il progetto di riqualificazione ha riportato la piazza al suo originario uso esclusivamente pedonale, mantenendo nella pavimentazione il disegno e i materiali esistenti in precedenza. Sperando che questo “tuffo nel passato per conoscere il presente” sia stato di vostro gradimento, Il Torinese vi da appuntamento alla prossima settimana alla scoperta di un’altra meraviglia di Torino.

Simona Pili Stella

(Foto: il Torinese)

Maratona di donazioni per “Il Grande Assente”

La campagna di raccolta fondi digitale lanciata dai Musei Reali e Talenti per il Fundraising

 

L’iniziativa, promossa dai giovani partecipanti del corso di alta formazione della Fondazione CRT sulla piattaforma Rete del Dono, finanzierà il restauro dell’opera “Amedeo VI presenta a Urbano V il patriarca di Costantinopoli”, danneggiata nell’incendio della Cappella della Sindone del 1997

 

Neanche il lockdown ha fermato il desiderio dei torinesi di sostenere e riscoprire il grande patrimonio culturale che ha fatto la storia della nostra città. Un segnale di ottimismo che arriva dalla collaborazione tra i Musei Reali e dieci giovani partecipanti del corso di alta formazione Talenti per il Fundraising 2020 di Fondazione CRT, che hanno avviato, con il sostegno del Rotary Club Torino Palazzo Reale, una campagna di donazioni a supporto del complesso museale. In occasione della restituzione alla cittadinanza del Giardino Ducale avvenuta lo scorso 28 giugno, era stata ideata una giornata di festa per trasformare il primo evento di raccolta fondi in un momento di incontro e di promozione delle iniziative di fundraising e dei Giardini Reali. Con la chiusura dei musei l’azione dei giovani si è trasferita in rete.

 

Il Grande Assente

Durante il periodo autunnale è stata lanciata la campagna di raccolta fondi digitale Il Grande Assente, nata dal desiderio di restituire alla Galleria della Sindone e alla fruizione del pubblico un quadro di grandi dimensioni in deposito da molti anni. L’opera raffigura Amedeo VI che presenta a Urbano V il patriarca di Costantinopoli (1848) e fu realizzata per Carlo Alberto dall’artista livornese Tommaso Gazzarrini. Danneggiata nel 1997 durante l’incendio della Cappella della Sindone, necessita di un impegnativo restauro.

È possibile sostenere la raccolta partecipando alla campagna Il Grande Assente, pubblicata sulla piattaforma Rete del Dono. Nell’arco di due settimane, il primo obiettivo di 3.000 Euro e i successivi rilanci a 5.000 Euro e 7.500 Euro sono stati rapidamente superati grazie al contributo di oltre 250 donatori, permettendo di fissare un nuovo obiettivo di 10.000 Euro. La campagna si concluderà il 28 novembre 2020. Per scoprire di più: www.retedeldono.it/it/progetti/rctpr/il-grande-assente

 

Un’altra iniziativa, parte del progetto e rivolta alle famiglie, è dedicata alla scoperta della figura di Amedeo VI di Savoia, soprannominato il Conte Verde. Si può partecipare leggendo una storia e realizzando disegni ispirati alla vita avventurosa del celebre conte di Savoia, nato nel 1334. Per maggiori dettagli è possibile consultare i canali social e il sito dei Musei Reali: www.museireali.beniculturali.it/events/mrtkids-il-grande-assente/

 

Riscopriamo il Grande Assente è l’evento conclusivo organizzato dai giovani corsisti che si terrà il 28 novembre sui canali social dei Musei Reali e sul sito www.donorday.it/museireali/. Durante la giornata sarà possibile partecipare a una tavola rotonda che vedrà come ospite speciale, tra gli altri, la direttrice Enrica Pagella, ma anche prendere parte a sfide virtuali e approfondimenti per conoscere meglio il dipinto grazie all’intervento di esperti dei Musei Reali. Ad accogliere i partecipanti sarà il team di Talenti per il Fundraising, disponibile a dare informazioni sull’iniziativa Il Grande Assente e sulle attività di raccolta fondi.

 

Cercare ancora il Santo Graal?

Calice dell’Ultima Cena, Catino magico, Arca dell’Alleanza e si potrebbe continuare. Forse una coppa, un piatto, una pietra, una reliquia cristiana, in ogni caso un oggetto leggendario dotato di un potere magico e straordinario. Dov’è nascosto il Calice di Gesù e dove cercarlo ancora?

