“FOTOGRAFI A TORINO by Gianni Oliva/30”
Quasi cento i fotografi professionisti raccolti in mostra, intorno a Gianni Oliva, nell’Ipogeo dell’ “Accademia Albertina” di Torino
Da mercoledì 15 a martedì 21 settembre
E’ lui il “Photographicus Genius Loci”. Torinese, classe ’64, trentennale importante esperienza professionale alle spalle, inizi “seri” con Beniamino Antonello, legato all’“Armando Testa”, collaborazioni prestigiose in più campi (dai più importanti marchi italiani alle più blasonate riviste internazionali) e grandissimo poeta del “ritratto” (“verità del momento”) carpito con singolare creatività fra genti e culture le più antiche e lontane del mondo, a Gianni Oliva l’idea della mostra, ospitata oggi all’“Accademia Albertina” di Torino, balenò per la testa già due anni fa, nel 2019. L’intento voleva essere quello di radunare intorno a sé la più ampia pattuglia di amici colleghi fotografi per festeggiare, proprio attraverso una grande collettiva – happening, affidata alle cure della vulcanica Tiziana Bonomo, fondatrice della benemerita “ArtPhotò” , i suoi trent’anni di gloriosa attività professionale. Una sorta di grande, suggestiva “rimpatriata” capace di “mettere in evidenza – scrive la Bonomo – come il mondo della fotografia, in una città come Torino e in una terra come il Piemonte, sia composto da tanti professionisti che hanno tracciato un passato importante, che rappresentano un presente denso di attività e che alimentano il futuro con nuove assolutamente promettenti generazioni”.
Bell’idea. Accolta con entusiasmo, fin da subito. Ma annullata nel 2020 dal tragico incombere della pandemia. Deposti i bagagli, Oliva non ha però
rinunciato all’idea. Anzi. Ha continuato ad ampliare il suo amicale tam – tam per ottenere, in vista di tempi migliori (fortunatamente, si spera, arrivati), un numero ancora maggiore di adesioni, con l’intenzione bella tosta di non mollare e di concretizzare l’originaria idea di mostra atta a ricordare i suoi, oggi ormai più che trentennali, anni di attività. Ed eccoci qui. Con un’adesione che nel tempo ha raggiunto quota 97. Cifra importante. 97 fotografi professionisti, ognuno con una foto al seguito, ognuno con una storia personale e un percorso artistico altrettanto personale – regolare, canonico, accademico per alcuni; più bizzarro, sperimentale, trasgressivo per altri – da mettere in bella mostra nell’Ipogeo della gloriosa “Accademia Albertina”. Location d’eccezione. E tantissime le opere esposte. Dallo spaesato nitore dei “Ritratti distopici” di Gianni Oliva all’assordante amaro silenzio del minimale dittico “Gran Madre – Manichino” realizzato dallo spagnolo (oggi residente a Torino) Pablo Balbontin Arenas, ispirato al profondo vuoto – di paesaggio e anime – creato dagli indimenticati giorni del lockdown, fino a “Gli occhi di Lucio Dalla” su cui la racconigese Nadia Gentile incentra un ritratto in bianco e nero di grande intensità e suggestione.
Sensazioni forti, pari a quelle percepite davanti a “I doni” di Tiziana e Gianni Baldizzone (compagni di vita e di lavoro) in quel gioco ottico di mani che trattengono e trasmettono, accolgono e donano oggetti e saperi ereditati di generazione in generazione, in ogni luogo, in ogni tempo e latitudine. Nota sicuramente positiva della mostra è anche il coinvolgimento di alcune scuole torinesi con le immagini di alcuni studenti dell’“Accademia Albertina”, dell’“Albe Steiner”, del “Bodoni Paravia” e dello “IED – Istituto Europeo di Design”. Dice bene Tiziana Bonomo: “È una mostra che può apparire una improvvisata kermesse e lo è. È soprattutto una festa! Una kermesse che desidera in tutta semplicità ricordare il lavoro impegnativo di chi ha scelto di fare il fotografo per passione dell’architettura, della letteratura, delle persone, dei concetti, dell’arte, del mondo, dei viaggi, della filosofia, della vita, della bellezza, dell’industria, del cibo, del giornalismo, della natura e di tutto ciò che il nostro sguardo riesce a cogliere e a fermare per un istante”.
