CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 49

La sentinella di pietra sul lago d’Orta

Grigia e serissima, la Torre di Buccione – che non ha, evidentemente, un’anima – non può sapere che la sua  citazione più conosciuta è contenuta in uno dei libri più belli e più ironici di Gianni Rodari, quel “C’era due volte il barone Lamberto”, ambientato lì attorno

C’è chi, nel lento trascorrere del tempo, vigila. Infatti, d’inverno , quando il lago è velato, a pelo d’acqua, dalla nebbia, sembra che stia lì, sentinella di pietra sul colle, a difesa del silenzio e della pace di questa terra cusiana, sulla sponda orientale del lago d’Orta.Grigia e serissima, la Torre di Buccione – che non ha, evidentemente, un’anima – non può sapere che la sua  citazione più conosciuta è contenuta in uno dei libri più belli e più ironici di Gianni Rodari, quel “C’era due volte il barone Lamberto”, ambientato lì attorno. Nel racconto del grande scrittore omegnese,  dopo l’invasione dell’isola di S.Giulio da parte dei banditi che sequestrarono il barone, i giornalisti di mezzo mondo si disputarono gli “osservatori “migliori per seguire le varie fasi della vicenda. E se i giapponesi ( i più sistematici.. ) occuparono i punti più alti, cioè l’Alpe Quaggione e la vetta del Mottarone, scrutando il lago da nord a sud, da Omegna a Gozzano, l’unico punto altrettanto alto e panoramico per guardare il lago da sud a nord era proprio la Torre di Buccione, “occupata in forze dalla Tv messicana”.

Non male come “utilizzo” nel XX secolo. Ma , riposta la fantasia e ripristinando la storia per com’è stata, bisogna dire che il primo documento che cita la fortificazione risale al 1200: il castello di Buccione fu teatro di un accordo stipulato alla presenza del vescovo Pietro IV tra i feudatari locali ed i rappresentanti del comune di Novara. Incontratisi nel prato sotto la Torre, che svettava con i suoi quasi trenta metri d’altezza sul colle, cercarono un’intesa per mettere fine alle dispute sulle questioni territoriali della Riviera. Nel 1205 il castello venne indicato come dimora del Vescovo e trent’anni dopo, in un altro documento, si ribadiva che la Torre e le fortificazioni di Buccione erano “indiscussa proprietà vescovile”. Il filo che lega questi documenti non solo testimonia la “presenza” della fortificazione di Buccione ma rappresenta tre momenti della originale evoluzione della Riviera di S.Giulio sotto il profilo istituzionale ed amministrativo, con i passaggi – nell’arco di trecento anni , dal Mille al XIII secolo – da signoria di “possesso territoriale” a signoria di “potere giurisdizionale” del vescovo di Novara, tant’è che per sbrogliare la complessa matassa fu persino necessario l’intervento degli arbitri dell’Imperatore.

Una mediazione non proprio pacifica visto che il Comune di Novara – impegnato ad espandere i suoi possedimenti – aveva creato ex-novo un suo avamposto tra il castello di Mesma e la Torre di Buccione ( il “borgo” della Mesmella ), insinuandosi come un cuneo nei possediemnti del vescovo così che , di conseguenza, gli arbitri imperiali dovettero ordinare la distruzione del borgo, restituendo all’autorità vescovile i castelli ed i villaggi posti a nord della Baraggia di Briga, con tutti gli annessi e connessi, cioè  i diritti ed i poteri. Ma l’origine della Torre, secondo alcuni studiosi, ha radici ben più antiche dei cenni documentali già citati: radici che affondano nelle ombre e nei chiaroscuri dell’alto medioevo. Uno studioso che ha minuziosamente “rivisitato” la storia dell’imponente fortificazione – il Marzi – scrisse che “ si estendeva fino a coprire la vetta del colle”, identificandone due fasi di costruzione: “l’erezione della cortina e delle stanze del presidio sono da collocarsi intorno agli anni 1150-1175” mentre  risultavano “troppo esigui gli elementi per datare i recinti successivi e il ridotto avanzato”. Resta il fatto che a rivelare le due fasi si possono citare almeno un paio di elementi: i parametri murari e la disposizione delle buche per il ponteggio. Le opinioni di carattere storiografico sono disparate: c’è chi giura si tratti di un manufatto di epoca romana, chi lo giudica invece opera dei Longobardi e  chi ancora frutto di scelte ed indicazioni dei vescovi novaresi. Secondo il Marzi, nel suo “ Sulle origini del castello di Buccione “, edito dal comune di Orta S.Giulio nel 1984, gli autori vanno ricercati invece nei signori locali, legati da vincoli feudali al vescovo, forse i da Castello di Crusinallo.

Resta un fatto, abbastanza chiaro: il castello divenne una piazzaforte vescovile, in stretto contatto con il castello dell’isola di S.Giulio – eretto nel V secolo – di cui costituiva, insieme ad altre “torri” edificate sulle sponde del Cusio, una delle “teste di ponte” di un fitto ed articolato sistema di fortificazioni poste a guardia dello stato episcopale, una sorta di “enclave” indipendente nell’ambito dell’Italia del nord, nell’arco di ben sei secoli, dal 1219 al 1817. In cima alla torre, come si usava dire “..sospesa tra terra e cielo”, era posta la campana con cui si annunciavano gli imminenti pericoli: l’ultimo, prezioso, esemplare – fatto  fondere nel 1610 – è  tutt’oggi custodito nel giardino della sede del municipio di Orta. Il “castello di strada” e la torre, nei fatti, rappresentavano un’unica turrita fortezza alta, per l’esattezza, ventitre metri, con funzioni di segnalazione, suddivisa al suo interno in tre impalcati di legno che ne  consentivano l’abitazione da parte della guarnigione . Il piano inferiore ( dove si apre l’ingresso attuale, risalente al 1800, mentre l’antico ingresso si trovava a circa sette metri da terra ) serviva da “caneva”, cioè da magazzino per i viveri e per l’acqua, necessari in caso d’assedio. Al secondo ed al terzo piano erano situate le latrine, con condotte convogliate verso il cortile per lo scarico dei liquami.

