

RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA
Jane Smiley “L’età del disincanto” -La Nuova Frontiera- euro 16,90
Jane Smiley (nata a Los Angeles nel 1949) è un gigante della letteratura americana contemporanea. Premio Pulitzer, autrice di oltre una ventina di opere di narrativa e saggistica, tutte di altissimo livello.
Questo romanzo, tradotto solo ora in italiano, in realtà è del 1987 e narra la crisi coniugale di una coppia di dentisti. Jane Smiley lo fa con estrema grazia e passo lieve, eppure riesce a scandagliare magistralmente due vite intere e due sensibilità caratterizzate da infinite sfaccettature.
Lei oggi -40 anni dopo e 4 matrimoni alle spalle- la ricetta giusta per far funzionare una coppia deve averla trovata; dato che con l’ultimo marito è felicemente sposata da 25 anni. Non litigano mai, si sono divisi chiaramente i compiti e trascorrono parte del tempo insieme scherzando.
Tornando al romanzo; Dana e Dave, apparentemente, sembrano aver formato una coppia consolidata e serena. Le loro carriere sono armoniosamente condivise e di successo, ed hanno tre figlie impegnative che richiedono attenzione.
Si sono conosciuti all’Università dove hanno studiato odontoiatria; una volta laureati, hanno aperto insieme uno studio dentistico all’avanguardia.
Ora, oltre alle bambine hanno anche due case; la seconda in campagna, dove, appena possono, si rifugiano per trascorrere ore di riposo vacanziero.
Tutto sembrerebbe quasi da “Mulino Bianco”; ma il condizionale è d’obbligo, perché in realtà qualche ombra c’è. A svelarle è la voce narrante di Dave.
Attraverso i suoi flash back scorrono i nodi fondamentali che legano la sua famiglia. Emerge che Dave ha imparato molto dalla moglie, con la quale, dopo aver studiato fianco a fianco, ora lavora applicando la stessa formula collaborativa.
Marito e moglie fanno tutto insieme: vanno e tornano dal lavoro, si occupano delle figlie e cercano di gestire con equilibrio anche i loro puntigli. Come quello della piccola Leah che improvvisamente vira dall’assoluta predilezione per Dana a quella esclusiva e totalizzante per Dave.
Lui rileva continui piccoli indizi e si allarma quando Dana gli confessa di essere spesso infelice; ma svicola, mentre il tempo del dubbio continua a dilatarsi.
Quando poi in studio arriva un nuovo paziente….ecco che il disincanto arriva. E vi appassionerete sempre di più, grazie alla maestria della scrittrice che sa condurvi nelle nicchie più segrete di questo matrimonio, pagina dopo pagina…
Joyce Carol Oates “Macellaio” -La nave di Teseo- euro 24,00
Joyce Carol Oates è una fuori classe della letteratura mondiale: 87 anni, fisico minuto ed esile, carattere immenso ed energia incontenibile.
Scrittrice tra le più prolifiche della storia, capace di spaziare -senza mai sbagliare un colpo- tra svariati generi letterari, con circa 100 libri pubblicati tra: romanzi, racconti, novelle, poesie, testi teatrali, saggi e libri scritti sotto pseudonimi. Tutt’oggi è docente universitaria ed un torrente in piena di creatività.
“Il macellaio” è l’ennesima prova della sua bravura. Un potente e crudo romanzo gotico di oltre 500 pagine, che in molte pagine fa quasi male per l’orrore che racconta.
Nasce dall’accurato lavoro di ricerca condotto dalla Oates sulle esperienze di tre medici vissuti tra 1800 e 1900 in un contesto realmente esistito e dove le donne erano considerate esseri inferiori, sia in termini biologici che sociali.
Tra l’altro, l’autrice vive a pochi chilometri di distanza dal manicomio di Trenton descritto nel “Macellaio”; teatro delle atrocità compiute dalla figura fittizia di Silas Aloysius Weir.
Ispirato al Dottor J. Marion Sims (1813-1883), fondatore della moderna ginecologia che, tra 1845 e 1849, in un ospedale improvvisato in Alabama, fece esperimenti chirurgici -senza anestesia- su schiave afroamericane.
La prima scena –agghiacciante- arriva in fretta. Il dottor Silas è alle prese con uno dei suoi raffazzonati e truculenti tentativi pseudo-scientifici su una neonata “difettosa” che ha comprato dalla madre indigente.
La bimba ha il cranio malforme, simile a un melone asimmetrico, e il medico cerca di aggiustarla asportandone alcune parti… inutile dire come andrà a finire.
La Oates usa l’espediente di una biografia polifonica, curata da Jonathan Franklin Weir, figlio del defunto Silas Weir; che per 35 anni è stato il direttore dell’Istituto del New Jersey per donne malate di mente, a Trenton.
