CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 491

L’isola del libro

Rubrica settimanale sulle novità in libreria. A cura di Laura Goria

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Costanza DiQuattro “La mia casa di Montalbano”   -Baldini + Castoldi- euro   15,00

La casa è quella sulla spiaggia in cui, nella fiction, vive il commissario Salvo Montalbano, creato da Camilleri. Costanza DiQuattro è la nipote del proprietario della villa di Puntasecca e in questo delizioso libro ci racconta storia, aneddoti, abitanti e ricordi legati a quella terrazza appoggiata sul mare in cui il commissario più famoso d’Italia sorseggia caffè all’alba dopo una vigorosa nuotata. Ha il sapore nostalgico dell’infanzia dell’autrice che era solita trascorrere lì le vacanze estive con genitori e nonni. 16 anni idilliaci tra caldo, mare, pranzi amorevolmente cucinati dall’elegantissima nonna, che faceva trovare lenzuola di lino rosa con le iniziali ricamate di Costanza e di sua sorella Vichy. Momenti bellissimi trascorsi con l’affascinante nonno, “…avvocato per hobby, imprenditore per professione, sognatore nostalgico, bambino mai cresciuto”. Entusiasmanti pesche ai ricci con tanto di retino, nuotate in quel mare dal fondale sabbioso “…e limpido che diventa casa, un liquido amniotico nel quale sguazzare felici”. Un ritaglio di Eden perché, come scrive l’autrice, “In fondo al mare si spegne il rumore del mondo, si attutisce ogni dolore, si camuffa ogni pensiero”. Pagine indimenticabili in cui fanno capolino personaggi famosi, come lo scrittore Gesualdo Bufalino e l’editrice Elvira Sellerio, ospitati dai nonni. Poi c’è anche il racconto di come quella casa fu notata da chi di dovere e diventò il set della serie tv “Il commissario Montalbano”. Prendeva così vita la Vigata di Andrea Camilleri nel Golfo di Marinella: nella casa di villeggiatura di Giovannino DiQuattro “… proprio sulla spiaggia, quasi dentro al mare”. E con il successo della fiction arriverà anche il continuo pellegrinaggio dei fans alla scoperta della magica location, dove l’anziano proprietario finirà per   intrattenerli   piacevolmente.

 

Maria Dueñas “Le figlie del capitano” – Mondadori – euro 22,oo

In Spagna questo romanzo corposo si è rivelato un fenomeno editoriale; del resto, l’autrice già nel 2010 aveva fatto un bell’exploit con “La notte ha cambiato rumore” (oltre 5 milioni di copie). Questa sua ultima fatica letteraria è ambientata a New York nel 1936 ed è la storia della resilienza tutta al femminile delle giovani protagoniste, catapultate nel calderone multietnico dell’immigrazione di quegli anni. Inizia con il funerale di Emilio Arenas, spagnolo 52enne, sbarcato in America all’ inizio del 1929, pochi mesi prima del crollo della Borsa e della Grande Depressione. Tempismo pessimo per l’apertura del suo piccolo ristorante “El Capitán” sulla14° strada, nel cuore del quartiere spagnolo. Emilio rimane vittima di un infortunio che gli spezza vita e speranze. A piangerlo sono la moglie analfabeta Remedios –donna timorosa di tutto e chiusa ai cambiamenti- e le tre figlie Victoria, Mona e Luz. Dapprima tentano di continuare il lavoro paterno, ma si scontrano con le difficoltà del Nuovo Mondo. Il romanzo è la storia della loro complicata integrazione nella città caotica, dove arrancano con inesperienza e ingenuità. Tentano di rimettere in piedi la trattoria paterna che ribattezzano “Le figlie del Capitano”, e passano attraverso varie avventure e disavventure che le aiuteranno a maturare e fortificarsi. Poi c’è un nutrito corollario di personaggi che intersecano la strada della tre fanciulle: da un’eccentrica suora a un perfido avvocato, passando per personaggi realmente esistiti come l’erede al trono spagnolo Alfonso di Borbone (esiliato negli States per sfuggire alla guerra civile e al pugno duro del Regime Franchista). Sullo sfondo e grande protagonista è la minuziosa ricostruzione storica dello sviluppo veloce e multietnico della New York di quegli anni, con un occhio particolare al quartiere della Little Spain e alla sua metamorfosi.

