CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 43

Un Califfo nel Piemonte Saraceno

Dallo splendido Alcazàr eretto sulla collina di Saliceto, circondato da torri, giardini esotici e fontane moresche, il califfo dominava il territorio circostante e lì visse a lungo insieme alle sue quaranta mogli. Siamo nell’Alta Langa, lungo il Bormida, vicino alla Liguria. Il grande sogno di Abdul Alì era quello di fondare un regno arabo proprio in quella zona, che si estendesse dal Monviso alle coste della Provenza da dove il Saraceno era arrivato con i suoi predoni per saccheggiare il Piemonte poco più di mille anni fa.
Non ci riuscì e quando il califfo morì il suo corpo fu chiuso in un enorme sarcofago d’oro e seppellito nella terra, poi i saraceni ricoprirono il terreno con un bosco di querce per far sparire ogni traccia. Si favoleggia sulla bella vita del califfo nelle Langhe ma non è solo leggenda poiché il nostro personaggio viene citato anche nelle antiche cronache provenzali. È però inutile andare a caccia dei resti dell’Alcazàr a Saliceto perché fu distrutto dai marchesi del Monferrato che espulsero i Mori dal Piemonte e oggi, di quella dimora, non resta proprio nulla. Tra il IX e il X secolo il Piemonte fu invaso dai saraceni che dal mare risalirono le nostre montagne e le nostre valli distruggendo e uccidendo. Di questi mujaheddin di mille anni fa non si sa molto ma le tracce del loro percorso non sono completamente scomparse. Il libro “Saraceni in Piemonte, mito, realtà e tradizione” di Gianbattista Aimino e Gian Vittorio Avondo, Priuli&Verlucca, ricostruisce storicamente il passaggio dei saraceni nelle valli piemontesi “che hanno lasciato segni di cui si trova ancora memoria nella lingua occitana, nei costumi, nell’architettura e nella cultura”. E che dire della Valle di Susa, una delle valli più colpite dalla violenza saracena. A Novalesa, il paese dell’antica abbazia benedettina fondata nel 726, il passaggio devastante dei guerrieri dell’islam arrivati dalla Provenza nel 906 viene revocato ogni anno con la danza delle spade.
I monaci abbandonarono in tempo il monastero portando con sé gli oggetti più preziosi tra cui 6000 libri. Si rifugiarono a Torino presso la chiesa di Sant’Andrea (oggi la Consolata) per tornare a Novalesa alla fine del secolo. Per sfuggire alla violenza e ai saccheggi dei Mori, narrano le leggende locali, alcuni paesani salirono sulla montagna e si infilarono in una galleria che conduceva nella valle francese di Bessans. I saraceni li inseguirono nella galleria ma i novalicensi, all’uscita del tunnel, procurarono una frana che lo chiuse mentre quelli rimasti in paese bloccarono l’ingresso con altri massi. Così i saraceni vi rimasero intrappolati per sempre. Nessuno sa dove si trovi il tunnel e sempre secondo la leggenda i resti dei saraceni con tutti i tesori rubati sono intrappolati dentro la montagna. Garessio e Ormea furono tra i primi paesi piemontesi a subire i saccheggi dei Mori. Tra le due località sulla cima di un’altura si trova una torre di avvistamento detta “Torre saracena” eretta dagli abitanti del luogo quando i Mori giunsero dal Frassineto (Fraxinetum) l’attuale Saint-Tropez, in Costa Azzurra, per devastare la Val Tanaro. Per alcuni storici il torrione risalirebbe al periodo bizantino ma per altri studiosi sarebbe stato innalzato proprio dai garessini per controllare dall’alto i movimenti dei saraceni che poi, dopo la conquista, la utilizzarono come base per loro incursioni.
Oggi i Saraceni non ci terrorizzano più ma nei racconti di valligiani e contadini di Langhe. Monferrato ed Acquese la figura del saraceno è rimasta stampata in modo incancellabile per merito di vicende e leggende che si sono tramandate nei secoli e sono giunte ai giorni nostri. “A l’é un sarasin”, quello è un saraceno, dicevano una volta i montanari per indicare furfanti e delinquenti comuni. I Mori erano molto temuti mille anni fa dalle popolazioni locali e la mamme per spaventare i figli troppo ribelli li ammonivano dicendo loro “guarda che ti porto dal Sarassin!”.Al tempo dei saraceni, all’inizio del IX secolo, il Piemonte faceva parte dell’impero carolingio che si allungava sui territori di Francia, Germania e sull’Italia del nord. La presenza saracena viene rievocata in alcune manifestazioni folkloristiche nell’arco alpino occidentale e molte feste prendono spunto dal passaggio di queste genti provenienti dal Medio Oriente, dal nord Africa o dai Balcani. Ancora oggi alcune valli, come nel cuneese e in Val Susa, ne conservano la memoria. Basta pensare alle danze degli Spadonari che si svolgono tra gennaio e febbraio a Giaglione, Venaus e a Bagnasco in Val Tanaro e alla Baìo che ogni cinque anni si svolge in alcuni paesi della Val Varaita. La presenza saracena si avverte ancora oggi nei modi di dire, nei cibi e nei prodotti della terra. A ricordo dei saraceni restano tanti vocaboli nella nostra lingua, come il grano saraceno, la saracinesca, la persiana, cognomi come il Moro, Negro. Saraceno e Taricco, dal generale musulmano Tarik che conquistò la Spagna. Le stesse Crociate portarono nelle terre del Vicino Oriente migliaia di europei ed è probabile che lo stesso mais o granoturco sia giunto dal Medio Oriente e non dalle Americhe come si ritiene, nei dintorni di Vinchio, nell’astigiano, viene coltivato un particolare tipo di “asparago saraceno” e in Val Tanaro la polenta saracena…insomma questa preziosa semente è tra i tanti regali che le invasioni moresche ci hanno lasciato oltre alle tradizioni popolari, alle parole e alle leggende che arricchiscono il patrimonio storico e culturale del Piemonte come ben raccontano nel loro libro Avondo e Aimino.
 Filippo Re

Monte Verità, culla dell’utopia

Ascona è un comune svizzero del Canton ticino, sul lago Maggiore. E’ lì che s’incontra “il luogo che non c’è”, la culla dell’utopia: il monte Verità. A partire dall’inizio del ventesimo secolo , su questa  collina appena sopra la perla dell’alto Verbano, tra Brissago e Locarno, si riunirono intellettuali e artisti alla ricerca di valori e modi di vita alternativi. Un’umanità varia composta da vegetariani, predicatori del ritorno alla vita rurale, sostenitori dell’utilità delle pratiche igeniste all’aria aperta (ginnastica, sole e bagni freddi) e anche da chi propagandava l’anarchia e il libero amore.