Il romanzo è ambientato nell’America nel 1836, quando gli anestetici non erano in uso e Silas Weir si dilettava a devastare le parti intime delle sue pazienti; tutte di classi inferiori, ricoverate per comportamenti ritenuti non conformi alle norme.
Su di loro usava un armamentario di punteruoli, forcipi e pinze arroventate ed altri strumenti mostruosi che straziavano le loro carni.
Pratiche di pura macelleria sadica spacciate per sperimentazione medica, in nome di una Gino-Psichiatria basata sulla convinzione che le femmine fossero più inclini degli uomini all’isteria. La sede sarebbe stata l’utero, organo ripugnante, così come pure i genitali e l’intero corpo femminile.
Isteria deriva infatti dal latino “Histerëcus”, che significa utero. Inoltre, bastava ribellarsi ad una famiglia opprimente per essere ritenute pazze e venire rinchiuse.
Nell’ultima parte, invece, la voce cambia ed è quella dell’orfana Brigit Kinealy, che fu la prima paziente di Silas: una serva irlandese, albina, sordomuta per la quale il medico sviluppò un’ossessione.
Nel suo diario, pubblicato nel 1868, Brigit ci porta dritti nella stanza degli orrori, dove Silas sperimenta per la prima volta, senza anestesia, dopo ripetuti tentativi, la tecnica di riparazione di una fistola della vescica. Pratica per cui diventerà famoso.
Poi la promuoverà sua assistente, obbligandola a diventare sua complice nell’infliggere supplizi indicibili ad altre disgraziate… fino all’epilogo …
Cristiana Ferrini “ Mio padre, il capitano dei capitani” -Cairo- euro 16,50
E’ la splendida dichiarazione d’amore scritta da una figlia al padre, immenso e famoso, che la morte le ha portato via quando lei aveva appena 12 anni…e ancora bisogno del suo sguardo azzurro che -con la forza e la tenerezza di un abbraccio pieno di amore- sapeva guidarla ed avvolgerla.
Lei è Cristiana Ferrini, stessi occhi, colori, tenacia e forza di carattere -da mula triestina- di suo padre, Giorgio Ferrini. Il capitano più longevo e carismatico della storia granata. Morto a soli 37 anni, con un palma res di primati impareggiabile che lo ha catapultato dritto in rete al mito, e travalicato il silenzio dell’eternità.
Cristiana ha scritto queste pagine con il cuore che ancora rincorre ricordi, emozioni, echi e rimpianti, per quel bagliore fulmineo, troppo breve, concesso dal destino. Questa intensità si sente ed arriva dritta al nucleo più sensibile di chi legge.
Non è un libro solo per tifosi di inscalfibile fede granata; ma una storia che suggerisco a tutti di leggere.
Perché è il commovente ritratto, disegnato a mano libera da chi ha il privilegio di indossare -come una seconda pelle- lo stesso cognome dell’uomo che è stato: un figlio di cui andare orgogliosi, un marito esemplare, un padre dolcissimo, un capitano unico, un amico fidato e molto altro…
Il suo fugace passaggio sulla terra è stata una luminosissima
cometa per chi ha avuto la fortuna di incrociarne la traiettoria. Portatore di valori profondi: poche parole, ma fatti e concretezza; Dna da leader, senza neanche accorgersene; grande cuore granata buono e generoso, però mai sbandierato; strenuo lavoratore con senso del sacrificio già dall’infanzia. Agli inizi si stupì persino che lo pagassero per fare quello che più gli piaceva, tirare calci al pallone!
Era la sua passione fin da piccolo; ma giocava scalzo perché aveva un solo paio di scarpe, e quelle servivano per andare a scuola.
Sognava un pallone vero, ma non si poteva. Sua madre fece scendere in campo il suo ingegno e gliene confezionò uno artigianale; di gommapiuma rivestita con scampoli di stoffe robuste, cucite con infinito amore a guidare ago e filo.
Ecco come si è forgiato l’uomo dei primati: schiena dritta, sacrifici, sudore, impegno, tutto d’un pezzo.
Ha giocato sempre e solo con la maglia del Toro e collezionato 566 presenze, di cui 404 in Serie A, nell’arco di 16 stagioni.
Il Torino è stato fondato nel 1906 e nel corso della sua storia lunga quasi 120 anni, nessuno ha mai disputato così tante partite con la sua maglia, né è rimasto in squadra per 16 stagioni da giocatore.
Ad oggi Ferrini è l’unico del Toro che può vantare i numeri più alti: 442 presenze in campionato; 80 in Coppa Italia; 45 nelle coppe europee; 30 derby giocati.
Infinito il n. 8 al quale è legata l’intera vita di Ferrini, a partire da quello cucito sulla sua maglia di capitano, l’unico nella storia granata ad aver portato la fascia per 12 stagioni consecutive.