 

John Galsworthy “Il patrizio” – Elliot-   euro 15,00

Tra le infinite e decisamente troppe uscite editoriali, ben venga la riscoperta di grandi autori classici. E’ il caso dello scrittore e drammaturgo britannico John Galsworthy (1867- 1933), autore della famosa”Saga dei Forsyte” e vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1932. Elliot riedita “Il patrizio” pubblicato per la prima volta nel 1911. E’ una storia di grandi ambizioni, politica, amori che si mettono di mezzo, convenzioni difficili da aggirare: tutto sullo sfondo di spettacolari tenute di campagna e blasonati palazzi londinesi in cui si fa politica. Protagonista è Lord Eustace Miltoun, rampollo primogenito di una famiglia nobile. Ha 30 anni ed ha viaggiato in lungo e in largo, è coltissimo (legge dalla poesia alla storia, dalla filosofia alle scienze sociali e alla religione), costruisce la sua ambiziosa   carriera politica all’ombra del padre e mira ad essere il candidato ideale al ruolo di Primo Ministro. Ma sulla sua strada incappa nella passione amorosa per l’affascinante Audrey Noel; peccato che non sia esattamente la compagna ideale per un uomo destinato a grandi cose in una società in cui l’etichetta è tutto. Si dice che sia divorziata, ma pare invece che sia ancora legata al marito, un uomo di Chiesa che si rifiuta di lasciarla libera. Per Eustace s’innesca la titanica lotta tra ragione e sentimento. E Galsworthy con la sua penna vi guida nei pensieri e nelle azioni del protagonista, caduto nelle spire del conflitto atavico tra la brama, da un lato, di potere e lustro e dall’altro, il sacrosanto diritto e desiderio di amare la donna che gli ha preso il cuore.

 

Georgina dona il compenso di Sanremo ai bimbi del Regina Margherita

Georgina Rodriguez, fidanzata di Cristiano Ronaldo, donerà all’ospedale Regina Margherita il compenso della sua partecipazione al Festival di Sanremo 

La notizia fresca è che Georgina Rodriguez, la fidanzata di CR7, ha donato il suo compenso all’ospedale Regina Margherita. Prima di parlare del compenso però cerchiamo di capire meglio chi è Georgina Rodriguez.

Ma chi è Georgina Rodriguez?

E’ la fidanzata di Cristiano Ronaldo, ma a parte questo non si sa molto di lei. 26 anni e argentina, nata da padre argentino e madre spagnola. Cresciuta in Spagna, ha frequentato le scuole lavorando come cameriera. E proprio per questo ha deciso di fare un’esperienza all’estero a Bristol, in Inghilterra, come ragazza alla pari.

Una volta rientrata in Spagna, ha lavorato nel settore della moda: prima nel negozio di Gucci e poi in quello di Prada all’interno del El Corte Inglés di Madrid. Ma l’incontro che le ha cambiato la vita è avvenuto nel 2016, durante un evento organizzato da Dolce & Gabbana. Ecco i particolari del loro primo incontro.

 

Carlo Mollino, un libro sull’archistar torinese

 Al Forte di Bard, si presenta il nuovo volume di Luciano Bolzoni 

Domenica 9 febbraio, ore 15,30

Bard (Aosta)

Quarantacinque anni di attività. Intensa e funambolica. Di studio. Di progettazione e costruzione. Estrosa e geniale, ma sempre scientificamente controllata.

Fra le sue ultime “creature” torinesi, solo per citarne alcune, il Palazzo della Camera di Commercio e il nuovo Teatro Regio, ricostruito dopo l’incendio del ’36 e inaugurato nel 1973. Carlo Mollino (Torino, 1905 – 1973) fu indubbiamente una figura di primo piano nell’ambito dell’architettura internazionale del Novecento. Ma non solo. Mollino, infatti, fu anche designer e arredatore, fotografo e scenografo e perfino uomo di grandi passioni sportive, sciatore professionista (ottenne anche l’incarico di direttore della “Coscuma”, la Commissione delle scuole e dei maestri di sci), corridore automobilista e aviatore acrobatico, oltreché influente docente universitario al Politecnico di Torino e scrittore di razza. A lui è dedicato il nuovo libro “Carlo Mollino architetto”, scritto per “Silvana Editoriale” da Luciano Bolzoni, architetto e direttore culturale di “Alpes”. Il volume verrà presentato domenica prossima 9 febbraio, alle ore 15,30, in Vallée, nella Sala Archi Candidi del Forte di Bard, alla presenza dell’autore e del fotografo e artista Armin Linke, nell’ambito della rassegna culturale “Forte di Bard_incontri”, con il patrocinio e il supporto dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Valle d’Aosta. Un omaggio, questo vuole essere il libro “al genio creativo e irrequieto di Mollino, archistar nota all’estero – sottolinea Bolzoni – ma ancora poco compresa in Italia”. L’intento è quello di indagare “due storie, coincidenti e trasversali: quella dell’uomo dai molteplici interessi e passioni e quella dell’architetto che, navigando nel passato, si proietta nel domani”.

g. m.