I fondatori del movimento Henry Hoendekoven, figlio di un industriale belga, e Ida Hoffmann, femminista e insegnante di pianoforte, arrivarono sulle rive del lago Maggiore dalla Germania. Vi giunsero a piedi, rifiutando le abitudini di una società sempre più materialistica, alla ricerca di uno stile di vita a contatto con la terra, la natura, la semplicità. A quel tempo il monte Verità si chiamava Monescia e i naturisti comprarono terreni e costruirono case seguendo stili precisi. All’epoca sul colle non c’era neppure l’acqua ma non per  questo si persero d’animo e per tutto il primo ventennio del ’900 il Monte Verità  diventò la “piccola patria” di pensatori, scrittori, artisti, anarchici e di chiunque fosse interessato a sperimentare in completa libertà le proposte rivoluzionarie del gruppo. Vi soggiornarono le menti più vivaci dell’epoca: Carl Gustav Jung, Erich Maria Remarque, Thomas Mann ,André Gide, Herman Hesse ( che viveva a Montagnola, nel ticinese distretto di Lugano ). E non mancarono gli anarchici e rivoluzionari come Bakunin e Lenin. I valori condivisi erano l’emancipazione femminile, il vegetarianismo, la danza di gruppo (o euritmia, spesso fatta alla luce della luna), l’abolizione del denaro con la sostitutiva pratica del baratto, l’originalissima abolizione delle maiuscole nei testi. La comunità sosteneva che la coltivazione della terra in costumi adamitici portava benefici al raccolto. Nel giro di pochi anni gli abitanti di Ascona iniziarono a guardare con sospetto a cosa stava accadendo sulla loro collina. Ma non protestarono, si limitarono a chiamare quei nudisti ballerini, agricoltori, musicisti e messaggeri dell’amore libero, con un innocuo nomignolo: i “balabiòtt”. Sarà pur bizzarra la storia del Monte Verità e dei suoi “danzatori nudi” ma, come mi disse un vecchio intellettuale ticinese e storico del lago Maggiore, “è la bellezza di questa landa libertaria dove le idee si rispettano anche quando non si condividono”.

Marco Travaglini

Anselm, Cinema nel Parco del Castello di Miradolo (TO)

Giovedì 1 agosto, ore 21.30. Appuntamento con il cinema nel parco storico, 7 maxi schermi, cuffie silent system, plaid e tutto intorno il suono della natura

 

 

“Cinema nel Parco” è un’immersione totale nella natura, al centro di un’arena di oltre 2.000 metri quadrati disegnata da sette maxi schermi, nel prato centrale del Castello di Miradolo (TO). Per non disturbare l’equilibrio del parco, l’audio è udibile solo attraverso cuffie silent system luminose. I film si possono ascoltare anche in lingua originale, multilingua e/o sottotitolati in italiano per ampliare le possibilità di fruizione. Non ci sono sedie, né posti assegnati: ogni spettatore dovrà portare da casa un plaid per sedersi sul prato e assistere alla proiezione dal proprio angolo preferito.

“Cinema nel Parco” sono 7 appuntamenti, dal 27 giugno all’8 agosto, tutti i giovedì alle ore 21.30. Giovedì 1 agosto è in programma Anselm (2023).

Dopo il grande successo di Perfect Days, Wim Wenders torna al cinema con l’omaggio ad Anselm Kiefer, uno dei più innovativi e importanti artisti del nostro tempo. Girato in 3D e risoluzione 6K, il film racconta il percorso di vita del pittore e scultore tedesco, la sua visione, il suo stile rivoluzionario e il suo immenso lavoro di esplorazione dell’esistenza umana e della natura ciclica della storia. Wenders realizza un’esperienza cinematografica unica, che mette in luce il linguaggio di Kiefer, fortemente influenzato dalla poesia, la letteratura, la filosofia, la scienza, la mitologia e la religione. Per oltre due anni, il regista è tornato sulle tracce di Kiefer partendo dalla nativa Germania fino alla sua attuale casa in Francia, ripercorrendo le tappe di un viaggio dietro le quinte della sua arte.

INFO

Castello di Miradolo, via Cardonata 2, San Secondo di Pinerolo (TO)

Biglietti:

8,50 euro a persona; ridotto 0-5 anni 3 euro; gratuito per i bambini che non vogliono la cuffia

Prenotazione obbligatoria al n. 0121 502761 e-mail prenotazioni@fondazionecosso.it

I biglietti si possono acquistare sul sito www.fondazionecosso.it oppure alla biglietteria del Castello di Miradolo (sabato e domenica, ore 10-18.30)

Dalle 19.30 è possibile fare un pic-nic nel Parco con i cesti di Antica Pasticceria Castino. È possibile ritirare i cesti direttamente nella Caffetteria del Castello, previa prenotazione. Menù differenziato per adulti e per bambini. Disponibile proposta vegetariana. Costo: 10 euro cesto bimbi, 14 euro cesto adulti. Non è consentito il pic-nic libero. La prenotazione è obbligatoria: 0121 502761 prenotazioni@fondazionecosso.it

www.fondazionecosso.com

 

A Settimo Vittone tra la pieve, il battistero e il castello

É un piccolo paese di appena 1500 abitanti ma nei weekend e nella bella stagione si trasforma.