Dalle chiese torinesi alle abbazie scozzesi, dai castelli normanni alle cattedrali spagnole, dalle fortezze sveve in Puglia alle terre mediorientali, lo cercano ovunque ancora oggi.
Da sempre il mito del Santo Graal affascina e seduce il mondo cristiano. Ma cos’è il Graal? Per Franco Cardini, storico del Medioevo e delle Crociate, “si tratta della versione celto-germano medievale di un tema che si trova in tutti i sistemi mitico-religiosi del mondo e cioè l’oggetto che dà potere, conferisce ricchezza, una sorta di calderone delle meraviglie. Nella nostra civiltà cristiana la fonte di questa credenza è in un romanzo del XII secolo. Da quel momento il Graal, da mito antropologico si trasformò in leggenda”. Con il 2020 si chiudono le celebrazioni per ricordare la nascita, 900 anni fa, dell’Ordine del Tempio, fondato a Gerusalemme tra il 1118 e il 1120 ma la ricerca sui templari non si è mai chiusa, anzi pare eterna come il mistero che avvolge da millenni alcune sacre reliquie della Passione di Gesu’ di cui i Templari ne sono ritenuti da sempre i custodi. Secondo la leggenda, infatti, i Cavalieri del Tempio sarebbero stati i protettori del Sacro Graal, la coppa in cui Gesù Cristo nell’Ultima Cena avrebbe benedetto il vino e che sarebbe poi servita a Giuseppe d’Arimatea per raccogliere le gocce del sangue di Gesù durante la crocifissione.
Non solo, ma i Templari sarebbero stati anche i custodi della Sindone, il sudario che secondo la tradizione cristiana, avrebbe avvolto il corpo di Gesù dopo la deposizione dalla Croce, attualmente conservato nel Duomo di Torino. Il cavaliere medioevale Wolfram von Eschenbach, uno dei maggiori poeti tedeschi del Duecento, attribuì ai Templari la custodia del Graal nella sua versione del poema cavalleresco Parzival. Barbara Frale, esperta del fenomeno templare e autrice di libri sul tema, ha indagato a fondo i documenti del processo al Tempio scovati nell’Archivio Segreto del Vaticano: “sicuramente le nuove piste di ricerca, afferma la studiosa, confermano che tale convinzione può nascondere un fondo di verità. Tuttavia il cammino della conoscenza in questo senso è ancora lungo e potrà raggiungere risultati importanti solo se si manterrà ben distinto da tutta la letteratura di fantasia che ha dato all’Ordine del Tempio un volto esoterico troppo artefatto”.
Ma dove cercare il calice di Gesù che, secondo la leggenda, naviga attraverso i secoli da Gerusalemme all’Europa, passando poi da una mano all’altra? C’è chi ritiene che il Santo Graal sia stato rintracciato dai Crociati e portato nel vecchio continente e si trovano testimonianze della sua presenza un po’ ovunque, in Francia, Scozia, Inghilterra, Galles, Spagna, Italia e anche in Medio Oriente. Nella cattedrale di Valencia c’è il Santo Caliz, forse la vera autentica Coppa dell’Ultima Cena, usata anche da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI per celebrare la messa nella città spagnola mentre nella Cappella di Rosslyn in Scozia si troverebbe il Calice portato dai Templari negli anni della soppressione dell’Ordine (1307-1312). Una delle colonne della splendida e misteriosa Cappella scozzese conterrebbe infatti uno scrigno di piombo con la Coppa nascosta al suo interno. Ipotesi quest’ultima ripresa dallo scrittore Dan Brown nel suo romanzo “Il Codice da Vinci”. I Templari erano anche in buoni rapporti con la “Setta degli Assassini” un’organizzazione esoterica sciita radicale che adorava “Bafometto”, una misteriosa divinità che per alcuni non era altro che il Graal. Prima di essere definitivamente sbaragliati gli Assassini affidarono il Graal ai Templari che lo nascosero insieme al resto del Tesoro nei sotterranei del castello templare di Gisors in Normandia. Da Torino a Castel del Monte e al duomo di Genova, anche in Italia viene segnalata la presenza del Graal portato forse dai pellegrini in giro per il continente o dai Savoia insieme alla Sindone. Nel Tempio della Gran Madre di Dio una delle sue statue ai lati del sagrato rappresenta una donna, forse la Madonna, che con la mano sinistra leva in alto un calice per indicare la presenza del prezioso Graal in chiesa.
Oppure a Castel del Monte dove i mistici Sufi islamici avrebbero affidato il Graal all’Imperatore Federico II di Svevia affinchè lo proteggesse dalle violenze delle Crociate e dunque il sacro oggetto si troverebbe nel misterioso palazzo a forma di coppa ottagonale. O ancora il Graal sarebbe il calice di Antiochia o il Sacro Catino di vetro verde brillante, di manifattura islamica, conservato nel Duomo di San Lorenzo a Genova, qui portato dopo la prima Crociata. C’è chi sostiene invece che il Santo Graal sia sepolto a Glastonbury nell’Inghilterra del sud o a Notre-Dame de Lille presso Lione, insomma, come si vede, i luoghi sono innumerevoli e l’indagine continua. “Ci sono tanti giovani ricercatori al lavoro, veri professionisti, osserva Barbara Frale, che indagano con pazienza e competenza i molti punti ancora ignoti della breve ma intensa storia dell’Ordine del Tempio”. Forse la ricerca del Santo Graal è la ricerca perenne di Dio, dei suoi segreti, misteriosi e impenetrabili ed è sicuro che anche nei prossimi anni e nei prossimi decenni i Cavalieri del Tempio continueranno a spingere folle di appassionati, di studiosi e di ricercatori a cavalcare per l’Europa in lungo e in largo, dall’Italia alla Scozia, dal sud al nord del vecchio continente. Anche perchè la leggenda narra che chi tra i mortali riuscirà a trovare il famoso Calice conquisterà la felicità in terra e in cielo…
Filippo Re

