La commedia di Pirandello, al Carignano sino a domenica 3 aprile
Gabriele Lavia continua a percorrere le strade che lo portano a esplorare sempre più la drammaturgia pirandelliana, in ultimo “I giganti” e “L’uomo dal fiore in bocca”, oggi “Il berretto a sonagli”, testo che lo scrittore siciliano scrisse per la grande vena comica di Angelo Musco nel 1916, con il titolo “A birritta cu’ i ciancianeddi” per trasportarlo nuovamente due anni in lingua (Eduardo ne consegnerà nel ’36 una versione napoletana) – sino a domenica 3 aprile al Carignano per la stagione dello Stabile torinese.

Con Lavia siamo abituati ad uno scavo profondo all’interno dei testi (tanto per cominciare, s’accoglie di buon grado quella contaminazione che ha deciso tra le due versioni, perché più si avvertano le differenze tra le classi sociali, o le eleganze o le affettazioni), si raffina con uno sguardo in più, ti avvolge sin dall’inizio della serata con quei manichini (o “pupi”) che scorgi entrando in sala, ai lati del palcoscenico, estremamente realistici, che diverranno una quindicina a sipario aperto, la gente del piccolo paese, curiosa, soffocante, pronta a giudicare, che vive di pregiudizi, vestita nelle vesti di primo Novecento, eleganti e no, tra cui si consumerà la tragedia di quell’uomo ridicolo che è Ciampa, lo scrivano del cavalier Fiorica, un uomo da poco, ma anche noi spettatori che assistiamo alla sua parabola.