I visitatori diventano parecchie migliaia tra studiosi, appassionati d’arte e turisti in cerca di tesori culturali da scoprire e ammirare. A Settimo Vittone, a una decina di chilometri da Ivrea, lungo la strada che conduce alla Valle d’Aosta, si trova un luogo ancora poco conosciuto ma di grande importanza storica e architettonica. È il complesso formato dalla Pieve di San Lorenzo e dal battistero di San Giovanni Battista, una delle vestigia più antiche del canavese e del Piemonte, risalente al IX secolo o forse anche prima. È diventato un pezzo unico perché in origine il battistero era separato dalla chiesa e più tardi fu inserita una galleria di collegamento per unirli. Sorge sulla rocca dell’antico castello, circondato da ulivi secolari e dalla vigne che producono il rosso Carema, e da lassù domina il paese e il corso della Dora Baltea. Qui nel Medioevo passavano e sostavano i pellegrini e i viandanti provenienti dal nord Europa e diretti a Roma lungo la via Francigena. Oggi è un monumento nazionale che il Fai (Fondo Ambiente Italiano) gestisce e apre al pubblico nelle tradizionali Giornate Fai mentre una locale associazione culturale lo tiene aperto tutte le domeniche tra marzo e ottobre.
All’interno della chiesetta un ciclo di affreschi dei secoli XIII e XV abbellisce l’edificio religioso. Nel battistero ottagonale di San Giovanni si trova invece un antico fonte battesimale ad immersione (IX secolo). Costruiti in epoca carolingia pieve e battistero sono uno dei principali esempi di architettura preromanica in Piemonte. Secondo la tradizione il complesso è sorto nel IX secolo e una leggenda vuole che vi sia sepolta la regina dei Franchi Ansgarda che si ritirò qui a meditare e dove fu tumulata nell’anno 880. Più volte oggetto di restauri, la struttura subì un radicale rinnovamento a fine ‘800 con l’architetto portoghese Alfredo D’Andrade che intervenne in tempo su un monumento ridotto in pessime condizioni e in stato di abbandono. A fine Novecento furono poi recuperati gli affreschi visibili all’interno. Poco prima di arrivare di fronte al complesso si possono vedere alcuni ruderi del castello medioevale fondato nel IX secolo dal marchese di Ivrea e signore di Settimo Attone Anscario. Per motivi strategici il maniero fu fatto demolire dal Duca Carlo II di Savoia, padre di Emanuele Filiberto, nella prima metà del Cinquecento durante la guerra tra spagnoli e francesi in Piemonte. Restano i ruderi della torre e, a strapiombo sulle case del paese, si vede il cosiddetto Castello Nuovo, un palazzo del Seicento in fase di totale ristrutturazione. Arrivando da Ivrea, alle porte di Settimo Vittone, si scorge in bella mostra sulla sommità della collina, all’imbocco della Valle d’Aosta, l’elegante e romantico castello di Montestrutto, nella frazione omonima, con annessa la chiesetta romanica di San Giacomo. Edificato in pietra di fiume sulle rovine di una fortificazione medioevale appartenuta ai Savoia è stato abitato da varie famiglie nobili del territorio e all’inizio del Novecento fu ricostruito in stile neogotico, come lo vediamo oggi. Nel 1929 il maniero fu acquistato da un musicista piemontese, Rosario Scalero, violinista e compositore nato a Moncalieri nel 1870, che venne a viverci. L’attuale proprietario del castello di Montestrutto è un professore americano di storia medievale che ha continuato i lavori di restauro.
Filippo Re

Come quando si faceva musica nelle aie e nei cortili

 

A Niella Tanaro, prende il via la rassegna “Musica sull’Aia” organizzata da “Maestro Società Cooperativa”

Giovedì 1° agosto

Niella Tanaro (Cuneo)

Alla sua 30^ edizione, “Musica sull’Aia”prende il via a Niella Tanaro ( in piemontese “La Niela Tane”, sulle dolci colline delle Langhe monregalesi) nella serata di giovedì 1° agosto, per poi proseguire con altri quattro appuntamenti domenica 4, giovedì 8, domenica 18 e mercoledì 21 agosto. A ingresso libero, sempre alle 21. L’organizzazione è, come di consueto, di “Maestro Società Cooperativa” e di “Pro Niella Tanaro”. Di cascina in cascina, nel cosiddetto “Paese del pane”. Dove l’“arte bianca” è diventata nobile caratteristica dei luoghi, da quando, fra le due guerre mondiali, molti “Niellesi” si stabilirono nella vicina Costa Azzurra, trovando lavoro come panificatori. E panificatori talmente bravi da entrare, nel 1980, nel “Guinness dei Primati” per il “panino imbottito” più lungo al mondo: oltre 304 metri! Bravi e saggi. Tanto d’aver ben pensato con la rassegna ormai celebre di “Musica sull’Aia – Inter segetes nigella,inter areas musica” (“Tra le colture della Nigella, tra le zone della musica”, ndr) di “promuovere e diffondere la musica dotta e popolare, portandola direttamente nelle caratteristiche aie e nei cortili del paese”. Come si faceva, anche se più alla buona, un tempo! Bei tempi!


