Una duplice mostra è ospitata alla galleria d’arte Malinpensa by Telaccia, dedicata a Severino del Bono e Rabarama
Si intitola “Il luogo dell’anima” la mostra dedicata a Severino del Bono, ospitata alla galleria d’arte Malinpensa by Telaccia, insieme a quella dell’artista e scultrice Rabarama.
Cresciuto in un ambito familiare in cui si respirava già l’amore per l’arte, Severino del Bono si avvicina e apprende i metodi della tecnica pittorica grazie al fratello maggiore, pittore amatoriale. Era quello il tempo in cui sceglieva i colori per il fratello, un pittore amatoriale affetto da una forma di daltonismo. Ancora bambino iniziò a usare la pittura ad olio e, a partire dai vent’anni, si sarebbe immerso nella pittura, scegliendo la tecnica dell’acrilico su tela e sviluppando la sua continua e ossessiva ricerca estetica in campo figurativo.
Il suo stile risulta ispirato agli studi sulla luce caravaggesca e all’espressività di Francis Bacon.
Questa esperienza lo porterà a focalizzarsi, a partire dai primi anni Duemila, sulla figurazione, concentrandosi sulla trasfigurazione intellettuale dell’anatomia umana e inserendovi una vena intimistica.
Fondamentale nella sua opera la ricerca intorno al rapporto tra la natura umana e l’artificio tecnico, sulla perdita di identità provocata da metamorfosi bioniche cui sono sottoposti corpi e visi. L’artista utilizza cromie acide che veicolano un senso di irrealtà.
Sono i volti di giovani donne il soggetto prediletto da Severino Del Bono. Queste sono ritratte nell’immobilità ieratica di un algido realismo, ammantate dalla luce della grazia divina e capaci di emanare un’aura di immanente temporalità, che si richiama alla perfezione estetica delle divinità classiche.
Del Bono plasma i tratti fisiologici con la grande abilità escandisce i livelli di luce e ombra, definiti modulando i colori con un’abilità tecnica che nel tempo va perfezionandosi.
L’animo, la psiche e la sua tensione emotiva emergono dalle piccole alterazioni dell’espressione, dettate dalla contrazione delle labbra e dai solchi che solcano la pelle.
“Dietro agli occhi chiusi – spiega l’artista – c’è un chiudersi al di fuori e un aprirsi al dentro”.
Le sue donne danno vita a nuove modalità percettive. Che abbiano gli occhi chiusi o coperti da oggetti, le sue donne rappresentano un tentativo di sfuggire dalla realtà, attraverso l’introspezione e fuggendo dal caos quotidiano. Nei suoi ritratti l’artista coglie un luogo in cui è possibile una silenziosa introspezione.
Lo sguardo delle sue “Dee bendate” viene nascosto e sostituito da vari oggetti simbolici che appaiono in continua metamorfosi e risulta pervaso da una fantasia inesauribile e da una capacità di ispirazione costante in cui lo sfondo dell’opera non invade mai il soggetto, creando un’atmosfera assoluta e una resa prospettica di grande effetto.
Severino Del Bono, servendosi della tempera acrilica su tela, con una magistrale stesura, crea volti di donne iconiche espressi con buon gusto e con una carica emotiva di intenso dialogo pittorico. Le sue immagini sono ironiche e giocate da emozioni e sensazioni continue attraverso le quali Del Bono evidenzia uno stile inconfondibile.
La mostra “Il luogo dell’anima” è ospitata presso la galleria d’arte Malinpensa by Telaccia dal 4 al 15 ottobre prossimi.
MARA MARTELLOTTA
Galleria d’arte Malinpensa by Telaccia
Corso Inghilterra 51.
Orario 10.30-12.30 16-19.
Chiusura il lunedì e i giorni festivi.
Tel 0115628220.
Il romanzo è ambientato nella Torino degli anni Settanta, città che per cerri versi va considerata come la vera protagonista con tutte le sue luci e le ombre, descritta nei dettagli, resa reale in ogni sua piega, sintesi e rappresentazione della vita italiana di quegli anni. La trama è abbastanza nota. Nel suo pied-à-terre viene ucciso con un’arma del tutto originale l’architetto Garrone un personaggio sordido che vive di espedienti e fa parte di una sorta di “teatrino privato” nel quale Anna Carla Dosio, la moglie di un ricco industriale, e Massimo Campi, giovane omosessuale della buona borghesia, deplorano i vizi, le ostentazioni e la volgarità dei loro conoscenti. Il commissario Santamaria si trova così a indagare tra l’ipocrisia, le assurde velleità e i chiacchiericci che animano il mondo della borghesia piemontese, tra professionisti dalla doppia vita, dame dell’alta società dal fascino snob, e industriali con pochi scrupoli. Pagina dopo pagina si scopre che la vera indagine non è tanto quella tesa a scovare il colpevole quanto il desiderio di svelare vizi e difetti di una società dove regna la doppiezza. Si passa così dalla noia di ricchi imprenditori, alla stanca relazione omosessuale che trascina avanti Massimo Campi, al disprezzo di quell’ambiente di parvenu per i meridionali immigrati e per i ceti più popolari che vivono nei quartieri della città della Fiat. Si intuisce così che Torino, in apparenza ordinata e precisa fino ad essere noiosa, nasconde un cuore malefico e folle. E sono gli stessi autori a far riflettere nel libro il commissario Santamaria, sostenendo come “altre città regalavano al primo venuto splendori e incantamenti, esaltanti proiezioni verso il passato o l’avvenire, febbrili pulsazioni, squisiti stimoli e diversivi; altre ancora offrivano riparo, consolazione, convivialità immediate.