La sua dedizione alla squadra era l’aria che respirava e nessuno è mai stato capitano più di lui e come lui.
Sua figlia Cristiana è un vulcano di simpatia, idee, spigliata, creativa, straordinaria creatrice di eventi, una ne fa e cento ne pensa. Da sempre il Toro le scorre impetuoso nelle vene ed è una fans sfegatata che porta alto il ricordo del suo mitico papà.
Lo fa anche con immagini e ricordi vari della carriera del capitano, conservati in un baule, e che ora mette a disposizione di tutti voi.
Basta che clicchiate con il vostro cellulare sul QR code sul risvolto di copertina. Vi collega alla pagina Instagram Giorgio Ferrini 8, dove Cristiana carica costantemente materiale inedito e prezioso.
Perché lei sa benissimo che, il capitano dei capitani, non è solo il suo mitico “Papitano”, ma anche nei cuori di tutti i tifosi che ancora lo rimpiangono.
Simonetta Agnello Hornby “Con la giustizia in testa” -Mondadori- euro 19,00
Questo libro è diverso dagli altri della scrittrice, nata a Palermo nel 1945, e con cittadinanza britannica, dato che dal 1972 vive a Londra dove è stata giudice e avvocato dei minori.
Un testo più privato, nato da un’ossessione; quella di pretendere prima di tutto da se stessa, poi dagli altri, comportamenti giusti. Non è un saggio, e nemmeno una lezione giuridica.
Piuttosto è partita dal personale, da come lei ha vissuto la giustizia, in modo attivo e passivo, iniziando dalla famiglia. E qui il discorso conduce a cavallo delle due isole che sono le sponde tra le quali divide la sua vita; due terre diverse quanto a storia, identità e civiltà.
Una è la Sicilia in cui è nata, dal barone Francesco Agnello Cangitano di Signefari ed Elena Giudice Caramazza. Famiglia di stampo patriarcale e tradizionale, in cui
l’educazione era rigorosa. Come tutti i focolari domestici del mondo, il nucleo in cui si si impara ad essere giusti, ma anche a subire i primi torti.
Poi, la Gran Bretagna, terra di adozione dove incontra l’amore, lo sposa e lo segue in giro per il mondo. Salvo ritornare a Londra ed impostare un direzione precisa alla sua vita, il cui perno è proprio la giustizia.
Oltre alla laurea in Giurisprudenza conseguita a Palermo nel 1967, durante le due gravidanze studia per diventare avvocato solicitor. E subito dopo inizia a lavorare nel campo del diritto di famiglia.
Poi il discorso diventa più ampio ed abbraccia l’ingiustizia sociale, l’amministrazione della giustizia, l’educazione di figli e nipoti ai quali inculca il senso di giustizia. Analizza anche come viene raccontata e interpretata nell’arte, in letteratura, nella cultura popolare e nella sensibilità civile.
E tra i molteplici aspetti della giustizia, analizzati dalla Hornby, un posto d’onore è assegnato all’ambito familiare; lì poi scende in campo tutta la sua vasta esperienza in materia. Si sofferma, per esempio, su una delle scelte più problematiche che spettano ad un giudice minorile: decidere se togliere oppure lasciare un piccolo ai genitori oppure no.
Alla scoperta dei monumenti di Torino / Vittorio Emanuele II, nel corso del tempo, coadiuvato dal primo ministro Camillo Benso Conte di Cavour, portò a compimento il Risorgimento nazionale e il processo di unificazione italiana. Per questi avvenimenti viene indicato come “Il Padre della Patria”
Situato proprio nell’intersezione tra corso Vittorio Emanuele II e corso Galileo Ferraris, la statua che vede come protagonista re Vittorio Emanuele II, si eleva sopra un’area quadrata ad angoli smussati su cui poggia il basamento rivestito da blocchi e lastroni di granito della Balma. Tale basamento si compone di due serie di gradini la cui seconda è interrotta, in corrispondenza degli angoli, da quattro blocchi prismatici su cui sono scolpite le date a ricordo delle guerre per l’Unità d’ Italia: 1848-1859-1866-1870. Questi blocchi fungono a loro volta da sostegno alle quattro aquile in bronzo sostenenti gli stemmi sabaudi.
Sopra le due serie suddette di gradini si eleva il piedistallo sul cui attico stanno,in posizione seduta, quattro grandi statue in bronzo di figure allegoriche tra cui la Pace, la Libertà, l’Indipendenza e l’ Unità (molto dubbia la quarta figura allegorica). Le quattro statue trovano a loro volta appoggio fra i vani delle quattro colonne in stile dorico di granito rosso che sostengono, superiormente, una trabeazione completa con architrave, fregio, triglifi e cornice; sopra questa trabeazione è disteso il grande tappeto in bronzo sul quale si eleva la grande statua del Re.Vittorio Emanuele II è raffigurato in piedi e a testa scoperta: lo sguardo fiero, solenne, rivolto lontano con nella mano sinistra una spada in atto di vigorosa fermezza.