Nel corso della serata inaugurale, giovedì 1° agosto, alle 21, si terrà presso “aia Benedicti”(località Codovilla), il concerto Contre le temps” dell’“Ensemble 400”: protagonisti i musicisti Marcello Serafini, Giuliano Lucini, Maria Notariannicon la voce di Vera Marenco. Il programma (dedicato a “rare perle” del repertorio italiano e francese fra XIII e XV secolo, con “chansons” e “rondeau” di Adam de la Halle, il capolavoro di Dufay “Vergenebella” e alcuni “estrar” dal “Ms Escorial”, suonati con copie di strumenti d’epoca) riprende il primo lavoro discografico di “Ensemble 400”, disponibile sulle principali piattaforme “on line” da gennaio 2024: registrazioni che risalgono agli anni 2009 – 2010 realizzate secondo il principio della “presa diretta” (senza tagli né montaggio) grazie alla preziosa collaborazione di Giulio Marcocchi. Con questo programma, il Gruppo si è aggiudicato il “Bando Imaie 2023” per le nuove pubblicazioni discografiche.

Con il secondo appuntamento, in programma domenica 4 agosto (alle 21), sarà l’“aia” della “Cascina Berzide”, in località Berzide, ad animarsi con “Point of Convergency”, album di debutto del “Nugara Trio”. Francesco Negri(pianoforte), Viden Spassov (double bass) e Francesco V. Parsi (drums) sono tre giovani musicisti provenienti rispettivamente da Genova, Torino e Firenze. I tre si conoscono ai Seminari di “Nuoro Jazz 2021” dove, grazie ad un fortunato colpo del destino, si ritroveranno insieme in quanto vincitori delle annuali borse come migliori studenti. Di lì nasce il “Nugara Trio”, omaggio, nella scelta del nome, al luogo della loro nascita ( “Nùgoro”, nome antico di Nuoro) e alla magica terra sarda. La loro musica “è frutto di un processo di creazione mai banale e a volte contradditorio, ma sempre in grado di raggiungere quel grado di equilibrio e di armonia che rende ‘Point of Convrgency’ un disco che vive di vita propria e che si rinnova in ognuna delle sue 8 tracce”.

Per ulteriori info e per il programma completo della rassegna: tel. 347/3810902 (Emanuele Rovella) o www.musicasullaia.it

g.m.

Nelle foto:

–       “Ensemble 400”

–       “Nugara Trio”

 

Il valore etico della narrativa di Rigoni Stern

In questa fase critica del nostro tempo che, tra conflitti e preoccupazioni per il futuro, segna il punto di alto della crisi per la storia recente dell’umanità si è portati a riflettere sulle parole di uno dei più grandi narratori contemporanei italiani, Mario Rigoni Stern (1921-2008). Nel 2002, in un’intervista concessa a Giulio Milani, si ritrovò a considerare gli effetti benefici di una crisi economica “che prende sempre di mezzo la povera gente”, non nascondendosi come “piuttosto che una guerra, è meglio una grande crisi per stravolgere un poco questo mondo, per metterlo sulla strada giusta, per far capire che non è più la borsa che deve governare”. Non si può fare a meno di ripensare a questa frase oggi dove occorrerebbe ristabilire un patto d’azione tra le istituzioni – dal governo in giù – con i sindacati, i corpi intermedi della società, i ceti produttivi per rimettere la locomotiva italiana su quei binari che hanno, pur tra luci ed ombre, assicurato al Paese uno sviluppo, cercando di recuperare i ritardi atavici che pesano come una palla al piede. Quasi il ritorno, dunque, a stagioni dimenticate. E qui, il discorso vira decisamente su Mario Rigoni Stern. Un ritorno che è anche un azzardo, perché parte proprio da “Stagioni”, l’ultimo libro pubblicato in vita, in cui lo scrittore di Asiago raccontava che cosa significasse per lui lo scorrere del tempo scandito dai ritmi stagionali. Dell’inverno ricordava la legna secca che brucia nelle cucine, il freddo e la neve; dell’estate rammentava i salti sui mucchi di fieno e i nidi di calabroni mentre l’autunno era stagione di rientro delle greggi, di caccia ed escursioni tra i boschi.