Al piano alto si trovava la cella – con la volta a crociera – munita di una bertesca organizzata su mensole, dalla quale si potevano spiare e combattere i nemici che minacciavano l’ingresso inviando loro dei “gentili omaggi” a base di pietre e, nei casi più ostinati,  calderoni d’olio bollente. La fortificazione si completava di una cortina muraria esterna con camminamenti, feritoie, merli, ancora visibili all’inizio del ‘700 quando vennero descritte  dallo storico rivierasco Lazzaro Agostino Cotta. Le mura, al loro interno, ospitavano un cortile rettangolare che includeva la “nostra” torre, mentre – in epoca successiva – venne edificato sul lato a nord un altro recinto che, stando ai resoconti del Cotta, poteva contenere fino a cinquecento soldati, ed un ridotto avanzato – situato sul crinale verso il lago – studiato come punto di controllo sulla strada che veniva percorsa da merci e viandanti. Oggi la Torre, impavida ed altera costruzione che domina il Cusio meridionale, dopo aver  subito – in passato- le offese di vandali e teppisti, merita le cure di chi – per generazioni – è nato e cresciuto alla sua ombra. E la Riserva Regionale che oggi la tutela è stata pensata proprio per questo. Un nobile scopo per la nobile causa di una nobile ed ardita costruzione medioevale.

 

Marco Travaglini

Rock Jazz e dintorni a Torino. I Pooh e Marcus Miller

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Gli appuntamenti musicali della settimana 

Lunedì. Per Anima Festival a Cervere, l’Anfiteatro ospita Umberto Tozzi nel suo “ The Final Tour dove celebra i suoi cinquant’anni di carriera.

Martedì. A Pino Torinese Francesco Django Barbieri al clarinetto , Pierre Steeve Jino Touche al contrabbasso e Nunzio Barbieri chitarra acustica, rendono omaggio a Dino Pelissero. Sotto i portici di via Po suonano i Two Fellas.

Mercoledì. All’Osteria Rabezzana si esibisce il duo Tessarollo-Ruggieri. Al Blah Blah  è di scena il bluesman Fast Frank. Alla Palazzina di Caccia di Stupinigi per il Sonic Park canta Cristiano De Andrè.

Giovedì. Chiusura del Sonic Park a Stupinigi con il concerto dei Pooh per i loro quasi 60 anni di carriera. Al Blah Blah suonano gli Escuela Grind. Al Neruda si esibiscono gli Elettrovois. Per “Anima Festival” a Cervere è di scena Ermal Meta. Alla Cascina Roccafranca concerto del Vocal eXcess.

Venerdì. Per “Monfortinjazz” a Monforte d’Alba suona Marcus Miller.

Sabato. Sempre per “Monfortinjazz” si esibisce Daniele Silvestri.

Pierluigi Fuggetta

I mille castelli del Piemonte

Perché andare solo nelle grandi residenze sabaude, già viste e riviste, e non recarsi nei tanti castelli minori, storicamente meno importanti ma ugualmente belli e visitabili? In Piemonte si contano almeno un migliaio di castelli se si considerano anche quelli di cui restano poche tracce e qualche rudere. E tanti, tantissimi si trovano nella sola provincia di Torino. È di questi che ci parla lo storico e scrittore Gianni Oliva nel libro “Castelli piemontesi, la provincia di Torino”, vol.1, Edizioni biblioteca dell’immagine, arricchito da decine di illustrazioni di Pierfranco Fabris. Quando si parla di castelli del Piemonte, precisa l’autore, il rimando immediato è a Palazzo Reale, alla Reggia di Venaria, a Racconigi, Stupinigi, Rivoli, Moncalieri, Agliè, le cosiddette “residenze sabaude”. Ma proprio per l’abbondanza di materiale disponibile e per la notorietà dei siti, nel mio volume non parlo di residenze sabaude ma di castelli meno conosciuti, alcuni in buono stato e altri abbandonati e sopravvissuti solo in qualche torre o in qualche rudere perimetrale”. E allora lasciamoci trasportare dalla fantasia entrando in questi castelli e immaginiamo quel che accadeva tra quelle mura possenti, eventi piccoli o grandi, importanti o meno, un assedio, un delitto, un matrimonio, fantasmi, streghe, leggende, insieme ai personaggi che l’hanno abitato, i signori del luogo, marchesi, conti, duchi e sovrani. Gianni Oliva racconta di tutto e di più. Il castello di Montalto Dora, con il suo maestoso profilo medievale domina dall’alto il canavese e la Dora Baltea offrendo un colpo d’occhio favoloso a chi percorre l’autostrada Torino-Aosta. Troneggia come una sentinella nel tratto morenico-canavesano della via Francigena. Danneggiato nel Seicento dalle truppe francesi, dal maniero sono uscite alcune leggende romantiche raccolte e divulgate da Giuseppe Giacosa, lo scrittore canavesano amico di Pascoli e Carducci. Il castello di San Giorio, a pochi chilometri da Susa, che da un’altura sovrasta la valle della Doria Riparia, costruito nel XI secolo dagli Arduinici, marchesi di Torino, per motivi difensivi ma anche per incassare i pedaggi di transito lungo la via Francigena, a Susa, San Giorio, Sant’Ambrogio e Avigliana. Alla fine del Seicento il maresciallo Catinat lo fa distruggere ma aveva troppa fretta di arrivare ad Avigliana per far saltare in aria anche il castello del Conte Rosso, strategicamente ben più importante. Alcune parti della fortezza di San Giorio si sono quindi salvate anche se ne restano pochi resti, che si vedono bene dalla Torino-Bardonecchia, in particolare le mura merlate, parzialmente restaurate di recente. Ma restano anche misteriose memorie templari che appaiono all’improvviso tra i vicoli che salgono alle mura del maniero: croci del Tempio originali, per nulla consumate dai tanti secoli trascorsi. Qui, d’inverno, come accade anche a Giaglione e a Venaus, danzano gli spadonari incrociando le spade in una danza guerresca per cacciare i nemici, i saraceni di un tempo, e per propiziare la produttività dei terreni. Ma se ci spostiamo poco più lontano, a Reano, in bassa val Susa, tra la Dora e il Sangone, e se siamo fortunati, potremmo trovare una piccola parte del tesoro dei Templari nascosto nei sotterranei del castello. Almeno così racconta una leggenda del XIII secolo secondo cui il maniero sarebbe diventato un cascinale fortificato dell’Ordine dei Templari e in una sala sotterranea si troverebbe un tesoretto, in realtà mai scoperto. Tuttavia nei dintorni del castello è stato rinvenuto un anello d’argento in stile orientale risalente allo stessa epoca e forse appartenente a un cavaliere tornato dalle Crociate, un Templare oppure lo stesso Amedeo III, conte di Savoia, che scelse Avigliana come propria residenza e che nel 1147 partecipò alla seconda crociata. Il castello è oggi una proprietà privata e non si può quindi visitare “ma merita senz’altro una visita dall’esterno, scrive Oliva, la sua struttura e la tinteggiatura rosata lo rendono ben evidente nello scenario di boschi e prati in cui si staglia”. Il castello di Rivara ricorda i processi alle streghe del canavese nel Quattrocento mentre quello rinascimentale di Vinovo è strettamente legato alla nobile famiglia locale dei Della Rovere. Presidio militare, residenza nobiliare, manifattura di porcellane, collegio della Regia Università, il castello di Vinovo è di proprietà del Comune. Ma c’è molto di più da leggere nel libro di Oliva. L’elenco dei castelli è lungo e comprende i manieri di Avigliana, Ivrea, Masino, Mazzè, Piobesi, Piossasco, Rocca Canavese, Santena, Settimo Vittone, Sparone, Susa, Ternavasso e Malgrà di Rivarolo.           Filippo Re