“Carlo Mollino architetto”

Forte di Bard, via Vittorio Emanuele II 85, Bard (Aosta); tel. 0125/833818 o www.fortedibard.it

Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria a: prenotazioni@fortedibard.it

 

Pansa l’anticonformista. Era lui il gigante del giornalismo

Martedì 11 febbraio alle ore 17,30, a Palazzo Cisterna (via Maria Vittoria 12), il Centro “Pannunzio” organizza un RICORDO DI GIAMPAOLO PANSA, recentemente scomparso. Ricorderanno il giornalista che scrisse su “La Stampa”, “Il Giorno”, “Il Corriere della Sera”, “La Repubblica”,” L’Espresso”, “Panorama” e l’autore coraggioso di numerosi libri di grande successo sulla storia italiana,  Marco Castelnuovo, Gianni Oliva, Pier Franco Quaglieni. A Pansa fu conferito nel 2006 il Premio “Pannunzio”. Coordina Elisabetta Cocito.
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di Pier Franco Quaglieni
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Giampaolo Pansa e’ stato uno dei più grandi giornalisti contemporanei. Simili a lui io ricordo solo Indro  Montanelli e Oriana Fallaci anche perché Pansa, oltre ad essere un giornalista che sapeva scrivere come pochissimi altri, ebbe sempre un’indipendenza di giudizio che gli fa molto onore e che risulta essere un’eccezione nel giornalismo d’oggi

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A scoprire, prima di tutti, in lui l’inviato speciale  di razza fu Giulio Debenedetti, il grande direttore, irascibile ed intrattabile, de “La Stampa” che regnò incontrastato per vent’anni e non esitò a bistrattare Enzo Bettiza e a cestinare con crudeltà  articoli scritti  anche da firme  importanti.
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Dopo esperienze alla “Stampa “ di Ronchey (che mi parlò sempre con entusiasmo di Pansa) al  “ Giorno” e al “Corriere” di Ottone (una brutta  parentesi  per il giornale di via Solferino)  Pansa rispose all’appello di Scalfari e fu da subito una firma di punta  di “ Repubblica”. Ma non appartenne mai al club radical- chic di quel giornale perché veniva da un mondo totalmente estraneo ad esso.
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Pansa era un piemontese di Casale Monferrato, figlio di gente modesta, laureatosi a Torino in storia con Sandro Galante Garrone che mi parlò spesso dell’ex allievo e che non avrebbe approvato alcuni libri di Pansa. Il gruppo di quelli che “La sera andavano  in via Veneto “non annoverò mai Pansa, come non ebbe mai trai suoi frequentatori Giorgio  Bocca. Ma anche  Bocca, nel suo faziosissimo giellismo, ebbe molto poco da spartire con Pansa che, ad un certo punto, si rese conto – dimostrando un’assoluta onestà intellettuale -come certi rituali di una sinistra obsoleta, fatti di intolleranza e di bigottismo ideologico, non erano più proponibili. E capì anche che una  certa vulgata antifascista  che ignorava il dramma della guerra civile che insanguinò l’Italia dal 1943 al 1945, non era più sostenibile perché il fluire degli anni imponeva  ragionamenti storici e non esaltazioni acritiche ed edulcorate.
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Il presidente Napolitano parlò di eccessi durante la Resistenza che andavano denunciati. Quello che accadde nel “ Triangolo della morte “ e non solo,  non poteva più essere nascosto e Napolitano e persino lo stesso Fassino ebbero il coraggio di trarne  alcune conseguenze. Pansa con “Il sangue dei vinti”  diede voce ai fascisti e ai non comunisti ammazzati in modo truculento   prima e dopo il 25 aprile’45 , quando invece  si sarebbero dovute deporre le armi. Claudio Pavone aveva parlato di guerra civile e Pansa ha dimostrato che quella guerra civile era continuata in modo terribile anche dopo. Già Mario Pannunzio aveva denunciato nel suo “Risorgimento liberale”, subito dopo la fine della guerra, i delitti orrendi commessi dai comunisti. Gli bruciarono la redazione del suo giornale “Risorgimento liberale” , un giornale che era nato nella clandestinità durante la Resistenza.
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Forse Pansa non seppe contestualizzare quei fatti, spiegandoli – senza giustificarli, come vorrebbero alcuni faziosi – anche con i misfatti di fascisti e nazisti commessi durante la RSI. Il sangue chiama sempre sangue e quella legge terribile valse anche per quel periodo della storia italiana. Ma Pansa non ebbe mai l’ ambizione di essere  uno storico,  si considerò solo un giornalista, limitandosi a raccontare dei fatti che non vennero mai smentiti. In sintesi, Pansa ha raccolto materiali per la storia che fino ad allora erano rimasti nascosti. Per questo suo lavoro venne fatto oggetto di una campagna di odio senza eguali in cui si distinse anche Giorgio Bocca.
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Tentarono di impedirgli di parlare con la violenza, ma  i milioni di libri venduti  fecero giustizia dei facinorosi che, invece di confutare le sue tesi, tentarono di impedirgli di presentare i suoi libri. Pansa ha avuto dei grandi meriti ed ha consentito agli Italiani di conoscere una parte della loro storia rimasta occultata per decine anni. Questo è  un dato incontrovertibile. Poi forse esagerò, scrivendo anche su giornali che erano inadeguati  allo stile di Pansa e  io cessai di seguirlo. Ma il nostro dialogo iniziato una sera al “Cambio”  quando uscì  “Il sangue dei vinti”, non subì interruzioni attraverso la lettura dei suoi libri. Pansa e Bocca ebbero ambedue il Premio “Pannunzio” ma non ho  dubbi sul fatto che il gigante del giornalismo italiano sia stato lui e non Bocca.
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Il coraggio dell’incoerenza è infatti molto  spesso una grande, rarissima virtù civile. Ieri ho avuto una lunga e toccante conversazione telefonica  con Adele Grisenti , la moglie di Pansa che condivise con lui trent’anni di vita. Mi ha raccontato la generosità umana di Pansa che non  ebbe mai  rancore verso i suoi nemici . Era un uomo superiore che sapeva appassionarsi alla verità, di cui fu un testimone straordinario . Ricordarlo a Torino l’11 febbraio in anteprima nazionale e’ un motivo di grande orgoglio. Solo il Centro “Pannunzio “ poteva promuovere  un incontro del genere: una sfida a tutti i conformisti  che ripetono, come paradossali  litanie laiche,  le solite, logore  vulgate, senza capire l’importanza della ricerca storica che deve sempre prevalere sulla propaganda politica.
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Mentre Stella e il suo collega  hanno delegittimato la politica con la scusa di denunciare la casta , facendo oggettivamente il gioco dei grillini, Pansa ha sempre avuto una concezione alta della politica che criticava con asprezza ed ironia nel suo “Bestiario”, una concezione che gli veniva anche dall’essere stato allievo di Sandro Galante Garrone , il “mite giacobino”,  non sempre mite, che  si ispirava anche a Salvemini,  a Calamandrei, a Rosselli, al liberale Ruffini  Pansa, pur nella sua coraggiosa incoerenza, era rimasto il giovane allievo di Sandro.