Primogenito di Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, e di Maria Teresa d’Asburgo-Toscana, Vittorio Emanuele II di Savoia nacque a Torino (precisamente a Palazzo Carignano) il 14 marzo 1820. Va curiosamente fatto presente che alcuni storici moderni hanno dato credito all’ipotesi, data la scarsa somiglianza con i genitori e in base ad altre vicende, che Vittorio Emanuele non fosse il vero figlio della coppia reale, bensì un bimbo d’origine popolana sostituito al vero primogenito di Carlo Alberto morto, ancora in fasce, in un incendio nella residenza del nonno a Firenze. La maggior parte degli storici invece esprime dubbi sull’autenticità della vicenda e la confina nell’ambito del pettegolezzo facendo perdere qualsiasi credibilità all’ipotesi dello scambio.
Ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e primo re d’Italia (dal 1861 al 1878), fu anche Principe di Piemonte, Duca di Savoia e Duca di Genova.Dopo la sconfitta di Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto, si iniziò a definire Vittorio Emanuele II il re galantuomo o re gentiluomo (appellativo con cui è ricordato ancora oggi), che animato da sentimenti patriottici e per la difesa delle libertà costituzionali si oppose fieramente alle richieste di abolire lo Statuto albertino. Nel corso del tempo, coadiuvato dal primo ministro Camillo Benso Conte di Cavour, portò a compimento il Risorgimento nazionale e il processo di unificazione italiana. Per questi avvenimenti viene indicato come “Il Padre della Patria”.
Vittorio Emanuele II morì improvvisamente, a causa di una polmonite, il 9 gennaio del 1878 all’età di cinquantasette anni. La sua morte suscitò il profondo cordoglio sia della borghesia colta e politicizzata (che aveva partecipato all’avventura risorgimentale), sia dell’esercito di cui il “Re Galantuomo” era stato il capo pragmatico e largamente amato. Con cinque guerre combattute, ventinove anni di regno e uno stato unificato alle spalle, Vittorio Emanuele II fu il simbolo aggregante del Risorgimento italiano, in un paese ancora troppo fragile per sopportare il vuoto istituzionale venutosi a creare con la sua scomparsa.
Il monumento in suo onore fu voluto direttamente da Umberto I che, per riparare alla mancata sepoltura della salma del padre nella basilica di Superga a favore del Pantheon di Roma, comunicò, in una lettera indirizzata alla cittadinanza, l’intenzione di affidare “alla religiosa devozione” dei torinesi “i segni del valore” che il Re aveva conquistato “combattendo per l’unità e l’indipendenza della patria”. Nella stessa lettera Umberto I espresse il desiderio di erigere un monumento che eternasse la memoria del Primo Re d’Italia stanziando, per tale iniziativa, la cospicua somma di un milione di lire.
Venne subito istituita una Commissione tecnica incaricata di promuovere varie iniziative tra cui stilare il Programma di Concorso per il Monumento al “primo re”; il 28 marzo del 1879 la Commissione tecnica, incaricata di esaminare i progetti presentati al concorso, decreta vincitore lo scultore Pietro Costa. Tale decisione suscitò tuttavia, numerose polemiche che si conclusero con una petizione sottoscritta da cinquantadue firme dei maggiori rappresentanti delle Accademie di Belle Arti d’Italia che appoggiarono completamente la scelta della Commissione.
Ma se in meno di diciotto mesi si chiuse l’itinerario che aveva portato alla scelta del progetto, la fase successiva, quella della costruzione, durò circa vent’anni tra disguidi, ripicche e liti che finirono in tribunale. Il 23 novembre del 1896, a quattordici anni di distanza dalla stipula del contratto, Costa scrisse al Sindaco di Torino per giustificarsi dall’accusa “d’essere pigro e negligente” oltreché fortemente in ritardo nella consegna del monumento;nonostante ciò l’artista venne condannato al risarcimento dei danni per inadempienza contrattuale.
Il 15 gennaio del 1898, finalmente la città di Torino entrò in possesso del monumento. Ultimato per le parti bronzee dall’ Officine Costruzione d’Artiglieria di Torino e dall’ ingegnere Prinetti, il monumento venne inaugurato il 9 settembre del 1899 alla presenza dei sovrani, delle autorità cittadine dei principali comuni italiani, nonché degli esponenti della politica nazionale, dell’esercito e dei veterani del 1848. Ci furono tre giorni di festeggiamenti durante i quali Torino ritornò ad essere patriottica e risorgimentale, quasi nostalgica di essere stata (un tempo) capitale d’Italia.