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: Facinorosi all’Università – L’associazionismo e la cultura – Gli 80 anni di Bresso – Lettere

Facinorosi all’Università
La violenta contestazione filo palestinese  ed apertamente ostile ad Israele (colpevole di genocidio ) , una contestazione venata da un antisemitismo molto aggressivo, ha messo in sordina la questione sollevata da gruppi di femministe nei confronti di docenti che non avrebbero mantenuto nelle parole e nei gesti  un corretto rapporto con le allieve. Un professore venne anche sospeso dopo essere stato massacrato da una caccia alle streghe davvero perfida.
Di come sia andata a finire non si sa più nulla. Nessuno ne parla più. Forse le accuse si sono rivelate infondate? Ma approfondendo un po’ la vita dell’Università  di Torino, si rileva come essa sia in mano ad una minoranza di studenti  facinorosi a cui viene tutto concesso. All’Università, luogo sacro della libera circolazione delle idee, certe opinioni sono bandite con il ricorso sistematico  alla violenza, anche con la connivenza di professori che hanno abdicato al loro compito istituzionale come pubblici ufficiali. Diceva Norberto Bobbio che pure i neo fascisti – l’intervista è dei violenti Anni Ottanta del secolo scorso – vanno trattati come gli altri cittadini. Ed Arturo Carlo Jemolo concordava con lui. Ma quelli erano dei Maestri che avevano anche fatto i professori. Le idee si combattono con le idee, non con la violenza.
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L’associazionismo e la cultura
L’associazionismo è in profonda crisi a tutti i livelli con dei saltimbanchi che si improvvisano promotori e animatori culturali senza averne i titoli, organizzando vere schifezze in caffè e scantinati. Nascono come piccoli funghi gruppetti di dilettanti che esibiscono il loro volto  spesso  ebete, sui social  con le fotografie delle loro prodezze  da dopolavoro. Anche nei club più elitari, che un tempo furono molto prestigiosi e raccolsero la crema di Torino,  si vedono ai vertici personaggini che si sentono importanti solo perché esibiscono al bavero un distintivo, quasi come  la cimice del ventennio.
Nei loro  convivi diffondono in abbondanza parole solidali e umanitarie, quasi facendo concorrenza alla Chiesa cattolica, senza averne l’autorità e la storia. Spettacoli che fanno sorridere o piangere. E che dire dei 18 anni del circolo dei lettori iper-finanziato da noi contribuenti che festeggia la maggiore età, promuovendo un questionario – sondaggio  a cui  hanno  risposto 1008 persone su 27 mila intervistati, anche se proclamano che i presenti in via Bogino sono 70 mila all’anno. Per chi come me ha  cercato di imparare ad organizzare eventi  culturali alla scuola di Olivetti, di  Irma Antonetto e anche in parte di Franco Antonicelli – pur nel netto dissenso politico – queste sono cose da marziani. E non aggiungo di più.
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Gli 80 anni di Bresso
Mercedes Bresso ha compiuto 80 anni, anche se non li dimostra affatto. La sua vitalità e il suo spirito libero è rimasto quello di quando la conobbi nel mondo radicale di Pannella.
E’ anche una donna di grande raffinatezza culturale.  La stimo da sempre e adesso vedo che anche le antipatie ci accomunano, salvo Fassino che io apprezzo molto. Nella bella intervista rilasciata alla “Stampa” ha parlato apertamente di socialisti democratici. Finalmente qualcuno nel Pd che riprende una parola impronunciabile, malgrado Matteotti. Mille auguri, cara Mercedes  Ti ricordo che, assente Chiamparino, sei venuta a ricordare con me Mario Soldati e a festeggiare gli 80 anni di Pannella.