Ma per chi, come lui, preferiva vivere senza montarsi la testa, Torino, doveva riconoscerlo, era tagliata e squadrata su misura. A nessuno, qui, era consentito farsi illusioni: ci si ritrovava sempre, secondo la feroce immagine dei nativi, al pian dii babi, al livello di rospi”. Dal libro è stato tratto anche un celebre, omonimo film diretto da Luigi Comencini e sceneggiato da Age e Scarpelli nel 1975 con Marcello Mastroianni (Santamaria), Jacqueline Bisset (Anna Carla Dosio), Jean-Louis Trintignant (Massimo Campi), Lina Volonghi (Ines Tabusso), Claudio Gora (Garrone), Aldo Reggiani, Pino Caruso, Omero Antonutti.
L’artista, che ha realizzato opere utilizzando materiali quali il calco di gesso, non si sente totalmente consapevole in merito alle origini della sua arte e non è neanche del tutto convinta che si tratti di vera e propria arte. La considera, piuttosto, un residuo di emozioni che percorrono l’anima e si depositano in una sorta di scrigno. La sua espressione artistica rappresenta, per lei, una cicatrice dell’anima, analogamente a quando il corpo umano viene trapassato da una freccia.
Le mie opere sono la voce del mio malcontento e rappresentano il racconto della componente che in me “muore” piuttosto che quella che in me vive”.
Sprigiona un’energia malinconica simboleggiata dal colore rosso acceso del naso.
Questo è il quadro profetico di “Siccità”, ultimo film di Paolo Virzì, catastrofico affresco di questa epoca catastrofica, mosso a dovere dal montaggio di Jacopo Quadri. Scritto a otto mani (con il regista, Francesca Archibugi, Francesco Piccolo e Paolo Giordano – “La solitudine dei numeri primi” – e sarebbe interessante sapere quale degli sceneggiatori abbia seguito questa traccia piuttosto che quella), il regista livornese torna a uno di quei suoi, un tempo totalmente riusciti, film corali (“Ferie d’agosto” in testa, con quei due gruppi familiari su opposte posizioni politiche aveva tutt’altro spessore, “Tutta la vita davanti” altro successo), coglie con la sua macchina da presa gli affetti bruciati e aridi, la disperazione, la miseria, l’incessante “non me ne frega più di niente”, la fatica di vivere dei suoi personaggi: che hanno in sé il pericolo o decisamente il difetto infelicemente presente di essere troppi, irrisolti, sbiaditi, confusi, approssimativi, di riempire di un peso eccessivo per colpa di un bulimico script il lungo percorso della storia. Di storie, alcune con qualche riuscita in più – i ritratti dolorosi del tassista Valerio Mastandrea, strafatto, che guida in straripante sonnolenza il suo mezzo tra le ombre dei genitori o del politico per cui ha un tempo lavorato, che ripete le chiacchiere di sempre, che glorifica un paese che al contrario sta andando allo sfascio -, della dottoressa Claudia Pandolfi, attrice matura e mai come qui incisiva o di Elena Lietti, ottima, che cerca di reinventare la propria esistenza con una nuova avventura -, altre decisamente buttate via, sciupate – penso al commerciante Max Tortora, un impermeabile lercio addosso, buttato sul lastrico, che si trascina di angolo in angolo con il suo pacchetto di fatture non pagate, pronto a denunciare ogni cosa in tivù o alla superficialissima presenza di Monica Bellucci, da cancellare in quattro e quattr’otto, mentre ci chiediamo con che misura qualcuno lo scarso maggio le abbia dato un David di Donatello alla carriera, mah! -: le intenzioni possono apparire eguali a quelle del vecchio Altman di “America oggi” o dell’insuperato “Nashville” o del Cronenberg di “Crash” o del Inarritu di “Babel”, ma in quei titoli c’era tutta la robustezza dello scavo psicologico, lo sguardo profondo e la misura giusta, appropriata, determinante per ogni personaggio, la scrittura esatta che era ben lontana dall’appesantire la vicenda o dal renderla a tratti superficiale, quadri di perfezione difficilmente raggiungibili.