Per quanto riguarda il luogo di collocazione del monumento, va fatto presente che la scelta di posizionarlo nel centro del piazzale, sull’incontro del corso consacrato a Vittorio Emanuele II e corso Siccardi (oggi corso Galileo Ferraris), è stato frutto della Commissione per un ricordo storico nazionale al re “gentiluomo”. L’area circostante il monumento era, nella seconda metà dell’ottocento, una zona in espansione a tipologia residenziale, pronta a recepire gli spunti di una volontà politica che mirava ad attirare a sé il ceto dei notabili e la piccola borghesia emergente. L’operato della Commissione rientrava nell’ambito di quella politica nazionale di costruzione del mito di Vittorio Emanuele II che, facendo ricorso ad attività di propaganda e di educazione “per fare gli italiani” (come disse D’Azeglio), intervenne anche in opere di rimaneggiamento degli spazi urbani e cambiamenti della toponomastica.
Oggi, la statua del Re, sovrasta ancora i tetti delle case dei torinesi dominando con lo sguardo tutto l’arco alpino fino alla magnifica Superga.
(Foto: il Torinese)
Simona Pili stella
Viviamo tempi confusi, con disagi economici, guerre in atto, problemi per il futuro … ansie per il presente e un’inedita multiculturalità alle porte.
La sempre meno accettata immigrazione dalla sponda sud del mediterraneo (soprattutto perché mal gestita) è fonte di allarme sociale sempre più evidente (sembra accertato che la cosiddetta Brexit, proprio per questo movimento di popoli abbia avuto successo). L’Europa è quindi di fronte a cambiamenti estremi, mai visti prima …
.. oppure non è così vero?
Duemila anni fa il continente era un autentico colabrodo di genti che da dove ogni dove arrivavano, rimanevano o ripartivano. Gli individui senza nome (ai quali praticamente tutti noi apparteniamo), che dall’alba della storia calpestano il pianeta, sono innumerevoli.
Per inquadrare il tempo del reale, sarà quindi utile appoggiarci ad alcune figure già note secoli/millenni fa, dei quali un paio di nomi sono sulla punta delle dita di tutti.
I primi due – originari da luoghi lontani e storicamente ben individuati – potrebbero essere San Paolo di Tarso (oggi in Turchia) e San Pietro, originalmente pescatore giudeo, detto Simone.
Il primo, più che immigrato nella Roma dei Cesari, ci arrivò come prigioniero: un ebreo denunciato dai soliti ebrei di Palestina che non ammettevano alcuna novità nella loro esegesi religiosa.
Il secondo arrivò invece nell’Urbe quasi “di passaggio” e in tarda età, non per fame o sete ma più che tutto per diventare il primo Papa della storia. Come noto ai più, la città Eterna non si dimostrò molto socievole nei loro confronti. Dopo aver fatto la loro conoscenza, ancora meno socievolmente li giustiziò, pur se separatamente, nel 64 d.C.
Troppo tempo, decisamente troppo tempo è passato da allora e forse un altro continente può venirci in aiuto.
Passiamo perciò dall’Asia all’Africa, la nazione ora Algeria, ma al tempo chiamata Numidia.
Il teologo Agostino, meglio conosciuto come Sant’Agostino potrebbe essere il primo immigrato di rilievo nel nostro continente, quindi un protagonista da accogliere al centro di questa nostra riflessione. La sua figura rappresenta una delle più alte – se non la più nobile – della patristica occidentale (II/VIII secolo). La Patristica è la corrente di pensiero che ‘sistematizza’ le conoscenze dei primi studiosi (sia ad oriente che ad occidente), grazie a un’osmosi fra la tradizione ebraica, la filosofia greca e naturalmente l’ormai trionfante esperienza cristiana. In quei lontani secoli si forma perciò il corpus religioso, morale e anche legislativo, di cosa diventerà la prima Chiesa cattolica.
Agostino nasce a Tagaste nel 354 d.C. da una famiglia agiata, conduce una gioventù spensierata (se non scapestrata) fino attorno ai 30 anni.
Il ragazzo, nonostante le contraddizioni di anni passati nello studio come retore in una grande capitale come Cartagine – metropoli per molti versi ancora pagana, liberale e libertina – presto dimostra un’attitudine verso le filosofia e la riflessione religiosa, approfondite per una prepotente ricerca dell’Assoluto, pur se passando fasi di contraddittorie esperienze, come il periodo del Manicheismo, dottrina zoroastriana che identificava solamente due principi spirituali assoluti, il Bene e il Male (paritetici e in eterno contrasto fra loro). Anche oggi, dare del Manicheo a qualcuno significa evidenziarne la mancanza di mezze tinte nella vita, come vedere/comprendere solo il bianco e il nero della realtà.
Ma andiamo avanti…
Teologia a parte, il ragazzo di Agaste (ora Souk Ahras, 440 chilometri da Algeri) è accreditabile fra i primi africani arrivati nel nostro Paese dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Giunto a Roma con l’amatissima madre Monica (nata cristiana), conduce ulteriori studi che gli danno una certa visibilità culturale e religiosa.