quaglieni penna scritturaLettere scrivere a quaglieni@gmail.com

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Auguri al Circolo dei lettori
Bisogna fare gli auguri al Circolo dei lettori per i suoi 18 anni. Finalmente è maggiorenne. Ma continua a vivere di ingenti  contributi pubblici. Ho scoperto dai giornali che si autofinanzia al 30 per cento  senza riuscire a  capire la somma reale  del suo autofinanziamento. Questo significa che fa pagare i suoi servizi, malgrado i contributi pubblici? La cultura finanziata  da enti pubblici non può essere pagata dai cittadini fruitori. O sbaglio? All’epoca della rimpianta Antonella Parigi era così.   Rina Anderlini
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Pubblico la Sua lettera che pone un problema vero, ma preferisco astenermi da commenti anche perchè dovrebbero essere troppo lunghi in quanto  il circolo lo conosco da 18 anni  e l’ho visto nascere, facendovi anche tante conferenze.  Un dato tra quelli evidenziati dal circolo non mi sembra però positivo, ma altamente negativo: esso sarebbe “frequentato da 163 persone ogni giorno almeno per un evento, occupando il 72 , 5% della capienza complessiva del circolo torinese”, secondo una giornalista “di fiducia” di via Bogino. Il che significa dire che solo in parte minima è disponibile al pubblico perché occupato dagli habitués, come fosse un circolo privato e non pubblico. Non accadeva neppure quando era Circolo degli artisti che nacque 177 anni  fa e che fu fatto sloggiare per far posto al Circolo dei lettori

Partorire in anonimato La storia di un’insegnante torinese

Nel libro “Una vita in Dono”, a “Palazzo Conti di Bricherasio”

Domenica 14 luglio

Bricherasio (Torino)

L’incontro rientra nella quinta edizione di “Bellezza tra le righe”, rassegna (che nasce, attraverso incontri e presentazione di libri e letture, “per guardare al futuro e acquisire nuovi punti di vista e strumenti per meglio viverlo e comprenderlo”) organizzata da alcune fra le più prestigiose dimore storiche del Pinerolese, in programma – dopo l’avvio di domenica 30 giugno scorso – fino a domenica 13 ottobre. Tema di quest’anno: “Ci vuole coraggio”. Un tema che affronta con grande determinazione e “coraggio”, per l’appunto, il libro “Una vita in dono” (“ed. 99 Edizioni”), opera di Claudia Roffino (torinese,docente liceale di Latino e Greco) insieme a Barbara Di Clemente, che verrà presentato domenica prossima 14 luglio, alle 17, nel giardino di “Palazzo Conti di Bricherasio”, residenza storica costruita fra Sei e Settecento ai piedi del Castello di Bricherasio, dove sorgevano le fortificazioni distrutte nel corso dell’assedio del 1594 in cui Bricherasio, occupata dai Francesi, venne riconquistata dai Savoia.

 

Contenuto di grande attualità e di profondo valore etico-sociale, “Una vita in dono” è la storia di un’adozione, di un parto in anonimato e di una figlia (la stessa scrittrice) non riconosciuta. Una storia, dunque, autobiografica, in difesa delle donne e della scelta di “partorire in anonimato”. Troppo spesso, infatti, si parla di loro con assoluta e impietosa superficialità e troppo spesso si abusa, di conseguenza, del termine “abbandono”. La “presunta” vittima, Claudia, si schiera invece, in una non semplice autobiografia di 314 pagine, dalla parte della presunta “colpevole”. Sua madre. Che Claudia difende nella sua sicuramente non facile scelta. Quella donna, non conosciuta ma immaginata (attraverso le parole di Barbara Di Clemente) che l’ha messa al mondo e che Claudia non conoscerà mai, per una duplice scelta: quella della donna, che scegliendo il non riconoscimento alla nascita della bambina optò per non essere nominata per cento anni nella documentazione ufficiale come madre biologica e quella di Claudia stessa, che dopo essersi interrogata per una vita su questa scelta si schiera a suo favore, difendendo il “parto in anonimato” come una tutela fondamentale per i bambini e per le donne che non possono o non vogliono essere madri. Due storie. Due vite. E intorno un fitto intreccio di esistenze: quelle di chi ha accolto, amato e cresciuto Claudia, quelle di chi ne ha messo in questione le origini portandola a interrogarsi su sé stessa e quelle di chi ha accompagnato la madre biologica nel suo percorso dopo una decisione troppo spesso oggetto di un giudizio semplicistico.

“Una vita in dono” è, quindi, una difesa della “libertà delle donne” e dei “diritti dei bambini”, nella forma di un invito alla società contemporanea a pensare “con più delicatezza e più profondità i concetti di famiglia e adozione”.

Il libro è stato scritto facendo “interviste in vari ospedali” del Piemonte e della Lombardia, da Torino, Novara a Milano e raccogliendo testimonianze di assistenti sociali, ginecologi, infermieri e operatori dei reparti di Neonatologia.  “Io sono nata– afferma Roffino – in tutta sicurezza, in ospedale, per questo non riesco a dire di essere stata abbandonata. Vedo dietro questa scelta la consapevolezza della mia madre biologica di non farcela, ma di decidere per me un’altra possibilità. È forse questo che mi ha permesso di condurre la mia ricerca, da adulta, nel modo in cui ho scelto di farlo.

Gli incontri di “Bellezza tra le righe” sono compresi nel biglietto di ingresso valevole sia per gli interni sia per il parco. E’ consigliabile prenotare la visita per gli interni e al parco (con visita guidata) al costo di 8 euro, gratuito fino a 10 anni.

Per info e prenotazioni: Palazzo Conti di Bricherasio, via Vittorio Emanuele II 7, Bricherasio (Torino); tel. 366/6866556 o www.palazzocontidibricherasio.com o palazzocontidibricherasio@gmail.com

La novità di quest’anno è che la rassegna si è anche dotata di un sito: www.bellezzatralerighe.it, dove vengono caricate le registrazioni di tutti gli incontri.

g.m.