In primavera partivano gli emigranti stagionali per la Prussia o la Boemia, ma era anche il momento del risveglio della natura e del ritorno dei rondoni, oltre che il periodo migliore per morire, come accadde al nonno di Mario, a sua madre e a lui stesso. Morire mentre rinasce la vita. Lo scrittore morì ottantaseienne il 16 giugno del 2008, dopo alcuni mesi di malattia, nel letto della sua casa di Asiago. Era un lunedì sera e per sua precisa disposizione la notizia della morte venne diffusa solo a funerali avvenuti, il giorno dopo, nella piccola chiesa del centro dell’altopiano dei Sette Comuni. C’erano la moglie Anna, i tre figli con i due nipoti e il fratello Aldo a salutarne il feretro. Poche persone, raccolte nella cappella come voleva il Sergente nella neve. Al mesto rintocco del Matìo, il campanone di Asiago, toccò l’ultimo saluto. Ora è sepolto nel cimitero a sud del paese, sotto una grande croce di marmo chiaro che lui stesso aveva voluto recuperare dalla tomba del nonno paterno Giovanni Antonio. Sulla tomba una piccola aiuola coltivata a fiori come piaceva a lui, per certi versi simile a quella della teologa e scrittrice Adriana Zarri a Crotte di Strambino, nella campagna canavesana. Ho un personale ricordo di una serata in cui parlammo di lui a Falmenta, in valle Cannobina, dialogando con uno dei suoi più grandi amici, il compositore e maestro Bepi De Marzi: quest’ultimo avanzò l’ipotesi che l’ultima dimora ad Asiago fosse un cenotafio, una tomba vuota, immaginando che le ceneri dello scrittore fossero state disperse nella steppa russa dove riposavano i suoi commilitoni dei reparti alpini che persero la vita nella tragica ritirata di Russia. Ovviamente si trattava solo un’ipotesi, per quanto suggestiva. Mario Rigoni Stern nel 1973 pubblicò una raccolta di racconti intitolata “Ritorno sul Don”. Scrisse, nell’occasione: “Ecco, sono ritornato a casa ancora una volta; ma ora so che laggiù, quello tra il Donetz e il Don, è diventato il posto più tranquillo del mondo. C’è una grande pace, un grande silenzio, un’infinita dolcezza. La finestra della mia stanza inquadra boschi e montagne, ma lontano, oltre le Alpi, le pianure, i grandi fiumi, vedo sempre quei villaggi e quelle pianure dove dormono nella loro pace i nostri compagni che non sono tornati a baita”. L’intera sua vita fu segnata dai ricordi di quella guerra, dal gelo della steppa nella sacca del Don, dal calore umano che trovò nelle isbe anche con i “nemici”. Ricordi che si mescolarono con l’amore per la sua terra, per le vicende dei montanari e la vita che si svolgeva seguendo i tempi dettati dall’orologio della natura. Nel 1938, a diciassette anni (“Sull’Altipiano, per noi ragazzi c’era un detto: o prete, o frate, o fuori con le vacche”) entrò alla Scuola Militare d’alpinismo di Aosta, quindi combatté come alpino nel battaglione Vestone in Francia, Grecia, Albania, Russia. Fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, rientrò a casa a piedi, dopo due anni di lager in Lituania, Slesia e Stiria il 5 maggio del 1945. Da quel momento non lasciò più il suo Altopiano dove viveva nella casa che si era costruito da solo, insieme alla moglie e ai figli. Ad Asiago lavorò al catasto comunale, mantenendo l’impiego fino al 1970, quando decide di dedicarsi completamente al lavoro di scrittore. Fu Elio Vittorini, nel 1953, a fargli pubblicare per I Gettoni di Einaudi il suo primo romanzo “Il sergente nella neve”. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1962 pubblicò il secondo, “Il bosco degli urogalli”, sempre per Einaudi. Tanti altri seguirono fino a “Stagioni”, l’ultimo romanzo uscito nel 2006, due anni prima della scomparsa. Mario più volte affrontò l’argomento della morte, sottolineando come questa non gli incutesse paura. “La vita si sa che deve finire, ma io non vivo questa consapevolezza con angoscia” raccontò in una intervista per il suo 85esimo compleanno. “Semmai può spaventare la sofferenza fisica, perché a volte il dolore umilia, non lascia all’uomo nemmeno la possibilità di pensare. Ma è un’età, la mia, che va affrontata avendo la coscienza del limite”. D’altronde la morte si era sempre intrecciata alle vicende della sua vita, se non altro per la coincidenza che l’aveva visto venire al mondo (e quindi festeggiare il proprio compleanno) il primo novembre del 1921, giorno dei morti. Per contrasto, nei suoi libri e nei racconti, la vita e le fatiche che l’accompagnano emergevano con grande forza, accompagnando i lettori tra sentieri di montagna e vicende consumatesi su quei confini tra Italia e mitteleuropa. Forse è anche per questo che il tempo che scorre non affievolisce la voce che esce dalle pagine che ci ha lasciato. Una voce potente che si può udire leggendo la raccolta di ventisette interviste fra le tante concesse dallo scrittore di Asiago nell’arco di tempo compreso fra il 1963 ( quando vinse il Bancarellino con “Il sergente nella neve”) e il 2007, l’anno prima della scomparsa. Le pubblicò Einaudi col titolo ”Il coraggio di dire no”, a cura di Giuseppe Mendicino. I testi sono suddivisi in quattro parti: “La vita”, “I libri”, “Le guerre”, “La natura, le montagne, la caccia”, riassumendo così la biografia e l’orizzonte etico-culturale di Mario. Rigoni Stern non si è mai considerato un vero e proprio romanziere ma semmai un narratore, un testimone, un “cancelliere della memoria”, come lo definì acutamente Corrado Stajano. Nella sua vita frequentò, durante i primi anni della sua vita militare e poi nel dopoguerra, diverse località della Valle d’Aosta e del Piemonte: dall’Aosta della caserma “Testa Fochi” all’alta Val Formazza del “corso sciatori” del gennaio del 1939, descritta nel suo “L’ultima partita a carte”; da Champorcher e Cogne, la Val Veny e la Val Soana, il Piccolo San Bernardo. E poi la Torino dell’Einaudi, nella storica sede al n.2 di via Biancamano. Nove anni dopo “Il sergente nella neve”, nel 1962 pubblicò il secondo romanzo, “Il bosco degli urogalli”, sempre per la casa editrice dello struzzo. E tanti altri seguirono fino a “Stagioni”, l’ultimo romanzo uscito nel 2006, due anni prima della sua morte. I testi raccolti ne “Il coraggio di dire no” iniziano con un monologo dello stesso scrittore che racconta il suo grande “rifiuto”, dopo essere stato fatto prigioniero dai nazisti e internato in un lager in Masuria, vicino alla Lituania. Scrive, Rigoni Stern: “Dopo quattro o cinque giorni, ci proposero di arruolarci nella repubblica di Salò, ossia di aderire all’Italia di Mussolini. Eravamo un gruppo di amici che avevano fatto la guerra in Albania e in Russia. Eravamo rimasti in pochi. Ci siamo messi davanti allo schieramento, e quando hanno detto «Alpini, fate un passo avanti, tornate a combattere!», abbiamo fatto un passo indietro. Gli altri ci hanno seguito… Abbiamo resistito… Avevamo imparato a dire no sui campi della guerra. È molto più difficile dire no che sì”. Una narrazione chiara, asciutta, antiretorica. Trasmette per intero il suo codice etico dove trovano spazio il senso di giustizia, il coraggio, l’amore per la natura, la generosità verso gli altri, l’indipendenza di giudizio, la passione civile. In un colloquio del 2004 per “La Regione Ticino”, Rigoni Stern mise in luce il suo lato ironico, raccontando di una specie di scherzo che faceva con Giulio Einaudi andando in giro per le librerie e rivoltando verso l’interno i dorsi dei libri che non gradivano. In questa come in tutte le sue opere, Mario Rigoni Stern riflette l’immagine di una persona saggia, severa con se stesso prima ancora che con gli altri ma capace anche di grande ironia. E di una forza che, per nostra fortuna, attraverso i libri non ha mai smesso di parlarci e farci compagnia.