Ancora avvolto dalla filosofia manichea, continua a frequentarla nella Città Eterna. Pur se brevemente apre e conduce una sua scuola di retorica, per poi arrivare a Milano come docente di Retorica presso le scuole Palatine, noto cenacolo e alta scuola per intellettuali.
Lì entra in contatto con il vescovo Ambrogio, ascolta i suoi sermoni, è affascinato dalle sue capacità dialettiche. Lentamente ma inesorabilmente l’alto prelato lo traghetta verso il cristianesimo e infine lo battezzerà nel 387.
Profondo studioso dei testi sacri e legato ad una fascinazione per il neo-platonismo la sua vita lombarda sarà illuminata da testi illuminati, profondi studi, conferenze, contatti con i Grandi dell’epoca (tra l’altro, il giovane africano è tormentato dal problema del male: se Dio esiste ed è onnipotente, perché non riesce ad annientarlo? Problema che ha sempre scollo i polsi ai più grandi pensatori ma che lui affronterà con tesi di altissimo acume che rimarranno imperituri nella storia della Chiesa e dello stesso Occidente).
Dopo alcuni anni in Lombardia, Agostino è rimandato in Numidia, lì nominato sacerdote, diventando poi Vescovo a Ippona
Il Nostro fu autore molto prolifico, notevole per la varietà dei soggetti, come scritti autobiografici, filosofici, apologetici, dogmatici, polemici, morali, esegetici, raccolte di lettere, sermoni e opere in poesia.
Per permetterci di valutare l’opera di ‘Agostino l’africano’ possiamo citare le sue Confessioni (Confessiones) e La città di Dio (De civitate Dei).
Le prime rappresentano in 13 libri la storia della sua maturazione religiosa. Il nocciolo nelle Confessioni è nel concetto che l’uomo, senza l’illuminazione di Dio, è incapace di orientarsi da solo. Grazie ad una dovuta obbedienza, questo riuscirà a trovare l’orientamento nella sua vita.
La città di Dio – in appena 22 libri (!!!) – è la difesa dalle accuse dei pagani verso un Cristianesimo, secondo loro unico responsabile per la caduta di Roma. Nel suo lavoro viene analizzata la storia dividendola in DUE CITTA’: la città terrena, guidata dall’amore per noi stessi e quella spirituale, guidata dall’amore per Dio.
Questa colossale opera, probabilmente distribuita nei monasteri di tutta Europa, non difende solo il Cristianesimo ma porge una dotta riflessione sulla storia, la natura umana e il destino dell’umanità.
Quindi … chi siamo noi e da dove veniamo?
Certamente siamo un coacervo di geni e cellule che si trasmettono di generazione in generazione. Questa cascata neuronale fa sì che ci si possa approssimativamente inquadrare come figli di una continente o di un altro, ma le culture si sottraggono a questa trappola biologica. Il libero pensiero spazia senza limiti, la lucida intelligenza è in grado di inquadrare problemi, risolverli, trovare altre vie.
Non stupiamoci perciò che una delle menti più limpide del cristianesimo medievale EUROPEO sia stato originario della terra dalla quale ora arrivano i ben noti barconi carichi di disgrazie, sofferenze e sogni.
Magari i genitori di un nuovo Einstein sono approdati in Europa solo pochi mesi fa….
Ferruccio Capra Quarelli
La necessità di impedire l’approccio di una forza nemica alla fortezza di fondovalle fu alla base della costruzione, su entrambi i versanti, di alcune opere di difesa staccate…
Leggi l’articolo su piemonteitalia.eu:
https://www.piemonteitalia.eu/it/cultura/fortificazioni/vinadio-batteria-neghino-1875
Sono 27 i concerti che animano dal 15 al 30 luglio, in occasione di Musica d’estate, il centro storico di Bardonecchia, la perla delle Alpi, piccola cittadina di montagna situata a 1300 metri di altitudine, nel cuore dell’alta Valle di Susa, comodamente raggiungibile in autostrada o in treno.
Organizzata dal lontano 1995 dalla Fondazione Accademia di Musica, considerata tra le più note strutture di alta formazione e di perfezionamento in tutta Italia, la rassegna è a ingresso gratuito e regala la rara opportunità di ascoltare concerti in altura, in un paesaggio unico e incontaminato dove anche la montagna offre il suo spettacolo migliore.
Due sono le sedi dei concerti .