Diretta social per “Autunno della fotografia. Torino 2020”

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Su  Facebook e secondo appuntamento per raccontare e divulgare i segreti della grande fotografia. Martedì 24 novembre, ore 18

Dagli scatti fotografici dei più celebri maestri al reportage su temi d’attualità. Il tutto raccontato, puntualizzato e messo in discussione attraverso incontri on line con gli stessi protagonisti, geni talentuosi dell’arte fotografica di cui tutto o quasi si sa e si conosce e di cui sono oggi presenti rassegne espositive – chiuse per lockdown – negli spazi museali torinesi.

Istituzioni del territorio, quest’ultime, che hanno saputo intelligentemente fare rete per dar vita all’iniziativa “Autunno della fotografia. Torino 2020”, un calendario di dirette Facebook per approfondire, appunto, i temi affrontati nelle mostre di ciascun museo. Una cinquina da incorniciare: CAMERA, Fondazione Torino Musei, Musei Reali, MEF-Museo Ettore Fico e La Venaria Reale. Ad incontrare virtualmente fotografi e curatori delle rassegne sono Walter Guadagnini, direttore di CAMERA-Centro Italiano per la Fototografia di via delle Rosine, e gli altri responsabili del progetto: Giangavino Pazzola e Monica Poggi. Dopo il primo incontro, tenutosi martedì 10 novembre fra il MAO-Museo d’Arte Orientale e Palazzo Madama e che ha visto protagonisti il fotografo milanese Samuele Pellecchia (fondatore dell’Agenzia “Prospekt”) e il torinese Fabio Bucciarelli, il secondo appuntamento, in programma per martedì 24 novembre (alle ore 18) coinvolgerà la GAM di via Magenta e il Museo Ettore Fico di via Cigna.

A interloquire su “Fotografare la società contemporanea” saranno Guido Harari (origini egiziane e fondatore ad Alba, dove risiede, della “Wall Of Sound Gallery”, la prima galleria fotografica in Italia interamente dedicata al mondo della musica) e il comasco Massimo Vitali, presente al MEF con l’intrigane mostra titolata “Costellazioni Umane”. Moderatore Giangavino Pazzola, che spiega: “La fotografia è anche uno strumento di indagine sociologica, un mezzo attraverso cui rilevare i miti e i riti del ventesimo e del ventunesimo secolo”. Ne sono esempio lampante e perfetto gli scatti di Vitali, il fotografo delle spiagge superaffollate, totalmente innamorato degli “assembramenti” (terrifica parola usata di questi tempi) d’ogni genere e della più varia umanità. Fra le immagini in mostra al MEF troviamo anche quelle inedite realizzate durante i concerti dell’ultimo tour italiano di Jovanotti, dove migliaia di persone, ognuna con la propria individualità, si trasformano in un’unica immensa folla a ritmo di musica. E il binomio fra individuo e società, fra pubblico e privato, è ben presente anche nella lunga carriera di Guido Harari, fotografo ma anche critico musicale, collaboratore dei maggiori artisti musicali italiani e internazionali (per i quali ha firmato un’infinità di copertine) e fotografo personale per una ventina d’anni di Fabrizio De André.

Di lui disse il mitico Lou Reed, immortalato da Harari, con l’altrettanto mitica consorte Laurie Anderson in scatti di struggente e poetica emozionalità: “Sono sempre felice di farmi fotografare da Guido. So che le sue saranno immagini musicali, piene di poesia e di sentimento. Le cose che Guido cattura nei suoi ritratti vengono generalmente ignorate dagli altri fotografi. Considero Guido un amico, non un semplice fotografo”. Da ricordare acora che Harari è anche curatore della mostra “Photo Action per Torino” alla GAM, che unisce ed espone 105 lavori di celebri fotografi italiani e internazionali, per contribuire al “Fondo Straordinario Covid – 19” di U.G.I. Onlus: uno scopo benefico, cui si aggiunge la possibilità di indagare la società contemporanea attraverso sguardi e percorsi differenti. L’evento sarà trasmesso in diretta sulla pagina Facebook di Palazzo Madama, del MAO-Museo d’Arte Orientale e della GAM.

gm

 

Nelle foto
– Immagine-guida dell’iniziativa
– Guido Harari:”Lou Reed e Laurie Anderson”, 2007
– Massimo Vitali: “Jova Beach Party”, 2019