Nelle foto: “Palazzo Conti di Bricherasio”, Claudia Roffino, Cover “Una vita in dono”

Place des Vosges, tra Victor Hugo e George Simenon

Uno dei luoghi più belli di Parigi è senz’altro Place des Vosges al Marais, nell’ XI arrondissement della ville lumière. Realizzata per volere di Enrico IV sul posto dell’antico Palais des Tournelles fatto distruggere nel 1559 da Caterina de’ Medici in seguito alla morte del marito, il re Enrico II, la piazza più antica della capitale francese venne inaugurata ufficialmente con il nome Place Royale nel 1612. In breve tempo diventò il posto più frequentato e alla moda di Francia, punto d’incontro di aristocratici e intellettuali. Dopo la Rivoluzione, nel 1799, prese il nome di Place des Vosges, in onore del dipartimento dei Vosgi che per primo versò le imposte al neonato Stato Repubblicano. Oltre alla sua bellezza architettonica esercita un fascino letterario. Nel marzo del 1924 i giovani coniugi Simenon vi si trasferirono al numero 21. Quell’abitazione ebbe un significato particolare nella toponomastica della letteratura di George Simenon. Non per caso era vicina a quel Boulevard Richard Lenoir dove lo scrittore collocò l’abitazione del commissario Maigret, e poco distante dalla Senna dove, quasi all’altezza dell’Ile de la Cité, si trova il Quai des Orfèvres che al numero 36 ospitava la polizia giudiziaria di Parigi. A Place des Vosges Simenon scrisse il suo primo degli oltre duecento romanzi popolari, siglati con più di venti pseudonimi. Anche il suo Maigret amava la zona del Marais: “un quartiere che conosceva bene tanto che gli sarebbe piaciuto andare ad abitare”. Per un breve periodo, a causa di alcuni lavori di ristrutturazione nella sua casa di boulevard Ginard-Lenoir, ci abitò e la descrizione di un risveglio mattutino in quell’appartamento svela le autobiografiche sensazioni dello scrittore belga: “In casa c’era un buon odore di caffè. Si sentivano gli uccelli e le fontane di place des Vosges. La gente andava al lavoro nel sole ancora fresco e leggero del mattino”. Al numero sei della stessa piazza c’è la maison parigina di Victor Hugo, la casa dove l’autore di Notre-Dame de Paris e de I Miserabili visse per più di sedici anni, dal 1832 al 1848. Fu tra quelle mura che Hugo scrisse i suoi più grandi capolavori. L’appartamento nell’elegante palazzo Rohan-Guéménée rappresenta oggi, insieme alla Maison de Balzac e al Museo della Vita Romantica, uno dei tre musei letterari di Parigi.

Marco Travaglini

Tristemente Amalia

Oltre Torino: storie miti e leggende del torinese dimenticato
Torino e le sue donne
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce.

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Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile. Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, Emmeline Pankhurst, colei che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan.  Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere. (ac)

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9. Tristemente Amalia
Negli articoli precedenti ho voluto proporre storie di donne medico, donne soldato, paladine dell’istruzione, figure imponenti, dal carattere forte che non deflette. Eppure non tutte le eroine sono fatte della stessa pasta, in più, parlando di protagoniste al femminile, è impossibile non incappare in una storia d’amore, legata ai canoni romantici della passione travagliata e devastante, tipica delle eroine tragiche che si consumano per qualche immeritevole eroe, con la medesima grazia di Madama Butterfly o con la cruda, suicida determinazione di Didone.  Amalia Guglielminetti nasce a Torino il 4 aprile 1882. Rimane orfana di padre a soli cinque anni e viene accolta nella casa del nonno paterno, Lorenzo. Il nonno è molto religioso e fedele ai valori tradizionali del cattolicesimo ortodosso, delega quindi l’educazione della bambina ad istituti privati di stretta osservanza cattolica. All’età di 22 anni, Amalia dimostra passione per la letteratura e doti di scrittrice pubblicando la sua prima raccolta di poesie “Voci di Giovinezza”, di impronta carducciana. A Torino frequenta la Società di Cultura insieme a illustri personaggi quali Thovez, Pastonchi, Graf, Gozzano e Borgese; è in questo ambiente che la giovane cresce e diventa donna appassionata e sensibile, sempre vestita all’ultima moda parigina, proprio secondo i canoni del gusto Liberty. Nel 1907 pubblica “Le vergini folli” dove si intravvedono i temi che saranno poi dominanti nei lavori successivi. E’ questo scritto a incuriosire il poeta torinese Guido Gozzano, che si interessa a lei e con cui Amalia inizia una travagliata, intensa e breve storia d’amore. La relazione tra i due poeti viene ricostruita attraverso una serie di carteggi, che vedono Gozzano proiettato in una dimensione letteraria scritta e cerebrale, mentre Amalia desidera trasformare il rapporto in un concreto legame sentimentale. Da questa altalenante esperienza nascono “Le seduzioni”, poesie in cui si trova riflesso l’amore sognato e perduto, già presente nelle precedenti raccolte poetiche. L’influenza della relazione con Guido rimane evidente, tuttavia Amalia sa andare oltre e si colloca con autorevolezza nella storia letteraria italiana del primo Novecento. D’Annunzio la definirà “l’unica vera poetessa che abbia oggi l’Italia”. Nel 1909 pubblica “Emma” un volumetto di poesie dedicato alla sorella morta di tifo a soli 29 anni. Nel 1911 cura l’introduzione del volume “Versi”, edito a Torino dai Fratelli Pozzo, di Edmondo Rubini Dodsworth, il futuro primo traduttore italiano (nel 1923) dell’opera di William Blake. Nello stesso anno pubblica “l’Amante ignoto”, prima opera teatrale e omaggio a D’annunzio. L’opera diventa nota anche grazie all’attrice Lyda Borelli, diva del cinema muto tra le più amate dal pubblico, che recita qualche scena nel salotto “Donna di Torino”.Nel 1913 esce l’ “Insonne”, volume poetico all’interno del quale la lirica “Risposta a un saggio” sembra essere un controcanto alle poesie di Gozzano “L’onesto rifiuto” e “Una risorta”. Questo è l’ultimo lavoro poetico impegnativo di Amalia, che nel 1934 pubblicherà “I serpenti di Medusa”, senza particolari novità artistiche. Scriverà ancora versi, soprattutto per volumi rivolti all’infanzia. Intanto si dedica ad opere narrative, in cui tuttavia i personaggi femminili restano in linea con le tematiche oggetto della precedente produzione in versi. Sempre nel 1913 esce il suo primo lavoro in prosa, “I volti dell’amore”, ma la critica è piuttosto severa. Amalia collabora anche con alcune riviste su cui scrive di poesia e di prosa. In questo contesto conosce lo scrittore e critico letterario Dino Segre (di dodici anni più giovane) e con lui inizia una difficile relazione che tuttavia si protrae per alcuni anni. Nel 1917 esce “Nei e cicisbei” e nel 1919 “Il Baro dell’amore”, lavori che saranno un clamoroso insuccesso.

