C’è un soffio di vita soltanto, il documentario firmato dal duo di registi italiani Matteo Botrugno e Daniele Coluccini sarà presentato il 29 novembre Fuori concorso alla 39a edizione del Torino Film Festival – L’incanto del reale.
Il film, realizzato quasi interamente durante l’anno della pandemia, racconta l’emozionante e singolare storia di Lucy, la donna transessuale più anziana d’Italia. Tra le pochissime sopravvissute al campo di concentramento di Dachau ancora in vita, è testimone diretta di uno dei momenti più bui e tragici della storia del Novecento.
Il documentario, infatti, racconta un pezzo di storia italiana (e non solo) attraverso gli occhi di una persona che, come tante allora, è stata costretta a guardare l’orrore, ma ha saputo resistergli con forza e coraggio ineguagliabili.
Attraverso il racconto lucidissimo di Lucy, il film non solo affronta tematiche attuali come l’identità di genere, ma vuole anche far riflettere sull’importanza di continuare a mantenere intatta la propria personalità, nonostante i soprusi e i continui tentativi della società contemporanea di condannare, umiliare ed eliminare ogni accenno di diversità – “chi l’ha detto che una donna non può chiamarsi Luciano?”, afferma la protagonista della storia nel corso del film.
Botrugno e Coluccini, così, attraverso un affresco intimo e delicato, pongono allo spettatore riflessioni continue e mai scontate. E lo fanno direttamente con la voce di chi certi orrori li ha vissuti sulla propria pelle, perché le voci come quella di Lucy si stanno affievolendo e con loro la memoria collettiva sembra perdersi ogni giorno sempre di più.
C’è un soffio di vita soltanto è un inno alla vita e un elogio della diversità in tutta la sua bellezza. Perché Lucy è l’essenza stessa della diversità, una persona in perenne lotta per l’affermazione della propria identità, in un mondo che ancora oggi, troppo spesso, preferisce odiare piuttosto che comprendere.
I registi, così, realizzano un ritratto colmo di umanità di una donna che, con il suo vissuto, diviene metafora di un’intera comunità fatta di persone che non si arrendono e sanno fare tesoro del dono più prezioso della Storia: la memoria, come unico e insostituibile punto di partenza.



Animali, in gran numero, esotici e domestici. E autoritratti. Tanti. Disarmante e geniale nella ricerca di un’autoviolenza atroce e distruttiva é l’“Autoritratto con mosche” realizzato nel ’57 e di certo fra i più interessanti e dolorosamente amari nel gruppone di quelli posti in mostra. Il volto come sempre di sguincio, nessuna concessione alla benché minima positività, le mosche artigliate al collo e all’occhio destro che sembra trasudare sangue, il cranio malformato dal rachitismo sviluppato (insieme al “gozzo”) fin dall’infanzia, ogni singola imperfezione volutamente accentuata con pennellate di colore che calano sulla tela come sciabolate mortifere. In volo due corvacci, gracchianti dolorose cantilene foriere di oscuri presagi. Sofferenza. Dolore. Compagnia assidua di una vita disperata. Di un’infanzia negata. Di continue entrate e uscite dai manicomi.”Questo è il mio volto, se volete non ‘gradevole’, ma questo io sono” sembra dire l’artista, impegnato a rendersi ancor più “sgradevole”, autolesionista all’eccesso in una sorta di autoironica rappresentazione, esorcizzante forse il suo profondo malessere interiore. Antonio Ligabue, al secolo Laccabue (dal cognome del patrigno che egli rifiutò per tutta la vita) si trovava allora a Gualtieri, nel Reggiano, dov’era arrivato nel ’19, dopo aver aggredito la madre adottiva durante una lite. Arrivava dalla Svizzera (era nato a Zurigo, nel 1899) e aveva già conosciuto l’affidamento adottivo, la vita randagia, le case di cura.
A Guatieri dove visse come “straniero in terra straniera” era, per tutti o quasi, “Toni el matt”, nonostante in alcune opere come nel superbo “Autoritratto con cavalletto”, egli ami raffigurarsi vestito di tutto punto mentre en plein air dipinge un trionfante gallo. Un Toni quasi irriconoscibile, come i “normali” lo avrebbero voluto. Ampio spazio è dedicato in mostra anche alla scultura (oltre venti opere in bronzo, soprattutto di animali) cui l’artista iniziò a dedicarsi fin dai primi anni di attività usando al principio la creta del Po, resa più malleabile attraverso una lunga masticazione e solo più tardi ricorrendo alla cottura. E infine, altro filone ben narrato in mostra, quello dei paesaggi padani, dove sullo sfondo irrompono le raffigurazioni dei castelli e delle case, con le loro guglie e bandiere al vento, della natia e mai dimenticata Svizzera. Qui troviamo un velo di fanciullesca pittura “naive”. Ma solo un velo. Perché Ligabue fu soprattutto un grande “espressionista tragico” e, per certi versi, un “primitivo” alla Rousseau il Doganiere, pur se affascinato da van Gogh, non meno che da Klimt, dai “fauves” e dagli espressionisti tedeschi. Un artista diventato “mito”. Forse a sua insaputa. Mitizzato dall’attenzione dei rotocalchi degli anni Cinquanta fino a quella a lui ancor oggi riservata dal teatro (“Un bes” di Mario Perrotta) e dal cinema (dal recente “Volevo nascondermi”) di Giorgio Diritti. In mostra, a tal proposito, non mancano anche testimonianza dirette di autori, registi ed attori.