In un ambiente altrettanto soffocante, costruito di mobili e piante e divani e poltrone sghembi, che esprimono un stato polveroso di precaria decadenza, ecco il calvario di Beatrice, la moglie del cavaliere, i suoi dubbi per una relazione tra il consorte e la giovane moglie dello scrivano, lemacchinazioni perché – come nel “Così è (se vi pare)” di quegli stessi anni – la verità venga alla luce. Ma perché rompere quelle regole che da sempre regolano la vita della città e la sua gente, perché nascondersi alle domande di Ciampa che le chiede di parlar chiaro, da galantuomo dando libero sfogo alla corda seria, perché non riuscire a vedere quelle conseguenze che porteranno al finale? Perché arrivare ad un arresto, ad uno scandalo? Si è scoperchiato il vaso, la gente mormora e parla a voce viva, le prove di quell’adulterio da grottesca ma dolorosa commedia non hanno valore, non esistono, bisognerà rimettere a tacere quel borbottìo che ha preso a invadere le strade del paese. È necessario riattivare la corda civile, sovrana al nostro vivere con gli altri, certe cose si possono anche fare, ma non se ne può dire. Più “raisonneur” di un Laudisi o dei tanti altri che occupano i dialoghi delle opere dell’autore, Ciampa, pronto a evadere dalla sua “stanza della tortura”, acchiappa al volo le parole degli stessi congiunti della signora, improvvise, pronunciate inavvertitamente, come un soffio, ma bandolo di ogni intricata matassa. Beatrice si proclamerà pazza, la pazzia di un momento ma irreparabile (quella pazzia che, verissima, toccava in quegli stessi anni Pirandello, costretto a far rinchiudere in un istituto la moglie Antonietta Portulano colpita da una follia fatta di gelosia e di terrore per un dissesto economico), basterà gridare in faccia a tutti la verità, nessuno la crederà e tutti la prenderanno per pazza, con grande tranquillità. La rottura della corda pazza. Pochi mesi di manicomio (che brutta parola, diciamo con il sorriso in faccia casa di salute!) e il gioco di sempre sarà ristabilito. Ancora una volta verità e finzione, realtà e camuffamenti, il gioco delle maschere da indossare, di volta in volta, secondo come gli altri ci vedono, come vorrebbero che fossimo.
C’è farsa e c’è tragicità in una delle più belle commedie di Pirandello e Lavia orchestra ogni cosa con grande, personalissima padronanza. Affida ai personaggi minori la risata e il divertimento – sempre con una piega brusca alla bocca, un pensiero fatto di tristezza, un capovolgersi della situazione in smarrimento, ma sempre divertimento – mentre, in un andare e venire di ombre scolpite sulla tela, a tratti incessante e incombente, da una tela a lato dalla quale Beatrice e Ciampa soli entrano ed escono, raccoglie in sé lo scorno, la disperazione, i ragionamenti, il “selvaggio piacere” che progrediscono man mano nel personaggio. Costruisce un personaggio perfetto, nella sospensione delle parole, nel modulare i toni della voce, nel muoversi attraverso il palcoscenico con gesti minimi, studiatissimi, decisi o impacciati, perfetto nel darsi in pasto agli altri. Gli è accanto Federica Di Martino, ossessionata e decisa, eccellente in quel disegno che architetta, nella rabbia e nel desiderio di rivincita che ritrova in se stessa, nel disorientamento che l’assale, nella sconfitta ultima. Non ultime le prove di Mario Pietramala (il delegato Spanò) e di Francesco Bonomo (don Fifì), che vive la propria vita tra le canzoni d’epoca buttate nell’aria da un grammofono e si muove e danza allegramente come un assiduo frequentatore di café chantant, ben assente dalla tragedia che s’è abbattuta sulla casa della sorella.
Elio Rabbione
Le foto dello spettacolo sono di Tommaso Le Pera
“Noblesse oblige”. Il celebre motto partorito dalla fervida mente dello scrittore e politico francese Pierre-Marc-Gaston Duca di Lévis (1764 – 1830) – tratto dalle sue “Maximes et essais sur différents sujets de morale et de poltique – doveva essere “oro colato”, da mattina a sera e in ogni luogo e in ogni stagione, per tutti i membri della corte sabauda. Qualunque fosse il loro ruolo. Qualunque fosse il loro più o meno stretto vincolo di parentela con i Reali. Vita dorata, per i più. Ma – presumiamo– anche un tantino faticosa, per altri, anzichenò! Allora, come oggi, per le moderne monarchie. A tracciarne bene onori e oneri, lievità e obblighi da portarsi addosso come macigni è il nuovo libro di Andrea Merlotti “Vita quotidiana alla corte dei Savoia (1663 – 1831”, Edizioni del Capricorno, Torino, 2021), presentato in “Palazzo Madama-Museo Civico d’Arte Antica” a Torino. Blasonato storico, Andrea Merlotti, dal 2007 dirige il “Centro studi del Consorzio delle residenze reali sabaude” (Reggia di Venaria) ed é autore e curatore di numerosi lavori sull’Italia e gli Stati sabaudi fra Sei e Ottocento. Oltreché “Socio corrispondente” della “Deputazione Subalpina di Storia Patria” e membro del comitato scientifico del “Centre de Recherche du Château de Versailles (CRCV)” e del “Centro Studi Piemontesi”. Scrive anche su “Il Sole – 24Ore” e su “Il Giornale dell’Arte” e ha collaborato a diversi programmi di Rai 3, Rai5, RaiStoria, France2 e France3. In questo suo ultimo libro, presentato a “Palazzo Madama”, Merlotti si prefigge di ricostruire con rigore e assoluta verità storica la vita quotidiana di “quella grande macchina” rappresentativa del potere che fu la corte sabauda. Macchina mossa da un ingegnoso e raffinato meccanismo, al cui funzionamento (volenti o nolenti) hanno partecipato per secoli migliaia di persone, ognuna interpretando ruoli imposti e ben definiti, con impeccabile precisione, dalle regole di palazzo e dagli innumerevoli cerimoniali. “Il volume restituisce alla corte dei Savoia – si è ricordato in presentazione – il suo ruolo politico, per lungo tempo dimenticato o incompreso. Cerimonie e riti curiali sono ricostruiti in modo da comprendere il loro ruolo nella gestione e nella rappresentazione del potere da parte della dinastia, esemplare in tale senso il caso dei baciamani di Capodanno”. Una parte importante del volume è dedicata alla “sfera religiosa”, cui era attribuito un ruolo centrale nella vita di corte, e ai suoi spazi, fra i quali spiccano la “Cappella della Sindone” e la “Basilica di Superga”. Protagoniste del volume sono anche, ovviamente, le residenze sabaude, che furono il teatro, il grande palcoscenico della vita di corte e che, nel loro concepimento strutturale e architettonico, furono spesso definite proprio dalle cerimonie e dai riti che in essi solitamente si svolgevano. Sotto il segno di una grandeur – vera o talvolta presunta – che accompagnò per secoli la dinastia sabauda. “I grandi Stati – scriveva ancora nelle sue ‘Massime’ il Duca di Lévis – possono sopportare anche grandi abusi, sono i grandi errori che li fanno perire”. Parole sagge. Valide per ogni tempo e luogo. Oggi più che mai, stando purtroppo a quanto capita nel mondo.
Anche il Piemonte è presente a Modenantiquaria con la partecipazione, ormai consueta, di MATTARTE, realtà del territorio specializzata nella compravendita di arte e antiquariato, nata nel lontano 1896 come bottega d’arte. L’antiquariato ha, da sempre, rappresentato una passione di famiglia, anche negli anni Cinquanta, in cui era attivo Giovanni Matta, sensibile ai cambiamenti del mercato e capace di sviluppare ulteriormente l’azienda, introducendo anche il ruolo di casa d’aste. Oggi l’attività è arrivata alla quarta generazione con Pinuccia Matta e il marito Raffaello Lucchese, perito e esperto d’Arte del Tribunale di Torino.





Rubrica settimanale a cura di Laura Goria
E’ Paul Raison, uomo di mezza età, consigliere di Bruno Juge che è il ministro dell’Economia, delle Finanze e del Bilancio, possibile candidato alle future elezioni presidenziali.
Jokha Alharthi, nata nel 1978, vanta un curriculum di tutto rispetto. Ha studiato nel suo paese e poi a Edimburgo dove ha conseguito un dottorato di ricerca in letteratura araba. E’ autrice di saggi, libri per ragazzi, di questo romanzo e di altri due ancora inediti in Occidente. Oggi è tornata nel suo paese dove insegna alla Sultan Qaboos University, vicina alla capitale Mascate. Ma è nella scrittura che c’è la sua anima più profonda.
Dalla sua approfondita analisi emergono tantissimi dati. Tanto per cominciare: gli scrittori, pur parlando spesso di donne, le hanno evocate, inventate, descritte, sguinzagliate nelle loro pagine, ma senza conoscerle davvero, poichè raramente era possibile leggere libri scritti dal gentil sesso. Risultato romanzi bellissimi ma magari incompleti.
Una giovane donna viene trovata morta in una “sword box”, quelle usate per i numeri di magia in cui l’illusionista finge di trafiggerla ripetutamente. Solo che questa volta dentro c’è una vittima letteralmente squarciata da ripetuti colpi di spada.