Marco Travaglini

A Quaglieni il premio “Rosario Romeo”

Nella sua biblioteca di Torino, collocata nelle scuderie dello storico e ottocentesco palazzo dove è nato, è  stato consegnato oggi al prof. Pier Franco Quaglieni, ancora convalescente dopo una lunga malattia superata brillantemente, il Premio per la storia “Rosario Romeo” con la seguente motivazione : “Storico risorgimentalista e contemporaneista  che si e’ messo in luce nella difesa del Risorgimento e nella revisione storica delle vulgate , il prof . Quaglieni è maestro di più generazioni che da lui hanno acquisito un metodo storico che continua la grande lezione di Chabod”. Autore di importanti libri, vincitore di molti premi  tra cui il Premio Voltaire e il Tocqueville , è  da tanti anni giornalista ed attualmente scrive sul “Corriere della sera”, dedicandosi  in particolare alla rivalutazione di personaggi storici spesso dimenticati.  Da cinque anni è  titolare di una fortunata rubrica domenicale sul quotidiano on line “Il torinese”.  Il professore che  è insignito della medaglia medaglia d’oro di benemerito della scuola e della cultura e del cavalierato di Gran Croce al merito della Repubblica, massima onorificenza dello Stato, ha dichiarato: “Il premio mi onora moltissimo e mi ripaga anche  di certe  ostilità torinesi che non mi hanno mai fatto indietreggiare dalle mie posizioni, anzi mi hanno reso ancora più coriaceo  . L’esempio di Romeo che ho studiato e ho conosciuto personalmente , mi porta a Cavour di cui Romeo resta il più grande storico. Romeo  è una delle stelle polari della mia vita insieme a Franco Venturi”.
Quaglieni è anche noto come cofondatore insieme ad Arrigo Olivetti e Mario Soldati Centro Pannunzio di cui attualmente è presidente. Nel mese di agosto  riprenderà le sue conferenze e presentazione di libri in Liguria (in particolare il “Matteotti” pubblicato dall’editore Pedrini per il centenario dell’assassinio del martire) e il 7 agosto  consegnerà i premi Pannunzio ad Alassio.

L’isola del libro

RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA

 

 

 

 

James Ellroy “Gli incantatori” -Einaudi- Euro 22,00

Non ha bisogno di presentazione James Ellroy, nato a Los Angeles nel 1948, maestro indiscusso del romanzo noir, celebre per la Tetralogia di Los Angeles e la Trilogia americana. Ora è tornato in libreria con una storia cruda e intrigante ambientata nel 1962 all’epoca della morte di Marylin Monroe.

Protagonista è l’investigatore privato Freddy Otash, già comparso in precedenti romanzi, (Ellroy sta già lavorando al seguito). Ancora una volta la trama vede coinvolti personaggi reali e di finzione, si muovono sullo sfondo di ambientazioni e atmosfere che inchiodano il lettore.

E’ realmente accaduto che il mafioso Jimmy Hoffa abbia reclutato Otash per indagare sui rapporti tra il mito Marylin e i fratelli Kennedy, all’epoca in cui John Fitzgerald era presidente degli Stati Uniti d’America e suo fratello Bobby ministro di Giustizia.

Freddy spia da tempo la vita, le telefonate e gli spostamento della Monroe; addirittura entra nella casa dell’attrice prima ancora dell’arrivo della polizia. E’ il primo a vederla morta nel suo letto, stroncata da una overdose di barbiturici. Lui è lì per cercare indizi compromettenti dei rapporti tra la diva, amante del Presidente che l’aveva poi passata al fratello, e che infine fu brutalmente scaricata dai Kennedy. Un mistero che ancora aleggia intorno alla morte della donna.

Ma a interessare Ellroy non è tanto questo rebus, quanto piuttosto la vicenda umana dell’ex poliziotto Otash, diventato investigatore privato senza scrupoli, ricattatore e pronto a vendersi al migliore offerente.

Intorno a Otash -che sguazza nel torbido di affari sporchi e segreti da custodire a tutti i costi- c’è il gravitare di personaggi discutibili come Jimmy Hoffa, il potentissimo Edgar. J. Hoover a capo dell’FBI e altri elementi al limite della legalità. Un romanzo che smaschera il torbido della politica dell’epoca e non vi mollerà fino all’ultima pagina.

 

 

Ernesto Franco “Storie fantastiche di isole vere” -Einaudi- euro 17,50

Ispira una prepotente voglia di imbarcarsi alla volta di isole affascinanti questo splendido libro di Ernesto Franco, nato a Genova nel 1956; scrittore e dirigente editoriale di grande cultura e spessore, nonché appassionato uomo di mare. In queste pagine sviluppa l’accattivante e avventuroso tema delle terre emerse, ognuna con la sua storia da scoprire.

Il narratore è un personaggio chiamato “Pilota” che per mestiere guida verso il scuro ormeggio le grandi navi che entrano nel porto dii Genova. Lui è un autentico lupo di mare, profondo conoscitore dei venti e in grado di prevedere onde anomale e tempeste.

A bordo della sua imbarcazione c’è un’ospite che ascolta rapito i racconti sulle isole abbandonate da tempo. Il lettore si trova trasportato nelle storie, in parte dimenticate, di lidi che assumono i contorni di luoghi fatati.

Diventiamo piacevolmente esploratori che approdano in 20 isole; da Tortuga ad Haiti, da Itaca alle nordiche Lofoten, dalle Galapagos ad Alcatraz passando per la mitica Atlantide e Malta.

20 capitoli in cui il marinaio di lungo corso narra le storie della scoperta, della colonizzazione di terre lontane, o delle colonie penali poi dismesse, di bucanieri e pirati che depredarono isole esotiche e cariche di tesori, come Tortuga. Tante vicende -tra mito e realtà- di terre emerse nello sconfinato mare che da sempre esercitano un fascino unico.