Il Carnevale Storico di Aliano arriva al Mercato Centrale Torino

Il 15 febbraio una giornata dedicata a tradizioni, musiche e colori della Basilicata nei luoghi di Carlo Levi.

Sabato 15 febbraio dalle 18:00 al Mercato Centrale Torino prenderà il via una grande festa in occasione del Carnevale. Da sempre il Mercato promuove la cultura in tutte le sue forme e quella di sabato sarà un’opportunità, per il pubblico torinese, di conoscere da vicino il Carnevale Storico di Aliano, che farà tappa anche al Mercato Centrale Torino sabato 15 febbraio.

Il carnevale alianese quest’anno ha preso vita il 16 gennaio e proseguirà fino al 1° marzo, facendo tappa anche in altre città d’Italia: il 15 febbraio sarà anche al Mercato Centrale Torino.

L’evento al Mercato Centrale Torino

A partire dalle 18:00 all’esterno, in piazza della Repubblica, partiranno le animazioni con le musiche del gruppo folk dell’Associazione Emanuele Gianturco di Settimo Torinese, degli U Cirnicchiu e quelle degli Amarimai, che apriranno la pista alla sfilata dello storico Carnevale di Aliano, conosciuto per le sue maschere arcaiche cornute, collegate alla mitologia greca, e per il gruppo di pacchiane. Carnevale Storico di Aliano

Le maschere ricreano creature demoniache il cui carattere minaccioso viene smorzato da cappelli colorati e il loro abbigliamento goffo ispirato alla tradizione contadina e pastorale, alla quale si rifà anche la gestualità degli interpreti. Dalle 19:00 la festa si sposterà all’interno del Mercato e la sfilata delle maschere proseguirà nel plateatico delle antiche ghiacciaie, precedendo il discorso istituzionale di Umberto Montano, presidente del Mercato Centrale, e di Luigi De Lorenzo, sindaco di Aliano. Per chiudere in bellezza, il gruppo U Cirnicchiu continuerà a intrattenere il pubblico con musiche tradizionali, di stampo folkloristico.

 

Il Carnevale Storico di Aliano

Aliano è una piccola cittadina della Basilicata, il paese dei calanchi: un piccolo borgo che conta 930 abitanti, avvolto in un paesaggio che sembra quasi lunare. È conosciuto in particolare per essere stato il luogo in cui lo scrittore Carlo Levi trascorse buona parte del suo periodo di confino, al quale fu condannato per via della sua attività antifascista (1934-36), e dove successivamente scelse di farsi seppellire. La figura dello scrittore è il fil rouge che collega la Basilicata a Torino, sua città natale, e Firenze, unendo idealmente i due Mercati ad Aliano. 

Carnevale Storico di Aliano

Carlo Levi scrisse del paesino (che chiamava Gagliano, imitando la pronuncia locale) molto tempo dopo la fine del suo confino. L’autore torinese in Basilicata si scontrò con una realtà completamente diversa rispetto a quella a cui era abituato. La sua esperienza divenne un’occasione di riflessione sulla questione meridionale e la totale assenza dello Stato nel Mezzogiorno. Ogni anno, in occasione del Carnevale, gli abitanti di Aliano si travestono e indossano le tradizionali maschere cornute che animano la festività e che nel novembre 2018 hanno portato al riconoscimento del Carnevale di Aliano tra i carnevali storici italiani, con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Anche la storia stessa del Carnevale di Aliano si intreccia con quella dello scrittore Carlo Levi, che così descrisse le maschere nella sua opera più celebre, Cristo si è fermato ad Eboli: “Venivano a grandi salti e urlavano come animali inferociti, esaltandosi delle loro stesse grida. Erano le maschere contadine”.