Gianni Milani
“FOTOGRAFI A TORINO by Gianni Oliva/30”
Ipogeo “Accademia Albertina”, via Accademia Albertina 8, Torino; tel. 011/889020 o www.artphotobonomo.it
Fino al 21 settembre
Orari: lun. mart. giov. ven. ore 15/19 – sab. e dom. ore 10/19
Nelle foto
– Gianni Oliva: “Ritratti distopici”, Saluzzo – Montecarlo, 2020
– Pablo Balbontin Arenas: “Silenzio Gran Madre – Manichino”, Torino, 2020
– Nadia Gentile: “Gli occhi di Lucio Dalla”, 2009
– Tiziana e Gianni Baldizzone: “I doni”, Myanmar, 2011
E’ in questi luoghi che vissero, soffrirono e trovarono gioia e lieto fine la piccola Fadette, François le Champi, i gemelli Barbeau, ma soprattutto è a Nohant – Vic che fu bambina prima, moglie, madre e soprattutto scrittrice la loro creatrice Amandine Aurore Lucile Dupin, meglio conosciuta con lo pseudonimo di George Sand. “Presi subito, senza tante ricerche, il nome di George… che cos’è un nome nel nostro mondo rivoluzionato e rivoluzionario? Un numero per coloro che non fanno niente, un’insegna o una divisa per coloro che lavorano e combattono. Io me lo sono fatta da sola, con la mia fatica”. George Sand spiega così la scelta di utilizzare un nome maschile, anche per difendere la propria attività letteraria da quella diffidenza che il pubblico medio dell’epoca provava nei confronti di una donna che era, a torto, ritenuta artista di qualità inferiore. Penna fertile, scrittrice brillante e arguta, donna indipendente che riuscì a mantenersi grazie al proprio talento, George Sand rappresenta, tuttavia, ancora oggi, una personalità complessa e affascinante caratterizzata da grandi passioni e da straordinarie utopie che contraddistinguono le sue opere, la sua vita amorosa e le sue posizioni politiche.
des Illustres, luoghi densi di ricordi, di testimonianze e di emozioni. E’ qui che la raggiungono i suoi amici, creando in questo angolo sperduto della campagna francese un circolo artistico in grado di competere con quello della Ville Lumiere: Chopin, Balzac, Delacroix, Flaubert, Listz vivono, lavorano, creano in queste stanze ombrose, passeggiano nel grande giardino, lasciano qui l’impronta di quell’arte che sopravvive alla morte e all’oblio degli uomini.
futuro e un mondo nuovo. E’ a Nohant-Vic, infine, che la scrittrice si spegne l’8 giugno 1976, disponendo di esservi sepolta. In un angolo tranquillo che confina con il giardino della sua proprietà sorge il minuscolo cimitero che ospita la tomba di questa scrittrice straordinaria. Sulla sua lapide sono scritti entrambi i nomi: quello della donna e quello dell’artista, come se nemmeno la morte potesse separare due identità tanto forti. Nel corso degli anni si è parlato con frequenza di trasferire le spoglie della scrittrice al Pantheon affinché lì riposasse accanto a Emile Zola, Victor Hugo e Alexandre Dumas, ma entusiasmi, dubbi e polemiche si sono susseguiti e spenti, lasciando spazio soltanto al silenzio. Tuttavia tanti sono stati gli omaggi letterari, teatrali e cinematografici resi a questa donna che ha segnato profondamente il panorama letterario francese e non a caso nella “Recherche” sono i suoi libri, in particolare François le Champi, qui definito “straordinario”, a calmare i dolori del piccolo Proust.
“La mamma si sedette accanto al mio letto; aveva preso François le Champi, cui la copertina rossastra e il titolo conferivano ai miei occhi una personalità spiccata e un fascino misterioso. Avevo sentito dire che George Sand era l’archetipo del romanziere”. La mamma di Marcel rievoca, attraverso il suono della propria voce, un altro organo di senso capace di superare le barriere del tempo e di consentirci di riappropriarci del passato, la storia, per il giovanissimo Proust misteriosa e ancora incomprensibile, di tutte le sfumature dell’amore del trovatello François e della mugnaia Madeleine, imprimendo i propri accenti alle parole vergate dalla signora di Nohant-Vic in una notte lontana, nel piccolo boudoir del suo castello del Berry, e trasformandole in un altro frammento di tempo congelato per essere ritrovato, recuperato e rivissuto attraverso il ricordo.