 

 

Melissa Da Costa “All’incrocio dei nostri destini” -Rizzoli- euro 18,50

Questa è una storia che parla di riscatto e di come le radici delle persone affondino un po’ in tutti i luoghi che hanno attraversato; ma anche di amicizia e legami mai strappati del tutto, nonostante le distanze che la vita srotola in mezzo.

Il romanzo rimanda al precedente “Bucaneve” che l’autrice aveva pubblicato l’anno scorso.

Narrava di Ambre, Rosalie, Tim, Anton e Gabriel che avevano allacciato amicizie profonde durante la loro esperienza di lavoro come stagionali in un piccolo albergo di montagna.

Poi le cose erano improvvisamente cambiate e il gruppo di 20enni si era sciolto, mandando in frantumi la coesione e l’intesa, nonché i legami carichi di promesse anche amorose.

Ora, dopo 5 anni di lontananza, ad Ambre arriva la telefonata dell’amica Rosalie stravolta dalla sparizione del marito che l’ha lasciata sola con due figli. Basta questo per mollare la quotidianità e tornare sulle Alpi francesi dove si erano incrociati i destini dei protagonisti.

Ora rispondono al grido di aiuto di Rosalie e riconfermano la forza dei loro legami. Riallacciare i rapporti potrebbe comportare anche qualche rischio e innescare processi dolorosi. Tra i rapporti, quello che c’era stato tra Ambre e Tim era qualcosa di speciale, anche se poi le loro strade si erano separate.

Incontrarsi di nuovo per aiutare una di loro sarà anche l’occasione per capire che non è mai troppo tardi per imprimere una nuova direzione alla propria vita e cercare la felicità.

 

 

Oliver Pötzsch “Il metodo del becchino” -SEM- euro 22,00

Atmosfere vagamente gotiche in quest’opera del giovane scrittore tedesco, nato a Monaco di Baviera nel 1970, che ha scritto sceneggiature per la televisione prima del successo come scrittore con il brillante esordio “La figlia del boia”. Inizio di una saga ambientata nel XVII secolo con protagonisti alcuni antenati dell’autore. Un dato curioso infatti è che Pötzsch discende da una famiglia di boia dall’XI al XIX secolo.

Questo romanzo storico è ambientato a Vienna nel 1893, quando due avvenenti e giovani cameriere vengono trovate con la gola tagliata di netto, i corpi violati con un paletto su cui compare la scritta “Domine, salva me”. Efferati delitti ascrivibili a qualche setta segreta oppure a un assassino solitario e sadico come lo squartatore che 5 anni prima aveva sparso sangue a Londra?

A questo mistero si aggiunge la morte del figlio illegittimo del grande compositore Johann Strauss, apparentemente suicidatosi.

A indagare è l’investigatore Leon von Herzfel, esperto di criminalistica; la nuova scienza che si basa sull’osservazione delle prove e sulla deduzione. Leon è giovane, mezzo tedesco di origini ebraiche, un po’ arrogante e, quando arriva alla polizia criminale della capitale asburgica, è subito mal visto dai colleghi più anziani e con lunga esperienza.

Herzfel decide di farsi aiutare da due improbabili personaggi. Julia, giovane centralinista della polizia e Augustin Rothmayer, becchino del cimitero centrale di Vienna. Un uomo colto che ha scelto di vivere all’ombra dei morti, e sta scrivendo un almanacco sulle possibili cause di morte e sulla decomposizione dei cadaveri.

Preparatevi a una tensione crescente e una Vienna di fine Ottocento nella quale, grazie all’abilità dell’autore ci si trova completamente immersi.

Pietro Gallo, storie di intellettuali tra il 1930 e il 1968

« Io ero un gappista sbandato e a tempo perso un ‘cane sciolto’. Lui, già grande ai miei occhi e ‘confinato’ per antifascismo, era un imboscato in quel di Casale Monferrato, fra il Po e le colline di Ozzano ».

Così lo storico Pietro Gallo racconta a pag. 168 nel suo “Creme da barba e rasoi di Occam. Gli intellettuali alessandrini e monferrini tra il 1930 e il 1968”  (La Nuova Operaia, marzo 2018,€. 20) dell’incontro a Casale Monferrato tra lo scrittore della Langa Cesare Pavese e il racconto in parola del sociologo vercellese Franco Ferrarotti cit. e nota in Franco Ferrarotti in ”Al Santuario con Pavese. Storia di un amicizia” (Centro Dehoniano, Bologna, 2016) e qui di seguito trascrivo estratta, la sua biografia in versi, tracciata con ironia e sintesi:                                                                                               

« La storia da Vercelli prende inizio.
Dopo il Liceo, lui scende a Pavia,
scegliendo la sua strada con giudizio
e consegue la Laurea in Geologia.

Si sposa e viene a vivere a Casale,
a Ottiglio, da vent’anni, e ne va fiero.
Per una vita avrà ruolo centrale
nell’insegnare Fisica al Sobrero.

La politica amore viscerale.
È socialista, poi svolta a… sinistra.
È prima Consigliere comunale,

poi in Provincia, lì dove amministra
l’Assessorato e l’Università.
La storia di Alessandria e di Casale
studia e descrive con grande abilità.

È un uomo di cultura eccezionale,
ma anche di coltura, e qui alludo
alla vite e all’ulivo, che passione!
Ti ho detto tutto e allora adesso chiudo.
È Pietro Gallo? Giusta affermazione!».

(agosto 2021 il Monferrato ed. online).