U Cirnicchiu e il Carnevale Storico di Aliano

Il gruppo nasce con l’intento di recuperare e valorizzare l’antico patrimonio cultura e musicale lucano, sopravvissuto perché tramandato per secoli oralmente. Il lavoro di ricerca avviato nel 1966 ha portato alla rielaborazione di canti, musiche e danze.

Gli Amarimai

Il gruppo è nato a Viggiano (PZ) nel 2006, si compone di circa 13 elementi, tutti uniti dalla passione per la musica e la voglia di valorizzare, salvaguardare e diffondere le tradizioni popolari musicali della Basilicata. Tra le tradizioni etno-musicali recuperate, spiccano il recupero del suono pastorale della zampogna lucana e dell’arpa popolare viggianese.

Associazione Lucana Emanuele Gianturco di Settimo Torinese

L’Associazione nasce con lo scopo di riunire i lucani salvaguardare la cultura e le tradizioni della Lucania e di divulgare i valori civili, culturali, artistici del territorio.

 

INFO
Mercato Centrale Torino
Piazza della Repubblica 25
10125 Torino
T +39 011 0898040
info.torino@mercatocentrale.it
Aperto tutti i giorni dalle 8 a mezzanotte

Le atmosfere piemontesi di Augusto Cantamessa

Nell’ambito delle celebrazioni per il 50° anniversario dell’istituzione della Regione Piemonte, il Consiglio regionale del Piemonte con l’associazione culturale In Arte, in collaborazione con l’Archivio Augusto Cantamessa, presenta la mostra fotografica “Augusto Cantamessa. Atmosfere piemontesi”.

All’inaugurazione, giovedì 6 febbraio alle ore 17.30, partecipano il presidente del Consiglio regionale Stefano Allasia, Cinzia Tesio storica dell’arte, Bruna Genovesio e Patrik Losano curatori dell’Archivio Augusto Cantamessa. 

La mostra presenta trentadue immagini – esclusivamente in bianco e nero – realizzate dal fotografo piemontese Augusto Cantamessa (Torino 1927 – Bibiana 2018) tratte dall’immenso patrimonio fotografico dell’autore, che comprende diversi inediti. Le immagini ripercorrono la storia di oltre mezzo secolo della nostra regione, scoprendo luoghi e paesaggi che diventano istantanee di vita del Piemonte.

La selezione delle opere esposte rimanda ad alcune delle tematiche cardine della ricerca fotografica di Augusto Cantamessa: terra, paesaggi, ritratti. La mostra restituisce immagini colme della bellezza del territorio che nel tempo muta e si trasforma insieme ai suoi abitanti. Tanti sguardi su innumerevoli paesaggi, sulle campagne e sui paesi della provincia e anche su Torino con le sue prestigiose piazze, i suoi quartieri caratteristici, le luci dei Luna park, i giochi dei bambini sulla neve e le zone periferiche avvolte dalla nebbia.

Gli scatti di Cantamessa raccontano un universo di vita vissuta in Piemonte, dagli anni Cinquanta ad oggi, da cui si percepisce una forte appartenenza ai luoghi, attraverso la rappresentazione del paesaggio, di intensi ritratti di contadini, donne e bambini, di operai alle prese con l’edilizia popolare ma anche di persone che passeggiano per le strade della città.

La mostra “Augusto Cantamessa. Atmosfere piemontesi” rimarrà aperta al pubblico fino al 6 marzo, dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17. Ingresso gratuito.

 

www.cr.piemonte.it

Pansa e la “Battaglia di Roma” nell’agenda del Pannunzio

Due appuntamenti culturali in programma nei prossimi giorni

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Venerdì 7 febbraio alle ore 15,30 nella Sala Cinema del Museo Nazionale del Risorgimento (piazza Carlo Alberto 8), il Centro “Pannunzio” invita alla proiezione del film di Luigi Cozzi “LA BATTAGLIA DI ROMA 1849”, ispirato al libro di Giovanni Adduci “Un Garibaldino a casa Giacometti”, premiato dal Centro “Pannunzio”. Interverranno Umberto Levra, Presidente del Museo Nazionale del Risorgimento e lo storico Pier Franco Quaglieni. L’iniziativa è promossa in occasione dei 170 anni dagli avvenimenti narrati nel libro e nel film.Prenotare a info@centropannunzio.it
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Martedì 11 febbraio alle ore 17,30, a Palazzo Cisterna (via Maria Vittoria 12), il Centro “Pannunzio” organizza un RICORDO DI GIAMPAOLO PANSA, recentemente scomparso. Ricorderanno il giornalista che scrisse su “La Stampa”, “Il Giorno”, “Il Corriere della Sera”, “La Repubblica”,” L’Espresso”, “Panorama” e l’autore coraggioso di numerosi libri di grande successo sulla storia italiana,  Marco Castelnuovo, Gianni Oliva, Pier Franco Quaglieni. A Pansa fu conferito nel 2006 il Premio “Pannunzio”.Coordina Elisabetta Cocito .