Prim’attore, il “gualdo”. Nome scientifico: “Isatis tinctoria”. Pianta officinale e tintoria, da secoli ampiamente usata nel chierese per colorare filati e tessuti in tonalità blu mediante un processo piuttosto elaborato che un tempo prevedeva anche l’impiego di macine in pietra per frantumare le foglie, del “gualdo” si parlerà il prossimo sabato 18 settembre, a partire dalle 15, alla “Porta del Tessile – Museo del Tessile”, in via Santa Chiara 5, a Chieri. Il cosiddetto “oro blu” è un elemento identitario di Chieri, così come il fustagno (antesignano del jeans o denim), la cui tessitura e tintura nella variante azzurra sono documentate sin dal XV secolo. Non a caso, fra i toponimi di Chieri spiccano proprio “Via del Gualdo” e “Via della Gualderia”, mentre il centro commerciale “Il Gialdo” sorge in un’area extraurbana dove si coltivava la pianta da cui prende il nome. Pianta visibile, fra l’altro, sia nell’esposizione permanente, sia nell’“Orto botanico” dello stesso Museo. E di tal valore per il chierese da dedicarle un convegno (inserito nel ciclo di conferenze “ARS ET INDUSTRIA”), che verrà aperto dai saluti delle Autorità locali, cui seguirà l’intervento di Marco Nicola, conservatore e titolare del laboratorio di diagnostica “Adamantio” di Torino, che si focalizzerà su “Il blu nella storia e il gualdo nella Collezione Nicola di Aramengo”. Alla sala “Porta del Tessile” saranno esposti per l’occasione alcuni manufatti tessili storici, che testimoniano l’impiego del “gualdo” nelle tele usate non solo per l’abbigliamento, ma anche in pittura, prestati al Museo da Gianluigi Nicola, già docente di restauro all’“Accademia” di Torino e titolare del prestigioso laboratorio di restauro ad Aramengo (Asti). Sarà inoltre esposta una camiciola in tela con motivo striato, tessuta con filato bianco e azzurro (gualdo), rinvenuta in una buca pontaia, ricoperta da intonaco datato 1606, in una dimora storica di Aramengo d’Asti. Si tratta di un indumento seicentesco appartenuto a un bambino del popolo, dunque di un reperto assai raro. Saranno anche esposte due toppe in tela -una tinta d’azzurro col gualdo, l’altra a quadri in filo naturale tinto d’azzurro col gualdo- rinvenute su dipinti a olio di anonimo del XVII secolo e rimosse durante il restauro delle opere. Come si evince da un frammento in mostra, lo stesso tipo di tela a quadri bianco-azzurra, fu impiegata da Guglielmo Caccia, detto “il Moncalvo” (Montabone, 9 maggio1568–Moncalvo, 13 novembre 1625) per la pala d’altare della chiesa di Bosco Marengo (Alessandria). “Alla luce di questi reperti – dicono gli organizzatori – si può guardare al gualdo come trait d’union fra tessitura e pittura, non solo in virtù del suo uso nel supporto pittorico ma, presumibilmente, anche nelle tavolozze del primo Barocco”. Dal Seicento lo sguardo si volgerà, nel corso dell’incontro, ai giorni nostri, con l’intervento di Giulia Perin, antropologa e artigiana in residenza stabile al “Museo del Tessile”, dove cura l’“Orto Botanico”, che parlerà di “Gualdo e batik d’artista nel contemporaneo” ed esporrà alcuni suoi manufatti tinti con coloranti naturali. A seguire, Antonello Brunetti, storico e naturalista, ripercorrerà “Le vie del gualdo: tra Castelnuovo Scrivia e Chieri”, insieme allo storico dell’arte Giovanni Donato. Concluderà Laura Vaschetti, vice-presidente della “Fondazione per il Tessile”, che darà anche alcune anticipazioni sui progetti in fieri al “Museo del Tessile” per la ricerca e la divulgazione orientata a riscoprire e valorizzare i landmark identitari del territorio di riferimento e a stringere collaborazioni per ampliare orizzonti di conoscenza e creatività. Al termine degli interventi, sarà possibile visitare l’“Orto del Tessile” con introduzione di Giulia Perin e ammirare i manufatti storici e contemporanei in mostra per l’occasione nella sala della “Porta del Tessile”.
L’installazione dal titolo “La Famiglia”, è ispirata, come spiega l’ artista, al concetto di nucleo familiare che finalmente, dopo il lock down, torna a fruire della natura. Il lavoro è anche un tributo alla grande forza della figura femminile, sovente vittima di violenze.