Ogni pomeriggio dal 15 al 30 luglio, alle 17.45 dal lunedì al venerdì e alle 15.30 durante il weekend, nella chiesa di Maria Ausiliatrice è previsto un concerto. Ad esibirsi sono i giovani musicisti selezionati tra i quasi 150 allievi delle masterclass di perfezionamento tenute da docenti di fama internazionale, quali Roberto Plano, Enrico Pace, Benedetto Lupo, Pietro De Maria, Gabriele Carcano, Alberto Nosé, Claudio Voghera al pianoforte, Sonig Tachkerian, Ivan Rabaglia , Guido Rimonda, Piergiorgio Rosso al violino, Enrico Bronzi al violoncello, il Trio Debussy per musica da camera. Il programma viene comunicato in loco, di giorno in giorno, nelle bacheche comunali per le vie della città.
Durante la settimana alle ore 16 nel borgo vecchio di Bardonecchia, presso la chiesa di Sant’Ippolito, si alterneranno concerti solistici di pianoforte con Andrea Fucà il 21 luglio, Francesco Maria Pellecchia il 22 luglio, Ruben Xhaferi il 24 luglio, Gianluca Faragli il 28 luglio e Flavia Salemme il 29 luglio.
Appuntamenti con la musica da camera saranno mercoledì 23 luglio con protagonista il Duo Santarelli Mancini composto dalla violinista Gloria Santarelli e dal pianista David Mancini. Venerdì 25 luglio la violoncellista Victoria Saldarini sarà accompagnata dal pianista Alessandro Mosca.
L’ingresso è libero e non è necessaria la prenotazione. Per informazioni 3486994363. Si consiglia di arrivare un quarto d’ora prima.
Gli eventi possono essere seguiti sulle storie di Instagram @accademiadimusicadipinerolo o seguendo #bardonecchiamde.
Musica d’Estate è realizzata dalla Fondazione Accademia di Musica con il sostegno del Ministero della Cultura, Regione Piemonte, Comune di Bardonecchia, Fondazione CRT e con il patrocinio di Torino Città Metropolitana e la sponsorizzazione tecnica di Platino Pianoforti e Yamaha Musica Italia.
Mara Martellotta
Nella foto una precedente edizione
CASTELLI APERTI
DOMENICA 20 LUGLIO
visite e esperienze nel cuore della provincia di Torino
Per informazioni dettagliate e aggiornamenti su tutte le aperture:
www.castelliaperti.it
Il 20 luglio anche la provincia di Torino partecipa alla grande rete di “Castelli Aperti” con alcune delle sue più affascinanti dimore storiche, in un itinerario che va dalle colline di Caravino ai giardini fioriti di Pralormo, dai saloni ottocenteschi alle esperienze immersive tra arte e natura.
A Caravino sarà aperto il Castello e Parco di Masino, tra le residenze più amate del circuito FAI, con ingresso dalle 10.00 alle 18.00 (ultimo ingresso alle 17.00). Il biglietto è gratuito per gli iscritti FAI, 15€ per il pubblico intero e 8€ il ridotto.
Poco distante, a Piossasco, Casa Lajolo propone una formula di visita autonoma, arricchita da contenuti audio-video accessibili via QR code. La domenica è prevista anche l’apertura degli interni della villa. Orario di visita dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 14.30 alle 18.00 (8€ con audioguida). Un’occasione unica per scoprire una villa nobiliare tra giardini geometrici, orti fioriti e saloni storici.
A Pralormo sarà visitabile il Castello, residenza privata ancora abitata, che apre le sue sale e il parco dalle 10.00 alle 18.00 (biglietto intero 9€, ridotto 8€). Tra tappezzerie, arredi d’epoca e atmosfere letterarie, la visita è un viaggio nella vita quotidiana di una famiglia aristocratica del Piemonte.
Infine, nel cuore del Pinerolese, il Castello di Miradolo a San Secondo di Pinerolo sarà aperto dalle 10.00 alle 20.30 con prenotazione consigliata (tel. 0121/502761). L’ingresso intero è di 15€, con la possibilità di accedere sia al parco sia alle mostre temporanee curate dalla Fondazione Cosso, che trasforma il castello in un centro culturale dinamico e contemporaneo.
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Caravino – Castello e Parco di Masino: aperto con orario 10.00-18.00. Ingresso: (Castello e Parco) Intero 15€; Ridotto 8€; Iscritti Fai ingresso gratuito.
Piossasco – Casa Lajolo: dalle 10.00-13.00 e dalle 14.30-18.00. La visita si svolge in modo autonomo, con il supporto di contenuti audiovideo, scaricabili in loco sul proprio cellulare tramite Qrcode presente sui pannelli informativi. La domenica sono visitabili anche gli interni. Ingresso: Audioguida Intero 8€ .
Prenotazioni: https://castelliaperti.it/it/beni/ville/casa-piossasco.html
Pralormo – Castello di Pralormo: dalle 10.00 alle 18.00. Ingresso: Intero 9€; ridotto 8€
San Secondo di Pinerolo – castello di Miradolo: aperto dalle 10.00 alle 20.30. Prenotazione consigliata: Tel. 0121/502761 prenotazioni@fondazionecosso.it. Ingresso: Intero 15€.