Poi procedendo ‘a rasoio e a balzi’ l ‘Autore in questo saggio storico politico, conclude la sua ricerca sul secolo breve in Piemonte, cercando documentazione negli archivi e nelle biblioteche le storie degli intellettuali di Alessandria e di Casale, che più hanno operato, affinché le ideologie da loro professate, si potessero estendere dai vertici della società della cultura alta, a tutta la popolazione, attraverso quei canali (cinema, teatro, riviste) che prima il regime fascista mette in cantiere, ripescandole dall’esperienza liberale, poi i partiti di massa, dopo il 25 aprile 1945, ripropongono con significati e esiti più consoni al regime democratico, uscito dalla guerra. Tra le tante storie raccontate emergono figure come quella di Livio Pivano, prefetto della Liberazione e comandante partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà o di  Fausto Bima,  dirigente dell’Ansaldo a Genova, amico di Giorgio De Chirico e del fratello Savinio. Si narra di quando i fascisti cercarono di impedire il regolare svolgimento del funerale di Pietro Longo. Di Maurilio Guasco, prete operaio, che spiega la concezione della Chiesa nel pensiero politico del socialista Lelio Basso. Il professor Guasco fu mio docente alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino fondata da Norberto Bobbio e dal giurista Gioele Solari. Si narra come in un romanzo di gappisti, azionisti e loro vicende di guerriglia di armi e di penna, in un quadro ricco e complesso di stimoli storici e intellettuali . Molti di questi,  non tutti, prima aderirono al fascismo, poi contribuirono a costruire una parte non piccola delle fondamenta della nostra democrazia. Storie intrecciate di Resistenza, CLN e Rsi, di ferite ancora aperte, come ci ricordano Paolo Mieli o il compianto Gian Paolo Pansa. E in un Italia lacerata tra postfascismo e revanscismo marxista carichi di demagogia, in questo confuso e drammatico frangente politico elettorale,  economico e internazionale questo testo è una lampada di Diogene per le nebbie della nostra memoria storica da diradare. Torna di grande utilità. Per tutti.

Aldo Colonna

“Domingo il favoloso” e la Torino fantastica di Giovanni Arpino

“In quanto narratore di storie, sento di appartenere a una razza in via di estinzione, poiché la civiltà delle immagini ci sommergerà e i lettori saranno sempre più capaci a leggere, ma sempre meno come numero”.

Così scriveva Giovanni Arpino nel 1982, riflettendo sul mondo che cambiava con grande rapidità. E, parlando dei personaggi dei suoi libri, aggiungeva: “Tutti i miei personaggi, se ci ripenso un attimo – giovani o vecchi, uomini e donne, operai contestatori e randagi – sono degli emarginati, che vengono a precipitare, pur essendo normali, in una situazione abnorme”. Arpino, nato a Pola nel 1927 da genitori piemontesi, durante la giovinezza  visse a Bra  per poi trasferirsi definitivamente a Torino, dove rimase fino alla sua morte prematura,  il 10 dicembre del 1987.Grande scrittore, “bracconiere di tipi e personaggi, cacciatore d’anime”, come si autodefiniva, si è distintoper lo stile asciutto e ironico e per la capacità di fissare storie di vita, esperienze e fotografie della realtà con straordinaria nettezza e precisione. Incredibilmente, nonostante i suoi sedici romanzi e i quasi duecento racconti, da anni sembra scomparso dal panorama culturale italiano. Tra i suoi libri c’è anche un bellissimo romanzo-favola, ispirato al genere del feuilleton, “Domingo il favoloso”, pubblicato da Einaudi nel 1975. Il racconto uscì , prima ancora di diventare un libro, in tredici puntate sulla Domenica del Corriere , tra il dicembre 1973 e il marzo 1974, illustrato dagli acquerelli originali di Italo Cremona, con il titolo “Correva l’anno felice”. Domingo, il protagonista, è una sorta di picaro, un po’ furfante, esperto in truffe e trucchi di vario genere, maestro nel poker e nel biliardo. Ha una “eterna fidanzata“, Angela, che lavora dietro un banco di torrone, e s’innamora di una zingarella affetta da un male incurabile, Arianna, che gli fa scoprire i sentieri del cuore. “Domingo il favoloso è il secondo volume della trilogia fantastica di Arpino, iniziata con “Randagio è l’eroe (1972) e conclusa con “Il primo quarto di luna (1976). Già l’incipit della storia promette ritmo e mistero: “Gli restava mezz’ora di tempo. In piedi alla finestra, indifferente alla frescura primaverile, Domingo guardava il corso livido, vuoto. Un vecchio ubriaco apparve all’improvviso tra le silenziose strutture delle giostre, di capanni e logori camioncini che ingombravano da alcuni giorni quell’angolo di città. Il vecchio faticava nel sospingere la sua ombra demente. Domingo lo seguì fin dove la sagoma rimase un attimo ferma nel tremolio luminoso che incorniciava la baracca del tirassegno. Lo vide sparire sotto le cupole buie degli ippocastani”. Un romanzo assolutamente originale, ambientato nella Torino degli anni settanta, descritta  con immagini forti. Una città notturna, con i suoi “corsi lividi”, il vento improvviso che induce “tutti i colombi di Torino a cercar scampo tra grondaie, abbaini e comignoli”, dove le ombre s’inseguono nel “cinereo budello dei portici”. La Torino di Domingo è sulfurea, diabolica. Una città dove si diceva che l’occulto fatturasse più della Fiat. E lui,  persona che disdegna qualunque attività regolare e non accetta di inserirsi nel contesto civile, s’inventa mille volte la vita. Fino al punto di svolta, quando incontra il mondo superstizioso degli zingari: da quel momento la sua vita cambia fino al punto che tutto ciò in cui credeva, ogni sua certezza, finisce in frantumi. Quella di “Domingo” è una grande storia, narrata da uno scrittore di gran classe che seppe esprimersi con garbo, forza e lucidità fino all’ultimo respiro. Sconfitto dalla lunga lotta contro un carcinoma, a soli sessant’anni,  Giovanni Arpino non sprecò nemmeno una lacrima perché rischiava “di annacquare l’inchiostro”.

 Marco Travaglini