Pelagio Palagi a Torino. Fino al 9 febbraio

In Galleria Sabauda, omaggio al grande architetto che firmò il restyling delle più importanti residenze reali di Casa Savoia

Fino al 9 febbraio 2020

A Torino, il bolognese Pelagio Palagi, formatosi – sotto la guida del conte mecenate Carlo Filippo Aldrovandi – all’Accademia Clementina di Bologna, arriva all’età di 57 anni. Era il 1832. E di esperienza, assolutamente poliedrica, Palagi ne aveva già maturata parecchia. Dal 1806 al 1815 aveva infatti lavorato a Roma, collaborando anche con Antonio Canova nell’ambito dell’ Accademia Italiana, gomito a gomito con gli artisti allora più rappresentativi del neoclassicismo italiano. Parentesi formativa importante, cui seguirono gli anni trascorsi a Milano, dove Pelagio apre una scuola privata (in diretta concorrenza con l’Accademia di Brera) e dove si dedica soprattutto alla ritrattistica e alla pittura di figura, producendo opere per la grande committenza privata in cui la lezione classicista viene spesso solleticata dalle cifre storico-romantiche assimilate attraverso l’incontro con Francesco Hayez, il massimo interprete della svolta romantica dell’arte lombarda. Alla fine degli anni Venti, ottiene l’incarico di eseguire gli interventi architettonici, d’ornato e di progettazione scultorea del Palazzo Arese Lucini e della Villa Cusani Tittoni Traversi di Desio.

Fu probabilmente in quegli anni che la sua fama di eclettico artista, architetto, pittore, scultore, disegnatore e decoratore d’interni (ma Palagi nutrì, fin dagli anni romani, anche profondi interessi archeologici e collezionistici) giunse fino alla Corte dei Savoia e alle orecchie di un re come Carlo Alberto – per il quale la cultura rappresentò sempre una parte più che importante nell’ambito dei suoi interessi personali e della sua non poco faticosa avventura politica – che nel 1832 lo volle a Torino (dove visse fino al 1860), in qualità di “Pittore preposto alla decorazione dei Reali Palazzi”. Per il Palagi, iniziano allora gli anni del massimo fervore artistico (ottiene anche la cattedra di Ornato all’Accademia Albertina di Belle Arti) e del successo conclamato, dedicandosi, fra gli altri, ai progetti di ripristino del Castello di Racconigi e di Pollenzo, ma soprattutto all’ammodernamento del Palazzo Reale di Torino, luogo per eccellenza in cui l’arte del Palagi ha raggiunto la sua massima espressione, testimoniata per l’appunto dai 31 fogli, selezionati fra le centinaia custodite dalla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e cuore della mostra ospitata fino al 9 febbraio dell’anno prossimo nello “Spazio Scoperte” della Galleria Sabauda torinese, messi in dialogo, dove possibile, con le opere concretamente realizzate, cui gli stessi disegni si riferiscono.

Progetti (mirabili anche sotto l’aspetto prettamente grafico e coloristico) che ben raccontano la struttura monumentale, in conformità alle grandi ambizioni del sovrano e al cerimoniale di corte, che il grande architetto volle conferire alla principale residenza dei Savoia. Il suo fu un attento e geniale lavoro di restyling, supportato dalla stretta collaborazione con un team di “professionisti” di prim’ordine: di pittori (Francesco Gonin e Carlo Bellosio), scultori e stuccatori (Giuseppe Gaggini, Francesco Somaini e Diego Marielloni), ebanisti (Gabriele Capello detto il Moncalvo) e bronzisti (ditta Colla e Odetti, Manfredini e Viscardi). L’esposizione (curata da Giorgio Careddu, Franco Gualano e Lorenza Santa dei Musei Reali, con la collaborazione di Marinella Pigozzi dell’Ateneo bolognese) assembla, accanto ai disegni progettuali relativi al Salone delle Guardie Svizzere e alle principali Sale di Rappresentanza, anche alcune opere effettivamente realizzate e tuttora conservate a Palazzo Reale: dal dipinto raffigurante “San Michele Arcangelo”(olio su tela del 1844) del milanese Carlo Bellosio esposto per la prima volta a Torino, al taboretto “stile Impero” scolpito in legno dorato (uno dei dodici progettati per la Sala del Consiglio e delle Udienze) fino al candelabro figurato in bronzo dorato opera di Manfredini e Viscardi. Ampio rilievo è dato alla progettazione della grande Sala da Ballo, certamente fra le sale neoclassiche più belle d’Europa per la ricchezza dei materiali utilizzati e per la qualità artistica delle opere incluse.

A seguire, i preziosi disegni realizzati per le Sale allestite al Secondo Piano di Palazzo Reale per le nozze di Vittorio Emanuele II celebrate nel 1842 e quelli per la Cancellata in bronzo di Piazzetta Reale e per i Giardini interni. Infine al Piano Nobile è possibile seguire un vero e proprio itinerario pelagiano, con rimandi ai disegni in mostra e visite guidate anche ad ambienti del Secondo Piano normalmente chiusi al pubblico, come i suggestivi Salotto Blu e Salotto Rosso, completamente riallestiti dal Palagi.