Caravino – Castello e parco di Masino
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Ed eccoci nuovamente giunti al nostro consueto appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Cari amici lettori e lettrici, oggi andremo alla scoperta di uno dei monumenti presenti in una delle piazze più “frequentate” della città: sto parlando di Piazza Castello e del monumento ai Cavalieri d’Italia. (Essepiesse)
La statua è collocata in Piazza Castello sul lato destro di Palazzo Madama, rivolta verso via Lagrange. Il monumento rappresenta un soldato a cavallo su un piedistallo di granito,che poggia su un basamento a gradoni. Il cavaliere dall’aria vigile, scruta l’orizzonte volgendo lo sguardo alla sua destra mentre con il fucile in spalla, con una mano tiene le redini e con l’altra uno stendardo; la posa del destriero e del suo cavaliere è rilassata, lontana dalle immagini stereotipate di nobili cavalieri che caricano al galoppo. Di contorno al basamento vi sono una serie di alto rilievi con fregi militari.
Con il termine Cavalleria si è soliti indicare le unità militari montate a cavallo. Essa ebbe origini molto antiche, venne infatti da sempre impiegata per l’esplorazione dei territori, per azioni in battaglia dove venisse richiesta molta mobilità e velocità nell’attacco e fu anche strategicamente determinante in alcune battaglie. In seguito cominciò ad evidenziare i suoi limiti con il perfezionamento delle armi da fuoco e l’avvento dei treni e degli autoveicoli.
Riformata all’interno dell’Esercito Sardo sin dal 1850, la Cavalleria venne impiegata con l’esercito francese prima in Crimea ed in seguito contro gli Austriaci, ai confini della Lombardia all’inizio della II Guerra di Indipendenza. L’ Arma si conquistò così la fiducia e la stima degli alleati francesi. I Reggimenti combatterono, guadagnando numerose medaglie al Valor Militare, sia a Montebello che successivamente a Palestro e Borgo Vercelli; le battaglie più famose di questa guerra, quella di Solferino e di San Martino (alle porte del Veneto), si combattono con i francesi impegnati a Solferino e i sardo-piemontesi a S. Martino. Dopo il 1861, il Regio Esercito Sardo divenne Esercito Italiano e negli anni seguenti, tutto l’esercito venne riformato e uniformato. La Cavalleria, a partire dagli anni ’70, venne impiegata in Africa, dove furono formati Reggimenti di Cavalleria indigena, ed anche nella guerra italo-turca del 1911-1912.
In seguito il primo conflitto mondiale impose alla Cavalleria l’abbandono del cavallo in modo da adeguarsi alla guerra di posizione, in trincea, dove reticolati e mitragliatrici rendevano impossibile l’uso dell’animale. Verso la fine del conflitto però, la Cavalleria venne nuovamente rimessa in sella: nel 1917 fu impiegata a protezione delle forze che ripiegavano sul Piave, dopo la sconfitta di Caporetto. Verso la fine della Prima guerra mondiale, la II Brigata di Cavalleria coprì la ritirata della II e della III Armata, comandata dal generale Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, ed il 16 giugno 1918 fermò il nemico sul Piave. Questa data fu così importante per gli esiti del conflitto mondiale, che ancora oggi viene celebrata come festa della Cavalleria.
Per ricordare e onorare il valore dell’Arma, nel 1922 a Roma si istituì il Comitato generale per le onoranze ai Cavalieri d’Italia con l’intento di elevare un monumento equestre. Pochi giorni dopo il comitato, presieduto dal Re e dal senatore Filippo Colonna, propose alla Città di Torino di collocare l’opera in piazza Castello, dove era già ricordato il soldato dell’Esercito Sardo; questa proposta venne accolta con orgoglio ed onore dalla Giunta e dal Consiglio Comunale. La realizzazione del monumento venne affidata a Pietro Canonica che si offrì di lavorare gratuitamente, mentre il bronzo (materiale utilizzato per la costruzione dell’opera) fu offerto dal Ministero della Guerra.
Il monumento venne inaugurato, alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il 21 maggio del 1923, con una carosello storico, parate dei militari e delle associazioni. Nel 1937, per fare spazio all’opera dedicata ad Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, la statua venne spostata sul lato destro di Palazzo Madama, dove è situata ancora oggi. Nel 2008 il monumento ai Cavalieri d’Italia è stato restaurato ed il lavoro di pulitura del bronzo ha riportato finalmente alla luce l’originaria colorazione tendente al verde, una patina data come finitura dallo stesso scultore Canonica.
Simona Pili Stella
Domina il paese di Magliano Alfieri, già Magliano d’Alba, il Castello Alfieri di Sostegno che, edificato tra il 1649 e il 1680, presenta un interessante facciata barocca e due torri celle cilindriche sul lato che guarda verso la valle…
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