Amalia torna in auge con il romanzo del 1923 “La rivincita del maschio”, in cui è evidente l’influenza di Pitigrilli, (pseudonimo di Dino Segre), ma la pubblicazione le procura problemi giudiziari. I guai per la poetessa si intensificano con l’interruzione della relazione con Pitigrilli che finisce malamente con denunce, calunnie e querele; il tutto termina con una condanna di quattro mesi di reclusione per Amalia stessa, che pare avesse falsificato alcune lettere nel tentativo di far passare Pitigrilli come antifascista. La donna viene anche processata per oltraggio al pudore nel 1935, a motivo di un articolo sulla rivista “Cinema illustrazione”. La vicenda tormentata della Guglielminetti non trova pace nemmeno alla fine della sua vita. Muore il 4 dicembre 1941 per setticemia, provocata da una ferita che si era causata qualche giorno prima, cadendo da una scalinata per raggiungere il rifugio anti-aereo, in seguito all’allarme per il bombardamento che stava per incombere su Torino. Aveva lasciato poco tempo prima le sue volontà relative alle modalità di sepoltura: una tomba a piramide con l’iscrizione “Essa è pur sempre quella che va sola” e l’istituzione di un premio letterario a suo nome. Entrambe le richieste non saranno realizzate. E’ sepolta al Cimitero Monumentale di Torino e il suo valore di poetessa è oggi, purtroppo, quasi completamente dimenticato e ignorato.

 

Alessia Cagnotto

Music tales intervista Eric Picatti, Finix24

Music tales, la rubrica musicale

“Se dovessi essere il personaggio di una sit com morirei sempre da solo”

 

Qualche mese fa un volto da bravo ragazzo ed una voce che ho trovato interessanti, mi hanno spinta a voler parlare nel mio articolo di Eric Picatti.

Quindi sono andata a fare un’intervista perchè amo dare spazio ai giovani.

 

Spero che possiate sostenerlo ed alimentare la sua ascesa. Lo merita.

 

1- Chi sei e cosa ti ha spinto a fare musica ?

Mi chiamo Eric, in arte Finix24, o per gli amici e conoscenti FINIX, sono un ragazzo di 25 anni proveniente dalla provincia di Torino, più precisamente da Cercenasco.

La passione per la musica rap ( da artista) è nata in maniera in aspettata da pochi anni in realtà, diversamente da altre persone da piccolo ascoltavo musica ma molto più generale, per poi in adolescenza avere anche molte influenze da parte della musica elettronica, preciso da ascoltatore. Ho iniziato a scrivere testi per diletto in pandemia ( metà 2020 ) per poi dedicarmici totalmente nel gennaio 2021, grazie al supporto di amici e familiari.

Da quel momento in solo 3 anni di carriera sono riuscito a pubblicare, in maniera del tutto indipendente, 1 ep chiamato Storie del Solidiario, uscito nel 2022 e un album chiamato NARRATORE, uscito quest’anno, tutti e due disponibili su tutte le piattaforme e il secondo anche in formato fisico.

 

2- Cosa ti ha spinto a scegliere questo pezzo e come è nato ?

Il pezzo che ho scelto fa parte di una saga, ora con solo 2 capitoli, potrei rispondere a tutte le due domande con una risposta. Il pezzo nasce dalla volontà di esprimere il senso di resilienza alle difficoltà che possiamo trovarci ogni giorno della nostra vita, sotto forma di una favola (o di un anti fiaba) di un cavaliere solitario che affronta un lungo viaggio, fatto di insidie , pericoli, difficoltà, cadute. Un viaggio alla ricerca di un tesoro che, chi nella vita si è sentito e si sente SOLO, cerca sempre e comunque, l’amore e la felicità. La ricerca di qualcuno che voglia condividere un cuore già spezzato in due e rinchiuso a chiave, la felicità e la consapevolezza che si possa trovare quel tipo di persona anche attraverso i propri amici e familiari. È un pezzo che semplicemente racconta di noi, che ogni giorno cerca di tenere la testa alta il più possibile contro eventi complicati, tristi,  dovuti al lutto, alla dipendenza, alla depressione, al bullismo, alla difficoltà economica dalla società odierna. Racconta di chi rialza, chi nonostante tutto, riesce a mantenere un buon cuore e chi non ha sovrastrutture, chi riesce ogni giorno a mostrare la propria faccia in un mondo fatto di tante maschere. È un pezzo che racconta anche una parte della mia vita, dal momento che io, come tutti ho affrontato e sto affrontando tutt’ora ciò che ho appena detto. Fortunatamente con un sorriso in più .

3- Quali sono i tuoi progetti futuri ?

Non so effettivamente cosa mi attenderà il futuro, in questo 3 anni a dispetto di ciò che può pensare la gente, sono riuscito a far uscire  2 progetti che volevo fortemente pubblicare, in modo che tutti quelli che hanno ascoltato e che ascolteranno i miei lavori, potessero ascoltare la mia idea di musica, la mia idea di Rap e Hip Hop. Al momento sto lavorando ad un secondo ep, che spero di far uscire nel 2025. La volontà di fare anche un secondo disco c’è, ma al momento è una cosa su cui mi concentrerò più avanti. Spero anche di lavorare anche all’interno di una label, anche indipendente, per vedere come si lavora all’interno di quel mondo.