Gianni Milani

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“Pelagio Palagi a Torino. Memoria e invenzione nel Palazzo Reale”

Galleria Sabauda – Palazzo Reale, piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/19560449 o www.museireali.beniculturali.it

Fino al 9 febbraio 2020

Orari: dal mart. alla dom. 8,30/19, lun. 10/19

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Nelle foto

– Palazzo Reale di Torino Sala da Ballo
– Pelagio Palagi: disegni in esposizione
– Candelabro in bronzo dorato (ditta Manfredini e Viscardi)
– Carlo Bellosio: “San Michele Arcangelo abbatte Lucifero”, olio su tela, 1844

 

 

 

 

 

 

In un semplice giorno d’inverno

Stagione molto particolare, l’inverno. Tempo capace, come scriveva Victor Hugo, di cambiare “in pietra l’acqua del cielo e il cuore dell’uomo”

Ma è anche il periodo che più di altri favorisce l’immaginazione, fa pensare, aiuta i ricordi, la fantasia. Riordina i pensieri e genera storie. Se poi le storie diventano racconti e questi, uno in fila all’altro, diventano un libro come “In un semplice giorno d’inverno” (Impremix Edizioni Visual Grafika) ai lettori non resta che sfogliarlo e scoprirne piacevolmente il contenuto. Già il titolo è indicativo e l’autrice, Maria Teresa Carpegna, ambienta in questa stagione, nelle giornate che precedono le feste di fine anno, tra nebbie, neve e silenzi che le precedono e che seguono, quattordici storie di uomini e donne come tanti “ la cui vita scorre, giorno dopo giorno, nella felicità ingannevole o nella semplice serenità”.

 

Dal primo racconto, profondo e garbato, dove la statuetta di Gesù bambino porta alla memoria protezione e complicità nei tempi orribili della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti, agli altri dove le emozioni che ognuno di noi ben conosce – quelle belle e serene, e quelle amare e dure – riflettono ciò che portiano dentro. I vicini di casa, lo scrittore che vive la crisi della sua famiglia e tra i boschi cerca il modo di chiudere la sua vita e poi, mezzo assiderato, viene salvato e avverte un calore diverso, nella sua mente e nel cuore;una dolce e triste prostituta che legge i libri ad un uomo rimasto eterno bambino mentre in un’altra vicenda ecco ancora una donna che avverte come una rivelazione, dopo l’ictus che ha colpito l’amante, un profondo senso di solitudine e la necessità di tornare a vivere la propria vita, di essere generosa con se stessa e di non sprecare in una storia sbagliata gli anni migliori della sua gioventù. A volte basta una foto, come nel racconto “Una diversa carestia”, a far maturare una maggior coscienza su ciò che accade attorno a noi mentre “Un appuntamento al buio”, nato come uno scherzo malizioso finisce paradossalmente con la più classica applicazione della legge del contrappasso. Ci sono quasi sempre, nei racconti, la neve e la montagna che l’autrice (nata a Giaveno e residente in una borgata sopra Coazze) conosce e ama e sullo sfondo, il profilo invernale di Torino, con le sue luci e l’anima complessa, rigorosa, persa in lunghi e laboriosi silenzi, interrotti da brevi e sporadici sprazzi di allegria durante il periodo delle feste.

 

Nei racconti di Maria Teresa Carpegna ci sono anche solitudine e amarezza per quel che avrebbe potuto essere e non è stato, per le scelte che richiedevano un coraggio che non si è avuto. Spesso c’è un ultima possibilità, un possibile riscatto come i genitori separati che si riconciliano con il figlio o l’affetto della pianista nei confronti della ragazza che, nonostante il suo enorme problema, ama davvero la musica. La celebre artista, infastidita dalle banalità, prova così un piacevole stupore che esplode in una imprevista tenerezza e nella piena comprensione di un sentimento sopito. Più o meno tutte le vite rappresentate nelle quattordici storie che danno corpo a “In un semplice giorno d’inverno” sono lievi, malinconiche o divertenti, proponendo minuscoli e inaspettati eventi che porteranno ad imprevedibili sviluppi. Può essere un disvelamento come in “Tutta la vita davanti”, un gesto d’altruismo e d’amore per i libri ( in “Flessibilità”, ad esempio, i testi sono quelli che raccontano, in parole e cifre, la contabilità di una piccola drogheria) oppure un’altra opportunità nonostante la crisi abbia stravolto abitudini, attività e vite come in “Piste da sci”. I libri sono come gli specchi e spesso riflettono l’anima di chi li scrive. Maria Teresa Carpegna ha sempre lavorato con i libri. Ha gestito per diversi anni, insieme al marito, una libreria a Giaveno e ora si dedica alla cura dei testi come editor e talent scout, insegna in corsi di scrittura narrativa e organizza laboratori su vari temi, sempre dedicati alla scrittura. Questa raccolta di racconti è la sua prima “prova d’autore”. Alla fine dei ringraziamenti, a fondo pagina, si augura che siano piaciuti perché, scrive, “temo non sarà che l’inizio”. Personalmente mi sento di commentare che questa è davvero una buona notizia per noi lettori.