Non so se avverrà, solo il tempo ce lo può dire.

      Buon ascolto e tanta buona fortuna a Finix24!

 

https://open.spotify.com/track/4rTBsBAecIEnGNjPvUc5GJ?si=Rzst7jSPRjKmXZ9GODV8Mg&context=spotify%3Aalbum%3A0wia5sTSZLxX0AadnZr2bu

CHIARA DE CARLO

 

 

 

 

 

 

scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

 

Ecco a voi gli eventi da non perdere!
 
 

10HP REIMMAGINANDO LUCIO AL JAZZ CLUB DI PIAZZA VALDO FUSI IL 19 LUGLIO 2024

 

DISCOGRAPHIA PARTY BAND IN PIAZZA A LA LOGGIA IL 19 LUGLIO 2024

 

Agliè, il castello miracolato

Agliè e il suo castello! Ma è quello di Rivombrosa? Mondo dei consumi che riduci ogni cosa a effimero stilema pur che la realtà che proponi si imponga, nessun rispetto della verità, della storia e anche in questo caso dell’autenticità di persone e luoghi. A voler affrontare la storia di un castello, ci si immerge appieno nelle vicende di vita del passato e andando all’indietro capita di vedere distrutte e ricostruite più volte realtà non solo castellane ma locali…..Così, davanti alla lanterna magica del passato, noi ci rassegnamo a verità che contraddicono i fatti noti e raccontato, ché il momento vuole:
nessun rispetto per la verità! Questa pagina propone un momento drammatico: quando il castello rischiò che l’invasore, inviperito per gli esiti degli ultimi eventi bellici, mettesse a sacco prima e anche a fuoco poi il Monumento più importante di Agliè….. allora sarà più interessante scoprire quanto ebbe a capitare……e questo scritto lo dice bene.
Carlo Alfonso Maria Burdet
L’antico maniero divenne proprietà di casa Savoia dal 1764. Dopo l’avvenuto di Napoleone che lo aveva adibito a ricovero e il parco ceduto ai privati per l’agricoltura, ritornò ai Savoia nel 1823. Dal 1849 fu ereditato da Ferdinando Savoia duca di Genova, dal figlio Tommaso duca di Savoia-Genova e dal nipote Filiberto Savoia duca di Pistoia, marito della duchessa Lydia di Arenberg. Filiberto, cugino del re Vittorio Emanuele III° di Savoia, fu generale della Brigata Brennero e generale di divisione in Africa Orientale.
Nel 1939 cedette il castello allo Stato Italiano per otto milioni di lire, poi adibito a museo dove sono esposte alcune opere di Luigi Canina, l’architetto casalese inserito in casa Borghese dal marchese di San Giorgio Evasio Gozzani, amministratore del principe Camillo e Paolina Bonaparte. Il poeta Guido Gozzano dedicò uno scritto al castello del borgo alladiese. Qui si ricorda un poeta contemporaneo di Guido, Flavio Eligio Maria Razzetti, figlio dell’avvocato torinese Napoleone e Rosa Ballor. Il padre compose un commento estetico alle Odi Barbare di Giosuè Carducci, ottenendo lusinghiera approvazione di Carducci stesso. Flavio Razzetti fu anche giornalista e inviato speciale per 26 volte negli USA, pittore, autore di commedie teatrali, romanziere e  pubblicista.
In un sonetto dedicato a Flavio Razzetti dal poeta dialettale torinese Giovanni Bono, il personaggio di Monsú Razet viene descritto come talentuoso, una figura fuori dal tempo, col suo giaccone frusto e le scarpe scalcagnate. Alla domenica pomeriggio, nel caffè Cannon d’Oro di Agliè, l’antico gioco di carte dei tarocchi permise a Razzetti di fare amicizia con la famiglia di Gozzano Domenico, sposatosi a Cuceglio con Vittoria Zanotto Contino, genitori di Giuseppina Gozzano (*1925) che ha generato la propria linea di New York. La cugina Walburga Bollendorf di Norimberga, detta Walga, moglie del neuropsichiatra Mario Gozzano, figlio del generale medico Francesco e nipote materno del principe e generale Don Maurizio Ferrante Gonzaga, fu protagonista durante la seconda guerra mondiale del salvataggio di Agliè, luogo d’origine dei Gozzano provenienti da Luzzogno.
 Prima implorando in ginocchio e poi opponendosi fermamente alla decisione del compatriota e comandante nazista di distruggere il borgo, salì sul balcone del castello e rischiando la propria vita sfidò il generale tedesco che rinunciò al bombardamento. Per sfuggire alla guerra, i coniugi si erano trasferiti da Pisa ad Agliè nella casa del padre. Oltre a Pisa, Mario fu docente a Cagliari, Napoli, Bologna e Roma ed era direttore della clinica neuropsichiatrica universitaria La Sapienza, dove al primo piano del prefabbricato è stata a lui intitolata l’aula Gozzano. Pubblicò diversi trattati sulle malattie nervose. Importante figura fu il fratello Matteo, sposato con Natalia Labroca, sorella del famoso musicista Mario direttore della Scala di Milano. Il loro figlio Francesco era accompagnatore del presidente Saragat negli anni ’60, inviato speciale nel mondo negli anni ’80 e ultimo direttore dell’Avanti all’epoca di tangentopoli.
Don Pasquale Sorgente, marito di Carlotta sorellastra di Mario, era allievo di pediatria con l’educatrice Maria Montessori a Roma.
Negli anni ’60, Mario e Walga fecero visita ai cugini di New York e San Paolo del Brasile a Itu e Sorocaba emigrati da Agliè ed ebbero quattro figli: Gabriella grafica pubblicitaria; Franco pittore; Renato regista, fotografo ed inventore dei mitici Bank Window-Light che hanno fatto epoca nella storia mondiale della fotografia di
moda, prodotti nella propria azienda lungo il Naviglio di Milano che prese il nome di Lucifero; Elisabetta detta Ingrid, neuropsichiatra infantile residente a Roma, ultima rappresentante dei Gozzano di Agliè della linea materna di Maurizio Gonzaga.
Armano Luigi Gozzano 

Malesco, giugno 1944 

L’asilo infantile di Malesco, in Valle Vigezzo, a ridosso del confine con la Svizzera, venne inaugurato nel 1853, ventisei anni dopo la “scuola per bambine”, ed entrambe le istituzioni educative trovarono alloggio per tutto l’800 nell’edificio dell’ex ospedale Trabucchi, nel centro storico del paese. Agli inizi del ‘900, agli albori del “secolo breve”, in ragione degli spazi angusti in cui erano costretti i piccoli frequentatori dell’asilo e delle scuole femminili, l’Amministrazione comunale maleschese progettò la costruzione di una nuova scuola, considerato l’aumento della popolazione scolastica. Così, con una delibera del 1907, venne scelta piazza Brié che, al tempo, era stata pensata già larga (105 metri per 45), contornata da un bel viale a doppia fila, utilizzata sul finire del secolo (nel 1896) per festeggiamenti dell’acqua potabile che, in paese, veniva distribuita alle otto fontane pubbliche, alle scuole e all’asilo. Un vanto per gli amministratori del più popoloso centro vigezzino, a quel tempo guidati dal sindaco Bartolomeo Trabucchi. L’edificio doveva comprendere al piano rialzato i locali dell’asilo, al primo piano tre spaziose aule per le scuole femminili e al secondo, sulla destra della scala, un piccolo appartamento privato per le suore, e dall’altro lato un’altra aula. L’edificio subì, nel tempo, ulteriori sistemazioni e aggiustamenti ma già negli anni ‘30, come si può desumere da testimonianze e foto d’epoca, le classi erano miste e gli insegnanti laici. In quel luogo – una scuola – attraversato, abitato e frequentato dai ragazzi in crescita si dovrebbe sperimentare lo stare insieme anche tra persone che non sono legate da un comune affetto, come nel caso della famiglia. La scuola è il luogo che fornisce contenuti di conoscenza, dove si sta con gli altri condividendo regole comuni. Ovunque, e – ovviamente – anche in quell’edificio di piazza Brié, a Malesco, quasi agli estremi dell’Italia di “mezzanotte”. Soprattutto in un asilo come quello che rappresentava il primo livello di un cammino dove, nel tempo, i bambini avrebbero incontrato le maestre che avrebbero spiegato loro i numeri, gli anni della storia, i luoghi della geografia. Si sarebbe scritto, più avanti, con il pennino e con l’inchiostro che stava nel calamaio, su ogni banco.

C’era, e lo si coglieva nei paesi di montagna come nelle città, una generosità civile nella scuola pubblica, gratuita che permetteva di imparare. L’istruzione era (lo è ancora) utile perché non discriminava e dava importanza a tutti, a partire dai più poveri. Come ha scritto Erri De Luca, “la scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però fra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori”. Ovunque, appunto. Anche a Malesco. Ma così non fu, in tempo di guerra. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, la nascita della Repubblica fascista di Salò, l’occupazione nazista e l’avvio della lotta partigiana, le cantine di quelle scuole diventarono protagoniste, loro malgrado, di indicibili atrocità. Lì, nazisti tedeschi e fascisti italiani, rinchiusero e seviziarono i partigiani fatti prigionieri durante il rastrellamento del giugno 1944. L’impervia Val Grande (oggi parco nazionale e area wilderness più grande d’Italia) e le zone circostanti ospitavano diverse formazioni partigiane come la Valdossola, la Giovane Italia e la Battisti contro cui, in quell’inizio d’estate, si scatenò l’attacco di diverse migliaia di nazifascisti con l’appoggio di artiglieria e di aerei. Tedeschi e fascisti attaccarono in quasi cinquemila, bene armati ed equipaggiati; i partigiani che si difesero erano dieci volte di meno, male armati, peggio equipaggiati e privi di viveri. Per le formazioni partigiane e per la popolazione civile furono venti terribili giorni di spietata caccia all’uomo, fucilazioni, incendi e saccheggi. Le operazioni in montagna dell’Operazione Köeln – organizzata dal comando SS di Milano – terminarono il 22 giugno con l’eccidio dell’Alpe Casarolo, in alta Val Grande, dove morirono nove partigiani e due alpigiani. Poi in Val Grande le armi tacquero ma continuarono le fucilazioni dei partigiani catturati nei paesi ai piedi dei monti. Numerose vittime rimasero senza un nome e così anche molti dispersi, come nel caso di tanti giovani lombardi saliti in montagna per sfuggire ai bandi della Repubblica Sociale Italiana e non ancora censiti sui ruolini delle formazioni partigiane. Le vittime del rastrellamento – compresi molti alpigiani in zona per la monticazione estiva – furono circa trecento, la metà delle quali uccise dopo la cattura. Nelle cantine dell’asilo di Malesco, trasformato in prigione, transitarono decine e decine di partigiani, picchiati e torturati in interminabili “sedute” d’interrogatorio dai loro aguzzini. Molti di loro vennero poi tradotti nei luoghi di fucilazione, a Fondotoce di Verbania, Beura, Baveno. E nella frazione maleschese di Finero dove, nel piccolo cimitero, in quindici vennero messi al muro e fucilati il 23 giugno 1944. Oggi, a memoria di quella tragica vicenda, è stata posta una lapide sul muro della scuola e al centro della piazza (che ha cambiato il nome in piazza XV Martiri) dove, dalla fontana, l’acqua esce da quindici zampilli, tanti quanti i partigiani che persero la vita nel camposanto lungo la strada che scende per la Valle Cannobina.

Marco Travaglini