Marco Travaglini

Dieci candidature agli Oscar ma quel che più ti affascina sono gli apporti tecnici

Sugli schermi “1917” di Sam Mendes

 PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

E allora che dire di questo 1917 che Sam Mendes – magnifico autore di titoli quali American Beauty o Era mio padre, Jarhead o Revolutionary Road – ha scritto e diretto, mettendo da parte le proprie incursioni bondiane e tornando con la memoria ai racconti di guerra del nonno Alfred, che aveva combattuto per due anni sul fronte francese? di un titolo che già s’è aggiudicato i Golden Globe per il miglior film e la miglior regia, che da un paio di giorni si fregia di sette premi Bafta (miglior film, miglior regia, miglior film britannico, miglior fotografia tra gli altri) e che tra una settimana – Tarantino e Bong Joon Ho permettendo, troppo presto Scorsese essendo stato messo fuori da ogni competizione – potrebbe stringere una o più (dieci le candidature raccolte) di quelle statuette che “somiglia(no) tanto a mio zio Oscar”? di un titolo che sbandiera a cuore aperto i sentimenti del pacifismo, che parla di amicizia e di sacrificio e di orrori bellici, che ha tutti i numeri per intenerire i cuori dei membri dell’Academy?

In un giorno d’aprile del 1917 a due giovani caporali, Blake e Schofield, il generale Erinmore (Colin Firth) affida l’ordine di bloccare l’attacco del colonnello Mackenzie (Benedict Cumberbatch) e del suo battaglione di 1600 uomini su un nemico in fuga, ignorando questi che quella ritirata altro non è che una trappola, infida e strategica, che al contrario nasconde subdolamente una nuova offensiva che vedrebbe la sanguinosa carneficina di tutti quegli uomini. Blake, inoltre, è spinto più di ogni altro in quell’impresa, dal momento che tra le forze di quell’attacco c’è anche suo fratello. Si tratterà di percorrere le prime trincee e di riversarsi nella terra di nessuno, di attraversare terreni dilaniati dalla battaglia, di immergersi in buche ed in enormi pozze d’acqua piene di carcasse d’animali e di cadaveri su cui passeggiano corvi e topi, di incrociare visi orribili e mani ridotti a scheletri, di isolarsi tra casolari abbandonati, di cadere dentro le pericolose acque di un fiume, di addentrarsi in un villaggio ridotto a macerie dove ancora si può nascondere un fuoco accogliente ed una donna da proteggere, o in un bosco dove qualcuno ha ancora la forza di intonare una canzone che raccolga lo spirito di speranza di ognuno, di raggiungere il comando per il compito finale. Un viaggio, metro dopo metro, con tutta la propria fatica, forse sotto l’occhio invisibile del nemico, appena una decina di chilometri, cadenzato nel tempo reale, dove con la macchina da presa Sam Mendes inventa un continuo, lungo quanto “falso” piano sequenza, un (saggio) esperimento interrotto da espedienti, da momenti di buio, dal passaggio dai chiarori della giornata alle ombre della notte. Una macchina da presa che s’incolla ai protagonisti, a Schofield (George MacKay, il suo compagno è Dean-Charles Chapman) soprattutto che sarà costretto ad un certo punto a proseguire la strada da solo, che non li molla un istante, che scava di fronte o alle spalle, che cattura le varie stazioni della missione, le emozioni, le paure, i pochissimi momenti di pretesa ironia: ma il giudizio trattenuto sul terreno del condivisibile di chi scrive è perché spesso hai la netta sensazione che la sceneggiatura scritta dal regista e da Krysty Wilson-Cairns sia più costruita che umanamente vissuta (un episodio per tutti: il breve incontro tra il soldato e la giovane donna mentre tutto intorno, nel paesino di Ecoust brucia) e che il personaggio principale non riesca a costruire e mostrare un significativo svolgimento psicologico. E proprio quello che dovrebbe essere il fiore all’occhiello di 1917 – l’uomo avvolto da quel incessante (?) piano sequenza – finisce col dare sì un senso di claustrofobia tra quelle distese di desolazione, ma altresì con l’appiattire tutto quanto è racconto ed emozione.

Non è un impoverimento del film: ma quel che più ti affascina sono gli apporti tecnici, la grande squadra che ha inventato e costruito meraviglie al film. In primo luogo le scenografie di Dennis Gassner e Lee Sandales, la fotografia di un maestro come Roger Deakins (ha “appena” vinto l’Oscar due anni fa per Blade Runner 2049 ma perché non ridarglielo?), entusiasmante, con quei notturni che sono un vero capolavoro, la colonna sonora di Thomas Newman o gli effetti speciali o i montaggi sonori. Mentre rimane ben in piedi la validità dell’idea e della costruzione di Mendes, nella memoria, tra gli autori che ci hanno raccontato il grande conflitto, restano altri nomi, il nostro Rosi o l’immenso Kubrick.